venerdì 26 febbraio 2016

LA CARNE IN QUARESIMA

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L'astinenza dalle carni risale a tempi molto antichi, in origine era di più giorni alla settimana, poi concentratisi nel venerdì, scelto in considerazione del venerdì di passione. Con la Riforma protestante diventò il segno distintivo tra cattolici e riformati, molto sentito dalla popolazione e riflesso anche nelle commedie di Shakespeare. Le norme, insieme con quelle del digiuno, sono fissate dalla costituzione apostolica "Paenitemini" del Sommo Pontefice Paolo VI del 17 febbraio 1966, e dal Codice di Diritto Canonico (can. 1249 e seguenti), ma possono essere ulteriormente determinate dalle Conferenze Episcopali.

Secondo la norma ecclesiastica i fedeli di rito latino sono tenuti all'astinenza dalle carni in tutti e singoli venerdì di Quaresima, purché non coincidano con un giorno annoverato tra le solennità dal calendario liturgico della Chiesa cattolica. Prima l'astinenza delle carni era obbligatoria tutti i venerdì dell'anno, ora è soltanto consigliata e può essere sostituita da altre opere di penitenza e carità.

Il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo sono richiesti il digiuno e l'astinenza, il Sabato Santo sono solo consigliati. L'obbligo del digiuno s'inizia a 18 anni compiuti e termina a 60 anni incominciati, quello dell'astinenza s'inizia a 14 anni compiuti. Tuttavia, i fedeli sono dispensati dall'obbligo del digiuno e dell'astinenza in taluni casi. Fino all'inizio del XX secolo la legge dell'astinenza dalle carni proibiva di consumare uova e latticini, oggi non più; però oggi è richiesta anche l'astinenza dai cibi e dalle bevande che ad un prudente giudizio sono da considerarsi troppo ricercati e costosi. L'insieme di queste norme costituisce il 4° dei cinque precetti generali della Chiesa cattolica ("In giorni stabiliti dalla Chiesa astieniti dal mangiare carne e osserva il digiuno").

Interrotta per evidenti ragioni pratiche durante la seconda guerra mondiale, divenne sempre meno sentita dalla popolazione. La Conferenza episcopale italiana si è adeguata al nuovo clima ed ha ammesso la sostituzione dell'astinenza con una diversa forma di mortificazione in tutti i venerdì dell'anno, esclusi quelli di Quaresima.

Lo stesso Gesù, nel discorso della montagna inserisce il digiuno nelle buone opere (Mt 6) con la preghiera e la carità. Con il digiuno si impara a regolare il nostro corpo, rispetto alle sue vere e reali esigenze; con la carità, intesa come pratica ascetica, siamo invitati ad un miglior rapporto con gli altri e con la preghiera instauriamo il rapporto con Dio. La preghiera, il digiuno e la carità, quindi, sono le opere che caratterizzano i tempi «penitenziali», come è appunto la Quaresima: i 40 giorni che anticipano la Pasqua. La Quaresima è stato sempre tempo di preparazione e di penitenza. Preparazione, soprattutto per i primi secoli della cristianità, per i catecumeni che ricevevano il battesimo il giorno della Pasqua; ma per tutti i cristiani è sempre preparazione e penitenza per vivere questo periodo come reale opportunità di conversione. Il digiuno è allora un «dono» che Dio offre agli uomini, soprattutto nel tempo di grazia della Quaresima, a ricordo dei 40 anni dell'Esodo del popolo liberato dall'Egitto. Adamo, nel giardino aveva avuto la proibizione di mangiare dall'albero e – mangiandone – ha ceduto alla tentazione ed il Nuovo Adamo, Gesù, digiunando nel deserto per 40 giorni ha vinto la tentazione del diavolo. Il digiuno ha quindi anche un alto valore religioso e cristologico. Dal libro della Genesi leggiamo che Dio ha concesso di cibarsi delle carni non nell'Eden ma a Noè ed ai suoi figli con l'alleanza stipulata dopo il diluvio (Gen 9,1-3).



È legge divina, e non soltanto disposizione della Chiesa, che i cristiani praticano la penitenza nei tempi stabiliti (can. 1249 del Codice di diritto canonico). Praticare penitenza significa osservare il digiuno, incrementare le preghiere e la carità, ognuno come può e secondo il suo stato.

La chiesa italiana, fin dal 1966 stabilisce i periodi di digiuno e di astinenza:

· Il digiuno e l'astinenza, nel senso sopra precisato, devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri (o il primo Venerdì di Quaresima per il rito ambrosiano) e il Venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo; (sono consigliati il Sabato Santo fino alla Veglia Pasquale);

· L' astinenza deve essere osservata in tutti e singoli i venerdì di Quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19 o il 25 marzo). In tutti gli altri venerdì dell' anno, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità, si deve osservare l' astinenza nel senso detto oppure compiere qualche altra opera di penitenza, di preghiera, di carità.

Nel contempo ha stabilito come praticarli:

· la Legge del digiuno "obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po' di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate".

· La legge dell'astinenza proibisce l'uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, a un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi.

· Alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni fino al 60° anno iniziato; alla legge dell'astinenza coloro che hanno compiuto il 14° anno di età.

· Dall'osservanza dell'obbligo della legge del digiuno e dell'astinenza può scusare una ragione giusta, come ad esempio la salute. Inoltre, "il parroco, per una giusta causa e conferme alle disposizioni del Vescovo diocesano, può concedere la dispensa dall'obbligo di osservare il giorno di penitenza, oppure commutarlo in altre opere pie; lo stesso può anche il Superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, relativamente ai membri e agli altri che vivono nella loro casa".

In parole povere, il pesce può essere mangiato anche nei giorni di astinenza ma non deve essere particolarmente ricercato o costoso.

Il digiuno quaresimale ha certamente una dimensione fisica, oltre l'astinenza dal cibo, può comprendere altre forme, come la privazione del fumo, di alcuni divertimenti, della televisione,... Tutto questo però non è ancora la realtà del digiuno; è solo il segno esterno di una realtà interiore; è un rito che deve rivelare un contenuto salvifico, è il sacramento del santo digiuno.

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giovedì 25 febbraio 2016

TRAONA

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Traona è un comune ubicato sulla sponda destra del fiume Adda, alle pendici delle Alpi Retiche.

Circa l'origine del nome sono state avanzate diverse ipotesi, che fanno tutte derivare il nome dal latino. La derivazione più accreditata è quella data dallo storico svizzero Giovanni Guler von Weinech, che fa risalire l'origine del toponimo all'espressione "terra bona", data la particolare fertilità del terreno e la salubrità del clima. La presenza umana nel territorio di Traona nell'età antica è attestata da un avvelo sepolcrale del sec. V d.C., rinvenuto durante dei lavori svoltisi nel cortile del municipio durante gli anni '80.

Traona possiede molte e importanti frazioni tra cui le principali sono: Valletta, Somagna, Poiach, Convento, Coffedo, S. Apollinia, S. Caterina di Corlazio, Pianezzo, Moncucco, Bioggio.

Traona è certamente uno fra i più antichi e splendidi borghi della Valtellina, in particolare per la sua posizione centrale e strategica sulla "solatia costiera dei Cech" di cui ne è stato per 900 anni il capoluogo indiscusso . Nove secoli a partire dall'800 , di grandi avvenimenti e grandi mutamenti che hanno fatto di Traona e del suo territorio "comunitas montanae Domopholis" un grande protagonista ,contribuendo suo malgrado anche a condizionare non solo la storia della Valtellina ,ma anche quella dell'Italia e addirittura dell'Europa. Per risalire alla sua prima citazione storica si deve andare al 829 anno in cui il Vescovo di Novara Attone vende alcuni suoi beni al fedele Werentone e alla suora Romana in Travona. Ma la vera nascita storica di Traona, comincia nel 983 anno in cui l'imperatore Ottone II ,concede privilegi ad alcuni dei suoi servitori fedeli (I Vicedomini) consegnando loro la gestione politica ed economica delle terre valtellinesi. Questi ultimi, una volta in Valle, scelsero alcune sedi per il loro dominio, una fra queste fu Traona, in particolare per la sua posizione baricentrica per il controllo dei loro nuovi territori. Una scelta che segnerà l'inizio della lunghissima storia Traonese. E' così a Traona sono arrivati oltre ai Vicedomini, i Parravicini, i Malacrida, i Vertemate, gli Omodei e molte altre famiglie. Queste famiglie tutte di origine comasca, cominciarono una parziale ricostruzione del borgo sulla costiera, scegliendo per il loro controllo terriero il poggio di Domofole, riattando un vecchio maniero già esistente, ma un po' malconcio. Ben presto questi interventi, sia di ordine urbanistico che di ordine strategico, fecero accrescere il controllo totale sull'intera bassa Valle, tanto che Traona divenne ben presto il capoluogo incontrastato del Terziere inferiore, segmento territoriale in cui fu divisa per secoli l'intera Valtellina.

Così i padroni di Traona divennero anche sempre più ricchi imponendo a tutti regole e comportamenti ben precisi. Quest'ultimi imposero di pagare un dazio su quasi tutte le merci che, provenienti dal milanese erano dirette in alta Valle; istituirono il diritto di centena sul bestiame in transito da e per la Valle; incassarono denari sulla fluttuazione dei tronchi sull'Adda che scendevano dall'alta Valle verso il lago di Como.

Sin dai tempi più lontani l'economia prevalente dell'intero territorio di Traona è sempre stata prodotta solo ed esclusivamente da un comparto agricolo vivo e fiorente nelle sue più svariate sfaccettature di cui l'allevamento del bestiame ne era la sua componente principale. Tutto ciò è sempre stato favorito dalla splendida posizione ed esposizione geografica . Infatti, l'intera costiera dei Cech esposta completamente a Sud , possiede un microclima mediterraneo particolarissimo. Questa situazione climatica consente la buona maturazione sia alle coltivazioni tipiche delle zone prealpine, sia ad altre assai pregiate, quali la vite che è prevalente, ma anche l'ulivo e ogni sorta di floricoltura. A questa economia, che ancora oggi produce reddito, ora si affiancano nuove e moderne attività artigianali di completamento, facendo di Traona uno dei borghi della Valle più attivo e anche sufficientemente ricco. Ultimamente si guarda anche ad un certo interesse per gli investimenti turistico-culturali, visto sia le notevoli potenzialità territoriali sia le numerose testimonianze storiche ancora esistenti del suo glorioso passato.

Il suo confine passa, nell’angolo di sud-est, dal ponte sull’Adda che si trova all’ingresso settentrionale di Morbegno (e per il quale si accede alla strada provinciale n. 4 Valeriana occidentale),e seguono, verso ovest, per un buon tratto, il fiume Adda. Poi, prima di Piussogno, il confine volge a nord, passando ad est di questa località e salendo lungo il versante montuoso per il quale passa la strada che da Piussogno sale a Cercino. Volge poi a nord-est, includendo la frazione di Moncucco, fino ad una quota di 625 metri circa; qui prende di nuovo la direzione nord, salendo fino al crinale che separa la Costiera dei Cech dalla Valle dei Ratti (punto di massima elevazione del territorio comunale, m. 2200). Segue, poi, solo per breve tratto il crinale, verso est, scendendo quasi subito verso sud-sud-est.
Della fascia di alta montagna a monte di Traona rientra nel suo territorio il Piazzo della Nave (m. 2010), mentre ne resta fuori, in territorio del comune di Mello, l’Oratorio dei Sette Fratelli. Scendendo alla media montagna, troviamo nel territorio di Traona i prati di Bioggio (termine connesso con la voce dialettale “bedoia”, betulla, oppure con “Biogio”, soprannome personale), che si stendono su una fascia compresa fra i 1250 ed i 1350 metri, mentre ne restano fuori i prati Aragno, più in basso, a 1150 metri (comune di Mello). Il confine scende ulteriormente per il largo dosso sul quale è tracciata la pista che da S. Giovanni di Bioggio (m. 697) sale ai prati Aragno; la chiesetta di S. Giovanni rientra, appena, nel territorio di Mello, mentre rientra in quello di Traona il nucleo di Bioggio, a 771 metri. A quota 450 metri circa il confine volge verso sud-est ed est, procede per un buon tratto, fino al versante che sta immediatamente a valle di S. Croce (che appartiene al comune di Mello): qui volge a sud e scende al ponte sul fiume Adda, dal quale siamo partiti. Rientrano, quindi, nel territorio di Traona in questa fascia che si colloca sulle prime falde del monte della costiera, da ovest, le frazioni di Coffedo, Convento, Mentasti, Poncia, Ca’ Pensa, Isolabella e Valletta.

All'ingresso del paese è ben visibile l'arco dell'antica porta d'accesso a Traona, che fungeva anche da dogana, perchè qui venivano riscossi i diritti di dazio per le merci in transito e soprattutto per il bestiame. Alle spalle dell'arco, vediamo la sede comunale in uno dei palazzi Parravicini e, sul prato antistante, un avello sepolcrale che risale al V secolo. Nel centro del paese diversi palazzi storici e cade di particolare pregio ne testimoniano i fasti e l’antica nobiltà: vi si trovano due palazzi Parravicini, un palazzo Parravicini-De Lunghi, un palazzo Vertemate, una casa Torri, una casa Massironi ed una casa Bellotti.
Ma nulla rappresenta visivamente in misura maggiore lo spirito fiero del paese della sua chiesa parrocchiale, dedicata a S. Alessandro, che se ne sta alta, sopra le case, su un poggio rafforzato da grandi muraglioni. Vi si accede, dal centro del paese, per una stradina acciottolata circondata da un alto muro. La sua presenza è attestata dal 1286, ma è dal secolo XV che divenne il centro della devozione plebana (prima lo era la chiesetta di S. Maria di Bioggio, fra i boschi della mezza montagna). Dal bel porticato, quattrocentesco, lo sguardo si può posare sull'intero paese, ma spazia anche oltre, soprattutto in direzione degli ultimi lembi di Valtellina. Un panorama eccellente, di ampio respiro, come di ampio respiro è la storia del paese il cui spirito di pacata nobiltà ancora aleggia nell'ampia spianata del sagrato.

Per la posizione strategica e per l'audacia dei padroni delle terre, un po' per l'intraprendenza e la caparbietà della comunità , Traona ha saputo segnare davvero il suo tempo storico per molti e molti secoli. Ora le cose sono cambiate, Traona è ormai un ridente e fiorente borgo che ha saputo stare al passo coi tempi, conservando fra i suoi tortuosi vicoli, per la verità un po' a fatica, il suo glorioso passato storico in cui dominava le terre da Olonio a Buglio, la costiera invece piano piano si sta trasformando in una piacevole zona di residenza e di villeggiatura per molti turisti che provengono per lo più dal lago di Como e dal milanese.








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mercoledì 24 febbraio 2016

SONDALO

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Sondalo è un comune che fa parte della Comunità montana Alta Valtellina.

L'ospedale Morelli, ex sanatorio, è un centro di rilevanza nazionale per la cura delle patologie polmonari ed è il più importante ospedale della Valtellina. Secondo l'analisi di Luisa Bonesio si tratta inoltre di un straordinario esempio di realizzazione architettonica, paesaggistica e urbanistica.

Ogni anno, presso il centro polifunzionale di Sondalo, si svolge uno dei motoraduni più grandi d'Europa: il Motoraduno Stelvio International. Ogni anno sono presenti in media 9.000 motociclette e 15.000 persone di ogni nazionalità. Il raduno è ufficiale FIM e FMI e si tiene il primo weekend del mese di luglio. La durata è di tre giorni, durante i quali si susseguono manifestazioni organizzate a sfondo motociclistico. Si può assistere anche a concerti e gustare piatti tipici valtellinesi, come i pizzoccheri. Inoltre si susseguono ininterrottamente performance dei partecipanti stessi. Il culmine della manifestazione si raggiunge il sabato sera, quando molti partecipanti danno vita ad una sfilata notturna sulle strade che costeggiano le montagne circostanti, creando un effetto simile a un serpente di luci.

Nell'estate del 2013 la società calcistica della città di Chiavari (Ge) Virtus Entella militante nel campionato di Lega Pro Prima Divisione viene ospitata dalla città per il ritiro estivo.



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martedì 23 febbraio 2016

LIVIGNO

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Le origini del nome Livigno sono controverse. Secondo lo storico Sertoli Salis, Livigino è detto in antico "Vinea et Vineola".Quella antica grafia senza il prefisso "Li", mantenuta fino al 1399, nulla ha a che vedere con la coltivazione della vite: è assolutamente da escludersi che vi siano mai stati dei vigneti. Altri lo fanno derivare dal termine "lovin" che significherebbe lupino.
L'origine etimologica più verosimile e probabile è la corruzione del termine "lavina" (ladino: "lavina"; bormino: "leina"; antico tedesco: "Lobine") che corrisponde a "valanga di neve".
Considerando il fatto che la vallata di Livigno rimaneva e rimane per moltissimi mesi sommersa da uno spesso strato di neve, possiamo facilmente avvalorare la tesi dell'origine del nome di Livigno dall'antico "lavina".

Nell'VIII secolo il territorio passò di proprietà dal Convento dei Cappuccini alla Comunità di Bormio in cambio di una botte di vino. Verso il 1300 si individuano i primi elementi storici di residenti stabili e organizzati: essi ottengono dai vicini Grigioni il permesso di vendere sui loro mercati i loro prodotti agricoli, in cambio ottengono l'autorizzazione a importare polvere nera e sale, esenti dai dazi applicati ad altri confinanti. I rapporti sociali, economici e politici erano prevalenti verso l'area del canton Grigioni anziché verso i padroni di Bormio, con i quali era in atto un contenzioso permanente. L'isolamento geografico condizionava ogni possibilità di progresso, benessere e crescita culturale. Non di meno si intrattenevano rapporti sociali con la valle dell'Engadina anche per la maggior facilità degli accessi: esistevano scambi di denaro, mediante prestiti e depositi; l'assistenza sanitaria in Livigno si appoggiava prevalentemente ai medici svizzeri perché ritenuti più esperti dei mali e delle cure in uso a quei tempi; gli scambi di merci avvenivano fra Livigno e la valle engadinese.

La lana prodotta dalle tante pecore allevate in Livigno si trasportava a Tubre per venderla ai mercanti che rifornivano i lanifici della Repubblica di Venezia. La via di percorrenza era la Valle del Gallo, l'Alpe del Gallo, il Giufplan e giù per la Val Monastero. Dalla stessa strada arrivavano il sale, la polvere nera, le patate e la farina, mentre dalla Forcola, Val Poschiavo e Tirano arrivavano i cereali e il vino. I trasporti avvenivano col "brozz" (carro a due ruote a trazione animale) e col "bast" (basto da carico per muli e cavalli). Nel 1600-1700 in diversi momenti gli abitanti di Livigno riuscirono a ottenere e mantenere diverse forme di concessioni e autonomie di fatto, soprattutto sugli scambi di merci in esenzione dai dazi, sui sentieri di percorrenza e sulle fonti d'acquisto. Verso la fine del Settecento l'Impero d'Austria riconobbe ufficialmente le autonomie e le franchigie della Comunità di Livigno. Nel 1805 il Comando Napoleonico di Morbegno riconobbe ufficialmente le franchigie di Livigno.

Questo decreto fu prontamente riconfermato dall'Impero d'Austria nel 1818. Da quest'ultima data cominciò l'attività politica dell'Amministrazione Pubblica di Livigno a tutela delle proprie franchigie, dei propri contingenti di importazione e di esportazione in esenzione dai dazi. Nei tempi della controriforma Bormio fu presidiata dai Gesuiti a difendere il cattolicesimo contro le infiltrazioni dei protestanti e Livigno si trovò in mezzo, tra i protestanti svizzeri e i Gesuiti di Bormio, con le complicazioni del caso. Nel 1914 l'esercito italiano costruì e aprì la strada di collegamento Bormio-Livigno. Nel 1960 cominciò un limitato movimento turistico, ma fu solo dopo il 1968, a seguito della costruzione del bacino del Gallo, che si aprì la strada verso i mercati del nord attraverso il Tunnel Munt La Schera che di fatto diede inizio allo sviluppo turistico della località. Nel 1960 ne fu ottenuto il riconoscimento formale della CEE. Per molti decenni andò avanti un contenzioso fra le autorità amministrative provinciali e l'Amministrazione di Livigno per l'assistenza sanitaria: quelli chiedevano la nomina d'un medico italiano, questi continuavano a nominare medici svizzeri, non riconosciuti dall'autorità italiana. Nel 1972 vi furono l'istituzione dell'IVA e il relativo riconoscimento ufficiale della sua esenzione per la zona extradoganale di Livigno. Nel 1975 fu sede della VIII Universiade invernale.
Le prime esenzioni alla base dell’attuale zona franca risalgono al 1538. In quell’anno Livigno ottenne dalla comunità di Bormio l’autonomia per il godimento di pascoli e boschi, per il pagamento di decime alla Curia di Como, per la manutenzione di strade e ponti e per il transito di merci. Livigno difese per secoli l’autonomia conquistata: nel 1805 Napoleone riconobbe il Beneficio doganale, che fu confermato nel 1818 dall’Imperial Regia Intendenza austriaca di Morbegno e poi ampliato dal Regno Lombardo Veneto nel 1841. 
Entrata a far parte del Regno d’Italia, nel 1861, Livigno chiese conferma dei suoi privilegi. La ottenne con la legge del 17 luglio 1910, che riconobbe l’extradoganalità e fissò i confini e i benefici per gli abitanti, regolamentati ancora nel 1911, 1934, 1940, 1954 e 1973. Anche la Cee ha riconosciuto i diritti di Livigno nel 1960.

Questo status, comune anche alla vicina località engadinese di Samnaun, ha favorito lo sviluppo turistico a partire dalla fine degli anni cinquanta. 

I prezzi delle merci vendute a Livigno sono esenti IVA. Chi visita Livigno trova conveniente l'acquisto di tabacchi, zucchero e alcoolici, nonché merci di maggior pregio di cui occorre verificare la convenienza (profumi, orologi ecc.), le merci acquistate devono rimanere entro i limiti stabiliti dalle tabelle doganali. È pure conveniente il rifornimento di carburante: si noti che è possibile esportare solo il carburante contenuto nei serbatoi dei veicoli medesimi (quindi si può fare un pieno senza particolari limiti) oppure in taniche omologate aventi capienza non superiore a 10 litri, pena severe sanzioni.

La particolare situazione doganale ha creato una situazione anomala di "turismo commerciale" cioè di un rilevante trasferimento di persone che si spostano prevalentemente per acquistare a prezzi più favorevoli. Tale situazione è anche evidente nella alta densità, struttura e dimensione dei negozi.

L'originario principale motivo della nascita della zona franca era correlata all'isolamento che ha lungamente caratterizzato questa località; si pensi che sino all'inverno del 1952/53 (anno di avvio dell'apertura invernale del Passo del Foscagno) la comunità di Livigno rimaneva completamente priva di qualsiasi via di comunicazione con il resto del mondo per l'intero inverno, dalle prime nevicate autunnali fino allo scioglimento delle nevi nella primavera.

Durante il periodo invernale sono molte le persone che raggiungono la località per trascorrere una vacanza sulla neve. Le strutture turistiche invernali sono ottime e inoltre l'elevata altitudine (il centro dell'abitato è situato a 1816 m s.l.m. con piste da sci sino ai 2.800 metri in areale centro-alpino) consente a Livigno di avere facilmente condizioni ottimali della neve, ricorrendo solo occasionalmente all'innevamento artificiale, che è invece ormai una necessità imprescindibile per molti altri centri di villeggiatura invernale.

Durante la stagione estiva non mancano i villeggianti che approfittano della zona extra-doganale per fare shopping o che, attirati dall'altitudine del luogo, lasciano le città calde e afose per rifugiarsi nel fresco clima di Livigno. Questa località è infatti conosciuta anche come "il piccolo Tibet", in ragione delle caratteristiche geomorfologiche del luogo, che sono in parte simili a quelle himalayane (Livigno è infatti un altopiano circondato da montagne nel cuore delle Alpi Retiche).

Livigno, secondo comune tra i più elevati d'Italia, è il più settentrionale della Lombardia e il più popolato fra i 26 comuni italiani posti oltre i 1.500 metri di altitudine sul livello del mare. Zona extradoganale, fa parte della Comunità montana Alta Valtellina ed è una rinomata stazione turistica invernale ed estiva delle Alpi.

Livigno è una località dell'alta Valtellina posta su un altopiano a circa 1800 m di quota s.l.m., ai piedi delle Alpi di Livigno. Il paese si snoda lungo la strada che percorre per oltre 15 km l'intera valle attraversata dal torrente Spool che convoglia le proprie acque verso l'Eno (Inn) e da questo al Danubio. Livigno è quindi uno dei comuni italiani non appartenenti a bacini idrografici italiani.

È raggiungibile dal resto del territorio nazionale dalla Valtellina attraverso il Passo del Foscagno, (mantenuto di norma aperto tutto l'anno), percorrendo la Strada statale 301 del Foscagno; oppure dalla Svizzera tramite la Forcola di Livigno (transitabile solo in estate) passando per la Valle di Poschiavo oppure dall'Engadina tramite il passo del Bernina. L'accesso di fondo valle è possibile attraverso il tunnel stradale Munt La Schera, dall'Engadina. Il tunnel di circa 3,5 km di lunghezza è a corsia unica (senso unico alternato), a pagamento di pedaggio. Il tunnel collega la parte bassa e alta dello Spool evitando il tratto impraticabile del torrente.

Nel suo territorio è compresa la frazione di Trepalle, che si sviluppa fino a 2.250 metri s.l.m. Tale quota ne fa l'abitato permanente più alto d'Europa, nonché una tra le più fredde località italiane.

Il clima di Livigno è tipicamente alpino, con inverni lunghi e rigidi ed estati brevi e fresche. Durante le ondate di freddo più intenso il termometro può precipitare fino ai -28 °C, durante le giornate estive più calde la temperatura non supera generalmente i +23/+24 °C.

Livigno, incastonato tra l'Engadina e l'alta Valtellina, è un'incantevole valle che si allunga per 12 km. Tra due catene di monti che discendono dolcemente dai 3000 m. ai 1800m. del paese, costituito da una serie ininterrotta di abitazioni in legno e sassi. Con la vicina e graziosa frazione di Trepalle, l'abitato permanente più alto d'Europa, Livigno è una della più importanti e attrezzate stazioni turistiche delle Alpi che, con più di cento accoglienti alberghi, offre al visitatore stupende vacanze a contatto con la natura e con la tradizione alpina per tutto l'arco dell'anno.

Per capire la dimora tradizionale livignasca occorre rifarsi ai tre elementi storici dell'economia locale: il bosco, il prato e la neve. I boschi hanno qui una natura secolare. Essi si formano molto lentamente perché il ciclo vegetativo delle piante è qui di soli quattro mesi l'anno. Per gli altri otto mesi le piante vivono una sorta di letargo. Questi boschi hanno dato il legno per le case di Livigno. I boschi sono sempre stati sacrificati al prato. Il contadino livignasco ha avuto storicamente gran fama per la cura di ampie superfici a prato dato che a queste altezze il fieno si taglia una sola volta all'anno, mentre l'attività zootecnica, l'unica possibile da queste parti, ha richiesto l'allargamento continuo della zona a pascolo. Da qui il forte disboscamento avvenuto nei secoli.
La struttura della dimora permanente è diversa da quella del pur vicino bormiese ed è funzionale al clima molto più rigido e alla presenza di abbondante legname.
La casa tradizionale più antica è costituita dall'abitazione ('l bàit) e da un rustico (toilà e stàla) giustapposti in linea o ad angolo, è completamente di legno (la presenza dello zoccolo in muratura indica che la costruzione è più recente); è edificata con dei tronchi sovrapposti uni agli altri.
Il tetto (téit), a due spioventi e falde poco inclinate, è coperto da un assito di larice traversato da travi che trattengono lo scivolamento della neve, oppure ha una copertura di piccole "scàndole", cioè scaglie di larice. Rari i comignoli, piccole le finestre, per evitare la dispersione di calore e provviste di doppi vetri e scuri interni.

La suggestione ambientale di Livigno è dovuta in gran parte alle conformità delle sue montagne e all'apertura della vallata. Il fondovalle nei 12 Km. lungo i quali si snoda il paese degrada di appena 100 m., cioè è quasi completamente piano. E' questo straordinario fondovalle piatto che accentua la caratteristica irreale del filiforme abitato. Livigno è stato un classico "villaggio di strada", con le case di legno allineate in ordine sparso, alla base dei prati per evitare il faticoso trasporto del fieno e sfuggire alle valanghe, distanziate le une dalle altre per evitare il pericoloso propagarsi degli incendi, composte dall'abitazione vera e propria e da un piccolo rustico.

Oggi Livigno ha diecimila ettari di pascolo e una vastissima superficie a prato. Questo bosco a sfumatura alta, che si è ritirato per far posto al verde, si sublima nella bàita livignasca.
Fino a qualche decennio fa l'aspetto di Livigno era quello di un museo all'aperto.
Museificare Livigno sarebbe stato spopolarlo dei suoi abitanti e condannarlo probabilmente ad un isolamento ancor più crudele di quello secolare a cui lo aveva destinato la natura.
La scelta dello sviluppo turistico è stata perciò un'occasione per dare un futuro alla zona.
Ciò ha comportato inevitabilmente nuove costruzioni e si è persa quella caratteristica sgranata dell'abitato, quella separazione da una casa all'altra che, nata per ragioni di protezione, marcava tuttavia, all'interno dell'isolamento generale di Livigno, l'individualismo e l'auto-isolamento dei gruppi familiari livignaschi. Tutto dunque, nella famiglia livignasca era organizzato per l'autosufficienza, per sopravvivere in lunghi periodi di isolamento.
L'economia zootecnica riduceva quasi completamente la dipendenza dall'esterno. La casa era l'appendice terminale del prato e il suo punto di diramazione. La "Tea", cioè la dimora temporanea estiva, era posta un po' più in alto in cima agli appezzamenti di prato.

L'artigianato locale è incentrato sulla produzione del tappeto tipico denominato il <<pezzotto>> valtellinese, caratterizzato da una grande vivacità e varietà di colori, oltre a pregevoli disegni geometrici. Diffusa e apprezzata anche la lavorazione del peltro finalizzata alla produzione di oggetti artistici, monili, trofei, vassoi e piatti.

Il termine Ghibinèt (probabilmente dal tedesco Gabe Nacht) designa l'epifania livignasca e dell'alta Valtellina (gabinàt). I bambini entrano nelle case dicendo: "Bondì, ghibinèt!" e le persone contraccambiano con dolciumi e piccoli doni.

Il carnevale livignasco segue la tradizione occidentale, per cui è animato da carri allegorici, maschere e giochi popolari, quali il palo della cuccagna e competizioni agonistiche; peculiarità del carnàl da livìgn è la presenza dei sonét, che nonostante il termine non hanno a che fare col sonetto, ma che si trattano di componimenti in versi di stampo satirico.

Il marchè di venciun era ed è tutt'oggi la festa di chiusura dell'anno agricolo. Dopo la transumanza dalle baite (in livignasco tee) alle stalle del paese dove gli animali erano ricoverati da settembre a giugno, si festeggiava la fine della fienagione. Quest'ultima durava da metà luglio fino alla fine di agosto, al massimo ai primi di settembre. Il 21 settembre, giorno di marchè di venciun, si teneva la fiera campionaria del bestiame giovane, composto da vitelle, manze, giovenche, tutte di razza bruna. Questa tradizione si mantiene fino ai nostri giorni.
In settembre a Livigno si svolge un importante e prestigioso Torneo Internazionale di Scacchi (Livigno Chess Open) organizzato dal Circolo Scacchistico cittadino "Amos Cusini", giunto nel 2012 alla terza edizione il torneo richiama scacchisti da tutto il mondo. A vincere il torneo nel 2010 è stato il Grande Maestro russo Igor Naumkin, nel 2011 il Grande Maestro russo Sergey Volkov e nel 2012 il Grande Maestro italiano Alberto David.

Ogni anno, nel mese di luglio, la città ospita la Stralivigno, una manifestazione podistica internazionale competitiva di 21 km.







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lunedì 22 febbraio 2016

LA SANTA PROTETTRICE DELLE PROSTITUTE

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Margherita da Cortona (Laviano, 1247 – Cortona, 22 febbraio 1297) è stata una religiosa italiana, appartenente al Terz'Ordine francescano secolare. Nel 1728 è stata proclamata santa da papa Benedetto XIII.

Di umili origini, venne battezzata presso l'antica pieve di Pozzuolo Umbro, dove attualmente sorge la chiesa dei Santi Pietro e Paolo: rimase presto orfana di madre e dall'età di diciassette anni visse come concubina con un nobile di Montepulciano, Arsenio (identificato con Raniero del Pecora, dei signori di Valiano), dal quale ebbe anche un figlio.

La coppia passava molto tempo in una residenza di caccia nelle colline al confine tra Umbria e Toscana, appartenente al feudo valianese dei Del Pecora. Ancora oggi, in questo castello, si trova una cappella ricavata dall'antica entrata del castello dedicata alla santa, che visse in quelle stanze nel XIII secolo.

Nel 1273 Arsenio, durante una battuta di caccia in una delle sue proprietà di Petrignano del Lago, venne aggredito e assassinato da un gruppo di briganti: Margherita, secondo la leggenda, seguì a piedi il cane di Arsenio dalla sua residenza presso Valiano fino in località Giorgi, presso un piccolo boschetto, dove trovò il corpo dell'amante; vicino alla quercia secolare dove si colloca l'accaduto, è sorta una chiesetta in onore della Santa e della cosiddetta "Quercia del Pentimento".

Scacciata col figlio dai famigliari dell'amante, rifiutata dal padre e dalla sua nuova moglie, si pentì della sua vita e si convertì. Si avvicinò ai francescani di Cortona, in particolare ai frati Giovanni da Castiglione e Giunta Bevegnati, suoi direttori spirituali e poi biografi: affidò la cura del figlio ai frati minori di Arezzo, e nel 1277 divenne terziaria francescana, dedicandosi esclusivamente alla preghiera ed alle opere di carità.

La sua spiritualità pone attenzione particolare alla Passione di Cristo, in linea con quanto vissero Francesco d'Assisi, Angela da Foligno e più tardi Camilla da Varano. Margherita, infatti, visse numerose crisi mistiche e visioni. Diede vita ad una congregazione di terziarie, dette le Poverelle; fondò nel 1278 un ospedale presso la chiesa di San Basilio e formò la Confraternita di Santa Maria della Misericordia, per le dame che intendevano assistere i poveri ed i malati.

Donna mistica, ma anche di azione, coraggiosa, ricercata per consiglio, fu attenta alla vita pubblica e, nelle contese tra guelfi e ghibellini, fu operatrice di pace presso i feudi di Montepulciano.

Onorata come beata sin dalla morte, Innocenzo X ne approvò il culto il 17 marzo 1653, ma fu canonizzata soltanto il 16 maggio 1728 da Benedetto XIII con l'appellativo di Nova Magdalena.

Il Martirologio Romano fissa per la sua memoria liturgica la data del 22 febbraio.

Margherita è la protettrice delle prostitute pentite e si dice che la santa, secondo quanto promesso in vita, andrebbe a visitare in Purgatorio tutti coloro che prima di morire l’avessero invocata.

La biografia redatta dal suo confessore frà Giunta Bevegnati (in AA. SS., mense Februarii, die 22), con i racconti delle numerose estasi e visioni di Margherita, ha contribuito a renderla una delle sante più popolari dell'Italia centrale.

Il suo corpo è conservato a Cortona, nella basilica a lei dedicata, in un'urna collocata sopra l'altare maggiore, bordata da una cornice in pasta vitrea e lamina d'argento sbalzato e cesellato.

Presso la frazione Giorgi di Petrignano, nel luogo della tragedia e decisione di conversione (il cosiddetto Pentimento) vi è una pieve ed una quercia tuttora in vita ai cui piedi ella pregò, considerata sacra ed intangibile. Nell'estate 1972, per il settimo centenario dell'evento ci sono state grandi celebrazioni nel Castiglionese con ostensione delle sue spoglie.

Nell'arte, è spesso raffigurata col saio francescano ed il velo bianco, in compagnia di un angelo consolatore (Traversi) o in estasi davanti al Cristo (Lanfranco): è sempre accompagnata dal cane che le fece scoprire il cadavere dell'amante (Benefial).

Alla figura di Margherita da Cortona è ispirato il film storico del 1950 che porta appunto il suo nome - Margherita da Cortona, diretto da Mario Bonnard.

Sulla medesima religiosa, Licinio Refice compose un'opera lirica in un prologo e tre atti intitolata anch'essa Margherita da Cortona.




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domenica 21 febbraio 2016

TEGLIO

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Teglio è un comune situato nella media Valtellina.

Gli insediamenti umani nel territorio dell’attuale Teglio furono di molto precedenti ai primi secoli dell’era cristiana, favoriti, senza dubbio, dall’eccezionale mitezza e felicità dei luoghi. I ritrovamenti delle stele di Caven, di Valgella, di Cornal e di Vangione, oltre che delle asce bronzee del Bondone e di Tresenda, attestano la presenza di insediamenti umani in età preistoriche. È assai probabile che il territorio tellino abbia ospitato, in tali epoche, più castellieri, cioè luoghi fortificati che sfruttavano posizioni naturali già di per sé propizie per la difesa. Un castelliere è, in un certo senso, l'antenato del castello: si tratta di un piccolo villaggio fortificato, costituito da una torre centrale e da una cerchia di mura, di cui sono rimaste tracce, che rimandano ad epoche preistoriche, nell'Istria e nella Venezia Giulia. In epoca romana queste strutture furono utilizzate come fortilizi, spesso trasformati, infine, in epoca medievale, nei più conosciuti castelli. Prima dell’epoca romana, entrarono in Valtellina popolazioni di orogine ligure ed etrusca (la stirpe dei Reti, così chiamati dal mitico condottiero Reto, che li guidò nella colonizzazione dell’attuale Rezia, è nord- etrusca); solo marginalmente, invece, vi misero piede i Celti. Solo con la spedizione di Druso (16-15 a.C.), in età augustea, i Romani penetrarono in Valtellina, estendendovi il proprio imperium, anche se la valle rimase decisamente periferica rispetto alla vicina Valchiavenna, nodo dei transiti fra mondo latino e territori a nord delle Alpi: l’Itinerarium Antonini e la Tabula Peutingeriana, infatti, citano la seconda, ignorando la prima. I castellieri tellini divennero, con tutta probabilità, castelli romani, in virtù della centralità di Teglio e della sua posizione decisamente strategica.

La disgregazione dell’Impero Romano d’occidente portò alle invasioni (o migrazioni, a seconda dei punti di vista) delle popolazioni germaniche e probabilmente Chiavenna fu inglobata, dopo il 489, nel regno ostrogoto di Teodorico, in quel medesimo tardo V secolo nel quale, come abbiamo visto, per la prima volta è attestato il nome della valle e, fatto decisamente più importante, vi inizia la penetrazione del cristianesimo. Furono gettate le basi della divisione di Valtellina e Valchiavenna in pievi. “La divisione delle pievi”, scrive il Besta, “appare fatta per bacini… aventi da epoche remote propri nomi, come è infatti accertato per i Bergalei, i Clavennates, gli Aneuniates”. Esse, dopo il mille, erano San Lorenzo a Chiavenna, S. Fedele presso Samolaco, S. Lorenzo in Ardenno e Villa, S. Stefano in Olonio e Mazzo, S. Eufemia o S. Pietro in Teglio, dei martiri Gervasio e Protasio in Bormio e Sondrio e S. Pietro in Berbenno e Tresivio; costituirono uno dei poli fondamentali dell'irradiazione della fede cristiana.
La chiesa dedicata alle vergini martiri Eufemia, Agnese e Cecilia, anche se è attestata per la prima volta in un documento datato 8 novembre 1117, venne fondata fra il V ed il VII secolo d.C. La scelta di santa Eufemia ha un'evidente connessione con Bisanzio: nella basilica di Calcedonia a lei dedicata (sul Bosforo, non lontano da Bisanzio), si tenne, nel 451, quel Concilio di Calcedonia che sancì il dogma della duplice natura, umana e divina, di Cristo. Al concilio partecipò anche il vescovo di Como Abbondio, cui è legata la cristianizzazione della Valtellina. E' quindi probabile che si debba a lui l'iniziativa di fondare la chiesa di Teglio e di dedicarla alla santa venerata con particolare devozione a Costantinopoli. E' anche possibile che il legame con Bisanzio sia dovuto alla presenza di una roccaforte bizantina insediatasi a Teglio dopo l’offensiva che riconquistò alla “romanità” la valle della Mera e dell’Adda, strappandole ai Goti. I bizantini tennero le valli anche dopo l'irruzione e la conquista dei Longobardi (568), ed il “castrum tellinum” fu il centro del sistema difensivo che si opponeva a questi ultimi; solo nell'VIII secolo, con il re Liutprando (o forse prima, nel 701, con Ariberto II), il confine dei domini longobardi raggiunse il displuvio alpino e quindi divenne effettivo in tutta la valle. La presenza longobarda si concretizzò nell’istituzione del sistema della “curtis”, cellula tendenzialmente autosufficiente, costituita da una parte centrale, direttamente controllata dal signore (dominus) e da terreni circostanti coltivati (mansi), che dovevano conferire parte dei prodotti nella corte. La presenza militare fu rappresentata da contingenti di arimanni (uomini liberi e guerrieri) chiamati a presidiare le frontiere del regno e le più importanti fortezze, fra le quali prima era sempre quella di Teglio. Diverse tracce della presenza longobarda sono rimaste nella toponomastica; la più chiara è probabilmente quella della contrada Faraoni di Boalzo, che deriva da “fara”, la cellula di base del tessuto sociale di questo popolo germanico. Con i successori di Liutprando, Rachis ed Astolfo, nel medesimo VIII secolo, Valtellina e Valchiavenna risultano donate alla chiesa di Como: inizia così (se non risale già all’epoca romana) quel forte legame fra Valtellina e Como che ancora oggi permane nell’ambito religioso (Valtellina e Valchiavenna appartengono alla Diocesi di Como).
Il dominio longobardo fu però durò solo pochi decenni: i Longobardi furono sconfitti, nel 774, Carlo Magno, e Valchiavenna e Valtellina, rimasti parte del Regno d’Italia, furono sottoposte alla nuova dominazione franca. La frammentazione dell’Impero di Carlo portò all’annessione del Regno d’Italia al sacro Romano Impero. Ottone I di Sassonia, re d’Italia nel 951 ed imperatore nel 962, donò le castellanze di Teglio e Mazzo all’arcivescovo di Milano Valperto, che lo aveva appoggiato: così a Teglio si insediò il suo capitaneo, della famiglia dei Lazzaroni. Il 3 settembre 1024 l’imperatore Corrado succedette ad Enrico II, inaugurando la dinastia di Franconia, e confermò al vescovo di Como i diritti feudali su Valtellina e Valchiavenna; nel medesimo periodo un altro potente vescovo, quello di Coira, estendeva i suoi diritti feudali su Bormio e Poschiavo. A Teglio venne così confermato il singolare intreccio di poteri legati alla castellania, per i quali il borgo dipendeva dall’arcivescovo di Milano, e poteri legati alla pieve, per i quali dipendeva dal vescovo di Como. Agli inizi del XII le due città si scontrarono in una guerra decennale, che durò dal 1118 al 1127 e vide la sconfitta di Como. La guerra ebbe anche conseguenze sulla Valtellina, nella quale vennero molte famiglie esuli dalla sconfitta Como. Peraltro, forse il legame feudale fra la castellania di Teglio e Milano deriva proprio dall’esito di questa guerra. Gli arcivescovi di Milano investirono nel tempo diverse famiglie locali, in particolare i Lazzaroni e i Besta, dei loro diritti. Si trattava dei poteri di “districtio”, che comprendevano i diritti d’imporre tributi, di percepire pedaggi e di fare concessioni finanziarie, e di “iurisdictio”, cioè il potere giudiziario, facoltà che l’arcivescovo milanese detenne anche dopo l’incorporamento della valle nel dominio visconteo.
Il territorio della castellania, o castellanza di Teglio era delimitato sul versante retico dalla Val Rogna al confine con Chiuro e dalla Valle del Rio di Bianzone, sul versante orobico dalla Val Malgina fino al confine con Castello dell’Acqua e dalla Valle del Rio della Motta inclusa la Valle d’Aprica fino all’omonimo passo: l’area complessiva copriva circa la dodicesima parte dell’intera Valtellina, come attesta lo storico settecentesco Francesco Saverio Quadrio.
Sulla dipendenza feudale di Teglio da Milano leggiamo, nella II edizione della Guida alla Valtellina edita a cura del CAI nel 1884: “Federico Barbarossa assegna Teglio, insieme ad altri comuni della valle, alla città di Como. Ma non risulta che Como abbia potuto esercitare vera signoria sulla borgata. Invece è accertato che gli arcivescovi di Milano esercitarono su Teglio, più o meno efficacemente, insieme alla giurisdizione ecclesiastica, taluni diritti feudali fino al principio dei secolo decimo sesto. Di ciò si hanno non dubbie prove. L'Arcivescovo di Milano manda a Teglio ad amministrarvi la chiesa, gli Umiliati che fissano lor sede in un convento accanto alla chiesa di S. Orsola, ora distrutta e di cui parliamo più sotto. In un privilegio in data 26 agosto 1444, l'arcivescovo Enrico conferma a Mastino de Beata un antico feudo “paternum avitum et proavitum”, il qual feudo comprendeva tre peschiere nell'Adda, il villaggio di Nigola e i beni fondi circostanti. E in un documento di vendita colla data 3 marzo 1343 trovasi riserbato il jus di feudo e vassallaggio all'arcivescovo di Milano. Finalmente con istrumento in data 4 Agosto 1534 Ippollito II d'Este arcivescovo di Milano cede ad Andrea Guicciardi e ad Azzo Basta per quattro mila scudi d'oro ogni diritto feudale su quel di Teglio e moltissimi beni ivi situati “in quibus etiam compreensum est castrum seu dirupati castri Tillij cum casamenti…” Al fatto che la chiesa di Teglio appartenne alla diocesi di Milano accennano il Quadrio e il Cantù, ma nessun storico narra di diritti feudali che quell'arcivescovo esercitò su Teglio, forse in seguito a donazioni avute dal re franchi o dagli imperatori.”

Nel 1335 Como, e con essa Valtellina e Valchiavenna, vennero inglobate nella signoria milanese di Azzone Visconti.

Durante il dominio visconteo-sforzesco, il terziere superiore della Valtellina venne ripartito in baliaggi, uno dei quali era Teglio, con un proprio podestà, affiancato da un vicario. Dopo il 1381, anno in cui Giangaleazzo Visconti stabilì un governatore per la Valtellina (che svolgeva le funzioni di giudice universale di valle), coadiuvato da luogotenenti, podestà e vicari nei singoli terzieri, Teglio fu sede di una pretura.
Alla fine di quel medesimo secolo risalgono, probabilmente, gli Statuti Comunali: l’organizzazione comunale, infatti, si era già affermata nei secoli precedenti accanto a quella della castellanza, senza cancellarla, ma, anzi, riconoscendone la formale supremazia. Dunque, era il podestà, di nomina signorile, ad esercitare le forme più alte del potere: “La massima carica nella castellanza di Teglio era quella del podestà, non elettiva, ma di nomina spettante all’arcivescovo di Milano fino al XIV secolo, in seguito al duca di Milano. In essa si compendiavano i compiti onorifici di rappresentanza e l’effettivo disbrigo degli affari più delicati, tra cui l’esercizio della giustizia su tutti gli abitanti. Il podestà doveva prestare giuramento di fedeltà al signore e agli statuti di Teglio, che egli si impegnava ad applicare, rispettare e difendere. Il podestà aveva funzione di giudice unico di primo grado in campo civile e criminale, aveva potere di controllo sugli altri ufficiali e competenze in campo amministrativo; dirigeva e presiedeva i lavori dei consigli; era sua spettanza, con largo margine di discrezionalità, avviare le indagini e le inchieste su crimini presenti e passati, su richiesta o denuncia di parte ovvero d’ufficio. La carica era biennale o annuale, con possibilità di rinnovo. Il podestà aveva l’obbligo della residenza e di farsi rappresentare da un vicario o rettore in caso di assenza; doveva infine essere un estraneo che non avesse nella castellanza nè parentele nè interessi. Il podestà doveva pronunciarsi nel rispetto degli statuti comunitari, ai quali doveva giurare fedeltà all’atto del suo ingresso in carica”.
Di fatto, però, il territorio era governato nelle forme sancite dagli statuti e quindi gran peso avevano i consigli maggiore e di credenza. “Organo supremo del comune era il consiglio generale, o assemblea plenaria dei cittadini di maggiore età, cioè con più di 25 anni, cui si affiancava il consiglio maggiore e il consiglio di credenza, o giunta esecutiva, con 12 componenti; completavano il quadro delle cariche istituzionali quattro accoladri, consoli, canepari, e gli ufficiali del comune… A capo dell’amministrazione comunale c’erano due decani, eletti dal consiglio generale, che dovevano, in base all’antico costume e agli ordini di comunità, essere eletti uno tra i nobili e l’altro tra i contadini. Il rappresentante di Teglio al consiglio di valle era invece eletto dal consiglio minore… Tra gli incaricati del comune di Teglio c’erano gli ambasciatori o inviati della comunità, con avevano compiti e ricompense predeterminate e che dovevavo fornire una relazione scritta circa l’attività svolta; il procuratore del comune e i consoli erano eletti annualmente, dovevano rendere giuramento di retto esercizio delle funzioni nell’assumere l’incarico: i consoli delle vicinie avevano il compito di denunciare i crimini e le contravvenzioni compiuti nelle rispettive vicinanze; il notaio, eletto annualmente e con possibilità di rinnovo, dai consoli e procuratori, doveva stendere gli atti e le scritture della comunità, intervenendo ai consigli.
Ufficiali in senso stretto del comune erano i banditori o servitori, cioè i messi, con compiti di notificare, dare informazione degli ordini e di farli eseguire; i canepari; i saltari, con funzioni di controllo sulle campagne ed esecuzione delle relative cotravvenzioni; i pesatori del pane; i consiglieri eletti in rappresentanza delle singole contrade. Gli stimatori, in numero di quattro, determinavano in modo ufficiale il valore dei beni, sia mobili che immobili, in particolare nei casi di espropriazione forzata, in occasione di stime di valore elevato le decisioni dovevano essere collegiali. Gli accoladri di Teglio, in numero di quattro, si occupavano della riparazione e riattamento delle chiese, delle strade e dei ponti; definivano le controversie in materia di confini e di deflusso delle acque; recuperavano i beni di spettanza della comunità o di chiese e i tributi dovuti al comune e all’arcivescovo sui beni di proprietà privata: a Teglio infatti c’era l’obbligo di versare al comune e alla curia arcivescovile di Milano un corrispettivo nel caso di alienazione di beni, oltre alle periodiche onoranze o tributi che venivano trasferiti, in caso di vendita, in capo al nuovo proprietario. Gli accoladri soprintendevano inoltre all’apposizione dei termini (pietre di confine); avevano competenze in materia tributaria e giudiziaria: prendevano atto delle assegnazioni di ogni forestiero che venisse a stabilirsi nella comunità di Teglio, divenendo vicino di una delle due parti del comune (Verida o Pertinasca); spettava poi agli accoladri definire ogni controversia tra l’arcivescovo o i suoi rappresentanti da una parte e il comune o privati dall’altra; agli accoladri spettava la pronuncia in appello contro le sentenze del podestà in materia civile; avevano competenza nelle indagini sulle sottrazioni di legname dai ponti sull’Adda di San Giacomo e di Tresenda. Accanto agli accoladri esistevano altri magistrati in sottordine (temporanei o in esperimento) detti accoladroli.”

Il Quattrocento fu il secolo nel quale si ebbe una svolta decisiva che segnò l’inizio della decadenza della castellania di Teglio. Tutto ebbe inizio per le mire di espansione della Repubblica di Venezia sulla Valtellina, nodo strategico il cui possesso le avrebbe permesso di tenere saldamente nelle proprie mani le chiavi del commercio con i territori germanici d’oltralpe. La contesa fra Venezia e Milano ebbe come episodio decisivo la battaglia di Delebio, del 18-19 novembre 1432, che vedeva contrapposte le milizie ducali comandate da Nicolò Piccinino a quelle veneziane del provveditore Giorgio Corner. Le truppe venete stavano per avere la meglio, quand’ecco che Stefano Quadrio piombò alle loro spalle, con truppe ghibelline raccolte a Chiuro ed in altri comuni, capovolgendo le sorti della battaglia ed operando una vera e propria strage dei nemici.
La battaglia di Delebio ebbe una conseguenza rovinose: essa si era, infatti, schierata dalla parte di Venezia, consentendo il passaggio di truppe venete, che venivano dalla Valcamonica, per gli zappelli dell’Aprica. Il Quadrio mise, dunque, in atto una spedizione punitiva, assediò, prese e distrusse il castello di Teglio.

Quel medesimo 1432 vide, probabilmente, nelle vie di Teglio l'austera e santa figura di Bernardino da Siena, predicatore di pace e di composizione delle divisioni fra i Cristiani. Il suo simbolo si vede ancora su alcuni portali ed in alcune chiese.
Quindici anni dopo la battaglia di Delebio si estinsero i Visconti; terminata la breve esperienza della repubblica milanese (1447), i Milanesi accolsero come loro signore Francesco Sforza. Ma già cominciavano ad affacciarsi quelli che sarebbero stati, dal 1512, i nuovi signori delle valli dell’Adda e della Mera, le Tre Leghe Grigie (Lega Grigia, Lega Caddea e Lega delle Dieci Giurisdizioni, che si erano unite nel 1471 a Vazerol), che miravano ad inglobarle nei loro territori per avere pieno controllo dei traffici commerciali che di lì passavano, assicurando lauti profitti. In particolare, fra il febbraio ed il marzo del 1487 le milizie grigione, accogliendo l’invito del pontefice Innocenzo VIII, in urto con il duca di Milano, invasero il bormiese e scesero lungo la valle, saccheggiando sistematicamente i paesi da Bormio a Sondrio. A Teglio si vissero giorni di terrore: il podestà ducale venne assassinato ed il paese venno incendiato e saccheggiato. Le truppe ducali si mossero per fermarne l’avanzata e, dopo alcuni episodi sfavorevoli, riuscirono a sconfiggerle nella piana di Caiolo. Non si trattò, però, di una vittoria decisiva e netta, come dimostra il fatto che le milizie grigione si disposero a lasciare la valle solo dopo la pace di Ardenno (1487), che prevedeva il cospicuo esborso, da parte di Ludovico il Moro, di 12.000 ducati a titolo di risarcimento per i danni di guerra.  Di lì a poco, nel 1500, Ludovico il Moro con la sconfitta di Novara, perse il ducato di Milano ad opera del re francese Luigi XII. Per dodici anni i Francesi furono padroni di Valtellina e Valchiavenna; il loro dominio, però, per dispotismo ed arroganza, lasciò ovunque un pessimo ricordo.

Dopo il rovescio della Francia, eserciti grigioni si riaffacciarono in Valtellina ed iniziò la dominazione delle Tre Leghe Grigie (1512), questa venne salutata se non con entusiasmo,  almeno con un certo sollievo. Teglio, nonostante l’abbattimento della rocca, non aveva perso il suo valore, almeno simbolico, di centro della Valtellina, e fu scelta come luogo nel quale avvenne la firma dei patti che dovevano sancire la perpetua amicizia fra grigioni e valtellinesi: “In Teglio nel giugno del 1512 si segnarono i famosi cinque capitoli che dovevano regolare le relazioni tra le tre Leghe e la Valtellina, e se ne giurò dai delegati di entrambi le parti l'adempimento.”.
I nuovi signori proclamavano di voler esercitare un dominio non capace e prepotente, ma saggio e rispettoso delle autonomie dei valligiani, chiamati "cari e fedeli confederati" nel misterioso patto sottoscritto ad Ilanz (o Jante) il 13 aprile 1513 (di cui si conserva solo una copia secentesca, sulla cui validità gli storici nutrono dubbi); Valtellina e Valchiavenna figuravano come paesi confederati, con diritto perciò di essere rappresentati da deputati alle diete; le Tre Leghe promisero, inoltre,di conservare i nostri privilegi e le consuetudini locali, e di non pretendere se non ciò che fosse lecito e giusto. Ma, per mettere bene in chiaro che non avrebbero tollerato insubordinazioni, nel 1526 abbatterono tutti i castelli di Valtellina e Valchiavenna, anche perché non li potevano presidiare ed avevano dovuto subire, l'anno precedente, il tentativo, fallito, di riconquista della Valtellina messo in atto da un famoso avventuriero, Gian Giacomo Medici detto il Medeghino. Se i Grigioni abbatterono le torri, l'epidemia di peste di quel medesimo 1526 abbattè, nella sola Teglio, 1500 cristiani.
Le Tre Leghe concessero, comunque, a Valtellina e Valchiavenna, pur nella subordinazione, un alto grado di autonomia. La Valle, sempre divisa in tre Terzieri, era amministrata da un consiglio detto di valle, con deputati nominati da ciascuna delle giurisdizioni, gli agenti di valle. Ogni deputato era nominato dal consiglio di una singola giurisdizione (a Sondrio ne erano riservati 3). I due contadi di Bormio e Chiavenna si amministravano autonomamente, ma, per le questioni di comune interesse, mandavano il loro voto per iscritto, o deputati delegati a rappresentarne gli interessi. Avevano propri codici e statuti Chiavenna, la valle S. Giacomo, Piuro, le singole giurisdizioni della Valtellina, e la contea di Bormio.
Nel 1531 i Valtellinesi stesero un progetto di fusione delle leggi o statuti, e lo presentarono alla dieta o governo delle Tre Leghe Grigie, per l'approvazione col nome di Statuti di Valtellina, ove erano raccolte le disposizioni in materia civile e criminale e le discipline nel ramo acque e strade. Ogni comune, poi, aveva propri ordinamenti, chiamati Ordini comunali, approvati però dal governatore, come lo erano tutte le gride comunali, che ne portavano la firma, limitata però al nome di battesimo.
Il dominio dell’arcivescovo di Milano su Teglio cessò definitivamente nel 1531, dal momento questi statuti trovarono applicazione anche a Teglio. Tuttavia, fin dall’inizio della dominazione delle Tre Leghe Grigie venne riconosciuta l’autonomia della propria giurisdizione, e il consiglio minore del comune eleggeva un rappresentante che partecipava con un proprio voto alle sedute del consiglio di valle.
Teglio, infatti, vide riconosciuta dai nuovi dominatori la sua condizione del tutto peculiare rispetto agli altri centri della valle, per cui conservò il suo status di giurisdizione staccata dai terzieri valtellinesi, sebbene fossero in vigore anche a Teglio 1531 gli statuti di Valtellina. La giurisdizione di Teglio ebbe quattro consoli di giustizia e un magistrato onorario indipendente, con compito di soprintendere alla destinazione delle tutele e cure dei minori, amministrazione dei loro patrimoni, approvazione dei pubblici notai, il calcolo delle spese e l’approvazione annuale dell’estimo e dell’esborso. Il governo delle Tre Leghe Grigie stabilì in Teglio un podestà, o pretore, che rimaneva in carica un biennio, da giugno a giugno
I grigioni sentirono il bisogno, per poter calcolare quante esazioni ne potevano trarre, di stimare la ricchezza complessiva di ciascun comune della valle. Furono così stesi gli Estimi generali del 1531, che offrono uno spaccato interessantissimo della situazione economica della valle; 103 pertiche di orti sono stimate 603 lire; i prati ed i pascoli hanno un'estensione complessiva di poco più di 38856 pertiche e sono valutati 10750 lire; boschi e terreni comuni sono stimati 168 lire; campi e selve, estesi 12497 pertiche, sono valutati 9300 lire; 4299 pertiche di vigneti sono stimate 5791 lire; gli alpeggi, che caricano 675 mucche, vengono valutati 135 lire; due segherie, le fucine ed un forno fusorio sono valutati 148 lire; il valore complessivo dei beni è valutato 22297 lire (sempre a titolo comparativo per Tresivio è di 4259, per Chiuro di 13670, per Ponte di 13924 e per Montagna 13400), e conferma Teglio come terra particolarmente ricca. Nonostante ciò, nel 1534 l’arcivescovo di Milano cedette tutti i diritti feudali che aveva in Teglio, oltre che proprietà costituite da oltre seicento tra appezzamenti, terreni ed edifici al medico Andrea Guicciardi e ad Azzo II Besta per 4.000 scudi. Con questo atto appare evidente come fosse ormai venuto meno per lui ogni interesse sostanziale a conservare possedimenti che non dovevano apparirgli molto redditizi.

Non fu, in generale, il Cinquecento secolo clemente, almeno nella sua prima metà: la natura si mostrò più volte piuttosto matrigna che madre. Nel 1513 la peste infierì in molti paesi della valle, Bormio, Sondalo, Tiolo, Mazzo, Lovero, Tovo, Tresivio, Piateda, Sondrio, Fusine, Buglio, Sacco, e Morbegno, portandosi via diverse migliaia di vittime. Dal primo agosto 1513 al marzo del 1514, poi, non piovve né nevicò mai, e nel gennaio del 1514 le temperature scesero tanto sotto lo zero che ghiacciò perfino il Mallero. L’eccezionale ondata di gelo, durata 25 giorni, fece morire quasi tutte le viti, tanto che la successiva vendemmia bastò appena a produrre il vino sufficiente ai consumi delle famiglie contadine (ricordiamo che il commercio del vino oltralpe fu l’elemento di maggior forza dell’economia della Valtellina, fino al secolo XIX). Le cose andarono peggio, se possibile, l’anno seguente, perché nell’aprile del 1515 nevicò per diversi giorni e vi fu gran freddo, il che arrecò il colpo di grazia alle già duramente colpite viti della valle. Nel comune di Sondrio, annota il Merlo, cronista del tempo, vi furono in tutto solo un centinaio di brente di vino. Nel 1526 la peste tornò a colpire nel terziere di Mezzo, e ne seguì una dura carestia, come da almeno un secolo non si aveva memoria, annota sempre il Merlo. L’anno successivo un’ondata di freddo e di neve nel mese di marzo danneggiò di nuovo seriamente le viti. Dalle calende d’ottobre del 1539, infine, fino al 15 aprile del 1540 non piovve né nevicò mai, tanto che, scrive il Merlo, “per tutto l’inverno si saria potuto passar la Montagna dell’Oro (cioè il passo del Muretto, dall’alta Valmalenco alla Val Bregaglia) per andar verso Bregaglia, che forse non accadè mai tal cosa”. La seconda metà del secolo, infine, fu caratterizzata da una grande abbondanza di inverni rigidi e nevosi ed estati tiepide, nel contesto di quel tendenziale abbassamento generale delle temperature, con decisa avanzata dei ghiacciai, che viene denominato Piccola Età Glaciale (e che interessò l’Europa fino agli inizi dell’Ottocento). C’è davvero di che far meditare quelli che (e non son pochi) sogliono lamentarsi perché non ci sono più le stagioni di una volta…
Il cinquecento tellino fu, però, caratterizzato da un florilegio e da una vivacità culturali davvero degne della migliore tradizione dei Rinascimento italiano.

Nel Seicento la tensione fra protestanti, favoriti dalle autorità grigioni, e cattolici cresceva da diversi decenni, soprattutto per le conseguenze del decreto del 1557, nel quale Antonio Planta stabilì che, dove vifossero più chiese, una venisse assegnata ai protestanti per il loro culto, e dove ve ne fosse una sola venisse usata a turno da questi e dai cattolici.
Nel territorio di Teglio la tensione maggiore si determinò a Boalzo, perché la chiesa di S. Abbondio avrebbe dovuto essere utilizzata sia dai cattolici che dai protestanti, il che determinò, nel 1618 tumulti che vennero sedato con energia dalle autorità; il nobile tellino Biagio Piatti, accusato di aver sobillato i cattolici, venne condannato a morte dal tribunale speciale di Thusis. In quel medesimo anno e presso quel medesimo tribunale avvenne un tragico processo di ben maggiore rilievo storico. A Sondrio, al colmo delle tensioni fra cattolici e governanti grigioni, che favorivano i riformati in valle, venne rapito l’arciprete Niccolò Rusca, condotto a Thusis per il passo del Muretto e fatto morire sotto le torture; la medesima sera della sua morte, il 5 settembre 1618, dopo venti giorni di pioggia torrenziale, al levarsi della luna, venne giù buona parte del monte Conto, seppellendo le 125 case della ricca e nobile Piuro e le 78 case della contrada Scilano, un evento che suscitò enorme scalpore e commozione in tutta Europa.
Due anni dopo, il 19 luglio del 1620, si scatenarono la rabbia della nobiltà cattolica, guidata da Gian Giacomo Robustelli, la sollevazione anti-grigione e la caccia al protestante, nota con l’infelice denominazione di “Sacro macello valtellinese”, che fece quasi quattrocento vittime fra i riformati. Fu l’inizio di un periodo quasi ventennale di campagne militari e battaglie, che videro nei due schieramenti contrapporsi Grigioni e Francesi, da una parte, Imperiali e Spagnoli, dall’altra.
Teglio non fu immune dalla strage, ed anzi fu teatro di uno degli episodi più raccapriccianti: Carlo II a Azzo IV Besta si erano posti alla testa degli armati decisi a sterminare i protestanti e li avevano assaliti nella chiesa di S. Orsola, a pochi passi dal palazzo Besta, mentre ascoltavano il sermone domenicale. La scena fu orripilante: i rivoltosi trucidarono ad archibugiate i presenti. Venne poi appiccato il fuoco alla chiesa ed al campanile, e fra le fiamme morirono i pochi scampati ai colpi d’archibugio, fra cui anche alcuni bambini che avevano cercato scampo proprio sul campanile. Le vittime furono forse 72; della chiesetta di Sant'Orsola non restò traccia.

La battaglia di Tirano liberò provvisoriamente la Valtellina dalla loro signoria, ma un’alleanza fra Francia, Savoia e Venezia, contro la Spagna, fece nuovamente della valle un teatro di battaglia. Le vicende belliche ebbero provvisoriamente termine con il trattato di Monzon (1626), che faceva della Valtellina una repubblica quasi libera, con proprie milizie e governo, ma soggetta ad un tributo nei confronti del Grigioni.
Ma la valle godette solo per breve periodo della riguadagnata pace: il nefasto passaggio dei Lanzichenecchi portò con sé la più celebre delle epidemie di peste, descritta a Milano dal Manzoni, quella del biennio 1630-31 (con recidiva fra il 1635 ed il 1636).
Anche Teglio, nonostante la sua posizione appartata, venne colpita dall’epidemia e la sua popolazione fu probabilmente dimezzata.
Neppure il tempo per riaversi dalla peste, e la guerra di Valtellina tornò a riaccendersi, con le campagne del francese duca di Rohan, alleato dei Grigioni, contro Spagnoli ed Imperiali. Il duca, penetrato d'improvviso in Valtellina nella primavera del 1635, con in una serie di battaglie, a Livigno, Mazzo, S. Giacomo di Fraele e Morbegno, sconfisse spagnoli e imperiali venuti a contrastargli il passo. Ma il suo ricordo nelle genti di Valtellina è legato al peso, che molto gravò anche su Ponte, dell’alloggiamento delle sue truppe, vero e proprio salasso per comunità già stremate economicamente e prostrate moralmente dal flagello della peste. Chi poteva, si rifugiava nei paesini arroccati sui versanti retico ed orobico. A rendere ancora più fosco il quadro, ci si mise anche una seconda ondata dell’epidemia di peste, che, a partire dal 1636 colpì di nuovo duramente le popolazioni.
Lo sgombero dei Francesi fu determinato dalla svolta del 1637, un inatteso rovesciamento delle allenze: i Grigioni, che pretendevano la restituzione di Valtellina e Valchiavenna (mentre i Francesi miravano a farne una base per future operazioni contro il Ducato di Milano), si allearono segretamente con la Spagna e l'Impero e cacciarono il Duca di Rohan dal loro paese. Le premesse per la pace erano create e due anni dopo venne sottoscritto il trattato che pose fine al conflitto per la Valtellina: con il Capitolato di Milano del 1639 i Grigioni tornarono in possesso di Valtellina e Valchiavenna, dove, però l’unica religione ammessa era la cattolica. I Grigioni restaurarono l'antica struttura amministrativa, con un commissario a Chiavenna, un podestà a Morbegno, Traona, Teglio, Piuro, Tirano e Bormio, ed infine un governatore ed un vicario a Sondrio.
Teglio, in questi anni così duri, venne però meno colpita rispetto ad altre comunità, ed a riprova di ciò si può osservare che fu uno dei pochissimi paesi della valle a non essere interessato da un significativo flusso migratorio. “Nei secoli XVII e XVIII ancora florida era la sua economia, basata essenzialmente su una coltivazione differenziata della terra con prodotti ricercati, tra cui per primo il vino, esportato anche al di là delle Alpi; non mancavano frumento, segale, miglio ed orzo, cui si era aggiunto, trovando il suo terreno ideale, il grano saraceno, ricercato in tutta la valle. Numerosi erano quindi i mulini (ben 38 ancora alla fine dell’Ottocento) e non meno importanti l’allevamento dei bovini e degli ovini e lo sfruttamento dei boschi e delle miniere di ferro della Val Belviso, che occupavano maestranze residenti nelle contrade telline di Aprica, Bondone e Carona.”.
Il settecento fu secolo di generale ripresa, ma non privo di note chiaroscurali, legati soprattutto ad alcuni inverni eccezionalmente rigidi, primo fra tutti quello memorabile del 1709, quando, ad una serie di abbondanti nevicate ad inizio d’anno, seguì, dal giorno dell’Epifania, un massiccio afflusso di aria polare dall’est, che in una notte gelò il Mallero e parte dell’Adda. Ed ancora, nel 1738 si registrò una nevicata il 2 maggio, nel 1739 nevicò il 27 ed il 30 marzo con freddo intenso, nel 1740 nevicò il 3 maggio, con freddo intenso e nel 1741 nevicò a fine aprile, sempre con clima molto rigido e conseguenze disastrose per le colture e le viti.
Alla metà del Settecento, secondo la testimonianza dello storico Francesco Saverio Quadrio, la comunità di Teglio era complessivamente suddivisa in trentasei contrade, delle quali le principali erano Piazza, Besta, Bellamira, Silvestri, San Martino, Ligone di Sotto, Ligone di Sopra, San Giovanni, Frigerio, Sommi Sassi (tutte sulla destra dell’Adda); Boalzo, Succi, Tresenda, San Giacomo, Nuvola (nel piano); Grania, Poschiavini, Val Malgina (in parte), Pondono, Carona, Alliceto, Val di Belviso, Aprica (alla sinistra dell’Adda). “Le contrade erano raggruppate in vicinie: Aprica con Ganda, Carona con Bordone, comprendente forse anche Grania, Verignia (probabilmente l’odierna San Paolo, con il resto della Val Belviso), Boalzo, che eleggevano democraticamente come propri rappresentanti dei consoli e detenevano prerogative per l’utilizzo dei boschi e dei pascoli. La terra mastra della castellanza e del comune di Teglio, coincidente all’incirca con i confini della parrocchia di Santa Eufemia (per la quale la comunità godeva del diritto di nomina del rettore), era composta dalle parti di Verida e di Pertinasca, o Teglio di sopra e di sotto; entrambe avevano pertinenze sul fondovalle e sul versante orobico e compiti specifici per il mantenimento dei ponti sull’Adda”.

Nel Settecento il malcontento contro il dominio delle Tre Leghe Grigie nelle due valli crebbe progressivamente, soprattutto per la loro pratica delle di mettere in vendita le cariche pubbliche. Tale vendita spettava a turno all'una o all'altra delle Leghe e chi desiderava una nomina doveva pagare una cospicua somma di denaro, di cui si sarebbe rifatto con gli interessi una volta insediato nella propria funzione, esercitandola spesso più per amore di lucro che di giustizia. Gli abusi di tanti funzionari retici, l'egemonia economica di alcune famiglie, come quelle dei Salis e dei Planta, che detenevano veri e propri monopoli, diventarono insopportabili ai sudditi. Il malcontento culminò, nell'aprile del 1787, con i Quindici articoli di gravami in cui i Valtellinesi (cui si unirono i Valchiavennaschi, ad eccezione del comune di S. Giacomo) lamentavano la situazione di sopruso e denunciavano la violazioni del Capitolato di Milano da parte dei Grigioni, alla Dieta delle Tre Leghe, ai governatori di Milano e, per quattro volte, fra il 1789 ed il 1796, alla corte di Vienna, senza, peraltro, esito alcuno. Per meglio comprendere l’insofferenza di valtellinesi e valchiavennaschi, si tenga presente che la popolazione delleTre Leghe, come risulta dal memoriale 1789 al conte di Cobeltzen per la Corte di Vienna, contava circa 75.000 abitanti, mentre la Valtellina, con le contee, superava i 100.000. Fu la bufera napoleonica a risolvere la situazione, con il congedo dei funzionari Grigioni e la fine del loro dominio, nel 1797.

Teglio aveva allora circa 8000 abitanti. Si trattò di una svolta importante, sulla quale il giudizio degli storici è controverso. La dominazione francese rappresentò l’inizio di una crisi senza ritorno, legata alla cancellazione di quei margini di autonomia ed autogoverno riconosciuti durante i tre secoli di pur discutibile e discussa signoria delle Tre Leghe Grigie.
Per alcuni mesi, dopo il 1797, comunque, rimase in piedi l'ipotesi di un'aggregazione di Valtellina e Valchiavenna come Quarta Lega alla federazione grigiona, cui non erano contrari né Napoleone né Diego Guicciardi, cancelliere di Valle del libero popolo valtellinese. Il sorprendente voto nei comuni delle Tre Leghe Grigie, di cui giunse notizia il primo settembre 1797, chiuse, però, definitivamente questa prospettiva: 24 si espressero contro, 21 a favore, 14 si dichiararono incerti e 4 si astennero. Di conseguenza il 10 ottobre 1797 Napoleone dichiarò Valtellinesi e Valchiavennaschi liberi di unirsi alla Repubblica Cisalpina. Seguì, il 22 ottobre, l'unione della Valtellina e dei Contadi di Bormio e Chiavenna alla Repubblica Cisalpina ed il 28 ottobre la confisca delle proprietà dei Grigioni in Valtellina. Il comune di Teglio e sue vicinanze venne collocato, nel 1802, nel VI distretto dell’ex Valtellina, con capoluogo Ponte, e vi fu confermato, come comune di II classe con 4.500 abitanti, nel 1803. Stupisce che un comune considerato per molti aspetti il più illustre di Valtellina fosse subordinato alla vicina Ponte, anch'essa illustre, ma probabilmente non del medesimo rango; probabilmente la decisione venne presa non avendo riguardo alla storia, ma alla prospettiva, che venne più volte presa in considerazione, di uno smembramento di Teglio, costituito da frazioni troppo lontane, alcune anche piuttosto riottose rispetto al vincolo centrale (prima fra tutte Aprica). Alla Repubblica Cisalpina seguì, nel 1805, il Regno d’Italia, nel quale il comune di Teglio venne ad appartenere al III cantone di Tirano, come comune di II classe, che contava 5.540 abitanti. Nel 1807 il comune di Teglio, con 5.100 abitanti totali figurava composto da Teglio in senso stretto (3000 abitanti) e dalle frazioni di Aprica (500), Carona (800), Grania (600), Boalzo (150), Motta (50).

Cadde anche Napoleone, lasciando ai posteri il problema di formulare l'ardua sentenza sulla sua vera gloria; il Congresso di Vienna, nel 1815, anche grazie all'operato della delegazione costituita dal chiavennasco Gerolamo Stampa e dal valtellinese Diego Guicciardi, sancì l'aggregazione del dipartimento dell’Adda al Regno Lombardo-Veneto, sotto il dominio della casa d’Austria. Teglio in un primo tempo subì il distacco, poi si vide riconosciuta, nel 1824, la riaggregazione degli antichi territori di Boalzo, San Giacomo, Carona ed Aprica. Nel 1853 Teglio con le frazioni di Boalzo, Carona con Aprica, San Giacomo, Tresenda e Motta, era comune con consiglio senza ufficio proprio e con una popolazione di 5.667 abitanti, nel II distretto di Tirano.
Il dominio asburgico fu severo ma attento alle esigenze della buona amministrazione e di un’ordinata vita economica, garantita da un importante piano di interventi infrastutturali. Venne tracciata la carozzabile da Colico a Chiavenna, e, fra il 1818 ed il 1822, la strada dello Spluga. Tra il 1820 e il 1825 anche Bormio fu allacciata alla valle dell'Adige con l’ardita strada dello Stelvio progettata dall’ingegner Carlo Donegani, che già aveva progettato la via dello Spluga. Nel 1831, infine, fu inaugurata la strada lungo la sponda orientale lariana, da Colico a Lecco, che consentì alla provincia di Sondrio di superare lo storico isolamento rispetto a Milano ed alla pianura lombarda.
Il periodo asburgico fu anche segnato anche da eventi che incisero in misura pesantemente negativa sull’economia dell’intera valle. L’inverno del 1816 fu eccezionalmente rigido, e compromise i raccolti dell’anno successivo. Le scorte si esaurirono ed il 1817 è ricordato, nell’intera Valtellina, come l’anno della fame.
Ci si misero, poi, anche le epidemie di colera, che colpirono la popolazione per ben quattro volte (1836, 1849, 1854 e 1855), mietendo vittime anche a Teglio. Si aggiunse, infine, per soprammercato, l'epidemia della crittogama, negli anni cinquanta, che mise in ginocchio la vitivinicoltura valtellinese, con grave danno anche per la zona del pregiato Valgella, di cui Teglio andava fiera. Queste furono le premesse del movimento migratorio che interessò una parte consistente della popolazione nella seconda metà del secolo: “solo nella seconda metà dell’Ottocento, mutate le condizioni socio-economiche, anche nel territorio di Teglio fece la sua comparsa il fenomeno dell’emigrazione, senza però mai toccare le elevate punte registrate in altre località.”

Successivamente la Valtellina segue le vicende della Lombardia.

Nel 1983 una frana a Tresenda causa 18 morti.

Notevole edificio è la parrocchiale, dedicata a S. Eufemia, che sembra essere stata cominciata sul principio del XV secolo o verso la fine del XIV. Il campanile, di maschio aspetto e non ultimato, è costruzione alquanto posteriore. L'interno della chiesa è a tre navate, i cui archi cono sorretti da colonne a fusto ottagonale. Vi corrisponde la facciata a tre compartimenti, di cui quello di mezzo finisce a forma cuspidale. La porta è a forma archi-acuta con colonnette spirali che ne seguono la curva sino all'incontro. I capitelli o gli stipiti a fregi sono di stile gotico. La porta è preceduta da un piccolo pronao di stile diverso, con colonne accerchiate a metà del fusto. Nella lunetta sovrastante alla porta v'è una Pietà in marmo ad alto rilievo, con fondo e putti dipinti a fresco. Questa scultura sembra della prima metà del secolo XV e porta traccie di colori. Sulla parte laterale a tramontana, pure lavorata a intagli ornamentali, si legge la data 1406. La chiesa è stata restaurata nel 1655 per cura e a spese di Ascanio Guicciardi e di altri devoti; fu poi tosto nuovamente dipinta.
Prima che fosse contratta l'attuale chiesa di S. Eufemia, nel luogo istesso, ve n'era un'altra. Infatti si ha memoria che nel 1117 Guido vescovo di Como consacrò la chiesa di Teglio dedicata a S. Eufemia, S. Agnese e S. Cecilia. Tale notizia trovammo in una nota manoscritta aggiunta alla storia del Lavizzari a pag. 28, di Giuseppe Vincenzo Besta, il quale dichiara di averla tratta da una memoria In caratteri gotici, che egli possedeva e che pur troppo andò smarrita. La chiesa di Sant'Eufemia fino al 1570 fu retta da un curato soggetto al proposito degli Umiliati di S. Orsola. Ma poi, soppressi gli Umiliati, Pio V dichiara proposito Corrado Pianta rettore di quella chiesa. Urbano VIII, con bolla 19 Settembre 1625, erige nuovamente e solennemente la chiesa di S. Eufemia in prepositura.
Rimpetto alla chiesa v'è l'Oratorio della Confraternita del Bianchi, sulla cui facciata ai trovano vari dipinti del XV secolo, fra i quali una Madonna, col Bambino in trono, e la data 1491. Sono quegli affreschi di merito assai modesto, ma ve n'è uno notevole pel soggetto, perché figura la morte che coglie nelle sue reti ogni ceto di persone, uno degli episodi della danza macabra, di cui erano a que’ tempi in molta voga lo rappresentazioni.
A mezzo giorno trovasi l'oratorio di un'altra confraternita e ivi accanto il vecchio ossario. La confraternita fu istituita nel 1432 quando S. Bernardino da Siena venne a Teglio a predicarvi pace tra i guelfi e i ghibellini.
L'altura che si trova a mezzodì sulla quale sorgeva l'antico castello di Teglio, per antonomasia si chiama ancora castello. Il panorama che si gode dalla sua sommità è superbo: esso si estende dalle vette della catena dell'Ortler e dell'Adamello a quelle delle montagne del lago di Como, e nel piano della valle, da Mazzo ai pie' del Colmo di Dazio. Bella è la veduta di Tirano; bella eziandio quella della strada d'Aprica e delle sue gallerie. Di Sondrio si scorge il campanile e quella parte che si estende a mezzogiorno. Pittoresco poi è l'aspetto dei vari gruppi di case onde si compone la borgata di Teglio, sparse, fra campi, e prati e selve.
Ai piedi della collina del Castello, a occidente, sorge la chiesuola di S. Lorenzo; lì vicino sta il palazzo ricostrutto nella prima metà del cinquecento da Azzo Besta, secondo di questo nome, e dal quale Agnese, sposa di lui, datava le belle lettere per cui il Lando e il Quadrio la pongono fra le donne illustri. Più a sera trovasi un vasto fabbricato, che appartenne a un altro ramo della famiglia Besta, e poi un secondo, forse più vasto, e meglio conservato che fu già dei Guicciardi.
La piccola e vecchia chiesa di S. Lorenzo era un oratorio della famiglia Besta, una fra le antiche di cui la storia valtellinese faccia menzione. Questa chiesetta ha il coro decorato di buone pitture a fresco di mano di Fermo Stella da Caravaggio, uno dei migliori discepoli di Gaudenzio Ferrari, Nella parte centrale è figurata la Crocifissione Sulla parete laterale a destra è rappresentato un fatto della vita del santo titolare; in quella di sinistra il dipinto è stato nel principio di questo secolo barbaramente ricoperto di una tinta a calce, che doveva estendersi anche al resto, se non interveniva il poeta Besta che minacciò di morte, qualora continuasse, il vandalo imbiancatore. Sulla parete a sinistra, in alto, vicino all'arco del presbitero, vedesi il sarcofago di Andrea Guicciardi, il medico illustre ricordato più su. Sulla parete a destra stanno quelli di Azzo II Besta, e di Carlo suo figlio. Nella chiesa erano le tombe per tutti i membri delle famiglie Besta e Guicciardi. La facciata, che era caduta, venne ricostruita nel 1874; i pochi fondi, avuti in parte dal Ministero dell'Istruzione pubblica, e raccolti in parte maggiore per vie di offerte private, non bastarono a condurre a fine il ristauro, e se non si troverà modo di proseguire nell'opera solamente incominciata i preziosi affreschi del Fermo Stella andranno presto perduti.
Il palazzotto Besta è un interessante modello delle dimore signorili del XVI secolo. La porta d'ingresso è fregiata di un bel dipinto e di sculture figurate ed ornamentali. Il cortile a porticati presenta dipinti a chiaroscuro personaggi e fatti tolti dall'Eneide. Il pozzo marmoreo nel cortile, di forma ottagona, porta l'iscrizione: Azzua arcundus 1539. E caratteristico dell'epoca il modo della decorazione delle sale e delle varie camere, in alcune delle quali si vedono tuttora bellissimi soffitti a lacunari lavorati e intagliati con finissimo magistero. Sono pur notevoli per l'industre artificio le ferriate poste ad alcune finestre della facciata. Tutto i quel fabbricato respira il cinquecento e ne fa gustare il carattere. È un modello tanto più prezioso in quanto gli analoghi si fanno sempre più rari. Il palazzo, dopo che nel 1639 Azzo Besta, che n'era proprietario, si ritirò, in seguito al capitolato di Milano il quale rifaceva serva la Valtellina, ad Erbanno, venne posto all'incanto. Lo acquistò Pietro Morelli. Estintosi al principio di questo secolo la famiglia di lui, esso palazzo passò ai Parravicini di Balzo. …
Sul promontorio che trovasi di fronte al Castello e a sera delle contrade di Dosso Grifone e dei Valli sorgeva il ricco convento degli Umiliati e la loro chiesa dedicata a S. Orsola.
Soppresso il convento, la ricca chiesa era stata, sullo scorcio del secolo XVI, assegnata airiformati. Quivi il 13 luglio 1620, essendo giorno di domenica. erano raccolti i protestanti e ascoltavano la predica del loro ministro, ignari della rivolta già scoppiata a Tirano. I cattolici sollevati accorsero in armi e ne fecero scempio. Alcuni infelici si erano ritirati sul campanile, e vi perirono consunti dal fuoco appiccatovi. La chiesa venne tosto rasa al suolo. Ora non si vede nessuna traccia di essa; là dove sorgeva son campi; però fino al 1770 rimase in piedi parte del campanile.”


L'Astel A.S.D. Tellina (Basket Teglio) è una squadra di pallacanestro maschile, fondata nel 2007, che al momento milita nel campionato di Promozione di Bergamo. Gioca le partite casalinghe nel Palsport Comunale di Teglio: ristrutturato tra il 2011 e il 2014, può contenere fino a 500 persone.

Dalla stagione invernale 2012-2013 Teglio ha nuovamente la sua stazione sciistica, situata in località Prato Valentino tra i 1690 ad 2340 metri di quota, con le piste principali servite da una seggiovia ed uno skilift.

Esiste anche la squadra di calcio Astel Teglio che milita nel campionato CSI provinciale e gioca le sue partite al campo sportivo di San Giovanni.

Il comune si sviluppa dalle Alpi Retiche a quelle Orobiche. Nel passato anche Aprica, un paese situato a sud-est di Teglio, era parte del comune, mentre ora è un comune indipendente.

Il territorio del comune di Teglio è composto da molti blocchi:
Il centro di Teglio si sviluppa lungo le Alpi Retiche ad una quota media di 900 m s.l.m. ed è la zona maggiormente esposta al sole e panoramica. Per questo fu di grande importanza strategica nel passato.
San Giovanni è la frazione a ovest del comune sul versante retico a 650 m s.l.m.
La zona di Tresenda si trova a sud-est del centro e si sviluppa principalmente sul fondovalle (circa 300 m s.l.m.) in prossimità della SS38 e del fiume Adda. Da Tresenda inoltre parte la strada per raggiungere il paese di Aprica, la SS. 39 dell'Aprica.
La zona di San Giacomo si trova a sud-ovest del centro e si estende tra il fondovalle (circa 300 m s.l.m.), in prossimità della SS38 e del fiume Adda, e le Alpi Orobiche
Prato Valentino è una frazione che conta case e rifugi; è una importante località sciistica.
Castelvetro conta diversi ristoranti, case, bar e appartamenti. È posta prima di Teglio (intendendo la parte alta).
Posseggia è una piccola frazione, ospita solo case.
Vangione Superiore ospita diverse case e appartamenti.
Vangione Inferiore conta diverse abitazioni.
Sant' Antonio di Teglio conta una chiesa e molte case.
Pila è una frazione, posta poco prima del vero centro storico di Teglio, in alto, ospita diverse case.
Arboledo ospita diverse case e un agriturismo.
Boalzo è una frazione che conta poche case ed è posta sopra Tresenda.
A Canali è stato trovato un frammento stelico nel 1985 da Don Mario Giovanni Simonelli.
Bondone conta meno di dieci case, ma è presente una chiesetta.
Branchi/Cà Branchi conta diverse case e diversi Bed and Breakfast.
Villanova conta solo case.
Caprinale-Luscio conta poche case ed una cappella.
Piali-Codurelli conta molte case e appartamenti.
Carona è posta esattamente sopra la frazione San Giacomo di Teglio.
Corna dà il nome a un ristorante; è posta nella parte bassa.
Crespinedo è posta nella parte alta, questa frazione conta solo case.
San Rocco di Teglio è una piccola frazione è posta nella parte alta e fronteggia Teglio.
Ligone conta diverse abitazioni ed una chiesa: la Chiesa di Santa Maria di Ligone, che dà il nome alla frazione: Ligone-(Santa Maria).
San Sebastiano conta diverse case, ristoranti e bar.
Caselli/Caseli conta diverse case ed è posta sopra San Sebastiano; è presente anche una società di allevamento bestiame e importazione.
Gianoli conta solo case ed un bilocale.
Franchesi è una piccola frazione posta sulla strada bassa principale, conta solo abitazioni.
Frigeri conta una chiesa e diverse abitazioni.
Margattoni conta solo case e ville; vi è anche un luogo di preghiera.
Moia conta solo abitazioni.
Somasassa dà il nome al lago; vi sono abitazioni e una chiesa (Chiesa di San Gottardo a Somasassa); la frazione è anche chiamata Somasassa-San Gottardo, nome dato dalla chiesa.
Valgella conta diverse abitazioni e dei vigneti.
Panaggia conta meno di dieci abitazioni ed è piccola, ma vi sono delle fortificazioni medievali.
San Gervasio conta abitazioni ed una chiesa.
Nigola conta diverse abitazioni.

Teglio è stato nel passato un paese con un'economia quasi esclusivamente rivolta all'agricoltura e l'allevamento. La coltivazione di grano saraceno denominato "furmentùn", "fraina" o "farina negra" era molto rappresentativa tanto da diventare presidio slow food. La farina di grano saraceno veniva e viene utilizzata per Pizzoccheri, Sciatt e molti altri piatti.

Attualmente il settore con maggiore crescita è il terziario favorito dall'affluenza di molti turisti durante il periodo estivo e invernale.


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