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giovedì 23 marzo 2017

LA VOCE DEL CANE

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La voce del cane tante volte è un disturbo anche se non sparla e non parla a vanvera come gli esseri umani.

Abbaiare è un diritto esistenziale del cane: così ha sancito il giudice del Tribunale di Lanciano, Dott. Giancarlo De Filippis, con una sentenza emessa a conclusione di un procedimento civile d’urgenza.

Tale decisione rappresenta una vera e propria conquista nel campo della tutela dei diritti degli animali e più nello specifico in riferimento al “migliore amico dell’uomo”: tale precedente legale costituisce un pilastro fondamentale per il rispetto della natura di questi animali e per il riconoscimento dei loro diritti.

«I due cani erano accusati dai vicini di disturbare con il loro abbaio - racconta l’avvocato Andrea Cerrone, dottore di ricerca in tutela dei diritti fondamentali all’università di Teramo - ma il giudice ha stabilito che i cani hanno tutto il diritto di abbaiare, specie se qualcuno o qualcosa di avvicina al loro territorio di riferimento e purchè non si superi la soglia di tollerabilità stabilita nel codice. I cani - aggiunge - svolgono una funzione importante nel caso in questione, abitando la famiglia in campagna, sono una sorta di predecessori delle sirene degli antifurti vivente e senziente - sottolinea Cerrone - il diritto va sempre più estendendo la sua sfera di interesse verso gli animali e questa ordinanza ne è una testimonianza».

Inoltre, per giustificare la sua decisione, il giudice ha fatto riferimento agli articoli 544 bis e successivi del codice penale, all’art. 5 della legge 189 del 2004 e alla ratifica della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, che stabilisce l’obbligo morale dell’uomo di rispettare tutte le creature viventi.

A sostegno della decisione presa dal giudice De Filippis si è schierata l’Associazione Animalisti Onlus che – attraverso le parole del suo Presidente – ha sottolineato come, nonostante l’Italia sia un Paese all’avanguardia nella legislazione in materia di diritti degli animali ed esistano numerose leggi a tutela degli stessi, spesso tali leggi non vengono applicate oppure sono adottate in maniera inopportuna e ingiusta.

In tema esistono già delle normative che predispongono obblighi e doveri in capo al proprietario di un animale: partendo dal presupposto che sia molto complicato impedire al cane di abbaiare – in quanto suo istinto naturale – il padrone è comunque tenuto a porre dei freni ai latrati dell’animale in determinati orari del giorno e soprattutto durante le ore di riposo, in modo tale da non arrecare molestie al vicinato.

La norma di riferimento è l’articolo 659 del codice penale che, in tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, sottolinea come la nostra libertà finisca ove cominci quella degli altri, precisando che l’abbaiare dell’animale non deve superare i limiti di tollerabilità.

Inoltre il proprietario è tenuto al rispetto dell’animale e delle altre persone e, dunque, ha il dovere di educare il cane – se necessario anche attraverso corsi di addestramento finalizzati a miglioramenti comportamentali e alla convivenza pacifica – e di non abbandonarlo per diverse ore in giardino o sul terrazzo.

La legge non fissa una misura di decibel oltre la quale l’abbaiare del cane è vietato. Né tantomeno fissa un orario entro il quale i latrati sono consentiti e un altro, invece, in cui anche i cani devono fare silenzio.

Il codice civile si limita a stabile che i rumori possono essere vietati solo se superano la soglia della “normale tollerabilità”, un termine volutamente generico proprio per tenere conto della diversa condizione dei luoghi. In una zona periferica o di campagna, per esempio, dove il rumore di fondo è scarso, la “normale tollerabilità” sarà anch’essa più bassa e, dunque, risulterà più facile da percepire (e anche più molesto) un lieve rumore rispetto, invece, a un centro urbano dove il chiasso delle auto e dei clacson copre anche i fragori più evidenti. Inoltre, ciò che è tollerabile in un luogo o a una determinata ora, non lo è in un altro luogo o a un’ora diversa, dovendosi anche tener conto di come la normale tollerabilità viene intesa, in quel luogo e in quel tempo, dalla coscienza sociale.



Il limite della tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma deve essere fissato con riguardo al caso concreto. Di conseguenza la valutazione diretta a stabilire se le immissioni restino comprese o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio (ossia prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate alle immissioni) e, dall’altro, alla situazione locale.

Ai fini della valutazione del limite di tollerabilità delle immissioni acustiche, la giurisprudenza utilizza il cosiddetto criterio comparativo: in pratica, viene preso a riferimento il rumore di fondo della zona, vale a dire quel complesso di suoni di origine varia e non identificabile, continui e caratteristici della zona, sui quali si innestano, di volta in volta, rumori più intensi. Tale criterio consiste nel confrontare il livello medio del rumore di fondo con quello del rumore rilevato nel luogo soggetto alle immissioni, al fine di verificare se sussista un incremento non tollerabile del livello medio di rumorosità. In particolare, secondo la giurisprudenza, il rumore si deve ritenere intollerabile allorché, sul luogo che subisce le immissioni, si riscontri un incremento dell’intensità del livello medio del rumore di fondo di oltre 3 decibel. Questo valore viene solitamente considerato il limite massimo accettabile di incremento del rumore, tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, ed è stato riconosciuto anche dalla Cassazione come “un valido ed equilibrato parametro di valutazione” per un idoneo contemperamento delle opposte esigenze dei proprietari.

Data la natura del criterio di valutazione generalmente adoperato, normalmente, in sede giudiziaria, per accertare il livello di tollerabilità di un’immissione sonora si fa ricorso a una consulenza tecnica d’ufficio.

Quando il rumore crea un danno al vicino, quest’ultimo può agire per il risarcimento con un’azione di carattere civile.

Se l’esistenza delle immissioni illegittime risulterà accertata, il giudice ordinerà al responsabile di adottare le necessarie misure per far cessare i rumori molesti, condannandolo al risarcimento degli eventuali danni anche non patrimoniali (danno biologico, morale ecc.).

Se il cane appartiene a un soggetto che non è proprietario ma solo affittuario dell’immobile, nessun problema: l’azione può essere rivolta anche nei confronti dell’inquilino, comodatario ecc.

La questione può diventare più seria, e comporta anche risvolti penali, quando le immissioni rumorose (sempre a condizione che siano oltre il limite della normale tollerabilità) sono tali da recare disturbo non solo ad uno o più specifici soggetti, ma a un numero indefinito di persone (si pensi al latrato che non fa dormire, durante la notte, tutto il quartiere). In tal caso scatta il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone). In passato è stata confermata la condanna dei proprietari a due mesi di carcere, senza concessione delle attenuanti generiche e della condizionale, per non aver impedito ai loro cani di abbaiare di notte, disturbando il sonno del vicinato.

Per cui è esclusa la responsabilità penale (ma resta solo quella civile, e il conseguente obbligo al risarcimento del danno) quando i latrati rechino disturbo agli occupanti di un solo appartamento. Il reato, infatti, è previsto per tutelare la quiete e la tranquillità pubblica: “pubblica” appunto e non, invece, di un numero determinato di individui.

Insomma, per valutare se sussiste il reato di disturbo del riposo delle persone è prima necessario valutare se, in concreto, il rumore provocato dai cani sia davvero tale da mettere in crisi, in generale, la quiete pubblica, e non solo la tranquillità di uno o più specifiche persone: il momento in cui si passa dall’illecito civile (per le immissioni rumorose, con conseguente risarcimento del danno) a quello penale (disturbo del riposo e della quiete, con relativa pena) è valutare “quante” persone sono state molestate: una o poche specificamente individuate nel primo caso, molte e indeterminate nel secondo.

La Corte ha inoltre ritenuto penalmente rilevante l’insistente abbaiare di un cane per una notte intera, sebbene ad intervalli.

L’illecito, inoltre, sussiste anche se non viene provato l’effettivo disturbo arrecato dall’animale, ma la semplice potenzialità a disturbare terzi soggetti. Pertanto, se anche nessuno si lamenta, le autorità possono intervenire ugualmente.

Il cane che abbaia frequentemente durante la notte è di per sé motivo di disturbo per la quiete pubblica.

Secondo la Cassazione, la presenza di un cane all’interno di una struttura condominiale non deve essere lesiva dei diritti degli altri condomini, sicché i proprietari dell’animale devono ridurre al minimo le occasioni di disturbo e prevenire le possibili cause di agitazione ed eccitazione dell’animale stesso, soprattutto nelle ore notturne; occorre, però, tenere presente che la natura del cane non può essere coartata al punto da impedirgli del tutto di abbaiare e che episodi saltuari di disturbo da parte dell’animale possono e devono essere tollerati dai vicini, in nome dei principi del vivere civile.

Una sentenza ha stabilito che abbaiare è un diritto esistenziale del cane. Il “collarino anti abbaio” (che produce una scossa elettronica) deve pertanto considerarsi uno strumento lesivo dei diritti dell’animale.


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lunedì 17 ottobre 2016

LA TOGA

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La toga - il cui nome è collegato con il verbo latino tego,"ricoprire" - era una veste usata dagli antichi romani. Si indossava sopra la "tunica" e  avvolgeva la persona passando sotto l'ascella destra in modo da lasciare libero il braccio destro e si annodava sopra la spalla sinistra formando, così, ricche pieghe trasversali.
Senza dubbio, la toga era una veste signorile e, comunque, non veniva indossata dalla plebe. Nell'Antica Roma era l'emblema delle cariche pubbliche, del potere civile, dell'attività politica.

Nell'Antica Roma si distinguevano diversi tipi di toga:
- la "toga praetexta" - cioè orlata di porpora - era considerata la veste nazionale romana ed era diversificata per colore e per tipo di orlatura a seconda delle cariche e delle circostanze; la "toga virilis" era il simbolo della maggiore età ( i fanciulli la indossavano a 17 anni ); la "toga purpurea", infine, era privilegio dell'Imperatore.
A seguito del  crollo dell'Impero Romano la toga cadde in disuso per comparire nel Medio Evo come abito solenne per magistrati, patrizi, persone di rango e, perfino, per i medici.
Nel corso dei tempi la toga subì profonde modifiche rispetto al modello originale romano. Essa divenne più ampia e più lunga, venne corredata di maniche e altri accessori, come il colletto e il copricapo.
In tal modo la toga è giunta fino ai giorni nostri divenendo la veste tradizionale dei giudici e degli avvocati nei dibattiti processuali, nonché il paramento solenne degli accademici e dei docenti universitari nelle cerimonie pubbliche.
Nel tempo sono state più volte fissate precise regole perché la foggia delle toghe rendesse chiaro, evidente il grado o il rango di chi le indossava.
Gli artt. 104 e 105 del R.D. del 26.08.1926, riguardanti le toghe e i tocchi degli avvocati, così dispongono:
Art. 104. – “Le divise degli avvocati e dei procuratori sono conservate nella foggia attuale, con le seguenti modificazioni: per i procuratori la toga è chiusa ed abbottonata in avanti con colletto largo cinque centimetri e orlato da una leggera filettatura in velluto e cordoni e fiocchi di seta nera; cravatta di battista bianca con merlettino e tocco in seta senza alcun distintivo. Per gli avvocati la toga è aperta, con larga mostratura in seta, colletto largo venti centimetri ed orlato da fascia di velluto dell'altezza di tre centimetri, maniche orlate da fascia di velluto dell'altezza di dieci centimetri, cordoni e fiocchi d'argento misto e seta nera, o d'oro misto a seta nera, (nelle proporzioni di due terzi ed un terzo) a seconda che siano iscritti nell'albo di un collegio o nell'albo speciale di cui all'art. 17 della legge 25 marzo 1926, n.453, cravatta di battista bianca con merlettino e tocco in seta, fregiato da una fascia di velluto.



Gli avvocati ed i procuratori debbono indossare le divise nelle udienze dei tribunali e delle corti, nonché dinanzi alle magistrature indicate nel capoverso dell'articolo 4 dalla predetta Legge e dinanzi ai consigli dell'ordine ed al Consiglio Superiore Forense. Si procede in via disciplinare contro coloro che contravvengono alla presente disposizione”.
Art. 105. – “Il tocco dei membri dei consigli degli ordini dei procuratori è fregiato di un cordoncino di argento misto a seta nera; quello dei presidenti in città non sedi di corte di appello, di un gallone di argento portante nel mezzo un cordoncino di argento misto a seta nera; e quello dei presenti in città sedi di corte di appello, di due galloni di argento misto a seta nera.
Il tocco dei membri del consiglio dell'ordine degli avvocati è fregiato di un cordoncino di oro misto a seta nera, quello dei presidenti in città non sedi di corte di appello di un gallone d'oro portante nel mezzo un cordoncino d'oro misto a seta nera, quello dei presidenti in città sedi di corte di appello e dei membri del consiglio superiore forense di due galloni portanti nel mezzo di ciascuno di essi un cordoncino d'oro misto a seta nera, e quello del presidente del consiglio stesso di tre galloni di oro portanti anche nel mezzo di ciascuno di essi un cordoncino d'oro misto a seta nera.
L'argento e l'oro sono in correlazione alla seta nella proporzione di due terzi e di un terzo.
Il tocco dei dirigenti delle associazioni di avvocati e procuratori legalmente riconosciute è egualmente fregiato di speciale distintivo che per il segretario nazionale è costituito di due galloni di oro misto ad argento in eguali proporzioni, per il segretario dei sindacati di un gallone di oro misto ad argento in eguali proporzioni, per i membri del direttorio di un cordoncino d'oro misto ad argento anche esso in eguali proporzioni. I cordoncini sono per larghezza ed altezza alquanto più piccoli di quelli degli ufficiali inferiori del regio esercito e i galloni simili a quelli degli ufficiali superiori.
Il tocco con i fregi predetti si usa nelle cerimonie ufficiali e nelle udienze del consiglio superiore forense. Nelle altre circostanze si usa il tocco di seta con fascia di velluto per gli avvocati e il tocco di seta per i procuratori”
Si ricordi che la figura del procuratore legale è stata soppressa.

Anche alcuni pastori protestanti, soprattutto quelli di tradizione luterana e calvinista, indossano normalmente una toga durante il culto evangelico, in particolare per la predicazione. Questa prassi fu voluta dai primi riformatori in esplicita polemica con l'uso cattolico-romano dei paramenti liturgici: la toga era un abito laico (come laico è a tutti gli effetti un pastore), ma era anche il segno di chi aveva visto pubblicamente riconosciuta (normalmente con il conseguimento del dottorato) la propria formazione accademica. Il pastore riformato, quindi, continua ad essere un membro di Chiesa non rivestito di particolari funzioni sacerdotali, e però, in virtù dei suoi studi teologici pubblicamente riconosciuti, viene scelto per una funzione ecclesiastica per molti versi analoga a quella civile del magistrato, il quale applica ai casi concreti una legge (per il pastore, la Scrittura) non stabilita dal magistrato stesso.



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domenica 25 ottobre 2015

LEGITTIMA DIFESA



Svegliato dai rumori in piena notte, ha sorpreso un ladro in casa. Gli ha sparato con una pistola ‘regolarmente detenuta’, uccidendolo. A Vaprio D’Adda, in provincia di Milano, è andato in scena un (brutto) film già visto. Che fomenta una polemica mai placata in Italia. Il pensionato che ha sparato al ladro, un immigrato di 28 anni, è indagato per omicidio volontario. Un atto necessario per eseguire tutti gli accertamenti e valutare se sussistano i presupposti per riconoscere l’eccesso colposo in legittima difesa o la legittima difesa, come ha chiarito la Procura. E in materia, le modifiche apportate del 2006 al codice penale ancora oggi continuano a dividere. La politica più che i giuristi. Poi c’è la cronaca. Solo pochi giorni fa è stata chiesta l’assoluzione per Franco Birolo, il tabaccaio che a Civè di Correzzola, nel Padovano, uccise nel 2012 un ladro di origine moldava che nel cuore della notte si era introdotto nel suo negozio. Intanto, il leader della Lega Matteo Salvini – già intervenuto qualche giorno fa dopo la rapina avvenuta a Ercolano – ha subito commentato l’ultima vicenda su Facebook: “Pazzesco: giù le mani da chi si difende! Se si trattava di un ladro morto “sul lavoro”, non mi dispiace più di tanto: se l’è andata a cercare”.

La legittima difesa applicata anche ai beni, oltre che alle persone è un concetto già noto negli altri Paesi europei. In Germania l’eccesso di legittima difesa, intanto, non è punito anche qualora sia dovuto “a turbamento, paura o panico” ed è generalmente riconosciuto anche nel caso del ladro che fugge con la refurtiva, a patto che ci sia proporzione tra il valore dei beni e la reazione. In Olanda, invece, la legittima difesa è limitata alla tutela contro un’aggressione – immediata e illegittima – dell’incolumità, del pudore (per i reati a sfondo sessuale) e del patrimonio. Ma anche in questo caso è prevista la non punibilità dell’eccesso di difesa, qualora sia la conseguenza immediata di una violenta emozione provocata dall’aggressione. Per quanto riguarda la difesa della dimora, invece, in Spagna ci si può difendere da qualsiasi indebita introduzione.

La legittima difesa (disciplinata dall'art. 52 del codice penale), è una sorta di "autotutela" che l'ordinamento giuridico italiano consente nel caso in cui insorga un pericolo imminente (per sé o per altri) da cui è necessario difendersi e non ci sia la possibilità di rivolgersi all'autorità pubblica per ragioni di tempo e di luogo. Probabilmente il legislatore ha voluto tenere conto di un'esigenza del tutto naturale che è legata all'istinto di reagire quando si viene aggrediti.
Non bisogna però confondere la legittima difesa con la vendetta perché quest'ultima è una reazione che avviene dopo che la lesione è stata già provocata mentre si parla di legittima difesa quando si reagisce a una aggressione e tale reazione rappresenta l'unico rimedio possibile nell'immediato per evitare una offesa ingiusta.

Art. 52 codice penale.

La legittima difesa. Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.

Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, violazione di domicilio, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o la altrui incolumità:
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.

La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.



I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un lato dall'insorgenza del pericolo (generalmente determinato da un'aggressione ingiusta) e da una reazione difensiva: l'aggressione ingiusta deve concretarsi nel pericolo attuale di un'offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, può sfociare nella lesione di un diritto proprio o altrui (personale o patrimoniale) tutelato dalla legge; la reazione legittima deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo e deve sussistere comunque una proporzione tra difesa ed offesa.

Il riferimento al diritto proprio o altrui è diretto ad escludere che possano essere oggetto di reazione gli interessi pubblici dello Stato, quelli diffusi e collettivi o quello alla generica osservanza della legge. La difesa è legittima in tutte quelle ipotesi in cui il rapporto tra offesa temuta e reazione difensiva si pone cronologicamente nei termini dell'immediata prossimità dell'offesa ovvero della contestualità dell'immediata successione della difesa.
L'offesa ingiusta si concreta in una minaccia o in un'omissione contraria alle regole del diritto; la reazione difensiva si configura quale necessaria quando la difesa si risolve nell'unica scelta possibile, in base alle condizioni in cui si verifica l'offesa e alle reali alternative di salvaguardia a disposizione dell'aggredito; proporzionata è la difesa valutata non più in base al rapporto tra i mezzi disponibili e quelli effettivamente usati, ma alla stregua dei beni in gioco e dei disvalori delle condotte poste in essere.

Si parla di eccesso colposo di legittima difesa a fronte di una reazione di difesa eccessiva: non c'è volontà di commettere un reato ma viene meno il requisito della proporzionalità tra difesa ed offesa configurandosi un'errata valutazione colposa della reazione difensiva.
La norma di riferimento nell'articolo 55 del codice penale:

Art. 55. Eccesso colposo.
Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.

L'onere della prova incombe sul soggetto che ha difeso il diritto proprio o altrui e che dovrà indicare i fatti e le circostanze dai quali si evince l'esistenza della scriminante.

La valutazione è rimessa al libero convincimento del giudice che terrà conto di un ragionevole complesso di circostanze oggettive: l'esistenza di un pericolo attuale o di un'offesa ingiusta; i mezzi di reazione a disposizione dell'aggredito e il modo in cui ne ha fatto uso; il contemperamento tra l'importanza del bene minacciato dall'aggressore e del bene leso da chi reagisce.

La legittima difesa putativa è quando sussistono i requisiti della legittima difesa, si esclude l'antigiuridicità dell'azione di chi reagisce ad un aggressore. Può accadere però che per un errore di fatto un individuo si creda minacciato mentre effettivamente il pericolo non sussiste.
Si parla in questo caso di legittima difesa putativa.
La legittima difesa putativa postula i medesimi presupposti di quella reale, con la sola differenza che nella prima la situazione di pericolo non sussiste obiettivamente ma è supposta dall'agente sulla base di un errore scusabile nell'apprezzamento dei fatti, determinato da una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza del pericolo attuale di un'offesa ingiusta; sicché, in mancanza di dati di fatto concreti, l'esimente putativa non può ricondursi ad un criterio di carattere meramente soggettivo identificato dal solo timore o dal solo stato d'animo dell'agente.
Una recente sentenza della corte di cassazione (n. 28224/2014) ha chiarito che "l'errore scusabile, nell'ambito della legittima difesa putativa, deve trovare un'adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell'agente la giustificata persuasione di trovarsi esposto al pericolo di un'offesa ingiusta".  Nella fattispecie esaminata dalla corte è stata esclusa La sussistenza della legittima difesa in un caso in cui un'autovettura si era introdotto in una masseria facendo manovre spericolate suonando più volte il clacson. Gli imputati a quel punto avevano preso proprio veicolo in seguito la macchina e sparato diversi colpi di arma da fuoco.
Un tipico esempio di legittima difesa putativa è quella di chi nell'oscurità viene aggredito per scherzo da un amico con un'arma finta. Se l'aggredito proprio per il buio non riesce a riconoscere il suo amico e, credendo di essere in pericolo reagisce ferendolo o uccidendolo, la sua azione può rientrare nel campo della legittima difesa putativa.



Ridurre la discrezionalità dei giudici sulla legittima difesa favorendo una piu’ uniforme applicazione della norma. E’ questo l’obiettivo di una proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia alla Camera sull’onda del caso del pensionato accusato di omicidio volontario e dell’albanese ucciso mentre stava per commettere una rapina in casa sua. Ma, in realtà, è da tempo che Fratelli d’Italia – come ha spiegato Giorgia Meloni– ha in in preparazione una nuova nuova normativa per casi così delicati e purtroppo aumentati di numero. La proposta, che ha come primo firmatario Ignazio La Russa, modifica l’articolo 52 del codice penale in due punti. Nel primo si equiparano a luoghi come abitazioni, negozi, studi o uffici, le loro «immediate adiacenze agli stessi, sempreché l’offesa ingiusta risulti in atto».

Nel secondo punto della proposta presentata da Fratelli d’Italia si interviene su quella proporzionalità della difesa in rapporto all’offesa che è cardine per il giudizio sulla legittimità di difesa. La proposta avanzata da Fdi è quella di circostanziare e rafforzare la presunzione assoluta di tale proporzionalità nei casi in cui il pericolo di aggressione a persone o beni avvenga da parte di chi si introduce illegalmente nelle ore notturne o, anche nelle ore diurne, se l’aggressione sia tale da provocare uno stato di particolare paura o agitazione nella persona offesa. Con tale proposta «si vuole rafforzare la tutela delle persone oneste, altrimenti esposte al pericolo di lunghe e dolorose indagini giudiziarie per il solo fatto di aver dovuto fronteggiare un pericolo di aggressione non certo auspicato e di fronte al quale sono state costrette ad agire legittimamente», spiega La Russa ricordando come, la difformità dei giudizi sulla legittima difesa derivi «inevitabilmente» anche dalla legge modifica del codice penale del 2006 – che lo vide tra «i protagonisti  frutto di tante mediazioni». La proposta di Fdi non interviene invece sul porto d’armi, essendo le «due questioni distinte».
 «La difesa è sempre legittima»
Ha dichiarato Giorgia Meloni «A Piazza Pulita ho sostenuto un principio semplice: la difesa è sempre legittima. Se un cittadino sorprende un delinquente nella sua proprietà, deve potersi difendere con ogni mezzo e senza il rischio di essere indagato. Il motivo? Un cittadino non può sapere se quel delinquente vuole rubare, uccidere o stuprare. Ma evidentemente questo principio sacrosanto non va bene ai soliti esponenti radical chic di certa intellighentia, che con i loro telecomandi degli allarmi, le loro porte blindate e le loro guardie del corpo fuori la porta, non hanno di questi problemi. Noi stiamo con chi si difende. Senza se e senza ma».

La Lega ha presentato una proposta di legge che consentirebbe a chi viene aggredito di difendersi, sempre e comunque. “Quando eravamo al governo – dice il leader Salvini - avevamo cercato di rendere meno rigide le norme sulla legittima difesa”. La posizione del Carroccio è chiara: “Cancellare il reato di eccesso di legittima difesa che è un assurdo giuridico”. E il leader annuncia: “Su questo tema l’8 novembre a Bologna raccoglieremo anche le firme, perché non è concepibile che uno che si difende in casa propria rischia più di chi lo aggredisce o lo deruba”. E sul confronto con gli Usa: “Nessuno insegue il modello americano, nessuno vuole che la gente si armi fino ai denti comprando pistole come fossero caramelle. Ma non vogliamo nemmeno che si venga criminalizzati solo perché si possiede un fucile”.

“Invito Salvini a una maggiore prudenza quando interviene su questioni così drammatiche, anche perché parliamo di una persona che è morta”. Arturo Scotto, capogruppo di Sel alla Camera non ci sta: “Dopo l’ennesima strage degli Stati Uniti d’America si dibatte della riduzione dell’uso delle armi, mentre in Italia si inviano messaggi devastanti. Impossibile aprire il dialogo sull’eccesso di legittima difesa, piuttosto mi concentrerei sul modo in cui il governo affronta la questione sicurezza perché è lo Stato che dovrebbe garantirla ai cittadini. Salvini gioca con il fuoco”.

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