mercoledì 29 marzo 2017

L'EMPATIA DEL CANE



Il miglior amico dell’uomo è in grado di provare empatia e di cambiare umore entrando in sintonia con quello del suo padrone. Non è più solo una mera constatazione, lo conferma la scienza.

Ricercatori dell’Università di Pisa, guidati dalla dottoressa Elisabetta Palagi, hanno  condotto uno studio che dimostra come i cani riescono a mostrare empatia: di fronte a qualcuno che si sente afflitto tendono istintivamente a mutare l’espressione del volto uniformandosi al suo stato d’animo.

C'è un ipotesi che la capacità di percepire sentimenti altrui derivi direttamente dai loro antenati.

Nei lupi, da cui discendono i cani, l’attitudine di capirsi al volo e di imitare il comportamento dei simili è fondamentale per la loro sopravvivenza: basti pensare a come cacciano in branco in modo organizzato.

“I canidi sono specie sociali mentre invece i felini sono animali solitari e non hanno bisogno di interazioni così intense per sopravvivere: ecco perché non ci aspettiamo di trovare lo stesso comportamento empatico nei gatti domestici” sostiene Palagi.
Non solo gli esseri umani e le scimmie antropomorfe, dunque, hanno una reazione involontaria, automatica e rapidissima alla mimica facciale dei propri simili.



Empatia è la capacità umana, innata, di comprendere i processi psichici e quindi anche i sentimenti altrui.
Lo studio della University of London Goldsmiths College, condotto da D. Custance e J. Mayer, ha dimostrato che i cani sono gli animali domestici più in grado di comprende le emozioni degli esseri umani e quindi provare empatia.

La ricercatrice Custance spiega: «Dai nostri test effettuati emerge che i cani hanno una marcata propensione a registrare la tristezza nei padroni e a offrire per istinto conforto e vicinanza.».

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lunedì 27 marzo 2017

MORALE DELL'ARMA



"Per ricondurre, ed assicurare viemaggiormente il buon ordine e la pubblica tranquillità, che le passate disgustose vicende hanno poco turbata a danno de' buoni, e fedeli sudditi Nostri, abbiamo riconosciuto essere necessario di porre in esecuzione tutti que' mezzi, che possono essere confacenti per iscoprire, sottoporre al rigor della Legge i malviventi, e male intenzionati, e prevenire le perniciose conseguenze, che da soggetti di simili sorta, infesti sempre alla società, derivare ne possono a danno de' privati, e dello Stato. ( .. ) E per avere con una forza ben distribuita i mezzi più pronti, ed adatti, onde pervenire allo scopo, che ce ne siano prefissi, abbiamo onde ordinata la formazione, che si sta compiendo, di un Corpo di Militati per buona condotta, e saviezza distinti, col nome di Corpo de' Carabinieri Reali, e colle speciali prerogative, attribuzioni, ed incombenze analoghe al fine che ci siamo proposti per sempre più contribuire alla maggiore felicità dello Stato, che non può andare disgiunta dalla protezione, e difesa de' buoni e fedeli Sudditi nostri, e dalla punizione de' rei".
(Norma originaria Regie Patenti del 13 luglio 1814.)

La Morale è l’insieme dei principi generali che guidano il nostro comportamento e le nostre relazioni; l’Etica è la pratica, la modalità della loro applicazione. E’ difficile dare una definizione dell’etica perché l’etica non è solo morale ma soprattutto propensione a fare il bene, a preoccuparsi degli altri. Essere etici non significa solo fare ciò che si deve fare, ma farlo al meglio, cioè bene.
La filosofia morale in genere ascrive la capacità di distinguere il bene dal male ad alcune facoltà umane: la ragione, l’ispirazione, l’intuizione e la coscienza soprattutto. E ascrive la capacità di attualizzare un comportamento etico alla volontà, intesa come capacità di dominare la propria natura e di perseguire delle scelte.

Tutte queste facoltà, in effetti, funzionano ma a condizione che siano state educate e programmate in modo corretto. A condizione cioè che si sia ricevuto un insegnamento dell’etica e della morale, la cui funzione, come ha sostenuto Mancuso, è proprio quella di insegnarci “cosa fare e come fare” e di semplificare la nostra esistenza che di per sé presenta una complessità elevata. In altre parole di fornirci una “mappa” per poterci orientare.

L'indirizzo di comportamento morale dei Carabinieri appare ufficialmente per la prima volta nella lettera che il 6 dicembre 1822 il maggiore generale Giovanni Battista D'Oncieu de la Bàthie, Ispettore Generale dell'Arma (Comandante Generale), diresse al colonnello Giovanni Maria Cavasanti, comandante effettivo dei Carabinieri, per accompagnare il primo Regolamento Generale. La lettera così esordiva:
"Ho l'onore di trasmetterle un gran numero d'esemplari delle Regie Patenti del 12 ottobre p.p., e del Regolamento generale, approvato con lettere-patenti di S.M. in data del 16 di detto mese, relativo al servizio de' Carabinieri Reali in tutti gli Stati di S.M..
Mi valgo di questa circostanza importante, attesi i favori dei quali S.M. volle ricolmare questo degno Corpo, di cui affidò a V.S. ill.ma il comando, per riunirvi una Istruzione analitica, destinata a servire di norma ai bravi Militari che lo compongono".

" Indipendentemente dalle girate d'ispezione prescritte, dovranno gli Uffiziali visitare, più spesso che sarà loro possibile, le Stazioni sotto il loro immediato comando, e sotto la loro diretta invigilanza.
Devo qui ricordare ai signori Uffiziali, che se essi trascurassero questa parte così sostanziale dei loro doveri, dovressimo temere di vedersi introdurre nel servizio degli abusi condannevoli.
Quando un Uffiziale sarà convinto intimamente, che esso è risponsabile della condotta e del servizio de' Militari posti sotto i suoi ordini, e che da ciò dipende il suo onore e quello del Corpo, sentirà sicuramente la necessità di una vigilanza esatta sulla condotta degli uomini affidati alla sua istruzione e direzione in tutte le parti del servizio.
Questa invigilanza è tanto più necessaria, in quanto che il Corpo, che ha subito una grande variazione, e un aumento di forza, si trova in questo momento con un gran numero di reclute, che conviene istruire per renderle capaci e degne di un'Arma così distinta, e che ha resi servizi così importanti allo Stato".

Al concetto che segue si ispirerà costantemente, seppur variamente, la normativa essenziale dell'Arma:
"Il servizio della sicurezza pubblica, che più particolarmente è confidato al Corpo de' Carabinieri Reali, impone ai Militari che lo compongono, degli obblighi, i quali l'interesse generale, e la sicurezza dello Stato far loro apprezzare.
Se per una parte sono armati per raffrenare i buoni; con l'urbanità delle loro maniere concilieranno l'amore ed il rispetto al Governo che gl'impiega, e la stima generale sarà la ricompensa della loro buona condotta, egualmente che ogni volta che adempiranno ai loro doveri con esattezza e nel modo indicato dal regolamento generale, saranno accompagnati dalla pubblica considerazione".

"Conservino, lo ripeto, i Carabinieri Reali tutto il loro coraggio per prevenire, attaccare, arrestare ed inseguire i malviventi che sono denunciati, e per l'arresto de' quali o sono stati richiesti dalle Autorità, o sono autorizzati ad eseguirne il fermo dalle leggi e dalla natura stessa del loro servizio.
In tali casi devono essi farsi temere; ma quando si tratta di proteggere e mantenere la tranquillità fra i pacifici abitanti, devono allora farsi amare; senza del che giammai potranno acquistarsi quella stima, e quella considerazione, che così li precederà in tutte le loro operazioni, li faciliterà il buon successo, e li metterà in situazione di prestare dei servizi tanto importanti allo Stato, quanto preziosi alla gloria del Corpo distinto, del quale fanno parte".

Le direttive impartite dal generale D'Oncieu vennero integrate nel Regolamento - composto di ben 631 articoli, intesi ad ordinare minutamente la vita interna del Corpo - da norme di vero e proprio indirizzo morale, come quelle di cui all'art. 471 relative ai doveri religiosi, particolarmente severe, e quelle dell'art. 526 poste a base dell'intero Capitolo III sulla Disciplina e che meritano di essere riportate nella loro parte introduttiva:
Art. 526 - "La disciplina, base principale dell'ordine in ogni milizia, deve dal Corpo dei Carabinieri Reali essere considerata come elemento che lo sostiene. Suddiviso per l'istituzione sua in tutti i punti dello Stato, questo Corpo non saprebbe esistere se non trovasse nella costante emulazione, nella cieca obbedienza, nella stretta unione, nella mutua considerazione e rispetto, nell'illimitato amore dell'ordine, quell'uniformità di sentimenti, quello spirito di corpo, che quantunque separati dal centro, vi tiene tutti i membri moralmente uniti, e ne conserva l'intera forza.
Pertanto da questi principi fondamentali, ed invariabili, ogni militare del Corpo stabilisce su di essi la base di tutte le sue azioni; è geloso di conservare quella riputazione, che, anche in genere di disciplina, si è l'Arma acquistata, e che contribuisce cotanto a renderne efficace l'istruzione, mentre scrupolosamente eseguisce i propri doveri, ne cura ad un tempo l'adempimento altrui coll'esempio, colla vigilanza e con severa repressione".
I decenni che seguirono al 1822 sino alla promulgazione del secondo Regolamento Generale (1892) furono estremamente impegnativi per i Carabinieri, sia riguardo al loro impiego nelle tre Guerre Indipendenza, nella campagna di Crimea, nella lotta contro il brigantaggio, nella conquista di Roma e nelle missioni all'estero, soprattutto nel decennio di Creta, sia per le notevoli responsabilità di carattere istituzionale che vennero ad incombere su di essi, in particolare nell'organizzazione dei comandi territoriali dell'Arma nelle regioni via via annesse al Regno d'Italia.

Di pari passo con tali vicende si svolse intensamente l'attività direttiva dei Comandanti Generali, dei generali dipendenti e dei comandanti di Legione, ma già l'Arma aveva raggiunto un tale grado di compattezza morale, da far sì che la "nota preliminare" al Regolamento Generale del 1892 si limitasse alle seguenti istruzioni, rivolte ai comandanti di Legione:
" In omaggio all'iniziativa che spetta a chi è rivestito d'una carica così importante, qual'è quella del comando di una legione, si è evitato di scendere a troppi particolari, per affermare nei comandanti il diritto e il dovere di applicare il Regolamento nello spirito che lo informa, secondo le circostanze, nell'interesse dell'istruzione della truppa e degli ufficiali, e del buon andamento del servizio.
La larga iniziativa lasciata ai capi include per essi lo stretto dovere di lasciarne, nella debita proporzione, e in ragione del grado ai loro dipendenti.
Non è già col prescrivere minutamente i procedimenti dell'istruzione e l'andamento delle operazioni di servizio che deve esplicarsi l'azione direttiva di comandante di corpo. Procedere in questo modo è fare opera dannosa, perché, non lasciando mai campo agli inferiori di regolarsi secondo il proprio criterio, si riducono a meccanici esecutori di quanto è loro ordinato.
La prontezza nel decidere, il sapere operare secondo il proprio giudizio, anche quando manchino gli ordini o quelli ricevuti non corrispondano più alla situazione, il sapere affrontare coraggiosamente la responsabilità delle proprie risoluzioni - doti essenziali in chiunque sia rivestito d'un comando - non possono svilupparsi là dove tutti siano stati abituati a operare secondo prescrizioni intese a regolarne ogni minimo atto.
Nelle varie istruzioni ed operazioni dev'essere con ogni cura sviluppato negl'inferiori questo sentimento dell'iniziativa. E' uno dei doveri più importanti d'un comandante di corpo. Siano agl'inferiori ben definiti gli scopi da conseguire, sia loro affidata tutta la responsabilità della riuscita, e non se ne restringa in alcun modo la libertà di azione nella scelta dei mezzi.
La responsabilità è un grande incitamento a operare e a porre nell'adempimento dei propri doveri tutta l'attività di cui si è capaci; l'abitudine invece di aspettare che tutto sia regolato dall'alto, anzi che educare e ritemprare il carattere, lo infiacchisce".

La "nota preliminare" che accompagnò il successivo Regolamento Generale dei 1912, dopo avere ribadito per i comandanti di Legione il dovere "di lasciare a ciascuno dei propri dipendenti libertà d'azione corrispondente alle attribuzioni ed alle responsabilità di ognuno", introdusse norme che per la prima volta accomunarono ai doveri del comandante le prerogative morali del semplice carabiniere. Emergono infatti nella "nota preliminare" i seguenti principi:
"Uno stesso compito si può eseguire egualmente bene in modi assai differenti, e perciò quello prescelto dall'inferiore non deve essere censurato, purché sia razionale, quand'anche non sia conforme al modo che si sarebbe preferito.
Nelle varie istruzioni ed operazioni il superiore oltre a sviluppare negli inferiori il sentimento dell'iniziativa deve ricordare che uno dei principali scopi cui deve tendere l'educazione militare, è quello di inculcare la coscienza della dignità personale, e del proprio valore come uomo e come soldato, nonché la necessaria fiducia nei compagni e nei capi. Deprimere tali sentimenti con parole o con atti, è fare uso riprovevole della propria autorità.
Alla perseveranza il superiore deve aggiungere l'energia e l'inflessibilità nell'esigere sempre e con lo stesso rigore l'osservanza di quei principi e di quelle norme che all'inferiore ha additate fin dal giorno in cui fu posto alla sua dipendenza.
Ma ciò sempre con quella calma severa, che non minaccia mai, che neppure perdona il poco zelo o la malavoglia, e che per la sua costanza ed immutabilità ispira appunto profondo rispetto e fa l'inferiore arrendevole per intimo convincimento.
La responsabilità è un grande incitamento ad operare ed a porre nell'adempimento dei propri doveri tutta l'attività di cui si è capaci. Epperciò anche il semplice carabiniere deve essere intimamente compreso che gli è personalmente ed unicamente responsabile delle sua azioni individuali, sia in servizio che fuori semizio e che egli, quale individuo pienamente cosciente, deve sapersi dirigere e moderare senza l'intervento superiore, la cui tutela, ove fosse resa necessaria, verrebbe a menomare la sua personalità.
Nell'accertamento pertanto di infrazioni o di irregolarità individuali, si dovrà evitare, in tesi generale, di far risalire la responsabilità ai superiori dei manchevoli, tranne che Le mancanze rilevate dimostrino evidente trascuratezza e men buono indirizzo per parte dei superiori stessi.
Affinché il lavoro degli ufficiali e militari tutti produca buoni frutti è necessario che sia fatto con lieto animo.
E ciò si ottiene quando il superiore nell'esigere dai sottoposti lo scrupoloso adempimento dei loro doveri, dia prova di stima e di riguardo; quando faccia in modo che vi sia varietà nelle occupazioni, che queste abbiano scopi ben definiti e chiari, e quando infine a ciascuno, entro la cerchia delle sue attribuzioni, lasci campo di liberamente esercitare il proprio criterio.
A tale uopo converrà tener presente che l'affiatamento completo ed il sentimento di devozione si ottengono solo quando il superiore dimostri costantemente di immedesimarsi dei bisogni degli inferiori; di preoccuparsi del loro benessere sostenendoli paternamente, nel limite del giusto, nella lotta difficile ch'essi quotidianamente incontrano per l'esatto adempimento dei loro doveri".



I principi di cui sopra, stabiliti quasi alla vigilia del primo Centenario dell'Arma, costituiscono un testo che sembra tradurre l'eredità ideale raccolta nel corso di un secolo per trasmetterla alle generazioni successive dei Carabinieri. Tali principi furono infatti ricalcati nella "Premessa" al Regolamento del 11 Settembre 1953 e conservati sostanzialmente nella "Premessa" di quello vigente, che così li conclude:
"Affinché il lavoro degli ufficiali e dei loro dipendenti sia fecondo di risultati positivi è necessario che sia svolto con animo lieto, in un clima di serenità e comprensione. E ciò si ottiene quando il superiore, nell'esigere dai sottoposti lo scrupoloso adempimento dei loro doveri, dia prova di stima, di fiducia e di riguardo; quando faccia in modo che vi sia verità nei compiti, che questi abbiano scopi ben definiti e chiari; quando dia a ciascuno, entro i limiti delle sue attribuzioni, libertà di operare secondo il proprio criterio: invero, l'affiatamento completo e il sentimento di solidarietà militare si ottengono soltanto quando il superiore riesce ad esaltare le energie dei dipendenti ed a sorreggere coloro che lavorano nel campo delle responsabilità; a rendersi esatto conto dei loro lavoro e delle difficoltà incontrate e superate, intervenendo soltanto se c'è qualcosa da correggere o migliorare; ad immedesimarsi dei loro bisogni ed a preoccuparsi del loro benessere; a sostenerli paternamente nella difficile e nobile fatica quotidiana che essi affrontano per l'adempimento del loro dovere".

La Costituzione contiene principii che non hanno prodotto però conseguenze immediate sulle norme regolamentari.

All'art. 11 si afferma che:

« L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»

All'art. 52 si statuisce che

« La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. »
All'art. 54 si precisa che:

« Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. »
Infine l'art. 103 dispone:

« I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. »
Il regolamento del 1964, che per la prima volta si rivolge a tutte le forze armate italiane, sancisce nella sua Premessa che esse "... sono istituite per difendere sino all'estremo l'onore e l'indipendenza della Patria combattendo ovunque venga ordinato e per tutelare in obbedienza agli ordini ricevuti le istituzioni e le leggi nazionali".

L'Avvertenza pubblicata in calce al Regolamento precisava "Il Regolamento di disciplina militare è il codice morale delle Forze armate ed enuncia i principi ed indica i metodi per creare e rafforzare una sostanziale disciplina. Esso deve essere riconosciuto, meditato ed osservato da tutti i militari, soprattutto da quanti rivestono un grado ed hanno missione di educatori. I principi morali e disciplinari dettati dal presente Regolamento formano la base e la forza dell'istituzione militare."

Dal punto di vista della dottrina, la Premessa al Regolamento del '64 così argomenta:

"... Le Forze armate, per evitare ogni possibile incrinatura nella propria compagine e per esercitare imparzialmente le alte funzioni derivanti dai doveri istituzionali, debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche.
L'azione di tutte le Forze armate deve essere pronta e concorde, e perciò le attribuzioni e i doveri di ciascun elemento della gerarchia militare debbono essere definiti con regole certe ed inviolabili.
Nella osservanza di queste regole consiste la disciplina militare.
Essa è principale virtù delle Forze armate e primo dovere del militare di ogni grado.
La storia di tutti i tempi e di tutte le nazioni prova che nella disciplina, assai più che nel numero, sta la forza delle istituzioni militari.
La disciplina si infonde in tempo di pace e si mantiene salda in tempo di guerra mercé la diligente e costante abitudine di osservarne i precetti."
Sulla base dei principi enunciati nella Premessa e nell'Avvertenza - inedite formule per un Regolamento promulgato con Decreto del presidente della Repubblica - si struttura un modo nuovo, e forse ritenuto più democratico, di concepire l'essere militare. È così che nelle numerose scuole militari delle Forze armate, dell'Arma dei Carabinieri, del Corpo della Guardia di Finanza e del Corpo degli Agenti di Custodia si cerca di insegnare una nuova Etica militare la cui dottrina si svilupperà a fatica. In particolare modo, si incentrerà l'impostazione formativa sull'educazione all'obbedienza, dai massimi istituti formativi per gli ufficiali (Accademie, Scuole di Applicazione e scuole per allievi ufficiali di complemento), alle scuole sottufficiali ed ai reparti di addestramento per le truppe.

Secondo l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, quella degli anni '60 e '70 fu una società militare disorientata che non intravedeva possibilità di impiego professionale (la guerra), che costituiva comunque un enorme serbatoio occupazionale, che vedeva la classe ufficiali annoverare sempre più elementi provenienti dai ceti medio-bassi, anche loro afflitti da problemi di sostentamento economico.

L'ondata terroristica degli anni '70 - '80 rese ancor più problematici gli arruolamenti talché anche i criteri di selezione furono resi più "elastici". Le Forze armate divennero veramente un esercito di popolo che nel 1978 richiederà con forza cambiamenti radicali.

Nel 1981 il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza fu smilitarizzato e convertito nella Polizia di Stato, e successivamente si ebbe la smilitarizzazione del Corpo degli Agenti di Custodia, convertito in Polizia Penitenziaria.

Da ultimo, in ordine di tempo l'art. 1 della legge 11 luglio 1978, n. 382 afferma che:

Le Forze armate sono al servizio della Repubblica; il loro ordinamento e la loro attività si informano ai principi costituzionali.
Compito dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica è assicurare, in conformità al giuramento prestato ed in obbedienza agli ordini ricevuti, la difesa della Patria e concorrere alla salvaguardia delle libere istituzioni e al bene della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità.
Quanto all'evoluzione dei doveri che incombono sul soldato, Dio, Re e Patria erano i valori fondamentali cui si riferivano i regolamenti del 1859 e 1872. Il primo conteneva una lunga elencazione di doveri che violavano la sfera personale dei singoli e fissavano, una per una, le norme di comportamento della vita familiare, la religione, l'uso delle proprie cose. Sovrano e Patria erano un bene supremo ed inscindibile. Il Regolamento del '64 si presentava invece come una previsione di doveri di carattere generale afferenti al solo status militare ed il dovere di "obbedienza", prima "assoluta", è divenuta "pronta, leale e rispettosa".

Questi schemi organizzativi legati al passato ed i relativi precetti etici vengono accantonati nel 1978: infatti le norme di principio, prima dei doveri, trattano dei diritti costituzionalmente garantiti al cittadino-soldato, non più soldato-suddito.

Tutte queste situazioni relative alle modifiche ordinative, normative e strutturali dello strumento militare vennero inesorabilmente ad incidere sui riferimenti classici dell'Etica militare propria della società militare italiana: la Patria, la Bandiera, il Giuramento, la Disciplina militare, l'Onore e le Tradizioni militari.

Secondo Gianalfonso D'Avossa la condizione militare è "un modo di essere, fatto di scienza ed arte, di poesia e di forza, di pensiero (la missione) ed azione (la professione) in un rapporto dialettico con la società nella quale e per la quale si opera". E nella condizione militare si possono evidenziare due componenti, una tecnica ed una morale. Da queste due componenti, radicalmente opposte, si ottengono le connotazioni peculiari del professionista militare, come dirigente militare, la cui etica è di matrice tecnica, e quella di "capo per vocazione", la cui etica è di matrice eroica.

Il primo fattore, quello tecnico, deriva principalmente dalla modernizzazione crescente dei mezzi, strumenti ed armi in dotazione. Lo sviluppo tecnologico dello strumento militare ha favorito la crescita della specializzazione militare in un contesto in cui il mezzo tecnico sembra prendere il sopravvento sull'uomo.

Gli stessi valori di autorità e gerarchia hanno acquisito nuove valenze rispetto al sistema tradizionale. Se prima per avere autorità bastava avere una carica come fosse una investitura divina, oggi ciò non basta. Per avere autorità bisogna anzitutto dimostrare di possedere i requisiti giusti ed essere all'altezza della situazione.

La professionalità richiede un aggiornamento continuo per mantenersi al passo coi tempi e la specializzazione spinta porta ad una frammentazione della società militare.

Il militare oggi percepisce sempre meno la specificità del gruppo sociale al quale appartiene e sembrerebbe addirittura che la disciplina e militarità abbiano minore importanza rispetto alla specializzazione ed alla professionalità.

In questo modo il fattore tecnico incide sulla società militare modificando le strutture ed ingenerando l'individualismo. Tutto ciò porta all'identificazione di un modello nel quale si ritiene superata la militarità.

Questa "civilizzazione" progressiva ha portato di fatto ad alcuni aspetti quali la sindacalizzazione, l'orario di servizio con lo straordinario ed il superamento del tradizionale sistema dei rapporti gerarchici.

Il secondo modello di riferimento sottolinea invece la specificità dell'etica militare e la prevalenza del fattore morale, imperniato sui valori etici della lealtà, del coraggio, del rigore morale, del senso del dovere, del rispetto dei diritti e della dignità umana, del sereno e generoso spirito di dedizione al prossimo.

Così, va sottolineato che al militare, unico caso tra tutte le professioni, può essere richiesto quando le circostanze lo rendano necessario il sacrificio della vita: è noto che a nessuno ed in nessuna professione può essere imposto tale obbligo.

Il militare pertanto ha bisogno di credere in quei valori originali della sua missione al servizio del paese e della collettività ed ovviamente l'interesse generale deve prevalere sul suo interesse personale ed immediato.

In sintesi il militare non può essere solo un cittadino cui sono state consegnate delle armi. La sua condizione è diversa da quella delle altre professioni perché implica l'adesione integrale a quel sistema di valori tradizionali che sono alla base della solidarietà e della capacità combattiva.

Sostiene sempre il D'Avossa che questo modello caratterizzato dalla specificità della condizione militare contiene tranquillamente il primo perché non può esistere specificità senza professionalità. La deontologia della professione militare quindi è nello stesso tempo diversa e più complessa delle altre. Essa implica infatti uno stile di vita che si fonda su un sapere tecnico-scientifico, come qualsiasi altra professione, ma in più poggia sui valori etico-morali e culturali e su principi di comportamento del tutto particolari. Sono propria questa ampiezza della deontologia e la valenza dei suoi contenuti che fanno del militare un servitore dello stato molto speciale. Il militare si distingue per disponibilità personale, per l'atemporaneità e spazialità del suo impiego che mettono in risalto il più autentico spirito di servizio e la solidarietà nei confronti della collettività.


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giovedì 23 marzo 2017

LA VOCE DEL CANE

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La voce del cane tante volte è un disturbo anche se non sparla e non parla a vanvera come gli esseri umani.

Abbaiare è un diritto esistenziale del cane: così ha sancito il giudice del Tribunale di Lanciano, Dott. Giancarlo De Filippis, con una sentenza emessa a conclusione di un procedimento civile d’urgenza.

Tale decisione rappresenta una vera e propria conquista nel campo della tutela dei diritti degli animali e più nello specifico in riferimento al “migliore amico dell’uomo”: tale precedente legale costituisce un pilastro fondamentale per il rispetto della natura di questi animali e per il riconoscimento dei loro diritti.

«I due cani erano accusati dai vicini di disturbare con il loro abbaio - racconta l’avvocato Andrea Cerrone, dottore di ricerca in tutela dei diritti fondamentali all’università di Teramo - ma il giudice ha stabilito che i cani hanno tutto il diritto di abbaiare, specie se qualcuno o qualcosa di avvicina al loro territorio di riferimento e purchè non si superi la soglia di tollerabilità stabilita nel codice. I cani - aggiunge - svolgono una funzione importante nel caso in questione, abitando la famiglia in campagna, sono una sorta di predecessori delle sirene degli antifurti vivente e senziente - sottolinea Cerrone - il diritto va sempre più estendendo la sua sfera di interesse verso gli animali e questa ordinanza ne è una testimonianza».

Inoltre, per giustificare la sua decisione, il giudice ha fatto riferimento agli articoli 544 bis e successivi del codice penale, all’art. 5 della legge 189 del 2004 e alla ratifica della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, che stabilisce l’obbligo morale dell’uomo di rispettare tutte le creature viventi.

A sostegno della decisione presa dal giudice De Filippis si è schierata l’Associazione Animalisti Onlus che – attraverso le parole del suo Presidente – ha sottolineato come, nonostante l’Italia sia un Paese all’avanguardia nella legislazione in materia di diritti degli animali ed esistano numerose leggi a tutela degli stessi, spesso tali leggi non vengono applicate oppure sono adottate in maniera inopportuna e ingiusta.

In tema esistono già delle normative che predispongono obblighi e doveri in capo al proprietario di un animale: partendo dal presupposto che sia molto complicato impedire al cane di abbaiare – in quanto suo istinto naturale – il padrone è comunque tenuto a porre dei freni ai latrati dell’animale in determinati orari del giorno e soprattutto durante le ore di riposo, in modo tale da non arrecare molestie al vicinato.

La norma di riferimento è l’articolo 659 del codice penale che, in tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, sottolinea come la nostra libertà finisca ove cominci quella degli altri, precisando che l’abbaiare dell’animale non deve superare i limiti di tollerabilità.

Inoltre il proprietario è tenuto al rispetto dell’animale e delle altre persone e, dunque, ha il dovere di educare il cane – se necessario anche attraverso corsi di addestramento finalizzati a miglioramenti comportamentali e alla convivenza pacifica – e di non abbandonarlo per diverse ore in giardino o sul terrazzo.

La legge non fissa una misura di decibel oltre la quale l’abbaiare del cane è vietato. Né tantomeno fissa un orario entro il quale i latrati sono consentiti e un altro, invece, in cui anche i cani devono fare silenzio.

Il codice civile si limita a stabile che i rumori possono essere vietati solo se superano la soglia della “normale tollerabilità”, un termine volutamente generico proprio per tenere conto della diversa condizione dei luoghi. In una zona periferica o di campagna, per esempio, dove il rumore di fondo è scarso, la “normale tollerabilità” sarà anch’essa più bassa e, dunque, risulterà più facile da percepire (e anche più molesto) un lieve rumore rispetto, invece, a un centro urbano dove il chiasso delle auto e dei clacson copre anche i fragori più evidenti. Inoltre, ciò che è tollerabile in un luogo o a una determinata ora, non lo è in un altro luogo o a un’ora diversa, dovendosi anche tener conto di come la normale tollerabilità viene intesa, in quel luogo e in quel tempo, dalla coscienza sociale.



Il limite della tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma deve essere fissato con riguardo al caso concreto. Di conseguenza la valutazione diretta a stabilire se le immissioni restino comprese o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio (ossia prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate alle immissioni) e, dall’altro, alla situazione locale.

Ai fini della valutazione del limite di tollerabilità delle immissioni acustiche, la giurisprudenza utilizza il cosiddetto criterio comparativo: in pratica, viene preso a riferimento il rumore di fondo della zona, vale a dire quel complesso di suoni di origine varia e non identificabile, continui e caratteristici della zona, sui quali si innestano, di volta in volta, rumori più intensi. Tale criterio consiste nel confrontare il livello medio del rumore di fondo con quello del rumore rilevato nel luogo soggetto alle immissioni, al fine di verificare se sussista un incremento non tollerabile del livello medio di rumorosità. In particolare, secondo la giurisprudenza, il rumore si deve ritenere intollerabile allorché, sul luogo che subisce le immissioni, si riscontri un incremento dell’intensità del livello medio del rumore di fondo di oltre 3 decibel. Questo valore viene solitamente considerato il limite massimo accettabile di incremento del rumore, tenuto conto di tutte le caratteristiche del caso concreto, ed è stato riconosciuto anche dalla Cassazione come “un valido ed equilibrato parametro di valutazione” per un idoneo contemperamento delle opposte esigenze dei proprietari.

Data la natura del criterio di valutazione generalmente adoperato, normalmente, in sede giudiziaria, per accertare il livello di tollerabilità di un’immissione sonora si fa ricorso a una consulenza tecnica d’ufficio.

Quando il rumore crea un danno al vicino, quest’ultimo può agire per il risarcimento con un’azione di carattere civile.

Se l’esistenza delle immissioni illegittime risulterà accertata, il giudice ordinerà al responsabile di adottare le necessarie misure per far cessare i rumori molesti, condannandolo al risarcimento degli eventuali danni anche non patrimoniali (danno biologico, morale ecc.).

Se il cane appartiene a un soggetto che non è proprietario ma solo affittuario dell’immobile, nessun problema: l’azione può essere rivolta anche nei confronti dell’inquilino, comodatario ecc.

La questione può diventare più seria, e comporta anche risvolti penali, quando le immissioni rumorose (sempre a condizione che siano oltre il limite della normale tollerabilità) sono tali da recare disturbo non solo ad uno o più specifici soggetti, ma a un numero indefinito di persone (si pensi al latrato che non fa dormire, durante la notte, tutto il quartiere). In tal caso scatta il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone). In passato è stata confermata la condanna dei proprietari a due mesi di carcere, senza concessione delle attenuanti generiche e della condizionale, per non aver impedito ai loro cani di abbaiare di notte, disturbando il sonno del vicinato.

Per cui è esclusa la responsabilità penale (ma resta solo quella civile, e il conseguente obbligo al risarcimento del danno) quando i latrati rechino disturbo agli occupanti di un solo appartamento. Il reato, infatti, è previsto per tutelare la quiete e la tranquillità pubblica: “pubblica” appunto e non, invece, di un numero determinato di individui.

Insomma, per valutare se sussiste il reato di disturbo del riposo delle persone è prima necessario valutare se, in concreto, il rumore provocato dai cani sia davvero tale da mettere in crisi, in generale, la quiete pubblica, e non solo la tranquillità di uno o più specifiche persone: il momento in cui si passa dall’illecito civile (per le immissioni rumorose, con conseguente risarcimento del danno) a quello penale (disturbo del riposo e della quiete, con relativa pena) è valutare “quante” persone sono state molestate: una o poche specificamente individuate nel primo caso, molte e indeterminate nel secondo.

La Corte ha inoltre ritenuto penalmente rilevante l’insistente abbaiare di un cane per una notte intera, sebbene ad intervalli.

L’illecito, inoltre, sussiste anche se non viene provato l’effettivo disturbo arrecato dall’animale, ma la semplice potenzialità a disturbare terzi soggetti. Pertanto, se anche nessuno si lamenta, le autorità possono intervenire ugualmente.

Il cane che abbaia frequentemente durante la notte è di per sé motivo di disturbo per la quiete pubblica.

Secondo la Cassazione, la presenza di un cane all’interno di una struttura condominiale non deve essere lesiva dei diritti degli altri condomini, sicché i proprietari dell’animale devono ridurre al minimo le occasioni di disturbo e prevenire le possibili cause di agitazione ed eccitazione dell’animale stesso, soprattutto nelle ore notturne; occorre, però, tenere presente che la natura del cane non può essere coartata al punto da impedirgli del tutto di abbaiare e che episodi saltuari di disturbo da parte dell’animale possono e devono essere tollerati dai vicini, in nome dei principi del vivere civile.

Una sentenza ha stabilito che abbaiare è un diritto esistenziale del cane. Il “collarino anti abbaio” (che produce una scossa elettronica) deve pertanto considerarsi uno strumento lesivo dei diritti dell’animale.


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martedì 14 marzo 2017

TECNOLOGIA E BIMBI

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Non sanno ancora andare in bici, ma utilizzano alla perfezione smartphone e tablet.
Il grido d'allarme arriva da alcune mamme su forum specializzati. Sono sempre più i genitori preoccupati perché i propri pargoli – dagli 0 ai 13 anni – passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e altre diavolerie elettroniche.

Il termine nativi digitali venne coniato dallo statunitense Mark Prensky, sociologo ed esperto di educazione statunitense, per indicare la prima generazione di bambini cresciuta a pane e computer (o altri dispositivi elettronici come console e videogame). I bambini digitali, invece, nascono un decennio dopo circa, con l'arrivo dell'iPad. Il tablet Apple, a differenza degli smartphone, aveva uno schermo sufficientemente grande e luminoso da attirare l'attenzione dei piccoli e permetter loro di giocare senza affaticare troppo la vista. Dall'altro lato era molto più semplice e intuitivo da utilizzare rispetto a un pc o laptop: già a 18 mesi i bambini potevano capire il funzionamento di questi dispositivi e iniziare a utilizzarli con un genitore al loro fianco.

Se i nativi digitali erano quei bambini cresciuti nell'era dell'informatica di massa e della diffusione di computer casalinghi, i bambini digitali appartengono alla cosiddetta terza generazione digitale: quella cresciuta tra smartphone e tablet, ADSL e Internet mobile, touchscreen e app.

Una ricerca commissionata da AVG, celebre software house che realizza antivirus e altri programmi per la sicurezza del computer, oltre il 50% dei bambini tra i 2 e i 5 anni di età sa già come giocare con un gioco per tablet di livello base, mentre appena lo 11% di loro sa come ci si allacciano le scarpe.

Ormai gran parte dei bambini, anche di pochi anni, riesce ad utilizzare con apparente disinvoltura il sistema touchscreen dello smartphone o del tablet quasi si trattasse di un sesto senso innato. Capita spesso di vedere piccoli che muovono a difficoltà i primi passi senza il sostegno dei genitori, ma già capaci di giocare con le loro app preferite o perfettamente in grado di cambiare schermata e lanciare un episodio di Pippi Calzelunghe o Peppa Pig che i genitori sono soliti mostrargli.
Secondo lo psicologo Jerome Bruner è tutto merito della cosiddetta capacità di rappresentazione enattiva. Nei primi anni di vita, quando il linguaggio non ha assunto il ruolo pervasivo che ha a partire dai 5-6 anni di età, i bambini classificano gli oggetti del mondo con parole o simboli, ma con le funzioni per cui vengono utilizzati e i gesti compiuti solitamente nel corso del loro utilizzo. Le loro mani sono il prolungamento dei loro pensieri – le mani sono gli strumenti dell'intelligenza umana, avrebbe detto Maria Montessori – e ciò gli permette di utilizzare con assoluta naturalezza il touchscreen di questi dispositivi.

Vista la crescita costante del fenomeno, sempre più scienziati sociali e psicologi si interessano al fenomeno. E, a dispetto degli allarmismi solitamente generati da notizie del genere, ci tengono a sottolineare che i vantaggi dell'utilizzo di smartphone e altri dispositivi digitali sono superiori rispetto ai rischi. A patto, naturalmente, di non esagerare.

"Cominciano a essere utili – afferma il professor Giuseppe Riva, docente di psicologia dei nuovi media presso l'Università Cattolica di Milano – dai 18 mesi, ma solo sfruttandone l'interattività. Se si usano solo per guardare i cartoni, diventano tv portatili, con tutti i rischi dello stare tante ore immobili davanti a uno schermo". I rischi principali individuati dal docente universitario milanese possono essere raggruppati in tre macroaree. Da un lato il pericolo che il prolungato utilizzo di smartphone e tablet porti ad un affaticamento eccessivo della vista; dall'altro il pericolo che il piccolo si isoli psicologicamente e crei un mondo popolato dagli eroi dei giochi e delle app che utilizza solitamente; infine un problema legato ai costi di alcune app e dei sistemi di acquisto in-app.
Al netto di ciò, però, la precoce capacità di utilizzare dispositivi tecnologicamente avanzati permette ai piccoli di sviluppare capacità cognitive fuori dal comune. “È vero che il multitasking comporta una diminuzione della capacità di attenzione; d'altra parte però stimola lo sviluppo di una maggiore capacità di integrazione cognitiva delle informazioni che si gestiscono contemporaneamente, con una maggiore produttività. Tutto dipende dal compito che si deve svolgere”.



Stringersi a gruppetti per guardare inebetiti uno schermo non è la stessa cosa che giocare a nascondino, rincorrersi, giocare a palla bollata, a guardia e ladri o a bandiera. Non agevola la condivisione, è un intrattenimento passivo.

In mano a bimbi piccolissimi, variante hi-tech del ciuccio, è anche più dannoso. A quell’età scoprono il mondo attraverso il corpo. Le mani riescono a compiere quel che la testa comanda, afferrano con più precisione, si coordinano coi piedi. Impilano costruzioni, incastrano forme, fanno barchette di carta, aeroplanini, scarabocchiano fogli bianchi. A quell’età si superano ostacoli grandi come montagne, e dopo una giornata di esplorazione si arriva a sera sporchi ed esausti.

I bambini sotto ai dodici anni non dovrebbero essere sovraesposti alle nuove tecnologie. Questo il parere dell’American Academy of Pediatrics e della Canadian Society of Pediatrics.
Secondo i ricercatori, i bambini da 0 a 2 anni non dovrebbero essere esposti affatto alla tecnologia, dai 3 ai 5 anni l’esposizione dovrebbe limitarsi a un’ora al giorno, dai 6 ai 18 non dovrebbe superare le due ore al giorno.
Invece, i nostri figli usufruiscono delle nuove tecnologie nella misura di almeno 4/5 volte in più delle ore raccomandato. E le conseguenze possono essere molto serie.

Il cervello dei bambini, tra 0 e 2 anni, triplica le sue dimensioni e si sviluppa rapidamente fino ai 21 anni di età. Lo sviluppo precoce del cervello è determinato da stimoli esterni o dalla mancanza degli stessi. Secondo studi scientifici, se un cervello in sviluppo viene sovraesposto alle nuove tecnologie – cellulari, internet, iPad, TV – , può maturare deficit delle funzioni esecutive e dell’attenzione, ritardi cognitivi, difficoltà di apprendimento, aumento dell’impulsività e dell’aggressività.

L’uso della tecnologia, sotto i 12 anni, è dannoso per lo sviluppo e l’apprendimento del bambino perché limita il movimento.

Il mancato movimento porta conseguenze nefaste come l’obesità infantile, sempre più frequente nel mondo occidentale.

Il 75% dei bambini ha apparecchi tecnologici in camera e li utilizza da soli, senza controllo e spesso di sera. Il 75% dei bambini di 9 e 10 anni non dorme abbastanza, fattore che influisce negativamente sul rendimento scolastico.

L’uso eccessivo della tecnologia alimenta patologie mentali come la depressione infantile, l’ansia, il deficit di attenzione e persino l’autismo, il disturbo bipolare e certe forme di psicosi.

I contenuti violenti dei media – soprattutto di alcuni videogiochi – possono scatenare aggressività nel bambino.

Lo sviluppo del deficit di attenzione e il calo di concentrazione e di memoria possono essere alimentati dai contenuti sempre più veloci dei media; questo avviene perché il cervello elimina le tracce neuronali dalla corteccia frontale.

Gli apparecchi elettronici diventano dei surrogati dei genitori e creano dipendenza.

L’Organizzazione Mondiale per la Sanità, nel 2011, ha classificato i dispositivi mobili come potenzialmente cancerogeni, a causa dell’emissione di radiazioni.



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PONTI CHE CROLLANO

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Due viadotti e due cavalcavia crollati negli ultimi due anni: i primi due nel 2014 su altrettanti strade statali in Sicilia - uno addirittura inaugurato due giorni prima -, il terzo a fine ottobre sulla superstrada Milano-Lecco, con un morto, l'ultimo a Camerano di Ancona sull'autostrada A14, con due vittime.

Tra il 2008 e il 2016 i pedaggi sono aumentati di circa il 25%, a fronte di un crescita dell'inflazione nello stesso periodo inferiore al 10%. Secondo un recente studio della Banca d'Italia, ogni chilometro di autostrada a pedaggio rende mediamente ai concessionari oltre 1,1 milioni di euro l'anno. Di questi, 300 mila euro vanno allo Stato e 850 mila alle società di gestione. Il contratto di concessione con Autostrade per l'Italia è stato stipulato nel 2007 ed è valido sino al 2038. Dal 2008 al 2015 la società ha incassato ai caselli 27,3 miliardi di euro, realizzando 6,3 miliardi di utile netto contro i 3,5 miliardi previsti dal piano finanziario della convenzione. Stesso discorso per il gruppo Sias, con aumenti percentuali record della redditività.

Di converso, gli investimenti per le manutenzioni, l'ammodernamento e le nuove opere sono diminuiti nello stesso periodo del 40%. Sia perché dal 2008, complice la crisi economica e finanziaria dell'Italia, si è progressivamente ampliato il divario tra gli investimenti programmati e quelli effettivamente realizzati, sia perché le convenzioni prevedono che i concessionari debbano reinvestire fino al 75% degli introiti solo se il traffico sulle autostrade che gestiscono è aumentato più del previsto rispetto ai piani di sviluppo. Così, dal momento che molti degli investimenti previsti per le nuove opere sono rimasti sulla carta e che il traffico su gran parte della rete autostradale non è aumentato, il surplus dei pedaggi è finito quasi tutto nelle tasche degli azionisti delle società lasciandoci una rete autostradale sempre più obsoleta e meno sicura.



Nell’Italia di oggi manca una politica delle infrastrutture. Nel senso che, se alcune opere vengono realizzate, la loro qualità si rivela poi quanto meno discutibile, mentre l’incuria nella manutenzione peggiora la condizione di strade, ponti, trasporto locale e così via. Così, si citano con una punta di orgoglio i risultati raggiunti nella creazione dei collegamenti ferroviari ad alta velocità, ma si trascura di garantire alle linee regionali (proprio quelle che utilizzano ogni giorno milioni di pendolari) un grado di efficienza e di qualità minimamente accettabile. Sembra che ogni volta il nostro Paese riveli la propria insufficienza di fronte a ciò che, nel mondo odierno e soprattutto fuori dei nostri confini, viene considerato uno standard decente di civiltà.

Eppure, nella nostra storia ci sono testimonianze indubitabili della nostra capacità di realizzare infrastrutture. Non è il caso di chiamare in causa le strade e gli acquedotti dei nostri antenati romani di due millenni fa; basta ricordarsi dell’Italia che nel periodo del boom seppe costruire in tempi rapidi, con efficienza e buona qualità di esecuzione, l’Autostrada del Sole.

Questioni che ci riportano continuamente a un nucleo di fondo, quella della inefficacia del nostro sistema amministrativo. Di solito, la nostra attenzione viene catturata dal quadro politico che condiziona il funzionamento amministrativo e tendiamo a focalizzare il nostro interesse sui fenomeni più degenerativi, a cominciare da quello della corruzione. Posto che il rapporto tra politica e amministrazione costituisce uno dei più delicati, bisognerebbe cominciare a scavare nelle ragioni che hanno prodotto il degrado della vita amministrativa all’origine delle tante manifestazioni di malfunzionamento dell’apparato pubblico e delle opere che da esso dipendono. Probabilmente, la strada giusta è quella che conduce a responsabilizzare l’amministrazione, restituendo ad essa la dignità e l’autonomia che l’invadenza della politica in tutti i versanti della vita collettiva le ha sottratto.
Guardando ancora alla storia, viene da pensare che se un uomo come Giovanni Giolitti, un secolo fa, fu così efficace nell’indirizzare lo sviluppo del Paese fu forse perché era giunto alla politica relativamente tardi. Prima di entrare in parlamento era stato segretario generale della Corte dei conti: seppe governare bene perché conosceva bene il modo d’essere della pubblica amministrazione e quindi si sapeva rapportare ad essa, considerandone l’autonomia e valorizzando le qualità professionali della burocrazia.

Ma se l'Italia vanta di essere il Paese dove ancora si possono osservare le meraviglie architettoniche di romani, bisogna chiedersi perché viadotti moderni e ponteggi ultra-ingegneristici collassino su se stessi così spesso.

La risposta è nel calcestruzzo che è stato inventato a metà del XIX secolo e ancora non sappiamo quanto a lungo possa durare. Un secolo e mezzo non basta per essere certi che sia un materiale eterno, come gli inventori fecero credere. I ponti moderni sono costruiti in calcestruzzo armato, una miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia che viene 'armata' con sbarre di ferro e acciaio. A indebolirlo sono l’azione dell’acqua e dei sali corrosivi che possono aggredire l’armatura di ferro e comprometterne la resistenza alla trazione, principale motivo per cui è stata inventata l’armatura. Spesso i costruttori italiani riducono la sezione dei tondini in ferro e inseriscono quelli lisci anziché "costati". Inoltre usano sabbia di mare al posto di quella di fiume, anche se la salinità della prima corrode i tondini già indeboliti dalla sezione ridotta. E così, aggiungendoci una lunga sequela di errori umani, i ponti italiani crollano.



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giovedì 9 marzo 2017

AMNISTIA

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L'amnistia è una causa di estinzione del reato e consiste nella rinuncia, da parte dello Stato, a perseguire determinati reati. Si tratta di un provvedimento generale di clemenza, ispirato, almeno originariamente, a ragioni di opportunità politica e pacificazione sociale.

Mentre l'amnistia estingue il reato, che quindi è come non fosse stato commesso, l'indulto estingue solo la pena.

Inizialmente in Italia l'amnistia era prevista con decreto regio come un atto di grazia che il sovrano poteva concedere in virtù dei poteri che gli spettavano, cioè una grazia non diretta ad un singolo caso, ma generalizzata. Con la caduta della monarchia l'amnistia ha cominciato a subire una progressiva evoluzione: con l'instaurazione della Repubblica, il capo dello Stato è andato a sostituire il sovrano anche se su impulso delle parti politiche. Dal 1992, l'ultima riforma costituzionale ha attribuito questo potere al Parlamento, come espressione della volontà popolare abbracciando un principio più democratico, con votazione a maggioranza qualificata e particolare proprio per la serietà della materia che si va a deliberare.

L'amnistia in Italia è prevista dall'art. 79 della Costituzione, e normata dall'articolo 151 del codice penale, il quale recita:

L'amnistia estingue il reato e, se vi è stata condanna fa cessare l'esecuzione della condanna e le pene accessorie.
Nel concorso di più reati, l'amnistia si applica ai singoli reati per i quali è concessa.
L'estinzione del reato per effetto dell'amnistia è limitata ai reati commessi a tutto il giorno precedente la data del decreto, salvo che questo stabilisca la data diversa
L'amnistia può essere sottoposta a condizioni o ad obblighi.
L'amnistia non si applica ai recidivi, nei casi previsti dai capoversi dell'articolo 99 Codice Penale, né ai delinquenti abituali, o professionali o per tendenza, salvo che il decreto disponga diversamente.
Come fissato dalla Costituzione, l'amnistia si applica ai reati commessi anteriormente alla data di presentazione del disegno di legge in Parlamento. A partire dal 1992 l'amnistia viene disposta con Legge dello Stato, votata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Precedentemente era prerogativa del Presidente della Repubblica.

Le figure di reato interessate dall'amnistia vengono di regola individuate con riferimento al massimo edittale della pena ma possono essere utilizzate altre modalità: possono essere previste preclusioni oggettive (p.e. rispetto ad alcune tipologie di reati). L'amnistia non si applica, salvo espressa previsione di legge, ai recidivi aggravati o reiterati, ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

Può estinguere il reato mentre il procedimento penale è in corso (amnistia propria), oppure può intervenire dopo che è stata pronunciata una sentenza penale definitiva di condanna (amnistia impropria ex art. 151 comma I parte 2° c.p.). La Corte costituzionale ha riconosciuto sempre e comunque la possibilità per l'imputato di rinunciare ai benefici dell'amnistia e chiedere l'esame di merito, al fine di ottenere una eventuale assoluzione.

L'amnistia impropria fa cessare l'esecuzione della condanna e le pene accessorie anche se permangono gli altri effetti penali; perciò malgrado il provvedimento di clemenza, la condanna costituisce titolo per la dichiarazione di recidiva, di abitualità, di professionalità nel reato o per escludere il beneficio della sospensione condizionale della pena.

La concessione dell'amnistia può essere sottoposta a condizioni (sia sospensive che risolutive) o ad obblighi, previsti dalla legge di concessione (amnistia condizionata).

Per l'applicazione dell'amnistia impropria è competente il giudice dell'esecuzione, il quale procede (senza formalità con procedura de plano) con ordinanza comunicata al pm e notificata all'interessato. Contro l'ordinanza il p. m., l'interessato e il difensore possono proporre opposizione, a pena di decadenza entro quindici giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza. L'amnistia propria è invece applicata direttamente dal giudice penale (di merito o di legittimità) che deve dichiarare l'imputato non punibile e il reato estinto "per intervenuta amnistia".

Il decreto di amnistia può essere redatto secondo due distinte modalità tecniche:

previsione qualitativa positiva: il provvedimento specifica i tipi di reato (il nomen juris delle figure criminose) che fa estinguere
previsione quantitativa positiva: il provvedimento opera per reati con pena edittale stabilita entro certi limiti
In realtà sono tecniche più di scuola, in quanto si preferisce un sistema misto che prevede certi tipi di reato a patto che non superino una pena comminata (e non edittale).

Il limite temporale dal quale un decreto di amnistia opera ed ha efficacia, attualmente la data della presentazione del disegno di legge in Parlamento, ha creato vari spunti e notevoli perplessità, specialmente alla modalità di commissione di alcuni reati.

Il primo aspetto riguarda il rapportare l'amnistia alla normale successione di leggi penali, regolate dal principio cronologico mitigato da quello del favor rei: ci si è chiesti in dottrina se l'amnistia operasse in termini identici o quantomeno simili in modo da stabilire su quali fatti precedenti operasse l'istituto. La differenza ad una lettura sistematica è stata rilevata da una parte dei giuristi in merito alla commissione del reato, che nel primo caso porterebbe alla condotta dell'agente mentre nel secondo alla commissione e consumazione della fattispecie criminosa, in modo tale che sia terminata e non protratta ulteriormente nel tempo, in altre parole determinale ed estinguibile.

Direttamente conseguente a questa chiave interpretativa del dettato normativo si pone il problema su come agisca allora l'amnistia per particolari categorie di reati, ovvero quelli continuati.



Tre sono gli orientamenti riguardo alla prima tipologia:

Unità reale del reato: è l'impostazione secondo la quale a tacer di legge viene considerato il reato in maniera unitaria
Fictio iuris
Perseguimento della ratio: più recente delle precedenti, che critica per la deformazione ed astrazione della realtà quando è possibile un approccio più semplice, in particolare seguendo la ratio che è quella di favorire un reo con l'estinzione della pena e del reato, pertanto il reato andrebbe scisso se continuato fino al termine della presentazione della legge in Parlamento in quanto l'unificazione in un reato unico continuato è un aspetto del principio di favor rei, che diverrebbe al contrario espressione di un peggiore trattamento in totale contrasto col principio stesso.
A favore di quest'ultima impostazione sembrerebbe anche la giurisprudenza costante anche della Cassazione che prevede sempre possibile la rinuncia all'amnistia da parte del reo (che ha diritto alla reputazione e all'onore).

La questione si riallaccia alla tipologia affrontata precedentemente di atto redatto in Parlamento: se viene adottata la previsione qualitativa, il nomen juris del reato è lo stesso sia per il reato base che per quello circostanziato, pertanto l'amnistia opererà per entrambi (sempre che la forma circostanziata non diventi un titolo autonomo di reato).

Vale quanto sopra, per un principio di a majori ad minus, il reato tentato è ovviamente incorporato in una previsione qualitativa in quanto sarebbe assurdo amnistiare un reato consumato, e considerato più grave rispetto al tentativo, e lasciare in piedi l'altro.

È concessa amnistia:
a) per ogni reato non finanziario per il quale è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, avvero una pena pecuniaria, sola o congiunta a detta pena;
b) per i reati previsti dall’articolo 57 del codice penale commessi dal direttore o dal vicedirettore responsabile, quando è noto l’autore della pubblicazione
c) per i delitti previsti dai seguenti articoli del codice penale:
1.) 336, comma primo (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) e 337 (resistenza a un pubblico ufficiale, sempre che non ricorra taluna delle ipotesi previste dall’articolo 339 del codice penale o il fatto non abbia cagionato lesioni personali gravi o gravissime ovvero la morte;
2.) 558, comma secondo (rissa), sempre che dal fatto non siano derivate lesioni personali gravi o gravissime ovvero la morte;
3.) 614, comma quarto (violazione di domicilio), limitatamente al fatto in cui il fatto è stato commesso con violenza sulle cose;
4.) 640, comma secondo (truffa), sempre che non ricorra la circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, n°7, del codice penale;
d) per i reati di cui all’articolo 7 in relazione agli articoli 1,2 e 4 della LEGGE 14 ottobre 1967, n° 895 (disposizioni di controllo delle armi), come modificata dalla L: 14 ottobre 1974, n° 497, quando ricorre l’attenuante di cui all’articolo 5 della predetta legge;
e) per il reato di cui al comma terzo dell’articolo 23 della LEGGE 18 aprile 1975, n° 110 (norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), quando concerne armi la cui detenzione l’imputato o il condannato aveva denunciato all’autorità di pubblica sicurezza;
f) per il reato previsto dall’articolo 1 del DECRETO Legislativo 22 gennaio 1948, n° 66, commesso a causa e in occasione di manifestazioni sindacali o in conseguenza di situazioni di gravi disagi dovuti a disfunzioni di pubblici servizi o a problemi abitativi, a anche se il suddetto reato è aggravato dal numero o dalla riunione delle persone e dalle circostanze di cui all’articolo 61 del codice penale, fatta esclusione per quella prevista dal numero 1, nonché da quella di cui all’articolo 112, n° 2 del codice penale, sempre che non ricorrano altre aggravanti e il fatto non abbia cagionato ad altri lesioni personali o la morte;
g) per ogni reato commesso da minore degli anni diciotto, quando il giudice ritiene che possa essere concesso il perdono giudiziale ai sensi dell’articolo 19 del R. DECRETO LEGGE 20 luglio 1934, n° 1404, convertito con modificazioni, dalla LEGGE 27 maggio 1935, n° 835, come sostituito da ultimo dall’articolo 112 della LEGGE 24 novembre 1982, n° 689, ma non si applicano le disposizioni dei commi terzo e quarto dell’articolo 169 del codice penale;
h) per i reati relativi a violazioni delle norme concernenti il monopolio dei tabacchi e le imposte di fabbricazione sugli apparecchi di accensione, limitatamente alla vendita al pubblico e all’acquisto e alla detenzione di quantitativi di detti prodotti destinati alla vendita al pubblico direttamente da parte dell’agente;
i) per i reati di cui al secondo capoverso dell’articolo 9 dell’allegato C al R.DECRETO LEGGE 16 gennaio 1936, n° 54, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 4 giugno 1936, n° 1334. Ed all’articolo 20 del testo unico delle disposizioni di carattere legislativo concernenti l’imposta sul consumo del gas e dell’energia elettrica approvato con DECRETO M. 8 luglio 1924, e successive modificazioni, limitatamente all’evasione dell’imposta erariale sull’energia elettrica;
2. A seguito dell’applicazione dell’amnistia ad uno dei delitti previsti dall’articolo 8 della LEGGE 15 dicembre 1972, n° 772, l’imputato o il condannato è esonerato dalla prestazione del servizio di leva.
3. Non si applica l’ultimo comma dell’articolo 151 del codice penale.

Articolo 2
(Amnistia per i reati minori in materia tributaria concernenti enti non commerciali e condizioni per la concessione dell’amnistia per taluni reati tributari)

1. È concessa amnistia per i reati di cui all’articolo 1 del DECRETO LEGGE 10 luglio 1982, n° 429, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 7 agosto 1982, n° 516, commessi fino a tutto il giorno 28 luglio 1989 in relazione ad attività commerciali svolte da enti pubblici e privati diversi dalle società che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali di cui alle lettere c) e d) dell’articolo 87, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con DECRETO P.R. 22 dicembre 1986, n° 917;
2. È concessa altresì amnistia per i reati previsti dal secondo comma dell’articolo 2 del DECRETO LEGGE 10 luglio 1982, n°429, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE7 agosto 1982, n° 516. Se il versamento delle ritenute è stato effettuato entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale del sostituto di imposta.
3. In conseguenza dell’errata indicazione del termine del 31 dicembre 1989 per la per la presentazione dell’istanza di definizione ad ogni effetto amministrativo e penale contenuto nel comma 1 dell’articolo 21 del DECRETO LEGGE 2 marzo 1989, n°69, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 27 aprile 1989, n° 154, si considerano regolarmente adempiuti gli adempimenti eseguiti entro il 31 dicembre 1989.

Articolo 3
(Esclusioni oggettive dall’amnistia)

1. L’amnistia non si applica:
a) ai reati commessi in occasione di calamità naturali approfittando delle condizioni determinate da tali eventi, ovvero in danno di persone danneggiate ovvero al fine di approfittare illecitamente di provvedimenti adottati dallo Stato o da latro ente pubblico per far fronte alla calamità, risarcirne i danni e portare sollievo alla popolazione ed all’economia dei luoghi colpiti dagli eventi;
b) ai reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione previsti dal capi I del titolo II del libro secondo del codice penale ed ai reati di falsità in atti previsti dal capo III del titolo VII del libro secondo del codice penale, quando siano compiuti in relazione ed eventi di calamità naturali ovvero ai conseguenti interventi di ricostruzione sviluppo dei territori colpiti;
c) ai reati previsti dai seguenti articoli del codice penale:
1) 316 (peculato mediante profitto dell’errore altrui);
2) 318 (corruzione per un atto d’ufficio);
3) 319, comma quarto (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio);
4) 320 (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio), in relazione ai fatti previsti negli articoli 318, comma primo e 319, comma quarto;
5) 321 (pene per il corruttore);
6) 353 e 354 (turbata libertà degli incanti e astensione dagli incanti), quando siano compiuti in relazione ad eventi di calamità naturali ovvero ai conseguenti interventi di ricostruzione e sviluppo dei territori colpiti;
7) 335 (inadempimento di contratti di pubbliche forniture), salvo che si tratti di fatto commesso per colpe;
8) 371 (falso giuramento della pace);
9) 372 (falsa testimonianza), quando la deposizione verte su fatti relativi all’esercizio di pubbliche funzioni espletate dal testimone;
10) 378 (favoreggiamento personale), fuori delle ipotesi previste dal comma secondo;
11) 385 (evasione), limitatamente alle ipotesi previste dal comma secondo;
12) 391 (procurata inosservanza di misure di sicurezza detentive), limitatamente alle ipotesi previste dal comma primo. Tale esclusione non si applica ai minori degli anni diciotto;
13) 420 (attentato a impianti di pubblica utilità);
14) 443 (commercio o somministrazione di medicinali usati);
16) 445 (somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica);
17) 452 (delitti colposi contro la salute pubblica), comma primo, n° 3, e comma secondo;
18) 471 (uso abusivo di sigilli e strumenti veri), quando sia compiuto in relazione ad eventi di calamità naturali ovvero ai conseguenti interventi di ricostruzione e sviluppo dei territori colpiti;
19) 478 (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici o privati e in attestati del contenuto di atti);
20) 501 (rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio);
21) 501 bis (manovre speculative su merci);
22) 521 (atti di libidine violenti), in relazione all’articolo 520;
23) 590, commi secondo e terzo (lesioni personali colpose), limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative l’igiene del lavoro, che abbiano determinato le conseguenze previste dal comma primo, n° 2, o dal comma secondo dell’articolo 583 del codice penale;
24) 595, coma terzo (diffamazione), quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato ed è commessa con mezzi di diffusione radiofonica o televisiva:
25) 610 (violenza privata), nelle ipotesi di cui al comma secondo;
26) 644 (usura);
27) 733 (danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale);
28) 734 (distruzione o deturpamento di bellezze naturali);
d) al delitto previsto dall’articolo . 218 del codice penale militare di pace (peculato militare mediante profitto dell’errore altrui);
e) ai reati previsti:
1) dall’articolo . 20, comma primo, lett. b) e c), della LEGGE 28 febbraio 1985, n° 47 (norme in materia di controllo dell’attività urbanistico - edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), come modificato dall’articolo 3 del DECRETO LEGGE 23 aprile 1985, n° 146, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 21 giugno 1985, n° 298, salvo che si tratti di violazioni riguardanti un’area di piccola estensione, in assenza di opere edilizie, ovvero di violazioni che comportino limitata entità dei volumi illegittimamente realizzati o limitate modifiche dei volumi esistenti, e sempre che non siano violati i vincoli di cui all’articolo 33, comma primo, della predetta LEGGE N° 47 del 1985 o il bene non sia assoggettato alla tutela indicata nel comma secondo del medesimo articolo ;
2) dall’articolo 1sexies del DECRETO LEGGE 27 giugno 1985, n° 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 8 agosto 1985, n° 431, salvo che sia conseguita in sanatoria l’autorizzazione da parte delle competenti autorità;
3) dagli articoli 21,22,23, comma secondo, e 24 bis della LEGGE 10 maggio 1976, n° 319 (norme per la tutela delle acque dall’inquinamento), salvo che il fatto consista nella mancata presentazione della domanda di autorizzazione o di rinnovo di cui all’articolo 15, comma secondo, della stessa legge; dagli articoli 24, 25 e 26 del DECRETO P.R. 24 maggio 1988, n° 203;
4) dall’articolo 9, commi sesto e settimo, della LEGGE 16 aprile 1973, n°171 (interventi per la salvaguardia di Venezia), come sostituiti dall’articolo 1ter del DECRETO LEGGE 10 agosto 1976, n° 544, convertito, con modificazioni, dalla LEGGE 8 ottobre 1976, n°690;
5) dagli articoli 24, 25, 26, 27, 29, 31 e 32 del DECRETO P.R. 10 settembre 1982, n°915 (norme in materia di smaltimento dei rifiuti);
6) dall’articolo 2 della LEGGE 26 aprile 1983, n° 136 (biodegradabilità dei detergenti sintetici);
7) dagli articoli 17 e 20 della LEGGE 31 dicembre 1982, n° 979 (disposizioni per la difesa del mare)
8) dall’articolo 21 del DECRETO P.R. 17 maggio 1988, n°175 (attuazione della direttiva CEE n°82/501 relativa ai rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali);
9) dagli articoli 3 e 10, commi sesto, ottavo nono e decimo, della LEGGE 18 aprile 1975, n° 110 (norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), salvo che il fatto, limitatamente alle ipotesi previste dai commi sesto e ottavo dello stesso articolo 10, debba ritenersi di lieve entità per la qualità e il numero limitato delle armi;
10) dagli articoli10 bis, commi settimo e nono, quando si tratti di condotta dolosa, e 10 quinquies, comma primo, della LEGGE 31 maggio 1965, n° 575 (disposizioni contro la mafia);
11) dall’articolo 21 del DECRETO P.R. 24 maggio 1988, n° 236 (attuazione della direttiva CEE n° 80/778 concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano);
12) dagli articoli 3 e 4 della LEGGE 20 novembre 1971, n° 1062 (norme penali sulla contraffazione od adulterazione di opere d’arte);
2. Quando vi è stata condanna ai sensi dell’articolo 81 del codice penale, ove necessario, il giudice dell’esecuzione applica l’amnistia secondo le disposizioni del decreto, determinando le pene corrispondenti ai reati estinti.

Articolo 4
(Computo della pena per l’applicazione dell’amnistia)

1. Ai fini del computo della pena per l’applicazione dell’amnistia:
a) si ha riguardo alla pena stabilita per ciascun reato consumato o tentato;
b) non si tiene conto dell’aumento di pena derivante dalla continuazione e dalla recidiva, anche se per quest’ultima la legge stabilisce una pena di specie diversa;
c) si tiene conto dell’aumento di pena derivante dalle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa o dalle circostanze ad effetto speciale. Si tiene conto della circostanza aggravante prevista dall’articolo 61, n° 7, del codice penale. Non si tiene conto delle atre circostanze aggravanti;
d) si tiene conto della circostanza aggravante di cui all’articolo 98 del codice penale nonché, nei reti contro il patrimonio, delle circostanze attenuanti di cui ai n° 4 e 6 dell’articolo 62 del codice penale. Quando le predette circostanze attenuanti concorrono con circostanze aggravanti di qualsiasi specie, si tiene conto soltanto delle prime, salvo che concorrano le circostanze di cui agli articoli 583 e 625, numeri 1 e 4, seconda parte, del codice penale, nel caso si tiene conto soltanto di queste ultime. Ai fini dell’applicazione dell’amnistia la sussistenza delle predette circostanze è accertata, dopo l’esercizio dell’azione penale, anche dal giudice per le indagini preliminari; nonché dal giudice in camera di consiglio nella fase degli atti preliminari al dibattimento ai sensi dell’articolo 469 del codice di procedura penale. Nei procedimenti indicati negli articoli 241 e 242 del DECRETO Legislativo 28 luglio 1989, n° 271, la sussistenza delle predette circostanze è accertata dal giudice istruttore o dal pretore nel corso dell’istruzione, ovvero dal giudice in camera di consiglio nella fase degli atti preliminari al giudizio ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura penale abrogato;
e) si tiene conto delle circostanze attenuanti previste dell’articolo 48 del codice penale militare di pace quando siano prevalenti o equivalenti, ai sensi dell’articolo 69 del codice penale, rispetto ad ogni tipo di circostanza aggravante;

Articolo 5
(Rinunciabilità dell’amnistia)

1. L’amnistia non si applica qualora l’imputato, prime che sia pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere per estinzione del reato per amnistia, faccia espressa dichiarazione di non volerne usufruire.

Articolo 6
(Termine di efficacia dell’amnistia)

1. L’amnistia ha efficacia per i reati commessi fino a tutto il giorno 24 ottobre 1989.

Articolo 7
(Entrata in vigore)

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.

La Chiesa ha spesso favorito la concessione di amnistie o indulti, ma non tutti i giubilei sono stati accompagnati da un'amnistia. Nel 2000, ad esempio, Papa Wojtyla la chiese con forza, ma non fu concessa. Per il giubileo del 2000 si parlò di amnistia: il dibattito venne stimolato da Giovanni Paolo II, che chiese un gesto di clemenza nel documento per il Giubileo nelle carceri, e nella visita al carcere romano di Regina Coeli (9 luglio 2000) rinnovò la sua richiesta. Per superare gli scogli, la maggioranza di centrosinistra pensò anche al cosiddetto 'indultino', con l'espulsione degli extracomunitari irregolari clandestini e l'aumento degli sconti di pena. Ma anche questo si bloccò. Wojtyla, tra l'altro, tornò a fare un appello per un provvedimento di clemenza il 14 novembre 2002, quando tenne il suo discorso in Parlamento, ma passarono diversi anni prima che le Camere approvassero un indulto.

Nel 1963, in occasione del Concilio Vaticano II, lo Stato italiano decretò una delle 27 amninistie che si sono succedute dal dopoguerra fino al 1990, anno a cui risale l'ultimo provvedimento in tal senso. Più in generale, spesso la concessione di amnistie e indulti è legata a importanti eventi pubblici. Nel 1959 l'amnistia fu legata alle celebrazioni del quarantennale di Vittorio Veneto. Nel 1966 al ventennale della Repubblica. Molto prima il regime fascista aveva concesso amnistie o sconti di pena per il ventiquattresimo anniversario del regno di Vittorio Emanuele III, per le nozze del principe di Piemonte, per il primo decennale del regime e per le nascite degli eredi di casa Savoia.

Altri provvedimenti sono stati concessi dallo Stato italiano nel 1968, 1970 e 1990: i primi rivolti a chiudere le vicende penali derivanti dai movimenti sociali di quegli anni, l'ultimo per decongestionare gli uffici giudiziari nell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. L'indulto è stato concesso invece, l'ultima volta, nel 2006, preceduto tre anni prima dal cosiddetto "indultino".

A dicembre di quell'anno erano scesi a 62.536. L'ultima rilevazione del 31 luglio scorso indica 52.144 presenze a fronte di una capienza regolamentare di 49.655 posti. Sul calo ha inciso una serie di interventi messi in campo da governo e parlamento. In cima alla lista, i provvedimenti per incentivare il ricorso alle misure alternative al carcere (applicate in 33.309 casi, dicono le ultime cifre, tra affidamento in prova, domiciliari, lavoro di pubblica utilità, semilibertà). A decongestionare le carceri ha concorso anche la riforma della custodia cautelare, l'introduzione della tenuità del fatto che consente al pm di chiedere l'archiviazione per fatti di piccola entità evitando la reclusione, le 13 convenzioni firmate dal ministero del altrettante Regioni per agevolare la riabilitazione in comunità e il lavoro per i detenuti tossicodipendenti. Effetti importanti ha avuto anche la sentenza della Corte Costituzionale che ha 'bocciato' la legge Fini-Giovanardi e l'equiparazione, anche sul piano delle pene, delle droghe leggere con quelle pesanti.



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giovedì 2 marzo 2017

SUICIDIO ASSISTITO

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Il suicidio assistito differisce dall'eutanasia per il fatto che l'atto finale di togliersi la vita, somministrandosi le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario, è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da soggetti terzi, che si occupano di assistere la persona per gli altri aspetti: ricovero, preparazione delle sostanze e gestione tecnica/legale post mortem.

Il tema è oggetto di forte dibattito internazionale, sia per questioni di natura religiosa, sia per questioni di natura etica. In alcune nazioni, tra le quali il Belgio, la Colombia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Svizzera, gli stati dell'Oregon, Washington, Montana e California negli Stati Uniti, il suicidio assistito è permesso a patto del rispetto di condizioni che variano da ordinamento a ordinamento.

In riferimento al "suicidio assistito" e all'eutanasia, l'enciclica Evangelium Vitae cita varie fonti teologiche e dottrinali, tra cui Sant'Agostino:

«Non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».(Epistula 204, 5: CSEL 57, 320.)
Allo stesso modo l'enciclica afferma che non bisogna confondere l'eutanasia con la rinuncia all'accanimento terapeutico, ossia i casi in cui la morte dell'ammalato sia ritenuta "imminente e inevitabile".

La posizione cattolica su questo argomento viene così descritta nel 2000 dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente "è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita" (cfr Dich. su Eutanasia, parte IV), poiché vi è grande differenza etica tra "procurare la morte" e "permettere la morte": il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa».

Non essendo le posizioni etiche uniformi, ma più che altro frutto di una sintesi tra le sensibilità delle varie comunità e della maggior vicinanza dei pastori con il tessuto sociale in cui la comunità vive e opera, in altre confessioni cristiane il dibattito sull'eutanasia è più ampio. Nel caso dei Valdesi, il Sinodo si è pronunciato favorevolmente alla pratica dell'eutanasia per combattere l'inutile sofferenza e anche singoli pastori non mostrano, di principio, pregiudiziali all'adozione di misure a tutela della dignità dei malati. Afferma il pastore valdese prof. Ermanno Genre (peraltro in piena polemica con le posizioni della gerarchia cattolica), decano della Facoltà valdese di teologia di Roma: «…La legge approvata in Olanda merita di essere conosciuta prima che "scomunicata": è una legge che tutela il diritto del cittadino, per evitare che altri decidano per lui … È semplicemente vergognosa l'operazione vaticana che tende a screditare una nazione che in fatto di diritti umani e di dignità della persona non ha proprio nulla da imparare né dal Vaticano né dall'Italia».

Nel marzo 2006 il prof. Sergio Rostagno, coordinatore della Commissione bioetica della Tavola Valdese, dichiarò: «L'eutanasia non è un attentato alla vita umana, ma una norma che vuole indicare come si può morire con dignità. Ci batteremo perché venga introdotta in Italia». Riguardo all'incidente diplomatico con i Paesi Bassi causato da dichiarazioni espresse da Carlo Giovanardi (all'epoca sottosegretario alla presidenza del consiglio), Rostagno aggiunse che, al contrario, la legge olandese era stata ben valutata dai Valdesi al momento della sua promulgazione, pur con tutti i suoi limite.
Anche nella Chiesa d'Inghilterra è iniziata una discussione non pregiudizialmente ostile alla pratica dell'eutanasia: il primo a sollevare il tema è stato, nel novembre 2006, il reverendo Tom Butler, vescovo di Southwark, che ha sostenuto la giustezza della sospensione delle cure («in alcune circostanze») anche se si sa che esse porteranno alla morte. La discussione sull'argomento seguiva di poco la presa di posizione della Reale associazione degli ostetrici e ginecologi britannici, che aveva proposto l'eutanasìa infantile - anche attiva - per casi di gravissime invalidità neonatali che hanno come unico sbocco una vita vegetativa.

Ci sono diverse visioni del problema dell'eutanasia tra i buddisti. In generale vi è una posizione di netto rifiuto delle pratiche eutanasiche, ma non mancano le correnti di pensiero volte ad accettare possibili eccezioni in alcuni casi particolari.

Nel buddismo Theravada ogni upasaka (credente buddista laico) recita quotidianamente questa formula: "Io mi rifiuto di distruggere esseri viventi." Tuttavia per gli ordini monastici buddisti le regole sono più esplicite, come si può notare dal testo che segue: "Nessun monaco (bhikkhu) dovrebbe intenzionalmente privare ogni uomo della sua vita, o cercare un assassino per questi, o pregare per la sua morte, o incitarlo a morire ..."

Il Dalai Lama è stato citato dall'Agence France-Presse il 18 settembre 1996 in un articolo intitolato Il Dalai Lama riconsidera l'eutanasia per le circostanze eccezionali riguardo alle sue posizioni sull'eutanasia:

Alla domanda sulla sua opinione sull'eutanasia, il Dalai Lama ha detto che i buddisti credono che ogni vita sia preziosa e nessuna più della vita umana, aggiungendo: "Penso sia meglio evitarla" (l'eutanasia).
"Ma allo stesso tempo penso che come per l'aborto, che è considerato dal buddismo come un atto di omicidio il metodo buddista consiste nel giudicare il giusto e l'errore o i vantaggi e gli svantaggi."

Il 9 febbraio 2009 il Dalai Lama, in visita a Roma per ricevere la cittadinanza onoraria e intervistato sul concomitante caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 17 anni, ha ribadito le sue convinzioni sull'argomento:

L'eutanasia "dovremmo evitarla, ma in casi particolari si potrebbero fare delle eccezioni". Su Eluana: "Se veramente non c'è alcuna possibilità di guarigione, mantenere quello status è molto costoso e le famiglie soffrono, allora si potrebbe agire. In generale se pure una persona non cammina più, ma il suo corpo e il suo cervello sono ancora presenti, allora è meglio tenere una persona in vita, ma si possono fare eccezioni".
Le cure vanno fermate se non vi è "la possibilità di recuperare la coscienza e le funzioni mentali". Nel buddismo, "nei casi di male incurabile c'è una pratica che consente l'abbandono della coscienza dal corpo"; negli altri casi "anche noi parliamo di suicidio".
Il buddhismo Nichiren, specialmente quello della Soka Gakkai, ha invece un'attitudine più permissiva nei confronti dell'eutanasia e del suicidio.

In genere i teorici dell'ebraismo ortodosso si oppongono all'eutanasia, spesso in modo vigoroso, anche se alcuni dimostrano una certa comprensione per l'eutanasia passiva in circostanze limitate. All'interno dell'ebraismo conservativo e riformato, invece, c'è un sostegno abbastanza diffuso per l'eutanasia passiva.

L'induismo rispetta fortemente la vita umana, ed è in genere contrario all'eutanasia, ma lascia comunque libertà di coscienza. Considera invece il suicidio, cui è contrario in assoluto, un atto che causa impedimento alla liberazione finale, aumentando il "Karma" negativo individuale.

L'Islam vieta categoricamente tutte le forme di suicidio e tutte le azioni che possano agevolare il suicidio di qualcun altro. È inoltre vietato per un musulmano pianificare la propria morte per il futuro ma è possibile rifiutare terapie curative.



Il Codice penale svizzero traduce in norma l'interpretazione aperta del problema, per cui in uno degli articoli di legge viene sancita la possibilità di assistere al suicidio, salvo se dettato da interessi personali. In Europa, paesi come l'Olanda o il Belgio, hanno depenalizzato l'eutanasia attiva sotto controllo medico.

Per poter usufruire del suicidio assistito occorre presentare una domanda che deve essere innanzitutto seria e reiterata con l'andare del tempo. Secondariamente la persona deve essere affetta da un male incurabile, il cui esito fatale è prevedibile. Le sofferenze fisiche e psichiche causate dalla malattia devono inoltre essere tali da rendere insopportabile l'esistenza.
Tra la domanda di suicidio assistito e il passaggio all'atto, c'è sempre un periodo di grazia. Un tempo in cui le associazioni invitano il paziente a regolare i propri conti con la vita e a congedarsi da amici e familiari. Quando poi la scelta, ponderata e maturata, diventa definitiva, chiedono nuovamente al paziente un'ultimissima conferma.
Accertato che si tratta della sua volontà si somministra una soluzione farmaceutica che il paziente deve essere in grado di assumere autonomamente e di ingerire esclusivamente con le proprie forze. Se non fosse così, sarebbe eutanasia, e non suicidio assistito. È una sfumatura sottile, ma di estrema importanza.



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