venerdì 29 gennaio 2016

IL PASSO DEL GAVIA

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Il Passo del Gavia (2.652 m) mette in comunicazione la valle del Gavia (Valfurva) e l'alta Valle Camonica, ai confini fra le province di Sondrio e Brescia.

È meta turistica frequente di cicloamatori e motociclistici d'estate e con scarso traffico veicolare, soggetto a chiusura invernale.

In prossimità del passo (300 m circa) esiste, unico in Italia, un lembo di Tundra artica, relitto dell'ultima glaciazione (Glaciazione Würm), che copre una estensione di circa quattrocento metri quadrati, disteso su piccoli dossi morenici. Su suoli poligonali esso accoglie specie tipiche come: Polytrichum sexangularis, Salix herbacea, Carex curvula, Loiseleuria procumbens, Ranunculus glacialis, etc. Si tratta quindi di una zona ad alto valore naturalistico, nonché ad altrettanto elevata vulnerabilità, che meriterebbe una considerazione ed una descrizione assai più approfondita.

La salita del Gavia, classificabile come salita alpina lunga, dall'importante dislivello, dall'elevata quota altimetrica raggiunta e con pendenze medio-alte dal versante di Ponte di Legno, è meta frequente di cicloamatori d'estate. Meno duro (più lunga, ma pendenze meno difficili) il versante opposto da Bormio-Santa Caterina Valfurva.

Il Passo di Gavia è stato reso celebre dal Giro d'Italia di ciclismo, in quanto rappresenta una delle salite diventate ormai mitiche, nonostante sia una strada secondaria poco frequentata dal traffico veicolare. È stata Cima Coppi per 7 volte nel 1989, 1996, 1999, 2004, 2006, 2008, 2010.

La prima ascesa risale al 1960, con la celebre impresa del vicentino Imerio Massignan, passato solitario in vetta, ma che dovette cedere al lussemburghese Charly Gaul a causa di ben due forature in discesa, arrivando al traguardo di Bormio con 14 secondi di ritardo e con il tubolare a terra, poiché non aveva potuto sostituirlo in fase finale di gara. Allora la strada era ancora sterrata in molti tratti.

Nell'anno successivo il Giro doveva passare nuovamente dal passo, ma la corsa fu deviata per neve a favore del passo dello Stelvio.

Dopo di allora si tornò a salire il passo Gavia solo nel Giro d'Italia 1988, con una tappa divenuta mitica, corsa sotto un'improvvisa e inaspettata bufera di neve.

Nel 1989 la scalata fu nuovamente annullata per le avverse condizioni meteo mentre nelle edizioni del 1996, del 1999, del 2000, del 2008 e del 2010 si riuscì a transitare regolarmente, nonostante nel 2010 la tappa sia stata in dubbio fino alla mattina stessa della scalata; in quella occasione la salita al passo è stata affrontata, per la prima volta, dal versante di Bormio mentre in precedenza era sempre stata affrontata da quello, ben più difficile, di Ponte di Legno.

La seconda parte della salita al Passo dal versante bresciano di Ponte di Legno è stata asfaltata durante gli anni novanta proprio a causa del passaggio della manifestazione ciclistica.

Oggi, insieme al Passo del Mortirolo che si può percorrere in successione una volta scesi in Valtellina, rappresenta una delle mete più ambite dai cicloamatori.

Il transito sul passo era previsto anche nella 19ª tappa del Giro d'Italia 2013 (Ponte di Legno-Val Martello) assieme al Passo dello Stelvio, ma a causa delle avverse condizioni meteorologiche i due passaggi sono stati annullati e la tappa prima modificata in più punti e poi definitivamente annullata. La medesima tappa è stata riproposta per il Giro d'Italia 2014 e nonostante le condizioni meteo difficili (neve durante il passaggio in vetta), ha visto il transito per primo del colombiano Robinson E. Chalapud Gomez. La salita è stata affrontata dal versante di Ponte di Legno.

Il Passo Gavia, mette in comunicazione nella stagione estiva le province di Sondrio e Brescia, ed è uno dei valichi alpini più alti di tutta Europa.

Il passo è percorribile solo da tarda primavera fino ad autunno inoltrato. Ogni anno appassionati di ciclismo e motociclismo provenienti da tutta Europa scelgono su questa via non solo per le sue caratteristiche morfologiche e naturalistiche ma anche perché il traffico automobilistico è piuttosto scarso.


LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/12/la-valtellina.html




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giovedì 28 gennaio 2016

IL GHIACCIAIO DEI FORNI



Il ghiacciaio dei Forni è il più grande ghiacciaio vallivo italiano, cioè un ghiacciaio la cui lingua fluisce nella valle principale. Il ghiacciaio dei Forni è localizzato nel gruppo Ortles-Cevedale in alta Valtellina all'interno del settore lombardo del Parco nazionale dello Stelvio.

Le principali vette della zona dove insiste il ghiacciaio dei Forni sono anche chiamate le tredici cime e la loro ascensione concatenata, che richiede generalmente da due a più giorni di percorrenza, costituisce un noto richiamo per alpinisti allenati. Le principali cime da concatenare sono: monte Cevedale, monte Rosole, Palon de la Mare, monte Vioz, punta Taviela, cime di Peio, rocca Santa Caterina, punta Cadini, monte Giumella, monte San Matteo, punta Dosegù, punta Pedranzini, pizzo Tresero. Per la geologia del sito, sono predominanti le rocce metamorfiche: micascisti ricchi in quarzo, muscovite, clorite e albite (formazione delle "filladi di Bormio").

Il ghiacciaio attualmente si estende per poco più di 11 km². Negli ultimi 150 anni la superficie glaciale si è ridotta intensamente e la lingua è arretrata di circa 2 km. Lo spessore del ghiacciaio si è ridotto sulla lingua di ben 70 m nel periodo 1929-1998. La quantificazione della riduzione glaciale è possibile grazie al fatto che il ghiacciaio dei Forni è uno dei ghiacciai italiani monitorati da più lungo tempo (da fine '800) a cura dei volontari del Comitato glaciologico italiano, l'ente che da oltre 100 anni rileva le variazioni di lunghezza e superficie dei principali ghiacciai italiani.

Il Ghiacciaio dei Forni fa da cornice alla omonima valle dei Forni, che prende il via a pochi km dal centro di Santa Caterina di Valfurva. Le famose "tredici cime" fanno da contorno al ghiacciaio che incombe sulla valle.

Il sentiero di fondo valle, partenza ideale anche per passeggiate in quota, è percorribile sia a piedi che in mountainbike.

La valle è in gran parte attraversata dal Torrente Frodolfo, che proprio dal ghiacciaio prende il via, ed è caratterizzata da vasti boschi e pascoli d’alta quota. Nella valle numerose sono le specie di animali selvatici presenti e che i visitatori potranno osservare, a partire dalle tante marmotte coi loro caratteristici fischi di richiamo o dai rapaci che volteggiano nel cielo.

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mercoledì 27 gennaio 2016

VALDIDENTRO

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Valdidentro è un comune sparso facente parte della Comunità Montana Alta Valtellina.

La Valdidentro, bagnata dal torrente Viola Bormina, si apre ad occidente di Bormio e si divide, dopo Semogo, in due rami: la val Viola e la valle Foscagno che porta al passo omonimo dal quale si raggiunge Livigno. Il comune, il più esteso dell'intera Regione Lombardia, è diviso in frazioni: Premadio, Pedenosso, Isolaccia, Semogo. Raggiungibile percorrendo la Strada statale 301 del Foscagno che da Livigno porta a Bormio.

Abitata sin dall'anno mille la Valdidentro si trova tra il sud ed il nord delle Alpi.
Il paese in origine si è sviluppato grazie all'economia agricolo-pastorale ed ai commerci che transitavano tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia con l'Impero tedesco.
Numerosi sono i reperti storici che testimoniano il passato di questa area geografica: la chiesa di Pedenosso che sorge sulla roccia come segno di fortificazione, la chiesa San Gallo nella frazione Premadio e le Torri di Fraele che segnano il confine tra la Valdidentro e la Val San Giacomo. Esse sono due e sono poste tra il Monte delle Scale (2521 m s.l.m.) ad est e la Cima Plator ( 2910 m s.l.m.) ad ovest.

Sino alla prima guerra mondiale vi erano intorno ad esse trincee in parte ancora visibili specialmente lungo il sentiero che porta al picco della croce sul Monte Scale.

La Valdidentro è una delle Perle delle Alpi, situata nel cuore della Valtellina, tra il comune di Bormio e la zona extradoganale di Livigno, a pochi passi dalla Svizzera.

Grazie alla sua posizione e alla ricchezza dell'ambiente naturale, la vallata è la meta ideale per vacanze sia estive che invernali, per soggiorni a misura di famiglia, come per gli allenamenti in altura oppure per rigenerarsi mentalmente e fisicamente presso i centri termali dei Bagni Nuovi e Bagni Vecchi.

La località è inserita nell'ambiente incontaminato del Parco Nazionale dello Stelvio, dove non sarà difficile avvistare cervi, stambecchi, aquile e gipeti. Un'occasione unica per gli appassionati sarà quella di ammirare esemplari di flora e fauna peculiari dell'ambiente alpino.

A occidente di Bormio, insinuandosi tra i calcari che culminano nella cima Reit ed il gruppo della cima Piazzi, la Valdidentro si allunga fino ai confini con la Svizzera e con il comune di Livigno. Appena superato il borgo principale dell’Alta Valle si incontra sulla destra, sopra la piana verdeggiante dove si adagia solitaria la vetusta chiesa di S. Gallo con il suo svettante campanile, la strada che porta al passo dello Stelvio, sul cui originario tracciato si edificarono gli stabilimenti termali denominati Bagni Nuovi, poco sotto ai più antichi Bagni Vecchi. In essi si praticarono e si praticano saluberrime cure con le acque termali che sgorgano dalle rocce, acque forse già celebrate da Plinio nella Naturalis historia, certamente da Aurelio Cassiodoro nel VI secolo che ne consigliò l’uso terapeutico per la podagra.
Anticamente, prima della costruzione dello stradone dello Stelvio, che avvenne a partire dal 1820, sul territorio di Valdidentro transitavano i mercanti bormini sulle strade “regali” di Umbrail e Fraele con i loro carichi di vino, acquistato in Valtellina, o di sale minerale acquistato alle miniere di Hall, nei pressi di Innsbruck. Ancora troneggiano sull’antico percorso di Fraele le due torri, un tempo inserite in un sistema di fortificazioni più complesso edificato intorno al 1390, che serviva a sbarrare l’entrata nel Bormiese a torme di razziatori nordici.
A caratterizzare la Valdidentro sono gli estesissimi pascoli che costituirono nei secoli passati una enorme risorsa economica per le migliaia di capi bovini e ovini che vi venivano condotti nei mesi estivi, sia allevati in loco che provenienti dalla pianura lombarda. Accanto all’allevamento, un’altra importante risorsa fu quella legata allo sfruttamento delle miniere di ferro ubicate oltre i 2500 metri di altitudine soprattutto sulle montagne che coronano la val Fraele. L’attività siderurgica è testimoniata sin dal XIII secolo ed è durata fino al 1875, quando furono abbandonati gli opifici di Premadio. La val Fraele è ora invasa da due enormi dighe che alimentano le centrali idroelettriche a valle. Lo sfruttamento dell’energia idraulica risale al 1895 con la costruzione di una prima, piccola centrale che dava corrente ai Bagni, nel 1920 si costruì, poco sotto la chiesa di S. Gallo una centrale che serviva all’illuminazione di Bormio, quindi Rasin pochi anni dopo, per arrivare alle centrali di Premadio ultimate negli anni ’50 del secolo scorso e recentemente aggiornate nella tecnologia. 
Dopo il congresso di Vienna, quando il Contado di Bormio fu definitivamente assegnato alla Lombardia, la Valdidentro fu divisa in due distinti comuni, il primo riuniva le due contrade di Isolaccia e di Semogo, il secondo quelle di Premadio e di Pedenosso. Il conte Guicciardi ne propose però l’accorpamento in un unico ente che riunisse tutte le vicinanze di quella che, nell’antico regime, era denominata “vallata a Cruce Toii intus”.            
Un triste capitolo nella storia di Valdidentro fu quello della stregoneria: un paese, quello di Semogo, fu decimato nel 1630-32 a causa di inquietanti credenze, secondo le quali ogni evento naturale dannoso alle persone, alle cose o agli animali veniva attribuito a nefande conventicole di adoratori del demonio che vagavano a cavallo di bastoni per riunirsi in sacrileghe orge dove bimbi innocenti venivano immolati in onore di Satana.

Dal 1º gennaio 2011 Valdidentro, per la sua attenzione a favorire il turismo sostenibile e la mobilità dolce, fa parte dell'associazione internazionale Alpine Pearls che raggruppa 27 località alpine appartenenti a sei nazioni differenti (Svizzera, Germania, Austria, Italia, Francia e Slovenia).

Oltre ai bagni nelle acque termali, la località offre anche impianti di risalita e piste sciistiche ubicate, per l'esattezza, nelle frazioni di Isolaccia e Pedenosso (la pista Viola è sede di varie competizioni di sci di fondo e biathlon, anche a livello nazionale, grazie anche al poligono di tiro di recente costruzione). A Valdidentro sono state organizzate alcune gare valide per la Coppa del Mondo di sci di fondo 2009.

Sono presenti numerose aree sportive, nelle diverse frazioni del comune: ad Isolaccia sono disponibili un campo da calcio, uno di bocce e alcuni campi di tennis dove durante i mesi invernali è possibile pattinare sul ghiaccio. A Semogo sono presenti un campo di calcio in sintetico, un campo di pallavolo/basket e un campo di bocce; a Pedenosso (località Pradelle) ci sono un campo di calcio e uno di pallavolo. A Premadio (loc. Planecc) è disponibile un'area verde attrezzata con un campo di calcio nelle adiacenze.

Una lunga pista ciclabile lungo il fiume Viola Bormina permette di attraversare tutto il comune, andando in mountain bike dalla frazione Semogo (presso l'area sportiva) alla frazione di Oga Valdisotto, passando per Isolaccia e Pedenosso.









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martedì 26 gennaio 2016

EBRAISMO IN ITALIA



Gli ebrei italiani hanno una storia molto antica, che risale fino al II secolo a.C.: reperti archeologici di lapidi tombarie e iscrizioni dedicatorie vanno indietro fino ad allora. A quel tempo la maggioranza viveva nell'estremo sud dell'Italia, con una ramificazione comunitaria a Roma, e generalmente parlavano il greco. Si pensa che alcune famiglie (per esempio gli "Adolescenti") siano i discendenti degli ebrei deportati dalla Giudea dall'imperatore Tito nel 70 a.C. Nel primo medioevo esistevano principali comunità nel meridione italiano, come per esempio Bari e Otranto. Gli ebrei medievali italiani produssero inoltre importanti opere halakhiche come Shibbole ha-Leket.
Verso la fine del XV secolo, gli Ebrei in Italia erano complessivamente 70.000 su una popolazione totale di circa 8-10 milioni di persone, quindi appena lo 0,7% - 0,9% degli abitanti (in Spagna, su una popolazione globale eguale all'Italia, vi erano allora ben 200.000 ebrei), distribuiti in 52 comunità. Di questi, circa 50.000 abitavano in Sicilia, dove si stima che nel 1492 gli ebrei componessero tra il 3 e il 6% della popolazione.
Dopo l'espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli nel 1533, il centro di gravità si spostò a Roma e al nord.

Giulio Cesare rispettava l’osservanza delle prescrizioni ebraiche: nell’anno sabbatico gli Ebrei erano esonerati dal pagare il loro tributo allo Stato romano. E che gli Ebrei residenti in Italia mandassero regolarmente in Palestina il loro contributo per il Tempio, lo apprendiamo anche dall’orazione di Cicerone "Pro Flacco", tenuta nel 59 av. l’E.V. Flacco, già propretore in Asia, era stato accusato di concussione (de repetundis); e nel processo intentatogli figurano come testimoni Ebrei della provincia d’Asia, i quali accusano Flacco dì essersi appropriato del denaro che essi dovevano inviare a Gerusalemme. Dice Cicerone nella Difesa: Cum aurum ludaeorum nomine quotannis ex Italia et ex omnibus nostris provinciis Hierosolymam exportari soleret, Flaccus sanxit edicto ne ex Asia exportari liceret. Quis est, iudices, qui hoc non vere laudari possit?  (Essendo consuetudine che dall’Italia e da tutte le nostre province, tutti gli anni venga esportato oro a Gerusalemme, a nome dei Giudei, Flacco sancì con un editto che non fosse lecito esportarlo dall’Asia. E chi è, o Giudei, che non abbia a lodare ciò?).

Orazio in due satire (Sat. 1, 4 e Sat. 1, 9) accenna al proselitismo ebraico nella Roma del suo tempo.
Nel 66 d. l’E. V. i Giudei, esasperati dalle angherie dei procuratori romani, si ribellano; ha così inizio la Guerra giudaica, che dura 4 anni. C’erano allora in Palestina due partiti, di cui quello degli Zeloti, che voleva la guerra a oltranza, ebbe il sopravvento. Nel 69 viene posto l’assedio a Gerusalemme, che, malgrado F accanita resistenza e gli atti di leggendario valore compiuti dai Giudei, viene conquistata, da Tito il 9 di Av dell’anno seguente; il Tempio è dato alle fiamme. Secondo le leggi di guerra, i vincitori potevano disporre della vita e delle proprietà dei vinti; ed ai Giudei era riservata la sorte comune ai vinti. Una parte di essi fu destinata a perire nel circo (ad circenses) e mandata a Cesarea; una parte fu inviata nelle miniere in Sardegna (ad metalla), dove nessuno poteva sopravvivere a lungo; e una parte ancora fu portata a Roma (circa 97 mila) e adibita alla costruzione del Colosseo; altri furono venduti come schiavi: tutti i mercati dì schiavi dell’Oriente erano pieni di schiavi giudei: Dopo la rivolta di Bar Kochba (132-135) al tempo dell’imperatore Adriano, soffocata nel sangue dal Romani nel 135 d. l’E. V., molte altre migliaia di Giudei furono venduti come schiavi. Ma vivendo, come già ricordato, molti Ebrei fuori della Palestina anche prima di tali avvenimenti, essi si adoperarono per raccogliere denaro per il riscatto degli Ebrei schiavi; questa attività fu chiamata Pidion ha-shvuim, ossia: "riscatto dei prigionieri"; e in tal modo molti Ebrei furono liberati.

Oltre alla Comunità ebraica di Roma, già molto numerosa, c’erano in quell’epoca Comunità ebraiche a Venosa e Siracusa dove si trovano tuttora catacombe ebraiche - ed è, questa, un’altra prova che nelle persecuzioni del tempo erano accomunati Cristiani ed Ebrei; ed abbiamo pure notizia di Ebrei che abitavano in varie altre città italiane dell’Impero romano (Ostia, Ravenna, Ferrara, Bologna, Milano, Capua, Napoli).

Nel 313 l’imperatore Costantino emana l’Editto di Milano, che doveva porre fine alle persecuzioni contro i Cristiani, ai quali si dovevano pure restituire i beni confiscati. Ma questo Editto proclama anche la tolleranza di tutti gli altri culti. Da questo momento la situazione della Chiesa cristiana si capovolge: da perseguitata, o da sola o insieme al nucleo ebraico, diviene di questo la persecutrice, i martiri che la Chiesa ha avuto sono in numero di gran lunga inferiore a quello di quanti hanno subito il martirio per colpa dei Cristiani. Tutte le calunnie scagliate dai pagani contro i Cristiani quand’essi formavano ancora una setta in seno all’ebraismo, vengono ora ritorte da questi contro gli Ebrei: esempio tragico è il cosiddetto "omicidio rituale", che per secoli e secoli fu origine di sanguinose persecuzioni e di cui ci dà notizia per la prima volta il vescovo di Lione Agobardo, vissuto nel IX secolo.

Da ora in poi la storia degli Ebrei in Italia è in gran parte storia delle relazioni fra Ebrei e Papato; secondo la concezione della Chiesa, gli Ebrei dovevano sopravvivere per dimostrare al mando la verità dei Vangeli, e perciò mai da Roma essi furono cacciati; anzi, questa è l’unica città dell’Occidente con un’antica Comunità di Ebrei, da cui essi non furono mai espulsi.

Dopo la conquista della Sicilia da parte degli Arabi, importanti Comunità ebraiche si formarono nell’Isola. Nel 1282 la Sicilia passa sotto la dominazione spagnola; da questo momento la sorte degli Ebrei siciliani è legata alle vicende della Spagna. Degli Ebrei in Sicilia, il primo a darne notizia è Beniamino da Tudela (Navarra), vissuto nel XII sec., il secolo di Maimonide, il secolo d’oro della letteratura ebraica; il quale, per i suoi viaggi - ch’egli compì dal 1160 al 1173 - fu chiamato il Marco Polo degli Ebrei. Intorno al 1160 Beniamino da Tudela parte da Saragozza, diretto a Marsiglia e a Genova; da qui passa in Toscana, dove si ferma a Lucca e Pisa, visita Bologna e Roma (dov’è papa Alessandro III); quindi si spinge a Otranto, da dove si imbarca per Corfù. Al suo ritorno dall’Oriente si ferma in Sicilia, e ci dà interessanti notizie sulla vita degli Ebrei siciliani, che esercitavano quasi esclusivamente l’arte dei tessitori e dei tintori. Il ricordo di questa professione è rimasto in alcuni cognomi di Ebrei d’origine siciliana: Croccolo, Cremisi (come nei paesi tedeschi c’è il cognome Farber, o Ferber, che significa: tintore), e la tassa che gli Ebrei dovevano pagare come Ebrei, era detta appunto tassa dei tintori. E quando, alla fine del Medio Evo, gli Ebrei vengono cacciati dalla Sicilia, l’arte del tessitori scompare dall’Isola. Erano in tutto 37 mila; la Comunità più importante era a Palermo (circa 3 mila Ebrei). Fra le Comunità della Bassa Italia, due soprattutto erano fiorenti: Bari e Otranto, ambedue centri culturali ebraici.

Uno degli ebrei italiani più famosi fu Rabbi Moshe Chaim Luzzatto (1707–1746) le cui opere religiose ed etiche sono studiate a tutt'oggi. La comunità ebraica nel suo complesso raggiungeva circa 50.000 persone dal momento che fu emancipata nel 1870. Un momento importante nella storia dell'Ebraismo italiano è il Congresso ebraico di Forlì del 1418, in cui vengono avanzate richieste al nuovo papa, Martino V, e vengono assunte decisioni relative alla vita interna delle comunità ebraiche.

Nel 1516 la Repubblica Serenissima istituì il Ghetto di Venezia, il primo ghetto della Storia e che prende il nome dall'isola in cui fu confinata la Comunità ebraica di Venezia, a quel tempo accresciuta di numero da un'immigrazione aschenazita, e che aveva l'obbligo di rientrare la sera e le cui porte venivano chiuse la notte. Con l'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 con il Decreto di Alhambra a Venezia si rifugiarono via via anche molti ebrei sefarditi. Traccia di queste progressive stratificazioni si ritrovano ancora oggi nelle varie Sinagoghe di Venezia (dette anche Scuole) nel Ghetto: italiana, tedesca, spagnola, levantina. Venezia ha un ruolo importante per l'ebraismo mondiale anche per la diffusione della stampa di libri in ebraico, a cominciare dalla Bibbia di Bomberg del 1517.

Nel '500 a Venezia si stamparono la maggior parte di tutti i testi in ebraico d'Europa, tra cui il Talmud completo (Bomberg 1520) ancora oggi utilizzato in tutto il mondo come base talmudica. Nel 1553 questa fioritura ebraica si interruppe traumaticamente a causa della disputa tra due case editrici veneziane, la Bragadin e la Giustiniani, sui diritti di stampa della Mishneh Torah di Maimonide curata dal Rabbino di Padova Katzenellenbogen. La disputa fu portata davanti ai tribunali dell'Inquisizione di Papa Giulio II che giudicarono eretici i testi e ne decretarono il Rogo, avvenuto prima a Campo dei Fiori a Roma, quindi in Piazza San Marco a Venezia.

Nel 1637 il Rabbino di Venezia Leone da Modena vede pubblicata a Parigi la "Historia de riti Hebraici", la prima opera intesa a spiegare l'ebraismo ai non ebrei ed a combattere i pregiudizi antisemiti del tempo. Destinata per un pubblico protestante anglosassone, l'opera precorre il dibattito sulla riammissione degli ebrei in Inghilterra al tempo di Cromwell (essendone stati espulsi nel 1290). Nel 1638 un altro Rabbino di Venezia, Simeone Luzzatto, pubblica il "Discorso circa lo stato de gl'Hebrei", sulla tolleranza religiosa ed i vantaggi reciproci dell'integrazione degli ebrei a Venezia.

Le porte del Ghetto furono abbattute nel 1797 con la conquista di Venezia da parte di Napoleone che impose l'emancipazione. Durante la Seconda Aliyah (emigrazione, tra il 1904 e il 1914) molti ebrei italiani si trasferirono a Israele, e a Gerusalemme esiste tuttora una sinagoga ed un centro culturale italiani.

Nel 1938 Mussolini emanò le Leggi razziali fasciste e, dopo l'8 settembre 1943, anche l'Italia collaborò coi nazisti, inviando circa 7000 italiani ai campi di sterminio durante l'Olocausto. Oggi, gli ebrei italiani sono circa 35.000 - 38.000 (secondo alcuni 45.000) su una popolazione di 60 milioni di abitanti; la metà circa vive a Roma con un numero che va dai 13.500 ai 14.000, circa 7.000 risiedono a Milano, mentre gli altri sono sparsi in Comunità medie o piccole in tutta la penisola.

Una delle sinagoghe più grandi d'Italia si trova a Trieste. La Comunità ebraica di Casale Monferrato ospita la sua sinagoga di rito tedesco edificata nel 1595, ricca di arredi ed iscrizioni, che è un esempio di barocco piemontese ed è considerata una delle più belle d'Italia. Anche Merano e Trani ospitano una Sinagoga ebraica come diverse ne ospita Venezia, situate nei caratteristici ghetti ebraici; in particolare la Sinagoga di Venezia è riconosciuta come una delle più belle d'Europa. Di particolare pregio le Tavole della Legge in legno dorato risalenti al secolo XVIII secolo, numerosi Rimonim (terminali per rotoli della Legge) e Atarot (corone per i rotoli della Legge) sbalzati, cesellati o in filigrana d'argento.

Storicamente gli ebrei italiani si suddividono in quattro categorie:
Ebrei di rito italiano, che risiedono in Italia, ed in particolare a Roma, dal tempo dei romani (da circa 2200 anni).
Ebrei sefarditi, che possono essere suddivisi in sefarditi levantini e ebrei iberici, cioè ebrei giunti in Italia dopo le espulsioni dalla Spagna nel 1492, dal Portogallo nel 1497 e dal Regno di Napoli nel 1533. Questi a loro volta includono sia gli espulsi di quel tempo sia la famiglie criptogiudaiche che lasciarono la Spagna e il Portogallo nei secoli successivi e ritornarono all'Ebraismo.
Ebrei aschenaziti, che vivono principalmente nella parte nord dell'Italia.
Ebrei di Asti, Fossano e Moncalvo ("Appam"). Questi rappresentano gli ebrei espulsi dalla Francia nel Medioevo. La loro liturgia è simile a quella degli aschenaziti, ma contiene alcuni usi distintivi provenienti dagli ebrei francesi del tempo di Rashi, particolarmente nelle funzioni delle Festività ebraiche.
Storicamente queste comunità rimasero separate: in una data città vi era spesso una "sinagoga italiana" e una "sinagoga spagnola" e di tanto in tanto anche una "sinagoga tedesca". In molti casi, queste si sono amalgamate, ma una data sinagoga può celebrare servizi liturgici di più riti.

Attualmente esistono anche altre categorie:
Ebrei di San Nicandro che sono discendenti gerim dei neofiti di San Nicandro Garganico;
Ebrei iraniani (più precisamente persiani) che vivono a Roma e Milano;
Ebrei libici, soprattutto a Roma;
Ebrei libanesi, giunti soprattutto a Milano in seguito alla guerra civile del Libano del 1974.

L' unica organizzazione ebraica italiana che rappresenti l'ebraismo italiano di fronte allo Stato secondo la legge è l'Unione delle comunità ebraiche italiane (UCEI), come previsto dall'intesa con lo Stato italiano stipulata il 27 febbraio 1987, approvata con la legge 101/1989, revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 638/1996. L'UCEI partecipa alla ripartizione della quota dell'otto per mille del gettito IRPEF. Poiche' per lo Stato Italiano l'unica organizzazione che rappresenti giuridicamente gli interessi dell'ebraismo in Italia è l'UCEI, ne risulta che l'unica definizione di "ebreo" rilevante per lo Stato è quella data dall'Assemblea Rabbinica Italiana. Gli unici enti che possono rilasciare una certificazione di ebraicità in Italia (al fine, ad esempio, di poter richiedere di sostenere un esame universitario in giorno diverso dal sabato, o al fine di richiedere il riposo settimanale durante il sabato, con obbligo per il datore di lavoro di concederlo) sono le Comunità Ebraiche locali membre dell'UCEI che rilasciano tali certificati soltanto in base alle regole dell'ortodossia ebraica. L'iscrizione alle Comunità locali è infatti consentita soltanto previo nulla osta dell'Autorità Rabbinica locale ed al cui diniego si può ricorrere unicamente presso l'Assemblea Rabbinica Italiana (Statuto UCEI).

Gli ebrei italiani autoctoni, distinti dai sefarditi e dagli aschenaziti, sono a volte indicati nella letteratura scientifica come Italkim viene usato anche in ebraico moderno per indicare la lingua italiana. Gli ebrei di rito italiano di solito parlavano tradizionalmente una varietà di lingue giudeo-italiane come il bagitto a Livorno; attualmente solo a Roma si continua a parlare il giudaico romanesco.

Le usanze ed i riti religiosi degli ebrei di rito italiano possono essere visti come un ponte tra le tradizioni aschenazite e quelle sefardite, mostrando somiglianze con entrambe; e sono ancora più vicini alle tradizioni dei romanioti (ebrei greci in Italia). Si riconosce inoltre una suddivisione tra il minhag Benè Romì, praticato a Roma, e il minhag Italiani, praticato in città del nord come Torino, anche se i due riti sono generalmente affini, nonché alcune differenze tra il minhag di Firenze (prettamente sefardita) e quello di Livorno.

In materia di diritto religioso, la maggior parte degli ebrei di rito italiano in generale seguono le stesse regole degli askenaziti codificate da Moshe Isserles (detto il Ramo) con l'eccezione della proibizione askenazita di mangiare legumi a Pesach, mentre a Roma e Firenze seguono generalmente le stesse regole dei sefarditi, secondo lo Shulchan Aruch senza le glosse Moshe Isserles (su un totale di circa 35000 ebrei presenti in Italia solo 12000 risiedono a Roma). Tuttavia la loro liturgia è diversa da quella di entrambi questi gruppi. Una ragione di ciò potrebbe essere che l'Italia era il centro principale della prima stampa ebraica, consentendo agli ebrei italiani di conservare le proprie tradizioni, quando la maggior parte delle altre comunità dovevano optare per un libro di preghiere di standard "sefardita" o "askenazita".

Si è spesso sostenuto che il libro di preghiere italiano contenga gli ultimi resti della tradizione ebraica giudeo/galilea, mentre sia quello sefardita sia, in misura minore, quello aschenazita riflettano la tradizione babilonese. Questa affermazione è molto probabilmente storicamente accurata, anche se è difficile verificare testualmente quanto materiale liturgico dalla Terra d'Israele sopravviva. Inoltre, alcune tradizioni italiane riflettono il rito babilonese in una forma più arcaica, più o meno allo stesso modo del libro di preghiere degli ebrei yemeniti. Esempi di antiche tradizioni babilonesi conservate dagli italiani ma da nessun altro gruppo (compresi gli yemeniti), sono l'uso di keter yitenu lach nella kedushah di tutti i servizi e di naḥamenu in Birkat Hamazon (ringraziamento dopo i pasti) nello Shabbat, entrambi i quali si trovano nel siddur di Amram Gaon.



La comunità di rito italiano tradizionalmente utilizza l'ebraico italiano, un sistema di pronuncia simile a quella degli ebrei spagnoli e portoghesi. Tale pronuncia è stata in molti casi adottata anche dalle comunità sefardite, aschenazite e appam d'Italia.

Ci sono ebrei aschenaziti che vivono nel Nord Italia fin dal tardo medioevo. A Venezia, erano la più antica comunità ebraica della città, anteriore sia a quella sefardita che ai gruppi italiani. Dopo l'invenzione della stampa, l'Italia divenne un importante centro editoriale per libri ebraici e yiddish utilizzati dagli ebrei tedeschi ed altri ebrei nordeuropei. Una figura rimarchevole era Elia Levita, esperto grammatico e masoreta, anche autore del poema epico-romantico yiddish Bovo-Bukh.

Altre comunità rinomate sono state quelle di Asti, Fossano e Moncalvo, che discendevano da ebrei espulsi dalla Francia nel 1394: la comunità astigiana comprende la nota famiglia Lattes. Solo la sinagoga di Asti è ancora in uso oggi. Il loro rito, conosciuto come appam (dalle iniziali ebraiche delle suddette tre città), è simile a quello aschenazita, ma ha alcune peculiarità tratte dal vecchio rito francese, in particolare al riguardo delle festività ebraiche. Queste variazioni si trovano su fogli mobili che la comunità utilizza in combinazione con il normale libro di preghiere aschenazita e vengono stampati anche da Goldschmidt. Questo rito è l'unico discendente superstite del rito originale francese, usato da Rashi e in tutto il mondo: gli aschenaziti francesi dal 1394 utilizzano il rito tedesco-aschenazita.

Nella tradizione musicale e nella pronuncia, gli aschenaziti italiani differiscono notevolmente dagli aschkenaziti di altri paesi e mostrano una certa assimilazione con le altre due comunità. Fanno eccezione le comunità nordorientali, come quella di Gorizia che data dai tempi austro-ungheresi, e sono molto più vicine alla tradizione tedesca e austriaca.

Dal 1442, quando il Regno di Napoli cadde sotto il dominio spagnolo, un considerevole numero di ebrei sefarditi vennero a vivere nell'Italia meridionale. A seguito dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 così come dalla Sicilia e dalla Sardegna nello stesso anno, dal Portogallo nel 1495 e dal Regno di Napoli nel 1533, molti si spostarono nell'Italia centrale e settentrionale. Un rinomato profugo fu Don Isaac Abrabanel.

Nel corso dei secoli successivi furono raggiunti da un flusso costante di conversos che abbandonavano la Spagna e il Portogallo. In Italia, correvano il rischio di incriminazione per "giudaizzazione", dato che per legge erano battezzati cristiani; per questo motivo in genere evitarono gli stati pontifici. I papi permisero qualche insediamento spagnolo-ebraico ad Ancona, poiché questo era il porto principale per il commercio con la Turchia, dove i loro legami con i sefarditi ottomani erano utili. Altri stati ritennero vantaggioso consentire ai conversos di stabilirsi e mescolarsi con le comunità ebraiche già esistenti e chiudere un occhio sul loro Stato religioso. Nella successiva generazione, comunque i figli dei conversos avrebbero potuto rientrare nell'Ebraismo senza problemi legali, poiché non erano mai stati battezzati.
La Repubblica Veneta aveva spesso rapporti tesi con il Papato; d'altra parte erano consapevoli dei vantaggi commerciali offerti dalla presenza di colti ebrei di lingua spagnola, in particolare per il commercio con la Turchia. In precedenza gli ebrei di Venezia erano stati tollerati con decreti di una certa durata di anni, periodicamente rinnovati. Nei primi anni del XVI secolo, queste modalità furono rese permanenti e un decreto separato fu concesso alla comunità "ponentina" (occidentale). Il prezzo pagato per questo riconoscimento fu il confinamento degli ebrei nella nuova istituzione del "Ghetto". Tuttavia per lungo tempo la Repubblica di Venezia fu considerata come la migliore località di insediamento degli ebrei, equivalente ai Paesi Bassi del XVII secolo o agli Stati Uniti nel XX secolo.
L'immigrazione sefardita fu inoltre incoraggiata dai principi d'Este, nei loro possedimenti a Reggio Emilia, Modena e Ferrara. Nel 1598 Ferrara venne ripresa dagli Stati Papalini, il che provocò un flusso migratorio verso l'esterno.
Nel 1593, Ferdinando I de' Medici, Granduca di Toscana, concesse agli ebrei portoghesi di vivere e commerciare a Pisa e Livorno (cfr. "Comunità ebraica di Livorno").
Nel complesso gli ebrei spagnoli e portoghesi rimasero separati dagli ebrei italiani autoctoni, anche se c'era una notevole influenza religiosa e intellettuale reciproca tra i gruppi.

La Scola Spagnola (sinagoga spagnola) di Venezia fu originariamente considerata come la "sinagoga madre" dalle comunità spagnole e portoghesi di tutto il mondo, poiché fu tra le prime ad essere fondate e il primo libro di preghiere fu pubblicato lì: le comunità posteriori, come Amsterdam, seguirono la sua guida in merito a questioni rituali. Col declino dell'importanza di Venezia a partire dal XVIII secolo, il ruolo di primo piano passò alla comunità ebraica di Livorno (per l'Italia ed il Mediterraneo) e ad Amsterdam (per i paesi occidentali). La sinagoga di Livorno fu distrutta durante la seconda guerra mondiale: un moderno edificio fu eretto nel 1958-1962.

Oltre agli ebrei spagnoli e portoghesi strettamente detti, l'Italia ha ospitato molti ebrei sefarditi dal Mediterraneo orientale. La Dalmazia e molte delle isole greche, dove c'erano grandi comunità ebraiche, sono state per molti secoli parte della Repubblica Veneta, e vi fu una comunità "levantina" a Venezia. Questa rimase separata dalla comunità "ponentina" (cioè la spagnola e portoghese) e legata alle proprie radici orientali, come dimostra il loro uso nei primi anni del XVIII secolo di un libro di inni classificato come maqam alla maniera ottomana. (Oggi entrambe le sinagoghe sono ancora in uso, ma le comunità si sono amalgamate). In seguito la comunità di Livorno agì come collegamento tra gli spagnoli e i portoghesi e gli ebrei sefarditi orientali e punto di riscontro tra le altre tradizioni e gruppi musicali. Molti ebrei italiani oggi hanno radici "levantine", per esempio da Corfù, e prima della seconda guerra mondiale l'Italia considerava l'esistenza delle comunità sefardite orientali come possibilità di espandere l'influenza italiana nel Mediterraneo.

Nel XVIII e XIX secolo, molti ebrei italiani (per lo più, ma non esclusivamente, dal gruppo spagnolo e portoghese) mantennero una presenza commerciale e residenziale sia in Italia che nei paesi dell'Impero Ottomano: anche coloro che si stabilirono definitivamente nell'Impero Ottomano, mantennero la loro nazionalità toscana o altra italiana, in modo da avere il beneficio delle "Capitolazioni dell'Impero ottomano". Così in Tunisia vi era una comunità di Juifs Portugais, o di L'Grana (livornesi), quest'ultima comunità che si manteneva separata dagli ebrei nativi tunisini (Tuansa) considerandosi superiore. Comunità più piccole dello stesso tipo esistevano anche in altri paesi, come la Siria, dove erano conosciuti come Señores Francos, sebbene in genere non fossero abbastanza numerosi per stabilire le proprie sinagoghe; per pregare si incontravano invece nelle reciproche dimore. Diversi paesi europei spesso nominavano ebrei di queste comunità come loro rappresentanti consolari nelle città ottomane.

Tra le due guerre mondiali, la Libia fu una colonia italiana e, come in altri paesi del Nordafrica, il potere coloniale trovò utili gli ebrei locali, essendo una élite istruita e ben introdotta. Dopo l'indipendenza libica e soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, molti ebrei libici si trasferirono sia in Israele che in Italia, e oggi la maggior parte delle sinagoghe "sefardite" a Roma sono in realtà libiche. (Il Tempio Spagnolo, senza dubbio di origine spagnola e portoghese come implica il nome, ora si considera "italiano", in contrasto con queste comunità più recenti).

Scopo delle Comunità è quello di provvedere al soddisfacimento delle esigenze religiose, associative, sociali e culturali degli ebrei.

L’ebraismo è infatti non solo una religione ma anche una “cultura” che interessa ogni momento della vita. Le Comunità organizzano la collettività ebraica e sono un punto di riferimento non solo per gli ebrei che vivono sul posto ma per chiunque voglia stabilire contatti con loro. Molto spesso, infatti, ebrei di passaggio o trasferiti momentaneamente in Italia si rivolgono alla Comunità per avere informazioni sulla vita ebraica locale e prendervi parte. Da un punto di vista giuridico le Comunità hanno poteri di amministrazione e vigilanza sulle istituzioni ebraiche di assistenza, beneficenza, quelle culturali e provvedono alla tutela degli interessi locali degli ebrei. Le ventuno Comunità hanno competenza su circoscrizioni territoriali. Fanno parte di diritto della Comunità tutti gli ebrei che hanno residenza nella circoscrizione. L’iscrizione avviene con esplicita richiesta (e non è più obbligatoria, come secondo la legge del 1930).

È considerato ebreo, secondo il diritto ebraico, il figlio di madre ebrea, non convertito ad altra fede. Per cessare di appartenere alla Comunità occorre una rinuncia esplicita, che comporta la perdita del godimento di tutti i diritti e servizi che la Comunità offre. Organi della Comunità sono l’assemblea, il consiglio, la giunta, il presidente, il rabbino capo, la consulta (esiste solo in alcune Comunità), i revisori dei conti. Il consiglio è eletto da tutti gli iscritti che abbiano compiuto i diciotto anni e siano iscritti alla Comunità da almeno un anno. Esso è composto di un numero di consiglieri che varia da tre a trenta, in base al numero degli elettori. Sono eleggibili tutti gli elettori che abbiano compiuto i venti anni e siano “garanti della continuità ebraica”.

Il presidente, eletto dal consiglio, è capo della Comunità e la rappresenta.

La giunta, composta dal presidente e da un terzo dei consiglieri, amministra la Comunità. Il consiglio è l’organo principale che approva gli atti importanti, mentre alla giunta spettano le delibere preparatorie. Il funzionamento delle Comunità è assicurato con la riscossione di contributi a carico degli appartenenti in ragione del reddito. Essi sono esigibili con le forme e i privilegi che godono le imposte del Comune. La direzione spirituale della Comunità spetta al rabbino capo, che è amministrativamente un suo dipendente, assunto per chiamata o per concorso. Il rabbino capo interviene con voto consultivo alle sedute di consiglio e di giunta e ha piena autonomia per tutte le questioni religiose e di culto. Il rabbino, parallelamente al presidente, che è capo dell’amministrazione, è capo del culto e, in quanto tale, ha la funzione di maestro e di autorità con esclusiva competenza rispetto all’interpretazione della legge ebraica in materia rituale e all’esercizio del culto. In tali materie, di fronte agli organi comunitari, gli è garantita piena indipendenza. Egli può celebrare matrimoni tra ebrei, che durante la cerimonia nuziale devono dichiarare di uniformarsi a tutte le norme del codice civile italiano che regolano l’istituto del matrimonio. Il rabbino in questo caso è anche ufficiale di stato civile.

Una segreteria segue l’amministrazione generale della Comunità, che amministra i contributi annuali degli iscritti utilizzati per il funzionamento delle organizzazioni comunitarie (scuola, templi, casa di riposo e, in alcune Comunità, come a Roma, ospedale ebraico), per aiuti finanziari e assistenza anche domiciliare ad anziani (molte associazioni sono su base di volontariato) o a coloro che si rivolgono al servizio sociale per aiuto, per attività culturali e manifestazioni. La segreteria centrale fa anche da collegamento con il rabbinato, il consiglio della Comunità, le associazioni di carattere istituzionale e le associazioni culturali o di appoggio organizzate su base volontaria.

Il corso di laurea in Studi ebraici si propone come polo di diffusione della cultura ebraica mediante “corsi istituzionali” per gli iscritti alle comunità ebraiche e “corsi speciali” di durata breve aperti anche a un pubblico non ebraico, per il quale, mancando un livello adeguato di conoscenze di base, è previsto un “corso propedeutico”. Nei corsi istituzionali vengono insegnate storia, filosofia, lingua e letteratura ebraica, esegesi, letteratura rabbinica, letteratura cabbalistica e chassidica, istituzioni di diritto rabbinico, paleografia e storia del libro ebraico, scienze sociali. Nei corsi propedeutici si insegna lingua ebraica, esegesi, Bibbia e letteratura rabbinica. Si ottiene il titolo superando venti esami annuali o un numero proporzionale di corsi brevi e presentando una tesi. Sono anche previsti corsi speciali di perfezionamento su problematiche relative al rapporto tra ebraismo e il mondo esterno.

L’ebraismo in quanto religione e gli ebrei in quanto minoranza religiosa hanno diritto alla tutela da parte dello Stato italiano.

Il fondamento di questo diritto è nell’articolo 8 della Costituzione: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Nonostante il dettato costituzionale, fino al 1987 i rapporti tra ebraismo e Stato italiano sono stati regolati dalla vecchia legge Falco del 1930, che non garantiva un’adeguata sistemazione giuridica al diritto degli ebrei. Diritto di organizzarsi “secondo i propri statuti” che fino a quel momento non era mai esistito neppure per le altre confessioni non cattoliche. I primi a firmare una propria intesa con lo Stato furono i valdesi (1984), seguiti dalle chiese avventiste (1987/88) e dalle assemblee di Dio (1987). Dopo molti anni di riflessione, congressi straordinari, studi e proposte, in particolare da parte della commissione giuridica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) (formata dagli avvocati Guido Fubini, Vittorio Ottolenghi, Giorgio Sacerdoti e Dario Tedeschi), fu trovata una formulazione soddisfacente e l’Intesa fu firmata il 27 febbraio 1987 dal presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e dal presidente dell’Ucei, Tullia Zevi.

L’Intesa regola i principi generali e lascia allo Statuto (58 articoli) il compito di organizzare la vita interna delle Comunità e dell’Unione. Questa impostazione rappresenta una svolta radicale rispetto al passato. “Prima, gran parte delle norme si occupavano dell’organizzazione e del funzionamento delle Comunità” conferma Giorgio Sacerdoti. “Ora questa materia scompare dalla normativa e viene invece riservata all’autonomia statutaria”.

L’Intesa garantisce libertà e parità agli ebrei e alle loro organizzazioni rispetto agli altri cittadini, prevede forme di riconoscimento degli enti ebraici e delle loro attività, in particolare delle Comunità e dell’Unione come enti che devono assicurare in concreto libertà e autonomia alla confessione. Riconosce poi, nel modo più ampio, il diritto di professare la religione ebraica, inclusa la libertà di associazione, l’attività di insegnamento da parte dei rabbini, con tutela dalle manifestazioni di intolleranza e discriminazione religiosa.

L’entrata in vigore dell’Intesa ha abrogato di fatto tutte le leggi precedenti, quella del 1929 sui “culti ammessi” e quella del 1930 (legge Falco).

L’Intesa non si occupa dell’organizzazione interna delle Comunità e dell’Unione, che è lasciata allo Statuto approvato nel dicembre 1987 da un congresso straordinario dell’Unione. Questo regola la vita quotidiana e di relazione delle Comunità e dell’Unione.

Nell’Intesa (articoli 23 e 24) vengono previsti i controlli che lo Stato esercita sulle Comunità e l’Unione, quelli stessi che regolano la vita degli altri enti morali o di culto. La Comunità, l’Unione e gli enti ebraici esistenti o futuri come “enti ebraici civilmente riconosciuti” sono tenuti all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche ed è loro garantita l’autonomia di gestione senza ingerenza da parte dello Stato. Per l’acquisto di beni immobili, per l’accettazione di donazioni ed eredità e per il conseguimento di legati si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche.

L’articolo 1 garantisce in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti. Le norme del codice penale, riguardanti il vilipendio della religione cattolica, si applicheranno perciò, fino a una loro eventuale abrogazione, anche alle ipotesi di vilipendio della religione ebraica. Nell’Intesa si precisa che le norme della legge 654 del 1975, con le quali si vogliono combattere tutte le forme di discriminazione razziale, si intendono riferite anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso. Agli ebrei è riconosciuto il diritto, da esercitare nel quadro della flessibilità dell’organizzazione del lavoro, di osservare il Sabato e le altre festività religiose (articoli 3 e 4). Sempre a proposito di prescrizioni religiose, vanno ricordati (articoli 5, 9, 15): il diritto degli ebrei che vivono in collettività (militari, ricoverati in ospedali, carcerati) di osservare, con l’assistenza della Comunità e senza oneri per le istituzioni in cui si trovano, le prescrizioni in materia alimentare; l’assistenza spirituale ai militari ebrei e il loro diritto di partecipare alle attività di culto; l’accesso dei ministri di culto negli ospedali, case di cura o di riposo e nelle carceri; la perpetuità delle sepolture; la conferma del diritto della macellazione rituale.

L’Intesa sancisce il diritto degli ebrei di non seguire gli insegnamenti religiosi impartiti nella scuola pubblica. Per tutelare effettivamente questo diritto, è stabilito che l’insegnamento deve aver luogo secondo orari e secondo modalità che non si risolvano in una discriminazione per chi compie tale scelta.

L’articolo 13 riconosce, con la trascrizione, effetti civili al matrimonio celebrato in Italia secondo il rito ebraico. Esso costituisce un radicale cambiamento rispetto alla situazione posta dalla legge sui “culti ammessi” del 1929 che non riconosceva valore al matrimonio religioso ebraico.

Con l’articolo 16 per la tutela del patrimonio artistico, storico e culturale dell’ebraismo italiano, è sancito il principio della collaborazione dello Stato con l’Unione e con le Comunità.

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lunedì 25 gennaio 2016

ORTLES

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Il nome della montagna, attestato nel 1770 come Ortles spiz der höchste im ganzen Tyrol (Anich), nel 1804 come Orteles, nel 1840 come Ortlesspitze e nel 1900 come Ortler, deriva dai due masi Außerortl e Innerortl a Solda. La montagna fu chiamata des Ortles Berg, la cima del maso Ortl (il cui genitivo è "Ortls"), il cui nome a sua volta è da rincondurre ai patronimici tedeschi "Ortnit" o "Ortwin" di cui è un diminutivo. Ne è comprova la forma dialettale antica per la montagna, che risulta essere proprio Ortl.

L'Ortles è una delle montagne più imponenti delle Alpi Retiche meridionali e rappresenta il punto culminante del massiccio. Con i suoi 3905 metri di quota, risulta essere la più alta vetta della provincia autonoma di Bolzano e della regione Trentino-Alto Adige. In passato, prima che l'Alto Adige/Südtirol venisse accorpato al territorio italiano nel 1919, era anche la più alta vetta dell'Impero Austroungarico (oggi la montagna più alta dell'Austria è il Grossglockner). Per un breve periodo, prima che la sua altezza fosse misurata, fu erroneamente ritenuta la terza montagna delle Alpi.

La montagna si trova completamente in territorio altoatesino (e non al confine con la Lombardia) poiché, a differenza delle altre maggiori vette del massiccio, quali il Gran Zebrù o il Cevedale, essa non si eleva sulla dorsale principale bensì sul crinale che divide le valli di Trafoi e di Solda.

L'Ortles è costituito, come il vicino Monte Zebrù e il Gran Zebrù, da un basamento cristallino (filladi quarzifere) appartenente alle cosiddette falde austroalpine, unità costitutiva dell'ossatura delle Alpi Centrali. Sopra il basamento cristallino si elevano gli edifici sommitali, costituiti da dolomia leggermente metamorfica riconoscibile per il colore chiaro e caratterizzata da una certa resistenza all'erosione (al contrario delle più tenere rocce del basamento che danno luogo a pendii più dolci).

Nel 2011, all'interno del progetto Ortler Ice Core, l'Università di Ohio assieme all'Ufficio Idrografico della Provincia Automoma di Bolzano ha effettuato dei carotaggi sul ghiacciaio dell'Ortles per analizzare la struttura del ghiaccio ed effettuare ricerche climatologiche sul lungo periodo.

La storia dell'alpinismo sull'Ortles inizia nella primavera del 1804. In quel periodo, giunse voce nelle valli ai piedi della montagna (all'epoca quasi isolate, non essendo stata ancora costruita la strada del Passo dello Stelvio) di una lauta ricompensa che sarebbe stata assegnata dall'arciduca Giovanni d'Austria (fratello dell'allora imperatore d'Austria Francesco II) a chi avesse scalato l'Ortles, la vetta più alta del Tirolo e di tutto l'impero.

Il bando fu accettato dal dottor Johannes Nepomuk Gebhard, botanico di Salisburgo, ufficiale delle truppe alpine e topografo al servizio dell'Impero austriaco. Tentò tutta l'estate del 1804, quasi ogni giorno, usufruendo anche dell'aiuto di numerose guide locali, ma mai raggiunse la vetta. Pochi giorni prima del deludente ritorno, il 26 settembre, un cacciatore di camosci della Val Passiria, Joseph Pichler (detto Pseirer Josele, Giuseppe della Passiria), si propose di aiutarlo. A Pichler vennero assegnati due compagni di spedizione, che l'ufficiale imperiale incaricato di certificare l'ascensione aveva messo a disposizione in veste di accompagnatori.
Poco dopo la mezzanotte del giorno successivo, la squadra si mosse dalle Tre Fontane Sacre poste a monte di Trafoi, risalì il Bergl e la vedretta inferiore dell'Ortles, ai piedi delle infide pareti delle Hintere Waldn, e guadagnando infine la sommità di queste ultime (passando per il difficile "colatoio rosso") per sbucare sulle distese nevose della vedretta superiore, a pochi passi dalla vetta. La cima fu raggiunta alle 10 del mattino, dopodiché il gruppo iniziò la discesa, per la medesima via di salita, che si concluse alle 8 di sera.

Gebhard dovette aspettare l'anno successivo per raggiungere la vetta, sempre aiutato dal Pichler, che da allora fu la guida ufficiale dell'Ortles. Il 28 agosto 1805 fu issata sulla cima una grande bandiera di lino visibile anche dal fondovalle, e il 13 settembre Gebhard ordinò di portare in vetta un palo di legno ricoperto di paglia e imbevuto di pece, per appiccare in cima un falò allo scopo di convincere la popolazione valligiana, in parte ancora incredula, dell'avvenuta conquista dell'Ortles. L'Ortles fu affrontato varie volte negli anni successivi, anche per vie differenti, attrezzate da Pichler stesso.

La via normale nord fu aperta dal celebre alpinista inglese Francis Fox Tuckett nel 1864 e ripercorsa l'anno successivo da Julius Payer ed Edmund von Mojsicovics, fondatore dell'Oesterreichischer Alpenverein (il club alpino austriaco). Da allora nuove vie furono aperte, su tutti i versanti (tra cui i difficili canaloni ad est e a sud e l'aspra cresta dell'Hochjoch) e con difficoltà sempre crescenti.

La grandiosa parete nord, tra i maggiori itinerari su ghiaccio delle Alpi orientali, fu vinta nel 1931 da Franz Schmid (che assieme al fratello Toni fu il primo a salire la parete nord del Cervino). Nel 1963 Peter Holl ed Helmut Witt aprirono una difficile via sul lato destro della parete nord, superando difficili placche rocciose e vincendo direttamente il seracco del ghiacciaio nel suo punto più vulnerabile, poi Reinhold e Günther Messner ne superarono il seracco centrale nel 1964, mentre nel 1979 K. Jeschke e M. Burtschler la discesero sugli sci.

Aperta da Tuckett e compagni nel 1864, la via normale sul versante nord inizia al Rifugio Payer, raggiungibile da Solda (Sulden in tedesco), unico centro abitato della valle omonima. È ritenuta la più facile tra tutte le vie normali che salgono alla vetta dell'Ortles, ma presenta comunque diverse asperità e richiede buone doti alpinistiche, adeguata attrezzatura e preparazione, nonché esperienza, soprattutto a causa dei pericoli oggettivi comportati dall'attraversamento del ghiacciaio.
Il grado di difficoltà dell'itinerario varia a seconda dei tratti. Vi sono passaggi attrezzati su roccia (EEA), salita su terreno misto di roccia, neve o ghiaccio (AG), passaggi su roccia non attrezzati (III). Globalmente la salita è quotata PD+ e richiede in media 4 ore.

Dal rifugio, posto a quota 3029 m, si risale su terreno misto la cresta nord di Punta Tabaretta (passaggi di facile arrampicata su roccette) prima di affrontare la prima parete vera e propria, attrezzata con scale e catene (una sorta di via ferrata) e alta circa 60 metri, che precede una serie di placche abbastanza esposte, ma comunque attrezzate, prima di approdare sul ghiacciaio a quota 3204 metri. Lo si attraversa verso destra risalendo poi un ripido canale ghiacciato (Eisrinne). Qui il ritiro del ghiacciaio negli ultimi tempi ha lasciato scoperta una parete di roccia di circa 15 metri che è necessario superare in arrampicata libera (III grado) giungendo quindi al Bivacco Lombardi (3316 m). Dal bivacco la pendenza del ghiacciaio è inizialmente non trascurabile (40°) e sulla sua superficie compaiono numerosi crepacci, per divenire poi più dolce e regolare, fino alla vetta.

La via di discesa ripercorre a ritroso il medesimo itinerario.

La via del Coston di Dentro (in tedesco Hintergrat) è una delle vie più frequentate per la salita all'Ortles e anche una delle prime ad essere aperte (Joseph Pichler l'affrontò per la prima volta nel 1805, un anno dopo la prima salita assoluta sulla vetta) ma è più lunga e difficile rispetto alla normale nord. Si sviluppa per circa 1250 m di dislivello dal rifugio Coston (Hintergrathütte secondo la toponomastica locale) situato a 2661 m di quota e raggiungibile da Solda in due ore e mezza di cammino mediante un comodo sentiero.
La via si sviluppa su roccia (II e III grado, con due passaggi di IV grado inferiore) e su neve (pendenza massima 40°), ed è classificabile nel suo complesso come AD- (abbastanza difficile). Le guide stimano un tempo di percorrenza di 5 o 6 ore calcolate a partire dal rifugio.

Esistono altre vie molto remunerative all'Ortles tutte di elevato impegno alpinistico e con elevati pericoli oggettivi tra cui:

La via Holl-Witt è uno dei più ardui itinerari di misto delle Alpi Orientali che s'insinua sulle placche tondeggianti a destra della via Ertl cercandone i punti meno pericolosi; la roccia è friabile e ci sono vari salti verticali di ghiaccio compreso il più arduo che è il seracco sommitale della Vedretta Alta dell'Ortles che viene scalato sulla sinistra nel punto dove è più stretto. La via è stata aperta nel 1963 da Peter Holl ed Helmut Witt, per un totale di 1300 m di cui 600 di via nuova, con passaggi di IV e V in roccia e vari tratti di ghiaccio a 90° compreso il seracco di circa 40 m, ED.

Il grande scivolo nord di ghiaccio dell'Ortles è stato vinto nel 1931 dalla cordata di Hans Ertl e Franz Schmitt e costituisce la più grandiosa ascensione su ghiaccio delle Alpi Orientali, molto ripetuta ma anche temuta per le scariche di sassi e ghiaccio lungo l'impluvio. Le dimensioni della parete sono notevoli, 1300 m (una delle più alte pareti delle Alpi) e la pendenza varia a seconda delle condizioni dei seracchi a 2/3 del tragitto (da 55° a 70°, con qualche tratto più inclinato, TD). Due varianti sono state tracciate nella parte mediana lungo i seracchi, oggi notevolmente ridotti, ma che spesso vengono ripercorse per aggiungere impegno alla via: la variante dei fratelli Messner del 1964 che vince i muri di ghiaccio direttamente con pendenze di 80° e un tratto a 90°, la variante Gilardoni-Zappa del 1968 che invece li aggira a sinistra cn pendenze di 70°-75°.

La prima salita  della parete Nord-Ovest è stata compiuta dalle guide alpine Eraldo Meraldi e Giuseppe 'Popi' Miotti nel febbraio del 1989. La scelta del periodo invernale fu dovuta al tentativo di minimizzare i pericoli di eventuali crolli di ghiaccio dall'immenso seracco che sovrasta gran parte della linea di salita e anche dalla notevole friabilità dei tratti rocciosi. Partiti da Tre Fontane in un unico balzo i due raggiunsero la fine delle difficoltà già verso sera bivaccando in un crepaccio un centinaio di metri sotto la cima. La maggiore difficoltà fu data dal superamento di una lunga cascata ghiacciata che consente l'unica via d'uscita dal grande anfiteatro sottostante il seracco (85°).

La cresta nord-nord-est, salita per la prima volta nel 1904 da Heinrich Rothbock con Franz Pinggera e Friederich Angerer è la cresta più difficile dell'Ortles, si sviluppa per oltre 1300 m, alternando tratti in roccia di IV e pendii di ghiaccio a 50°, attualmente la difficoltà è intorno a D+.

Marltgrat è la via di cresta più grandiosa all'Ortles ma anche più temuta per la friabilità della roccia salita nel 1889 da Otto Fischer, Louis Friedmann, Edmund Matasek, Robert Hans Schmitt e Albert von Krafft. Ha uno sviluppo di 2200 m ed è valutata D.

Il canalone est è un'altra via di ghiaccio grandiosa ma è anche la più pericolosa dell'Ortles, salibile in poche occasioni particolarmente favorevoli della montagna, percorso la prima volta da Otto Schuck, Peter Dangl e Peter Reinstadler nel 1879. È valutato D- con pendii fino a 55° e rocce di III UIAA per un dislivello di 1100 m.

Minnigeroderinne è una bella ascensione su ghiaccio nel cuore della parete sud dell'Ortles aperta da Baptist Minnigerode con Alois e Johann Pinggera nel 1879. Lo stesso Minnigerode aprì nel 1881 una variante diretta per un canale secondario alla cima. Ripetute entrambe. Il canale principale termina sull'Hintergrat ed è alto 600 m con pendii fino a 60°, la via diretta ha 300 m in più e termina dritta in vetta.

Sulla parete ovest dell'Ortles, la più nascosta, selvaggia ed imponente sono stati aperti diversi itinerari, tra cui uno firmato Soldà e Pirovano che non sono mai stati ripetuti, su roccia in parte friabile e sotto la minaccia delle slavine.

Meranerweg è un itinerario di cresta aperto da Oster e Joseph Mazagg nel 1877 che si sviluppa per 1700 m e valutato AD- . Attrezzato già nel 1910, abbandonato per un lungo periodo è ora stato nuovamente restaurato. La via parte dal Rifugio Borletti, sale per cresta al Corno Plaies e da qui sale sul ghiacciaio fino in cima.

Nei tempi passati, quando gli uomini erano ancora agli albori della loro storia, la Val Venosta era popolata dai giganti che abitavano grotte inaccessibili.

Tra questa mitica gente vi era un giovine di nome Ortles che aveva come particolarità quella di crescere ogni giorno di più, tanto da superare ben presto tutti gli altri giganti. La sua statura sembrava non arrestarsi mai, ma con essa cresceva anche la sua superbia e guardava il mondo attorno con disprezzo perché lo vedeva piccino piccino.

Venne un giorno però che uno gnomo molto furbo, per punire l’arroganza del gigante, si arrampicò sulle gambe dell’Ortles, poi sulle braccia, sulle spalle e alla fine sulla testa provocandogli un gran solletico. Poi prese a cantare, tra capriole e danze questa filastrocca:

"Povero gigante Ortles, quanto sei piccolo,
più piccolo del piccino Gnomo,
sei cresciuto per mille lunghi anni
e il tuo naso presuntuoso
raggiunge persino il cielo,
ma a cosa serve, dimmi a cosa serve,
se lo gnomo Nudelhopf
qui sulla tua testa
è più grande di te"

Oh, l’orgoglio si punse di questa audace beffa e tentava di afferrare il piccolo nano, ma le braccia e le gambe gli sembravano di pietra e, mentre si lamentava e piangeva della sua disgrazia, anche il piccolo cervello ed il resto del corpo si trasformavano piano piano in ghiaccio e roccia rimanendo così per l’eternità.

Da quel giorno si può ammirare in Val Martello la magnificenza del Monte Ortles, il più alto di tutto l’Alto Adige.


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domenica 24 gennaio 2016

LE BABY SQUILLO

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Un vortice di sesso, droga, soldi e Internet che travolge l'Italia, tra scandalo e morbosa curiosità, illuminando una fascia oscura della società italiana. Adulti che cercano emozioni forti, ragazzine e ragazzini che vivono il sesso in una maniera inedita. Pura merce di scambio, nessun valore, nemmeno quello della trasgressione che fu. Dalla Tv ai giornali, gli esperti si scatenano sul fenomeno emerso in tutta la sua forza. Marida Lombardo Piola, giornalista e scrittrice (Facciamolo a skuola), che da 10 anni racconta il fenomeno della prostituzione minorile in Italia commenta: "Una storia normale, tragicamente normale. Di quelle che si ripetono, con poche variazioni sul tema, in molti licei e nelle scuole medie". E il sociologo Mauro Magatti afferma: "E' il segno del fallimento di due generazioni, un brivido forte per sostituire l'assenza di progetti e prospettive".

Il sesso ha perso qualsiasi valore e significato. "E' come mangiare un hamburger, fare un po' di ginnastica. Anzi, per metterla sul piano del guadagno, è molto meglio che fare la babysitter o un'esperienza di lavoro. Se andiamo in azienda per uno stage - dicevano le ragazze in tribunale con assoluta tranquillità -  guadagniamo 20-30 euro in una giornata; se spacciamo o ci prostituiamo, prendiamo 200 euro in poche ore".

Un cambiamento culturale che "è coinciso anche con  il proliferare di tante trasmissioni tv e di altrettanti scandali legati a politica e festini, a cui parte dell'opinione pubblica si è letteralmente abituata. Non solo le donne hanno interiorizzato il valore del loro corpo come prevalente su quello della persona, ma anche gli uomini sono rimasti sempre più ingabbiati nell'idea che l'unica cosa che possono permettersi nella vita è un corpo da pagare, usare e buttare".

A differenza delle baby squillo, le geishe e le cortigiane del passato avevano un valore come donne: "Erano belle, colte, conoscevano l'arte della femminilità e della seduzione, dimostravano empatia, erano ammirate e tenute in considerazione. Pensiamo alla Signora delle Camelie. Avevano qualità e la chiedevano in cambio. Oggi queste bambine e ragazze sono letteralmente depauperate".

L'idea di sesso e sessualità ovviamente subisce un'evoluzione di tempi e luoghi. "Pensiamo al Nepal: si fa sesso nel tempio perché il sesso è sacro". Rispetto al passato, nella cultura occidentale è invece caduto il tabù: "Ma il sesso precoce di pochi decenni fa aveva il senso della scoperta, della trasgressione, della voglia di bruciare le tappe e di diventare grandi. Aveva un significato importante". Oggi viene vissuto invece senza coinvolgimento, senza emozioni: "Siamo alla più totale anaffettività. La gravità di quel che sta succedendo è l'allontanamento forse definitivo delle nuove generazioni dalla possibilità di amare ed essere amati".

Nessun giudizio morale, ma uno sguardo di "tenerezza" verso queste ragazzine:  "Ci mostrano a specchio i limiti della nostra capacità di educatori e ci lanciano un'ultima richiesta di aiuto. Va recuperata l'idea del progettarsi come persone e del conquistare le cose che si desiderano. Altrimenti si butta alle ortiche il bisogno di essere animali sociali, come diceva Aristotele, ovvero individui felici nella relazione. Così è in atto il tradimento del valore umano".



"Meglio andare con i grandi che con i ragazzini". Lo scandalo delle baby escort. Una teenager racconta i motivi della sua scelta, del perché frequentare gente adulta invece dei ragazzi della sua età.

"Se ci stai con i tuoi coetanei - spiega - rischi che, quando tutto è finito, quelli vadano in giro a sputtanarti con i loro amici. E sai che bella vita fai dopo. Con i grandi no, questo rischio non c’è. E poi, alla fine, che c’era di male in ciò che facevo?". La giovane entra nel dettaglio della sua attività, che le permetteva di guadagnare più della sua famiglia, di vivere in una casa da sola e in modo indipendente.

"Ma la mia casa non era l'alcova del mio lavoro, andavo da un mio amico che mi prestava la sua. In cambio io pagavo le spese. Altre volte andavo direttamente dai clienti". Una attività tenuta segreta a tutti. "Per carità, nessuno dei miei amici sapeva nulla. E nessuno deve sapere nulla. Tantomeno i miei genitori. Ho commesso un errore e se in città sapessero... Il mio fidanzato? Quando è uscito lo scandalo forse ha intuito, ma è rimasto al mio fianco, senza fare domande". Non scarica responsabilità su nessuno, ancor meno sulla sua amica più grande. "Non mi ha adescata lei, siamo entrate insieme in questo giro. Insieme abbiamo fatto tutto, era il nostro segreto".

Sul rapporto con i clienti, la baby escort li difende. "Non sapevano che fossi minorenne, il loro unico errore è stato quello di non chiedermi la carta d'identità. Ma erano tutte brave persone, con famiglia e mi trattavano bene. Ho sempre scelto le persone con cui stare. Quelli che non mi piacevano li allontanavo. Avevo 16 anni è vero, ma l'abbigliamento spesso inganna". E le foto osé su facebook? "Un errore anche quello, devo cancellarle".

"C’è soltanto una persona di cui ho paura davvero. Che potrebbe rovinarmi la vita. Ma non è un cliente". Lo stesso che le procurava la cocaina. "Ora ho smesso, non la uso più", dice.

Un esercito silenzioso, sotterraneo. Ragazzine, perché di questo stiamo parlando, convinte di saper gestire un gioco tanto più grande di loro, ma vittime. Piccole donne che all’improvviso passano dalla tracolla da bancarella alla borsa griffata. Dal vecchio telefonino allo smartphone ultimo modello. Dalla tessera dell’autobus al taxi. Una vita dorata e senza sforzo, ma solo in apparenza. Perché il prezzo per tutto questo è vendersi. Vendere corpo e dignità a uomini adulti pronti a tutto per andare con una minorenne. Già, perché delle 120 mila prostitute censite in Italia, 20 mila non hanno compiuto 18 anni. Secondo il Gruppo Abele, l’associazione fondata a Torino da don Luigi Ciotti, le più piccole hanno l’età da terza media.

Stime, abbiamo detto. Perché quello delle piccole squillo italiane è un mondo quasi del tutto sommerso. Ci si prostituisce in appartamento, al chiuso.

«Dicevo di avere 20 anni e mi hanno creduta. Meglio loro del coetaneo che poi mette le tue foto su Internet».
«Il Web abbassa la percezione del reato, anche quando si tratta di prostituzione minorile», spiega Yasmin Abo Loha, segretario generale della onlus Ecpat Italia, che si batte per la difesa dei minori da prostituzione, turismo sessuale e pedopornografia. «Le ragazze non si vendono per fame, l’idea è che non siano vittime, ma seduttrici consapevoli». Non è così naturalmente. Qualunque atto sessuale di un adulto con un minore in cambio di un beneficio, che sia denaro, una ricarica del telefono, un regalo o un voto migliore a scuola, è prostituzione minorile», continua Abo Loha.

Oggi tutto comincia a scuola. «Si inizia a mercificare il proprio corpo con i compagni di classe ancora alle medie», avverte Marida Lombardo Pijola  «Allora la discoteca frequentata al pomeriggio era l’inizio di questa china pericolosa. Oggi non serve più, bastano i bagni della scuola. E la verginità è un marchio d’infamia del quale liberarsi entro il primo anno delle superiori». Giocano a fare le grandi, queste ragazzine, senza sapere di essere comunque manovrate. «Anche dai clienti», continua la Lombardo Pijola, «dai quali cercano attenzione, carezze, un riconoscimento per risollevare la propria autostima, perché sono disperatamente sole. Il loro mondo di riferimento è il gruppo dei pari. E lì sei accettata e popolare solo se dimostri un potere d’acquisto adeguato». Ed ecco che i vestiti firmati, i drink offerti nei locali, i make up di marca diventano un lasciapassare. «E invece dovrebbero essere un segnale, anzi, una sirena d’allarme per i loro genitori», avverte Luca Bernardo, direttore del Dipartimento materno-infantile dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano e responsabile dell’Ambulatorio per il disagio dell’adolescente. «La verità è che gli adulti sono distratti e non vogliono vedere cosa sta succedendo ai figli, non solo alle figlie. Perché magari in numero inferiore, ma è chiaro che si prostituiscono anche i maschi. Così tra le famiglie che non si accorgono e i clienti che ovviamente non hanno interesse a parlare, il fenomeno resta avvolto nell’omertà». Il meccanismo è sempre quello: «Questi adolescenti pensano di scegliere in autonomia, visto che nessuno sfruttatore ufficialmente li picchia o li maltratta come accade alle squillo di strada. E invece in quel disvalore per il proprio corpo comincia la tortura peggiore: quella psicologica». Danni di cui nessuno al momento è consapevole. «Il corpo è un accessorio del tutto separato dalle emozioni», riflette la Lombardo Pijola. «Sul sesso sanno tutto, è l’educazione sentimentale che manca: allora se un rapporto intimo non mi regala nessun sentimento, perché non monetizzarlo con gli adulti?».



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sabato 23 gennaio 2016

CEVEDALE

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Compreso nel Parco nazionale dello Stelvio, il Cevedale è la terza vetta più alta del massiccio, dopo l'Ortles e il Gran Zebrù. La montagna si colloca al confine tra due regioni: la Lombardia e il Trentino-Alto Adige. La sommità della montagna è costituita dalla cima principale e da due anticime, poste a nord-est rispetto ad essa e collegate da una cresta affilata. La cima più alta è collocata esattamente sul confine tra le province di Sondrio e Trento: è il punto più alto del Trentino.

L'anticima meridionale ("Cima Cevedale", oppure "Cevedale II", oppure Südliche Zufallspitze in tedesco) è alta 3.769 m e segna il punto in cui si incontrano le province di Sondrio, Trento e Bolzano. Poco più bassa è l'anticima settentrionale (Nördliche Zufallspitze in tedesco), quotata 3.757 m.

Il Cevedale costituisce un nodo orografico importante, in quanto è il punto di convergenza delle dorsali montuose che dividono la Val de la Mare (ramo laterale dell'alta Val di Peio), la Val Cedec (tributaria della Valfurva), l'alta val Martello.

Geologicamente, questa parte del massiccio dell'Ortles-Cevedale fa parte delle cosiddette falde austroalpine, che caratterizzano gran parte dell'edificio alpino a nord della Linea Insubrica. Si tratta di rocce antichissime, che hanno subito grandi sollecitazioni e trasformazioni nel corso dell'orogenesi alpina. Hanno principalmente struttura scistosa e sono facilmente attaccabili dall'erosione, e ciò spiega la morfologia dolce e poco impervia del rilievo. Come per la maggior parte delle vette che si elevano al di sopra della dorsale principale del massiccio, la varietà di roccia più diffusa sono filladi quarzifere.

La salita normale dal versante trentino inizia da "Malga Mare" in Val di Peio, a quota 2.029. Il facile sentiero, passando per il rifugio Larcher porta al Passo della Forcola a quota 3.032 m. Da qui la via di salita procede lungo la facile cresta rocciosa con qualche tratto di neve fino a raggiungere la cima minore del Cevedale a quota 3.757  m (Zufallspitze) sormontata da una croce. Un attraversamento del ghiacciaio, con qualche breve tratto aereo, conduce alla cima principale a quota 3.769 m. Il tempo di salita è di circa 5 ore.

La storia alpinistica indica la prima salita alla cima minore del Cevedale il 13 agosto 1864, da parte di E. Mojsisowicz e S.Janiger dal versante nord, partendo dal "Passo del Cevedale". La salita alla cima principale porta la data del 7 settembre 1865 da parte di J. Payer, J. Pinggerra e J. Reinstadler.

La scalata del Cevedale è facile da tutti i versanti in quanto la montagna presenta pendii di modesta pendenza che richiedono allenamento fisico ed esperienza di ghiacciaio. I più gettonati sono:

Via normale: è l'itinerario più seguito che percorre il ghiacciaio dal rifugio Casati senza difficoltà di rilievo e pendii di modesta inclinazione, ritenuta F+.
cresta nord: è il crinale delle due cime del Cevedale percorso integralmente da Oskar Schuster con Johann Reinstadler e Franz Zischig nel 1889, PD+.
Parete sud-ovest: è l'unica parete del Monte Cevedale salita da Aldo Bonacossa e Carlo Prochownick nel 1914 lungo un canale nevoso di modesta pendenza. È isolata e faticosa e raramente percorsa, AD.
Traversata delle 13 Cime: è uno degli itinerari in cresta più lunghi e spettacolari delle Alpi, compiuto nel 1891 da T. Christommannos, A. von Krafft e R. H. Schmitt. Parte dal Pizzo Tresero ed attraversa tutte le cime del Ghiacciaio dei Forni per una lunghezza complessiva di 17 km e difficoltà complessiva AD.


LEGGI ANCHE :  http://asiamicky.blogspot.it/2015/12/la-valtellina.html






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venerdì 22 gennaio 2016

LA VAL VIOLA



Fra Isolaccia e Semogo si apre a occidente la bella e alpestre Valle Viola, la quale si dirama in alto in quattro vallette minori, la Val Verva per cui si scende in Val Grosina, la Valle di Dosdè e la Val Viola Bormina che aprono il passo alla Valle di Campo e a Poschiavo, e la Valle di Misestra che mette alla Valle di Livigno. Da Semogo vedonsi, svolte in ampio cerchio, pressoché tutte le sue cime dirupate, e le pareti di ghiaccio scosceso e infranto che scendono da esse, le quali, alternate come sono da nere rupi frastagliate, offrono mirabili variazioni di colore. Sono cime o ghiacciai che gareggiano con quelli tanto più celebrati del vicino Bernina, e che sono tuttora assai di rado e da pochi visitati. Risalgono la Valle Viola due buoni sentieri lungo le due sponde del torrente, a mezza costa. A quello che segue la sponda destra si accede direttamente da Isolaccia. Esso girando i seni di Vai Elia (Lia) e di Cardonè, entra in Val Verva. A questa valle, che giace tra gli ampi fianchi e i dirupati speroni del Piz Dosdè o della Cima dei Piazzi, e che è percorsa da un torrente il quale con molto fragore si precipita in varie cascate tra angusti burroni, si può giungere seguendo un altro sentiero, più lungo ma assai più pittoresco. Esso sale da Isolaccia all'alta Val Elia, poi sormonta lo sperone ad occidente ed entra nel Vallone di Cardonè ricco di ghiacciai scoscesi, di morene d'ogni maniera, di rocce levigate e striate, di burroni e caverne, di laghetti e cadute d'acqua, quindi attraversa codesto vallone per ripide frane sotto orridi dirupi, e, raggiunta una bocchetta facile a discernersi, scende lungo altre frane l’erta costa di Val Verva. Dalle Cascine di Verva un comodo sentiero conduce in un'ora e mezzo al laghetto di Verva, e al vicino passo che metto in Val Grosina, lungo la quale in circa tre ore si può scendere a Grosio o Grosotto. Dal fondo di Val Verva, salendo la facile vedretta che si stende al sud della Cima dei Piazzi e poi scalando la cresta scoscesa, si può, per altri dirupi e vedrette, scendere in Valle Campaccio e quindi a Ceppina.
Scendendo da Semogo direttamente verso il torrente e varcandolo si va lungo una buona strada mulattiera, attraverso boschi, al casolare di S. Carlo, su una sporgenza del Monte Arnoga in mezzo ai prati ridenti, quindi allo Cascine di Permoglio, poi a quelle più lontane di Campo e di Crapena e al Ponte della Minestra sul torrente che scende di fronte a Val Verva. Da questo ponte, e precisamente lungo il sentiero che un po' più innanzi della croce sale a destra, si può in un'ora e mezzo giungere all' alpe Funera. Di là continuando la comoda salita lungo le falde delle Coste di Zembrasca e piegando un po' a sinistra, si arriva, dopo aver sormontato gandoni e alcune non difficili rupi, al giogo che è al nord del Monte Zembrasca; dal qual giogo, rasentando il lembo estremo d'un superbo ghiacciaio, si può scendere nella Valle delle Mine o di Tresenda, e per essa a quella di Livigno a un'ora di cammino sopra la borgata. Se invece dal Ponte della Minestra si continua a risalire la Val Viola per le Coste d'Altomera si giunge alla Val Viola Bormina, e per essa al colle che separa i due versanti, da cui si ha superba veduta sulle cime circostanti e sul Bernina. Da Semogo a questo colle occorrono circa quattro ore e mezzo di cammino. La discesa lungo la Val Viola Poschiavina può farsi per vari sentieri; il più comodo è quello che piega a destra seguendo la sponda sino alla parte superiore dell'Alpe Toson, e poi discendo alle cascina. Fra rialzi dovuti ad antiche morene stan qui vari laghetti tra cui quello bellissimo di Saosseo (2163 m.). In meno di cinque ore, per la Valle di Campo, si può discendere a Pisciadello sulla strada del Bernina e a Poschiavo.
Dalle Baite di Dosdè, a cui si può giungere salendo la Val Viola lungo l'una o l'altra sponda del torrente, seguendo un sentiero che s'addentra nella Val di Dosdé o poi ascendendo ripide frane e rupi scoscese è possibile arrivare a una bocchetta vicina alla punta più alta del Corno Dosdé, la punta a lama; di là scivolando lungo una spaccatura di roccia levigata o scalando rupi asprissime ed erte frane si può, con grande difficoltà e non senza pericoli, giungere egualmente all'Alpe Toson in Val Viola Poschiavina. Meno malagevole e pericolosa è la gita nel senso opposto per le minori difficoltà che presenta la salita della spaccatura di roccia levigata che non la sua discesa. Se si risale inveco dal fondo della Val di Dosdé la Vedretta di Val Viola, si può per la vedretta medesima che si prolunga verso la Valle Vermolera, scendere, senza molte difficoltà, in questa stessa vallo ricca di laghi montani, e per essa nella Val Grosina.

Tutta la valle è  incastonata in una serie di cime, tutte oltre i tremila metri, che creano una cornice naturale che offre dei panorami mozzafiato rendendola veramente interessante soprattutto dal punto di vista paesaggistico.

E’ possibile compiere l’itinerario che attraversa la valle compierlo anche con la mountain bike.

Con tutta probabilità la Val Viola deve il suo nome ad un errore dei cartografi che, nell’ottocento, scambiarono il nome “Albiola” (derivante dal termine latino albus = bianco) con “Viola”che rimase.

Il versante bormino della Val Viola termina, dopo circa 11 km, con l’omonimo Passo il quale permette di dominare il panorama della Val Viola Poschiavina, in territorio elvetico.

Confluiscono in essa numerose altre vallate che permettono una serie infinita di possibili escursioni: oltre al menzionato Passo di Val Viola che consente di raggiungere la Val Viola Poschiavina (Val di Campo), lungo il suo percorso si trovano anche i sentieri che conducono al passo della Vallaccia che la collega alla Valle del Foscagno, al passo di Dosdé che sbocca nella Val d'Avedo e al passo di Verva che immette nella omonima valle collegata con la Val Grosina.

Il percorso è costellato di gruppi di tipiche baite montane interamente realizzate in pietra e legno: gli insediamenti più grandi e meglio conservati sono in località Dosso, Premoglio, Campo, Prato, Paluetta, Caprena, Stagimel, Caricc e Altumeira ove è ancora possibile vedere le abitazioni che venivano utilizzate dai contadini per trascorrere l’estate al pascolo con il bestiame e dedicarsi alla coltivazione del grano e soprattutto della segale, molto diffusa in questa zona.

La vegetazione della Val Viola è quella caratteristica degli ambienti montani d’alta quota: la flora è composta da colorati rododendri, profumate genziane, anemoni e numerosi fiori alpini.

Per quanto riguarda la fauna, oltre agli ungulati, la zona è popolata in maniera massiccia dalle marmotte, i cui sonori fischi echeggiano in tutta la valle.

La morfologia della Val Viola, orientata a Sud-Ovest, è quella tipica delle vallate alpine oggetto di erosione glaciale: è modellata da grandi ripiani a cui si alternano piccoli salti che immettono nuovamente in conche superiori molto ampie. L’origine della valle, dovuta al lento e inesorabile lavoro dei grandi ghiacciai che vi erano un tempo, è testimoniata anche dalle stratificazioni che si trovano sui suoi costoni e dalla conformazione e forma delle rocce che vi si trovano.

All’inizio della valle, all’incirca all’altezza in cui in essa confluisce la Val Verva, si origina il torrente omonimo che attraversa interamente la Valdidentro per poi immettersi nell’Adda.

Sull’importanza storica della valle, ecco un interessantissimo passo tratto dall’altrettanto interessante volumetto di Giovanni Peretti “Rifugi alpini, bivacchi e itinerari scelti in alta Valtellina” (Alpinia Editrice. Bormio, 1987): “Un tempo rivestiva grande interesse geografico, che le era conferito dalla relativa facilità con la quale era possibile da Tirano giungere alla Valle di Fraéle evitando Bormio, e quindi il suo Forte dei Bagni, oltre che quello di Serravalle.
Questa cosa ebbe infatti rilevante importanza nelle battaglie Franco-Austriache del 1635. Ma una notizia storica molto importante e quasi sconosciuta è quella del passaggio in questa Valle di uno dei più famosi e bravi orafi e scultori italiani: Benvenuto Cellini. Il turbolento e litigioso artista fu chiamato, nel 1540, alla Corte di Francesco I a Parigi, che lo tolse dal carcere di Castel S. Angelo nel quale lo aveva rinchiuso il Papa Paolo III, e decise di raggiungere la Francia per la via di Ferrara e passando per le nostre montagne.
Queste montagne appartennero ed appartengono al comune di Valdidentro; i loro ricchi pascoli costituivano uno dei punti di forza dell’economia di questa comunità. Appartenevano al comune, infatti, i pascoli di Altumera, Zembrasca, Zattarona, Stagimel, Arnoga, con un’estensione complessiva di circa 700 ettari; ed ancora Zerbo, con 80 ettari, e Funera, con 13 ettari.


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