martedì 1 maggio 2018

DIO ESISTE?

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L’esistenza di Dio non può essere né dimostrata né smentita. La Bibbia dice perfino che noi dobbiamo accettare per fede il fatto che Dio esiste: “Or senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11:6). Se Dio lo desiderasse, Egli potrebbe semplicemente apparire e dimostrare al mondo intero che esiste. Però, se lo facesse, non ci sarebbe alcun bisogno della fede: “Gesù gli disse: ‘Perché mi hai visto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!’” (Giovanni 20:29).

I filosofi nel corso della storia hanno presentato un'estrema varietà di argomentazioni a favore o contro l'esistenza di Dio o anche in sostegno dell'irresolubilità della questione e della sospensione del giudizio (agnosticismo).

La teologia si occupa fin dai tempi della Grecia antica della natura e delle opere di Dio o degli dei. Le diverse teologie hanno spiegato in vario modo l'origine della fede in Dio facendo riferimento, per esempio, al ragionamento, alla rivelazione soprannaturale o alla libera scelta del singolo.

In Occidente, il termine Dio si riferisce tipicamente al concetto monoteistico di un essere supremo, ovvero un essere del quale non si può pensare nulla di più grande secondo la definizione di Anselmo d'Aosta: Deus est ens quo nihil maius cogitari potest (definizione contenuta nel Proslogion del 1077). Una definizione comune in questa tradizione afferma che Dio possiede ogni perfezione possibile incluse qualità quali onniscienza, onnipotenza e una perfetta benevolenza. Comunque, questa definizione non è l'unica possibile. Le religioni politeistiche usano la parola Dio per diversi esseri che sono tutti ritenuti come esistenti.

Alcune mitologie, come quelle di Omero e Ovidio, ritraggono questi dei che discutono, ingannano e si combattono l'un l'altro. Il periodo di tempo in cui avvengono questi conflitti (ad esempio, i dieci anni della guerra di Troia) implica che nessuna di queste divinità è onnipotente e particolarmente benevola. La metafisica panteista si fonda sui due concetti teoretici di origine e di causa.

Molti panteisti hanno utilizzato ed utilizzano nomi diversi da "dio" connotando e nominando il principio-origine-causa come Essere, Logos, Ragione, Intelligenza, Spirito, Assoluto ecc.

La definizione di Dio nell'ebraismo è estremamente rigida; gli attributi che contraddistinguono il Dio d'Israele dalle altre divinità sono contenuti per la maggior parte nel libro dell'Esodo, dove si narra che egli intervenne designando Mosè come suo profeta e guida del popolo ebraico per liberarlo dalla schiavitù in Egitto.

Il monoteismo assoluto degli ebrei è l'elemento più importante della loro identità etnico-religiosa. Oltre a questo, Dio per gli ebrei è trascendente, immateriale e invisibile (quindi anche impossibile da raffigurare in una qualunque maniera); onnisciente, onnipotente e onnipresente; geloso e benevolo, sovrano e giudice, severo ma misericordioso, Dio per gli ebrei è il sommo regnante, creatore e legislatore dell'universo.
La sua esclusività impone al popolo ebraico di non adorare niente e nessun altro all'infuori di lui, e ciò rende il loro rapporto stretto da un forte legame non solo di alleanza, ma anche di appartenenza.

Dio, secondo il cristianesimo, non è conoscibile dall'uomo, se egli stesso non si rivela a lui. Secondo il cattolicesimo, l'uomo può arrivare a provare l'esistenza di Dio attraverso percorsi filosofici e logici, ma non può comunque arrivare alla sua conoscenza con la pura ragione: usando cioè le parole di Tommaso d'Aquino, la ragione può arrivare a conoscere il quia est di Dio («il fatto che Egli è») ma non il quid est («che cosa è»), che è oggetto di mistero della fede; per sapere "chi" è Dio occorre il dato della Rivelazione. Dio si è rivelato agli uomini «nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti» e in generale nella storia di Israele, testimoniata dalla Bibbia.

La piena e definitiva rivelazione di Dio si è avuta con Gesù Cristo, poiché egli è al tempo stesso Figlio di Dio (e dunque Dio egli stesso) e uomo per effetto dell'incarnazione.

Tale rivelazione è stata tramandata nei Vangeli e in generale nel Nuovo Testamento, ed approfondita nella riflessione successiva. Dio secondo la religione cattolica è dunque (primo dogma) Uno e Trino, una Sostanza in tre Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Padre e il Figlio, l'Essere e il Pensiero (il Logos) sono in una reciproca dimensione relazionale di amore, espressa (e personificata) dallo Spirito Santo.



Dio è personale, eterno, onnipotente, onnisciente, perfettissimo, creatore dell'universo, provvidenza e salvezza degli uomini, creature poste al vertice dell'ordine del creato. Il secondo dogma del Cristianesimo è la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, Verbo eterno del Padre, che si incarnò in forma umana, nascendo dalla Vergine Maria. Dopo aver predicato l'amore infinito di Dio verso gli uomini, portò a compimento la sua missione con la sua passione e morte in croce. Il Padre lo resuscitò il terzo giorno (Pasqua di Risurrezione), aprendo agli uomini la possibilità della redenzione. Mandò poi lo Spirito Santo sui suoi discepoli, che formarono la Chiesa.

Nella religione induista, secondo la filosofia della scuola monista dell'Advaita Vedanta, la realtà viene in ultima analisi vista come un essere singolo, senza qualità, immutabile, eternamente beato e completo, chiamato Brahman (o nirguna Brahman, ossia Brahman senza attributi). Il Brahman, pur essendo immanente in tutta la manifestazione, viene visto come qualcosa che sta al di là della comprensione umana, in quanto non possono esistere strumenti cognitivi adatti per comprendere il Brahman all'interno di qualsiasi forma di esistenza duale. L'unico modo che l'uomo ha per comprendere il Brahman, infatti, è riscoprire di essere lui stesso il Brahman.

Quello che percepiamo ordinariamente, ovvero un mondo composto da molti aspetti (dai più grossolani a più sottili), è dovuto all'illusione ed è difficile, se non impossibile, emanciparsi dall'illusione e concepire il nirguna Brahman. Per rendersi accessibile agli esseri, alla nascita dell'universo si manifestò come Isvara (o Saguna Brahman, ossia Brahman con attributi), cioè l'aspetto personale di Dio, il Dio con una personalità e degli attributi, che si mostra ai suoi devoti sotto infinite forme. A Ishvara, a sua volta, vengono ascritte qualità come onniscienza, onnipotenza, e benevolenza.

Un problema posto dalla questione dell'esistenza di un Dio è che le credenze tradizionali solitamente attribuiscono a Dio vari poteri sovrannaturali. Gli esseri sovrannaturali possono essere in grado di nascondere o rivelare se stessi per i loro scopi, come ad esempio nella storia di Filemone e Bauci. Le capacità sovrannaturali di Dio sono spesso offerte per spiegare l'incapacità dei metodi empirici di investigarne l'esistenza. Nella filosofia della scienza di Karl Popper, l'asserzione dell'esistenza di un Dio sovrannaturale sarebbe una ipotesi non falsificabile, e quindi chiusa all'investigazione scientifica.

I sostenitori del disegno intelligente credono che esistano prove empiriche che indicano l'esistenza di un creatore intelligente, anche se le loro asserzioni sono rigettate dalla comunità scientifica poiché il disegno intelligente si affida ad un ristretto insieme di argomenti correlati al problema della sintonia fine, che non sono ancora stati risolti con spiegazioni naturali. Il creatore implicato dal disegno intelligente equivale al negativamente connotato Dio dei vuoti. I positivisti logici, quali Rudolph Carnap e A. J. Ayer, vedono qualsiasi discussione sulle divinità come un vero e proprio nonsense. Per i positivisti logici e per gli aderenti a simili scuole di pensiero, affermazioni sulla religione o altre esperienze trascendenti non possono avere un valore di verità e vengono considerate come prive di senso.

Ci sono diversi possibili modi di conoscere, alcuni fondati sulla giustificazione, altri basati sulla fede, che non si giustifica con argomenti puramente razionali oppure di tipo empirico. La conoscenza, nel senso di "comprensione di un fatto o di una verità" si può distinguere in conoscenza a posteriori, basata sull'esperienza o la deduzione , e in conoscenza a priori derivante dall'introspezione, da assiomi o dall'autoevidenza. La conoscenza può essere descritta anche come uno stato psicologico, poiché in senso stretto non potrà mai esserci una vera e propria conoscenza a posteriori.

Gran parte del disaccordo circa le "prove" dell'esistenza di Dio è dovuto alle differenti concezioni non solo del termine "Dio" ma anche dei termini "prova", "verità" e "conoscenza". La credenza religiosa derivante dalla rivelazione o dall'illuminazione (satori) ricade nel tipo di conoscenza a priori. Conclusioni differenti circa l'esistenza di Dio spesso si fondano su criteri differenti nel decidere quali metodi sono appropriati per decidere se qualcosa è vero o no. Esempi sono:

la logica conta come prova riguardante la qualità dell'esistenza?
l'esperienza soggettiva conta come prova per la realtà oggettiva?
possono la logica o la prova ammettere o escludere il sovrannaturale?

Le prove metafisiche o ontologiche sono quelle che nel tempo sono state proposte da diversi pensatori. Tra le più celebri forme in cui queste sono proposte, vi sono l'argomento ontologico del Proslogion di Anselmo d'Aosta e le "cinque vie" di Tommaso d'Aquino, con le quali gli autori intendono provare l'esistenza di Dio come primo motore immobile, prima causa incausata, essere necessario, essere perfettissimo, sapientissimo ordinatore.

Anselmo d'Aosta, teologo cattolico vissuto nel Medioevo, con la prova "ontologica" intende dimostrare che Dio, «l'Essere di cui non si può pensare nulla di più grande», esiste non solo come idea ma realmente, mediante un'argomentazione tutta interna alla logica (a priori), ossia un'argomentazione che non necessita dei dati dell'esperienza. Secondo Anselmo, infatti, anche l'ateo possiede implicitamente l'idea di Dio: persino l'insipiente che «dice in cuor suo Dio non esiste» deve convincersi che sia pensabile intellettualmente qualcosa di immensamente grande, che abbia il massimo di tutte le qualità, tale per cui non è possibile pensare alcunché di maggiore. Ad esempio non conosciamo l'essere più buono al mondo, ma riusciamo nella nostra mente a concepire l'essenza di una bontà assoluta e insuperabile.

Ciò che esiste nella realtà, secondo Anselmo, ha più valore di ciò che esiste nel solo intelletto, secondo la concezione tipicamente platonica che identificava il Bene con l'essere. L'albero esiste nella realtà e quindi anche nell'intelletto, mentre non tutto quel che esiste nella mente esiste anche nella realtà (ad esempio un cavallo alato). Ma non si può concepire Dio come il massimo delle qualità senza attribuirgli una reale esistenza, poiché anche l'esistenza è una qualità.

Il monaco benedettino francese Gaunilone (994-1083), pur non mettendo in dubbio l'esistenza di Dio, contestò la prova a priori di Anselmo nel suo Liber pro insipiente. Secondo Gaunilone non ci si può fondare sull'esistenza nel pensiero per concludere l'esistenza nella realtà sensibile (si possono pensare cose impossibili), per cui la definizione di divinità presa da Anselmo o è dedotta da qualcosa d'altro (dato di rivelazione, quindi non è prova a priori) o è completamente arbitraria e quindi si pone il problema della stessa pensabilità della definizione. In altri termini, egli obiettava che «se io penso un'isola perfettissima, allora questa esiste anche nella realtà?».

Anselmo obiettò alla critica sostenendo che non si potevano porre sullo stesso piano Dio e un'isola, poiché la sua prova era applicabile solo alla perfezione massima, ovvero Dio, «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande». La seconda obiezione di Gaunilone fu la seguente: «ammettendo che la prova di Anselmo sia valida, com'è possibile che la mente umana, limitata, riesca ad ospitare il pensiero dell'infinita figura di Dio?». Anselmo rispose che la sua prova definiva Dio soltanto attraverso la teologia negativa, negandogli cioè ogni difetto ed imperfezione, affermando soltanto che Dio è, ma non che cosa Egli è. Inoltre, nel cap. XV del Proslogion, Anselmo asserisce che Dio è sempre più grandi di ciò che possa essere pensato su di Lui.

Cartesio (René Descartes) propose, nella quinta delle Meditazioni metafisiche, una prova analoga a quella di Anselmo d'Aosta ma leggermente differente: per Dio egli intende una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, ovvero la somma di tutte le perfezioni la cui idea è innata nell'intelletto, ed improducibile da esso stesso, al pari dell'idea di infinito attuale.

Se Dio assomma tutte le perfezioni, contenute in sé come note di un concetto, non può mancare dell'esistenza; se non esistesse, sarebbe meno perfetto della perfezione che gli era stata accordata. Pensare un Dio perfettissimo manchevole dell'attributo dell'esistenza è contraddittorio, dice Cartesio: «Come pensare un monte senza valle».

Gottfried Wilhelm Leibniz, sia nello scritto del 1701 "Sulla dimostrazione Cartesiana dell'esistenza di Dio" che nella "Monadologia" nel 1714, svilupperà l'interpretazione cartesiana dell'argomento Anselmiano, e lo riformulerà in una maniera prettamente logica. Per Leibniz, infatti, la prova dell'esistenza di Dio è ridotta alla riflessione logica sulla Sua possibilità: se Dio è possibile, necessariamente esiste.

Dio è quell'Essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza o natura, e allora basterà pensare la possibilità di un Essere la cui esistenza è implicita nella sua essenza che ne avremo dimostrato l'effettiva esistenza. Basterà, dunque, dimostrare la non-contraddittorietà logica, per dimostrare l'esistenza di quell'Essere la cui esistenza è inclusa nella sua essenza. In Leibniz abbiamo l'estrema logicizzazione dell'argomento Anselmiano.

Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato indimostrabile, ne ha contestate le tradizionali dimostrazioni, alla cui inconsistenza occorre rimediare, secondo Kant, con argomentazioni più filosofiche e meno fideiste. Nella Dialettica trascendentale distingue tre generi di prove: ontologica, cosmologica e fisico-teologica. La prova ontologica, di cui è esempio la prova ontologica di San Anselmo, presume, secondo Kant, di poter pervenire dalla semplice idea di qualcosa alla sua esistenza reale, prescindendo dal dato di esperienza.

Egli immagina in proposito, in maniera piuttosto ironica, di avere in tasca cento talleri e di pensarne cento: quelli che lui pensa dovrebbero essere meno di quelli che ha in tasca, poiché ciò che è pensato è meno perfetto di ciò che è esistente. Ma pur continuando a pensarne cento, non per questo ne avrebbe di più in tasca. E quindi è per lui impossibile una prova di questo genere. La confutazione kantiana, partendo dal presupposto che il concetto di essere potesse avere senso solo se applicato alla realtà empirica e fenomenica, come modo di operare del nostro intelletto, fu a sua volta accusata di rinchiudersi in un nominalismo astratto, incapace di aprirsi al noumeno e quindi all'autentica realtà ontologica.

Lo stesso Kant, d'altronde, che già aveva preso posizione contro gli scettici, accusati di «aborrire ogni stabile edificazione del suolo», nella Critica della ragion pratica farà dell'esistenza di Dio un postulato o assioma dell'agire etico, ossia la condizione moralmente necessaria che dia senso alla legge morale, compensando le ingiustizie e impedendo nel mondo ultraterreno il ripetersi della contraddizione logica tra la sofferenza del giusto e la sua aspirazione a vivere secondo ragione.

Le dimostrazioni procedono generalmente dagli effetti alla causa, con una struttura tra loro simile. Hanno origine da diverse fonti, per esempio da Platone e Aristotele (che formularono per primi una prova sul Motore Immobile), dal pensiero neoplatonico (per quanto riguarda i gradi di perfezione della quarta via), e da altre fonti (alcuni pensatori musulmani sottolinearono la differenza fra essere contingente ed essere necessario che è chiave della terza via di Tommaso). Un argomento dei critici è che queste vie utilizzano ciò che in matematica si chiama regresso infinito. Questa struttura si ritrova pure nei paradossi di Zenone, che furono risolti a secoli di distanza, dimostrando che il regresso infinito non è contraddittorio, ed è ammissibile nella logica. Inoltre, dimostrerebbero l'esistenza di Dio, ma non la sua unicità. Ad esempio, il filosofo Eudosso di Cnido ipotizzò che esistessero 55 motori immobili differenti.




La prova dell'esistenza di Dio formulata da John Locke si basa sul sillogismo in ogni effetto non può essere contenuto nulla più di quanto sia contenuto nella causa (secondo il principio di causalità ex nihilo nihil);
nel mondo esistono persone dotate di intelligenza; quindi la causa del mondo deve essere intelligente.
Altre argomentazioni a favore dell'esistenza di Dio si avvalgono di definizioni e assiomi.

L'argomentazione teleologica, che sostiene che l'ordine e complessità dell'universo mostrano segni di una volontà (telos), e che deve essere stato disegnato da un progettista intelligente dotato di proprietà che solo un Dio può avere.
L'argomentazione antropica si concentra su fatti basilari, come la nostra esistenza, per dimostrare Dio.
L'argomentazione morale sostiene che la moralità oggettiva esiste e che quindi esiste Dio.
L'argomentazione trascendentale dell'esistenza di Dio, che sostiene che logica, scienza, etica e altre cose che prendiamo seriamente, non hanno senso se non c'è Dio. Di conseguenza le argomentazioni atee devono alla fine confutare se stesse, se pressate con rigorosa coerenza. Per contro esiste anche una argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio.
Le argomentazioni deduttive partono da premesse di tipo logico formale per arrivare ad affermazioni sul piano dell'esistenza, la quale viene ammessa per non urtare il principio di non contraddizione, avvalendosi dunque di una sorta di ragionamento per assurdo. Il passaggio dalla possibilità logica alla necessità dell'esistenza avviene perché ogni altra ipotesi che neghi l'esistenza di Dio risulterebbe logicamente impossibile.

Kurt Gödel nel suo trattato di matematica "Ontologischer Beweis" fornisce una dimostrazione logica dell'esistenza di Dio nel 1941, rivista nel 1954 e nel 1970. In questo libro, sostiene con argomenti matematici le sue convinzioni teologiche. Secondo la prova ontologica di Gödel, Dio è un Essere che assomma in sé le qualità positive di tutti gli enti reali. Dio deve esistere necessariamente come fondamento dell'ordine matematico dell'universo. La dimostrazione gödeliana, che parte da cinque assiomi e si avvale di un rigido teorema logico-formale, si basa sul fatto che non sarebbe logicamente plausibile ammettere la possibilità di un unico Essere provvisto di tutte le "proprietà positive", tra cui la stessa esistenza, senza attribuirgli una realtà effettiva, perché ciò sarebbe una contraddizione in termini.

Le argomentazioni induttive sostengono le loro conclusioni attraverso il ragionamento induttivo.

Un altro insieme di filosofi asserisce che le prove dell'esistenza di Dio presentano una probabilità abbastanza alta, anche se non la certezza assoluta. Un numero di punti oscuri, essi sostengono, rimane sempre. Allo scopo di superare queste difficoltà c'è necessariamente o un atto di volontà, un'esperienza religiosa, o il discernimento della miseria del mondo senza Dio, così che alla fine il cuore prenda una decisione. Questa visione è sostenuta, tra gli altri, dallo statista britannico Arthur Balfour nel suo libro The Foundations of Belief (1895). Le opinioni portate avanti in questo lavoro vennero adottate in Francia da Ferdinand Brunetière, editore di Revue des deux Mondes. Molti protestanti ortodossi si esprimono allo stesso modo, come ad esempio il Dott. E. Dennert, presidente della Kepler Society, nel suo lavoro Ist Gott tot.
Le argomentazioni soggettive si affidano principalmente sulla testimonianza o l'esperienza di determinati testimoni, o sulle proposizioni di una specifica religione rivelata.

L'argomentazione dei testimoni dà credibilità alle testimonianze personali, contemporanee o storiche. Una variante è l'argomentazione dei miracoli, che si affida alle testimonianze di eventi sovrannaturali per stabilire l'esistenza di Dio.
L'argomentazione cristologica o religiosa è specifica di religioni come il cristianesimo, e asserisce ad esempio che la vita di Gesù, come scritta nel Nuovo Testamento, ne stabilisce la credibilità, e quindi possiamo credere nella verità delle sue dichiarazioni su Dio. Un esempio di ciò è il Trilemma presentato da C.S. Lewis in Mere Christianity.
L'argomentazione della maggioranza sostiene che persone di tutte le epoche e in luoghi diversi hanno creduto in Dio, quindi è improbabile che non esista.
La Scuola Scozzese guidata da Thomas Reid insegna che il fatto dell'esistenza di Dio viene da noi accettato senza conoscenza delle ragioni, ma semplicemente per un impulso naturale. Che Dio esista, dice questa scuola, è uno dei principi metafisici fondamentali, che accettiamo non perché siano evidenti in sé o perché possono essere provati, ma perché il senso comune ci obbliga ad accettarli.
L'argomentazione da una base propria sostiene che la fede in Dio è "propriamente basilare", vale a dire, simile ad affermazioni come "vedo una sedia" o "sento dolore". Tali convinzioni sono non-falsificabili e quindi, non possono essere né provate né confutate; esse riguardano convinzioni percettive o stati mentali indiscutibili.
In Germania, la Scuola di Friedrich Heinrich Jacobi insegnava che la nostra ragione è in grado di percepire il sovrasensibile. Jacobi distingueva tre facoltà: sensi, ragione, e comprensione. Così come i sensi hanno una percezione immediata delle cose materiali, la ragione ha una percezione immediata dell'immateriale, mentre la comprensione porta queste percezioni alla nostra consapevolezza e le unisce l'una con l'altra. L'esistenza di Dio quindi non può essere provata—Jacobi, come Kant, rigettava il valore assoluto del principio di causalità—, deve essere sentita dalla mente.
Il grande illuminista francese Voltaire ripeteva un aforisma molto significativo che recita "Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo". Seguace fin dalla giovinezza del deismo inglese, e in particolare di Samuel Clarke e di Antony Collins, elabora alla fine della sua vita una forma di teismo che così enuncia nel Dizionario filosofico:
« Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza di un Essere supremo tanto benigno quanto potente, il quale ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti, o dotati di sentimento, o di sentimento e ragione; e perpetua la loro specie, e punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista non sa in qual modo Iddio punisce, né come egli premia. Le difficoltà che si oppongono all’idea della Provvidenza non lo scuotono nella sua fede. Egli è sottomesso a questa Provvidenza, benché non ne scorga se non alcuni effetti e alcune apparenze. La sua religione è la più antica e la più estesa, perché la semplice adorazione di un Dio ha preceduto tutte le dottrine del mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli intendono, mentre questi popoli non si intendono fra di loro. »
(Dizionario filosofico, Mondadori 1970, p.619)
Nello stesso tempo Voltaire si pronuncia duramente contro l'ateismo con queste parole:

« Che l’ateismo è un mostro assai pericoloso in quelli che governano; che lo è anche nelle persone di studio, se pure la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare sino a quelli che vivono in piazza; e che, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù. »
(Dizionario filosofico, cit., p.99)
Nel suo Emilio, Jean-Jacques Rousseau asseriva che quando la nostra comprensione pondera circa l'esistenza di Dio, non incontra altro che contraddizioni. Gli impulsi del nostro cuore, comunque, hanno più valore della comprensione, e questo ci proclama chiaramente le verità della religione naturale, ovvero l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima.
La stessa teoria venne sostenuta in Germania da Friedrich Schleiermacher (morto nel 1834), che assumeva un senso religioso interno per mezzo del quale sentiamo le verità religiose. Secondo Schleiermacher, la religione consiste solamente di questa percezione interna, e le dottrine dogmatiche non sono essenziali.
Molti teologi protestanti moderni seguono le orme di Schleiermacher, e insegnano che l'esistenza di Dio non può essere dimostrata; la certezza di questa verità è fornita solamente dalla nostra esperienza interiore, dai sentimenti e dalla percezione.
Anche la cristianità modernista nega la dimostrabilità dell'esistenza di Dio. Secondo questa, possiamo conoscere qualcosa di Dio solo tramite l'immanenza vitale, vale a dire che, in circostanze favorevoli, il bisogno di divino che dorme nel nostro subconscio, diventa conscio e risveglia il sentimento religioso o l'esperienza in cui Dio si rivela a noi. In condanna di questa visione il giuramento contro il modernismo formulato da Papa Pio X dice: "Deum... naturali rationis lumine per ea quae facta sunt, hoc est per visibilia creationis opera, tanquam causam per effectus certo cognosci adeoque demostrari etiam posse, profiteor" ("Dichiaro che per illuminazione naturale della ragione Dio può certamente essere conosciuto e quindi la Sua esistenza può essere dimostrata tramite le cose fatte, ovvero tramite l'opera visibile della creazione, in quanto la causa è nota attraverso i suoi effetti").

Il matematico italiano Vincenzo Flauti (1782-1863) pubblicò la "Teoria dei miracoli", una dimostrazione matematica dell'esistenza di Dio. George Boole (1815-1864), inventore dell'algebra della logica, nel capitolo XIII del suo libro "The Laws of Thought" (MacMillan 1854) espresse in formule la dimostrazione dell'esistenza di Dio ideata dal teologo non conformista Samuel Clarke (1675-1729), giungendo alla conclusione che la dimostrazione non è valida. Altri autori hanno espresso considerazioni riguardo ai limiti notevoli, in merito all'esito indeterminato del prodotto o divisione di due grandezze infinite, e al prodotto di una grandezza nulla per infinito.

Secondo Kierkegaard il termine stesso esistenza applicato a Dio è improprio. Il filosofo cristiano dichiara che la fede è un paradosso (non l'assurdo o l'irrazionale) e sostiene che Dio deve essere accettato per fede e basta, Dio non va "spiegato": «Dio non pensa, Egli crea. Dio non esiste, Egli è eterno. L'uomo pensa ed esiste e l'esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l'uno dall'altro nella successione». Vi è quindi una differenza assoluta fra uomo e Dio fra ciò che è finito e infinito. Si possono mediare differenze relative, non la differenza assoluta.

Sebbene la fede sia un rischio, Kierkegaard sostiene che la sua accettazione non è irrazionale: Il credente non solo possiede, ma usa la ragione, rispetta le credenze comuni, non ascrive a mancanza di ragione se qualcuno non è cristiano; ma per quello che riguarda la religione cristiana egli crede contro la ragione e in questo caso adopera la ragione per accertarsi che crede contro la ragione. Il cristiano non può accettare l'assurdo contro la sua ragione perché questa si accorgerebbe che è assurdo e lo respingerebbe. Egli adopera, quindi, la ragione per diventare consapevole dell'incomprensibile e poi si attacca ad esso e crede anche contro la ragione. La fede è quindi un rischio perché richiede l'adesione personale ad affermazioni che oggettivamente non presentano alcuna garanzia e sono in stridente contrasto con i normali criteri di verità. La fede è un rischio perché il suo oggetto è il paradosso, una verità che oltrepassa gli schemi della ragione umana, una verità priva di evidenza oggettiva. Per Kierkegaard quindi la fede è imprescindibile dalla credenza in Dio ed è la sola qualità che ci deve consentire di accettare la sua esistenza.

Il pensiero di Diagora di Milo, noto come l'ateo e perseguitato in vita per il suo ateismo, non è noto se non in misura frammentaria ed attraverso fonti terze, peraltro in misura prettamente aneddotica. Nel De Natura Deorum Cicerone riporta che un amico di Diagora aveva cercato di convincerlo dell'esistenza degli dèi ricordandogli quante immagini votive erano state erette in onore degli dèi da varie persone come ex voto per essere sopravvissute a tempeste in alto mare, al che Diagora avrebbe ribattuto ricordandogli quante immagini votive non erano state erette in onore degli dèi da coloro che invece erano morti per naufragio.

Nella medesima opera l'autore racconta come l'equipaggio di una nave su cui era imbarcato Diagora accusasse questi per aver attirato su di loro la collera degli dèi nella forma di una forte tempesta, al che Diagora rispose chiedendo se anche le altre imbarcazioni coinvolte dalla tempesta avessero Diagora a bordo. L'autore cristiano Atenagora di Atene scrisse nel II secolo d.C. che gli Ateniesi avevano perseguitato Diagora perché aveva apertamente dichiarato l'inesistenza degli dèi. Autori greci contemporanei al filosofo affermano che una delle argomentazioni che portava a sostegno di questa sua tesi era la mancata punizione divina di numerosi atti d'empietà e crudeltà commessi dagli uomini.

Crizia, vissuto tra il V ed il IV secolo a.C., tratta ne il Sisifo la dissoluzione del tradizionale concetto di nomos (dal greco legge) sul quale le polis dell'antica Grecia erano fondate e che ricomprendeva in sé i concetti di legge giuridica, sociale e religiosa. Ribaltando lo schema tradizionale, che voleva il diritto positivo fondato sulla morale divina, egli fonda nella paura del divino il vero caposaldo del potere politico, identificando con l'invenzione degli dèi il fondamento per la nascita della civiltà.

La divinità assume le caratteristiche di uno strumento politico atto al governo. Secondo Crizia, il divino è stato inventato dai governanti affinché gli uomini smettessero di infrangere le leggi di nascosto, convincendoli nella loro sfera personale dell'esistenza di una forza soprannaturale in grado di osservarli in qualsiasi momento e in seguito giudicarli. Egli non solo spiega razionalmente la religione, ma pretende di dimostrare la debolezza intrinseca della legge positiva e della morale collettiva.

Queste sono infatti frutto di convenzione, relative e basate sull'apparenza: come prima di lui aveva osservato il sofista Antifonte, giusto è colui che, di fronte a testimoni, si comporti in ossequio alla legge per evitare biasimo e pene, ma che poi, in privato, si comporti secondo la propria natura (physis). Qui sta appunto, anche per Crizia, la debolezza della legge, poiché essa cessa di avere valore quando l'individuo si trova solo. Qualsiasi oratore, poi, è in grado a parole di rigirare la legge a proprio vantaggio, insozzando ciò che di buono vi è in essa. Piuttosto che sul nomos, dunque, una società ordinata si dovrebbe basare sulla moderazione del singolo individuo. Come scrisse nel Piritoo, «un carattere nobile è più saldo della legge», poiché nessuno sarà mai in grado di storpiarlo.

A cavallo tra il IV ed il III secolo a.C. Evemero da Messina veicolò, attraverso La Storia Sacra, l'evemerismo. Evemero cercò di spiegare razionalmente la genesi degli dei, ritenendo che l'origine del concetto di "dio" fosse da rintracciarsi nella divinizzazione progressiva subita da personaggi storici di spicco, quali antichi sovrani e fondatori di regni e città.

In tal modo egli negava esplicitamente la natura divina degli dei, affermandone l'origine umana. In linea con questa impostazione, egli cercò di interpretare razionalmente gli antichi miti, epurandoli degli elementi mistici e fantasiosi e cercando di identificarne il nucleo storico di fondo.

Risulta incerto se Lucrezio (98-53 a.C.) si sia semplicemente limitato a esportare l'epicureismo di Epicuro in ambito latino o se avesse radicalizzato questa corrente filosofica facendone una forma di ateismo.

Sin dal primo libro del De rerum natura egli enuncia che gli dèi non esistono e che il mondo si è fatto da sé, scrivendo:

« Quas ob res ubi viderimus nil posse creari de nihilo, tum quod sequimur iam rectius inde perspiciemus, et unde queat res quaeque crearivet quo quaeque modo fiant opera sine divom »

(E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l’oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi.)
Nel Libro V Lucrezio spiega perché il mondo si è fatto da solo:

« Ma ora spiegherò con ordine come il caotico ammasso di materia abbia stabilmente formato la terra, il cielo, le profondità marine, il corso del sole e della luna. Infatti di certo gli elementi germinali delle cose non si disposero ognuno al suo posto per il criterio d’una mente sagace né pattuirono i moti che ognuno avrebbe dovuto imprimere, ma poiché i numerosi germi della natura in molteplici modi ormai da tempo infinito sospinti dagli urti e dal loro stesso peso sogliono spostarsi velocemente,
aggregarsi in ogni guisa e produrre tutte le combinazioni »
Età moderna[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1729, alla morte del prete Jean Meslier, veniva reso pubblico il suo testamento, dal titolo di Memoria dei pensieri e delle opinioni di Jean Meslier, prete, curato di Ètrèpigny e di Balaives, su una parte degli errori e degli abusi del comportamento e del governo degli uomini da cui si dimostrano in modo chiaro ed evidente le vanità e le falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo, affinché sia diretto ai suoi parrocchiani dopo la sua morte e per essere usata da loro e da tutti i loro simili quale testimonianza di verità. In questo testo il sacerdote chiedeva perdono per quanto di falso aveva predicato in tutta la vita e per aver mentito nell'esercizio di una vocazione spirituale divenuta non più consona alle sue convinzioni filosofiche.

Meslier mise in dubbio la coerenza della religione cristiana attraverso una critica all'attendibilità e alla verità storica dei Vangeli, contestandone le ritenute contraddizioni interne, alla Bibbia in generale, affermando la falsità delle presunte profezie dell'Antico Testamento, e alla dottrina e morale cristiane, enumerando quelli che a suo parere erano gli errori insiti in queste. Egli riteneva che la fede, in quanto "credenza cieca", fosse un principio di errori, di illusioni e di raggiri e che la divinità e l'anima fossero invenzioni umane.

Meslier sostenne che la religione origina dalla paura e che i tiranni se ne servono e la sostengono per imporre il proprio potere: idealizzando la sofferenza, la povertà e il dolore e condannando il piacere, la religione - in particolare quella cristiana - disarma gli uomini e li lascia alla mercé dei soprusi del potere. Monarchi, nobili e sacerdoti sono parassiti che il popolo deve abbattere per riappropriarsi della terra, dato che in natura tutti gli uomini sono uguali ed a loro appartengono i beni e la terra che lavorano. Egli ritiene che tutto quanto avviene nella storia non può né deve essere attribuito a Dio, in quanto solo la natura, eterna e già di per sé perfettamente regolata, basta a spiegare i mutamenti storici.

Il barone Paul Henri Thiry d'Holbach, sotto lo pseudonimo di Jean-Baptiste Mirabaud, pubblicò sotto questo falso nome il Sistema della Natura e Il Buon Senso rispettivamente nel 1770 e nel 1772. Nelle due opere nega l'esistenza dell'anima, descrivendo l'uomo come "un essere puramente fisico", e sostiene materialisticamente che materia e moto formano il mondo, il quale è auto-creato, eterno e governato da un rigido determinismo fondato sulla legge della causalità.

Conseguentemente a questa impostazione, la libertà è una pura illusione e con essa il libero arbitrio; in realtà l'uomo cerca ciò che ritiene utile al proprio benessere, secondo una sorta di legge fisica naturale, su di una "gravitazione dell'individuo su se stesso", fondata sul concetto di necessità. Egli ritiene che la ragione e l'esperienza dimostrino quanto afferma, arrivando a definire l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima sciocche superstizioni, mantenute in vita dagli interessi del clero che sfrutta l'ignoranza del popolo.

Egli è convinto che assolutismo politico e oppressione clericale sono sostanzialmente solidali e debbono quindi essere combattuti insieme, affermando che «Senza la Corte la Chiesa quasi non può prosperare, lo Spirito Santo vola con un'ala sola. È a corte che in ultima istanza si decide l'ortodossia. Gli eretici sono sempre coloro che non pensano come alla corte. Le divinità di quaggiù regolano comunemente la sorte delle divinità di lassù. Senza Costantino Gesù Cristo sulla terra avrebbe fatto una assai magra figura».

D'Holbach esalta l'ateismo, concepito come passo necessario verso la virtù essendo che "la vera virtù è incompatibile con la religione": il virtuoso è ateo e conosce le leggi della natura e la propria natura, sa ciò che essa gli impone e pertanto può seguirla, assecondando il proprio impulso verso la felicità. Pertanto, che non si debba condannare la ricerca del piacere e della felicità terrena, purché l'interesse singolo non contraddica l'interesse collettivo: la condotta di ognuno deve riuscire a conciliargli la benevolenza dei propri simili, necessaria alla sua stessa felicità, e pertanto dev'essere diretta all'utilità del genere umano.

Ludwig Feuerbach ne l'"Essenza del cristianesimo" (1841) afferma che la religione, con particolare riferimento a quella cristiana, ha un contenuto positivo che consente di scoprire quale sia l'essenza dell'uomo. Infatti, secondo Feuerbach l'uomo di fronte alle difficoltà della vita si affida ad un soggetto altro rispetto a lui, che è idealmente slegato dai tipici limiti umani e che egli chiama dio e, quando un soggetto entra in un rapporto essenziale e necessario con un oggetto trascendente (come dio appunto), questo significa che questo oggetto è la vera e propria essenza del soggetto, proiettata. Dio dunque non è altro che l'oggettivazione ideale dell'essenza dell'uomo che in Dio proietta se stesso.

La religione è l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente immaginario, che viene falsamente considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si trovano pienamente realizzate idealmente. Nella religione è dunque l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza attraverso un processo psichico di assolutizzazione dell'umano. Non quindi Dio che ha creato l'uomo, ma viceversa (Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio afferma Feuerbach). In Dio e nei suoi attributi l'uomo può quindi scorgere oggettivati i suoi bisogni e i suoi desideri e, dunque, ri-conoscerli. Feuerbach ne conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé».

La conoscenza che l'uomo ha di Dio non è altro, allora, che la conoscenza che l'uomo ha di sé stesso, ma solo con la filosofia ciò può giungere a piena consapevolezza. Secondo Feuerbach la colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano è stata l'aver condotto all'ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia e in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio. Rispetto al cristianesimo, il panteismo ha il merito di aver riconosciuto che il divino non è un'entità personale, ma è il mondo stesso.

Lo sviluppo della religione consiste dunque in una progressiva negazione di Dio da parte dell'uomo, la quale va di pari passo con la consapevole riappropriazione della propria essenza umana. Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come antropologia. In quanto antropologia, la filosofia si assume il compito di liberare l'essenza dell'uomo e dalla sua alienazione religiosa in un ente estraneo. Secondo Feuerbach è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia. Anche quando si è riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, questi predicati infatti permangono nella loro verità, ma come possibilità e prerogative dell'essenza umana.

L'inizio della filosofia non è dunque Dio o l'Assoluto, come in Hegel, ma ciò che è finito, determinato e reale. La filosofia dell'avvenire, in quanto antropologia, riconoscendo il finito come infinito, deve partire, non da come aveva fatto Hegel, dal pensiero autosufficiente, inteso come soggetto capace di costruirsi con le sue proprie forze, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Esso è l'uomo in carne e ossa, mortale dotato di sensibilità e bisogni: in questo consiste l'umanesimo di Feuerbach. Occorre dunque partire da ciò che dà valore al pensiero stesso, ossia dall'intuizione sensibile perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo: il sensibile infatti non ha bisogno di dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza.

In questa prospettiva, la natura non si trova più ridotta a semplice forma estraniata dello spirito, come avveniva in Hegel, ma diventa la base reale della vita dell'uomo. L'argomento genealogico che utilizza Feuerbach a prima vista può sembrare molto convincente ma ha un difetto logico, non prova infatti la non esistenza di Dio: esso mette solo in evidenza un processo psicologico di proiezione che non tocca la questione dell'esistenza di Dio. Dio potrebbe infatti essere riconosciuto tramite questa proiezione delle più alte aspirazioni umane, così come potrebbe invece trattarsi di un'illusione umana: il problema rimane irrisolto.

Nell'introduzione alla «Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico», articolo pubblicato sugli "Annali franco-tedeschi" nel 1844, Karl Marx, in contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, precisa come nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria teorizzata da Feuerbach. Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa è un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo.

La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli», ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a sé stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza, ossia attraverso l'emancipazione politica e umana del proletariato.

Friedrich Nietzsche afferma che la società a lui contemporanea è "malata", perché fondata su illusioni e convenzioni che gli individui accettano passivamente: in tal senso egli stigmatizza la sua società, che definisce "nichilista", fondata su "menzogne" che impediscono all'uomo di rivelare la parte "dionisiaca" del suo essere e di diventare superuomo. Tra queste illusioni l'autore pone "dio": egli afferma che "Dio è morto" nel senso che il concetto di "dio" risulta essere divenuto non più necessario per spiegare il mondo e per capire la propria vita, cosicché tale concetto esprime una realtà non più creduta o cercata e si è rivelato per il suo carattere puramente illusorio.

In tal senso, nell'annunciare la "morte di dio", egli afferma che il sistema di convinzioni su cui si è basata la società "malata" per secoli è venuto meno sin dal suo concetto fondante, il concetto di dio. Egli prefigura dunque il necessario superamento di questa società e l'arrivo del superuomo: il superuomo è "dio" e "creatore" per sé stesso, perché egli determina da sé il proprio mondo e i suoi valori e le sue regole, essendo cosciente della intrinseca soggettività dell'etica. Celebre è la figura dell'uomo folle ne La gaia scienza (1882), che gira in pieno giorno con una lanterna accesa, urlando "Cerco Dio!", attirandosi così lo scherno dei presenti.

Alla richiesta di spiegazioni l'uomo afferma che Dio è morto, ovvero che nessuno crede più veramente. Ma nell'atto stesso di compiere questa affermazione si trova di fronte allo scetticismo e all'indifferenza, quando non alla derisione. Egli stesso si definisce come il "testimone" di un omicidio compiuto dall'intera Umanità. E allora: "Vengo troppo presto" egli ammette, poiché gli uomini non sono ancora pronti ad accettare questo cambiamento epocale. I valori tradizionali sono sempre più pallidi, sempre più estranei alla coscienza, ma i nuovi valori, quelli della gioiosa accettazione della vita e della fedeltà alla terra, sono ancora al di là dell'orizzonte: "Questo enorme evento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino".

L'annuncio della morte di Dio ha una straordinaria efficacia retorica e forse anche per questo non è stato sempre compreso a fondo: taluni interpreti si sono limitati a leggerlo come l'ennesimo attacco al Cristianesimo e non ne hanno percepito la profondità e la complessità. Infatti Nietzsche con questa affermazione intende annunciare la fine di ogni realtà trascendente, indipendentemente dal culto che predichi tale realtà. Egli considera ciò come il compimento di un processo nichilistico necessario, le cui radici si ritrovano nell'atto di omissione e di oblio del dionisiaco, che ha consentito all'apollineo nel corso della secolarizzazione, di trovare modelli metafisici ragionevoli, capaci di giustificare il "senso dell'essere", ma che prima o poi, secondo l'autore tedesco, avrebbero dovuto fare i conti con la vera essenza vitale della natura umana, quale appunto, il dionisiaco, ossia ciò che lega alla terra e alla vita.

L'argomentazione delle rivelazioni inconsistenti contesta l'esistenza della divinità biblica mediorientale chiamata Dio come viene descritta nelle sacre scritture, come la Tanakh ebraica, la Bibbia cristiana o il Corano musulmano, identificando le contraddizioni tra le differenti scritture, quelle all'interno di una singola scrittura o le contraddizioni tra le scritture e i fatti noti.
La teodicea (o "problema della giustizia di Dio") in generale e le argomentazioni logiche ed evidenziali del male in particolare, contestano l'esistenza di un dio che sia contemporaneamente onnipotente e omnibenevolo, sostenendo che un tale dio non permetterebbe l'esistenza del male o della sofferenza percepibili, la cui esistenza può essere facilmente dimostrata. Tale argomento viene anche detto argomento morale: se Dio esistesse sarebbe non-morale dal punto di vista della comprensione umana, quindi inutile come riferimento. L'argomento non verte strettamente sull'esistenza di qualsiasi divinità, perciò viene sostenuto anche da teisti e altri gruppi oltre che da atei. Inoltre, essendo Dio infinito, per sua stessa natura dovrebbe contenere in sé il male, principio che cozza contro un dogma cattolico che dichiara che da Dio procede solo il bene senza la minima presenza di male in esso. Questo argomento viene contestato dai deisti concependo il male come assenza di bene, che appunto è l'essenza di Dio.
L'argomentazione del disegno insufficiente contesta l'idea che un dio abbia creato la vita, sulla base del fatto che le forme di vita mostrano una progettazione scarsa o malevola, che può essere spiegato facilmente usando l'evoluzione o il naturalismo.
Un risultato sperimentale che mostra con evidenza che è il caso a governare la sequenza delle mutazioni, è quello ottenuto da un gruppo di ricercatori dell'Oregon sull'evoluzione di un recettore dei glucocorticoidi: la sequenza delle mutazioni è risultata irreversibile, cosa incompatibile con l'idea di un disegno preordinato.

L'argomentazione della non credenza contesta l'esistenza di un dio onnipotente che vuole che gli esseri umani credano in lui, sostenendo che un tale dio farebbe un lavoro migliore per raccogliere i credenti. Questa argomentazione viene contestata dall'affermazione che Dio vuole mettere alla prova gli uomini per vedere chi ha più fede, ma a sua volta viene respinta dalle argomentazioni relative all'onniscienza (non ha senso che Dio metta alla prova gli uomini, perché essendo onnisciente sa già come andrà a finire e di fatto questo mina irreversibilmente il concetto di libero arbitrio).

Il paradosso dell'onnipotenza e gli altri paradossi teologici, sono una delle molte argomentazioni che sostengono che le definizioni o descrizioni di un Dio sono logicamente contraddittorie, e dimostrano così la sua non esistenza.
L'argomentazione del libero arbitrio contesta l'esistenza di un dio onnisciente dotato di libero arbitrio sostenendo che le due proprietà sono contraddittorie.
L'argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio contesta l'esistenza di un creatore intelligente, dimostrando che un tale essere renderebbe dipendenti logica e morale, il che è incompatibile con l'affermazione presupposizionalista che esse sono necessarie, e contraddice l'efficacia della scienza. Una linea di argomentazione più generale basata sull'argomentazione trascendentale della non esistenza di Dio, cerca di generalizzare questa argomentazione a tutte le caratteristiche necessarie dell'universo e a tutti i concetti di dio.
La controargomentazione dell'argomentazione cosmologica ("l'uovo o la gallina") dichiara che se l'universo è stato creato da Dio perché doveva avere un creatore, allora Dio a sua volta avrebbe dovuto essere stato creato da un altro dio, e così via. Questo attacca la premessa che l'universo sia la "causa seconda" (dopo Dio, che si sostiene essere la "causa prima"). Una risposta comune a questo è che Dio esiste al di fuori del tempo e dell'universo, e quindi non necessita di una causa. Questa concezione genera alcuni problemi logici: in primo luogo cozza contro la natura infinita di Dio, non può esistere un "altrove" a un Dio che tutto permea e organizza; in secondo luogo, tale affermazione ricondurrebbe al rasoio di Occam facendo coincidere il caso con quello del primo argomento empirico: il modello logico causale non sarebbe più vantaggioso poiché dipende da un elemento senza causa, elemento che quindi è in più rispetto al necessario. Il fatto di spiegare il mondo e l'universo come creazione di dio è un rimandare la spiegazione, per il fatto che ora dall'inspiegabilità dell'universo si passa nell'assai più complessa inspiegabilità di Dio.
Il noncognitivismo teologico, come usato in letteratura, cerca solitamente di confutare il concetto di Dio mostrando che esso è inverificabile e senza significato.
Il paradosso di Curry mostra come il concetto di causa prima, una delle forme più generali cui si può ricondurre l'idea di Dio, si rivela privo di significato quando si prova ad esprimerlo nel linguaggio formale della logica matematica.

L'argomentazione atea-esistenzialista della non esistenza di un essere senziente perfetto, sostiene che poiché l'esistenza precede l'essenza, ne consegue dal significato del termine senziente che un essere senziente non può essere completo o perfetto. La questione viene affrontata da Jean-Paul Sartre in L'essere e il nulla. Secondo Sartre Dio sarebbe pour-soi (un essere per sé; un essere cosciente) che è anche en-soi (un essere in sé; una cosa): il che è una contraddizione in termini. L'argomentazione viene riecheggiata nel romanzo di Salman Rushdie, Grimus: "Ciò che è completo è anche morto." Hegel nella Fenomenogia dello Spirito sostiene che l'essere, come ogni cosa non pensata in relazione al suo contrario, come l'essere concepito come essere-per-sé, cade e diventa il suo contrario, appare identico al nulla. Tale movimento di pensiero è anche un movimento di essere, che trova nel divenire una sintesi superiore e successiva all'apparente identità di essere e nulla, che non è un'identità statica, ma un'identità dinamica, un evento nel pensiero che si ripete nell'essere.
L'argomentazione del "nessun motivo" cerca di mostrare che un essere onnipotente o perfetto non avrebbe alcuna ragione di agire in alcun modo, in particolare creando l'universo, perché non avrebbe desideri, in quanto il concetto stesso di desiderio è soggettivamente umano. Siccome l'universo esiste, c'è una contraddizione, e quindi, un dio onnipotente non può esistere. Questa argomentazione viene sposata da Scott Adams nel libro God's Debris.

Hawking sostiene da diversi anni l'ateismo, sebbene in passato abbia manifestato interesse per una visione panteista e non trascendente come quella di Albert Einstein, ad esempio nel capitolo finale del suo libro Dal Big Bang ai buchi neri. Egli sostiene, in un articolo del 2010, che Dio non può conciliarsi con la scienza e non è correlato col nostro mondo. Nei suoi libri non specifica mai se creda o meno nell'esistenza di un Dio o di un'altra entità superiore: in The Grand Design, scritto insieme al fisico Leonard Mlodinow, ha elaborato una teoria cosmologica che intende spiegare l'origine dell'universo, il quale, come dichiara lo scienziato in un'intervista sul Times, "non è stato creato da Dio". Hawking oggi si dichiara ateo.

Anche riguardo al rapporto tra religione e scienza, Hawking sostiene che non sono conciliabili, in quanto come ha dichiarato sempre sul Times: "c'è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull'autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento. E la scienza vincerà perché funziona". Nel 2011 ha dichiarato di non credere, a livello strettamente personale e senza farne una verità assoluta, nell'esistenza di un Dio creatore (senza esprimersi sulle religioni che invece non parlano di "creazione"), perché non è necessario per spiegare l'universo, e siccome prima del Big Bang non esisteva il tempo (come non esiste all'interno di un buco nero), non sarebbe esistito nemmeno il tempo per creare l'universo, oltre al fatto che, a livello subatomico le particelle elementari quantistiche, come quella che ha dato origine all'universo, possono apparire e scomparire spontaneamente.

Egli afferma che questa sia la spiegazione più semplice, proprio per lo stesso motivo per cui una malattia che è derivata da una causa fisica non ha bisogno di una metafisica per spiegarla, portando ad esempio la propria situazione personale. Allo stesso tempo non ha mai escluso la teoria del multiverso, ossia la possibilità di più universi, ognuno con la sua relativa nascita e le sue leggi fisiche peculiari. Hawking, nonostante non sia un credente, è membro della Pontificia accademia delle scienze.

Per contro Hawking non spiegherebbe come possa esistere una legge di gravità senza gravi, così come non spiega come sia concepibile una legge che preceda l'universo dato che in realtà lo presuppone. Hawking risponde a queste obiezioni che non c'è bisogno di un creatore per creare le leggi fisiche, in quanto semplicemente esse esistono intrinsecamente alla materia, sempre esistente sotto qualche forma oppure apparsa dal nulla prima di tutto, ma non esistendo allora lo spaziotempo si può dire che essa deriva da un istante senza tempo, un eterno presente, come quello dell'orizzonte degli eventi.



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domenica 7 gennaio 2018

LE DIVINITA'

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Dalle ricerche di Hermann Usener risulta che figure divine si possono formare mediante la combinazione sia di fenomeni naturali o della vita umana, sia dei loro operatori. Come il fulmine, che è qualche cosa di sacro per sé stesso, viene considerato come opera d'una potenza divina, quindi di una persona divina, finché questo dio del fulmine non viene assorbito da una divinità superiore, Zeus "il Fulminante". Lo stesso discorso vale per gli altri fenomeni naturali: dappertutto si sono creati questi "dei particolari" o "funzionali" o "momentanei", cui si attribuisce cioè un'attività singola e circoscritta e la cui esistenza si riconosce solo in quel determinato momento. Le forze operanti di quelle cose con le quali operava la magia, sono diventate forze personali, che l'uomo cerca di dirigere, rivolgendosi ad esse come a persone.


Ma non sempre gli esseri divini sono concepiti in questo modo. Si trovano infatti dappertutto alcune divinità, le quali posseggono bensì tutti i requisiti, ma la cui attività è limitata a una piccola regione, a un luogo determinato. Queste "divinità locali" si trovano soprattutto là dove gli uomini hanno assunto dimora stabile, mentre le popolazioni ancora nomadi sono legate piuttosto a divinità ancestrali o tribali. Così Jahvè secondo molti critici sarebbe stato in origine un dio tribale degl'Israeliti, e loro guida nelle peregrinazioni. Zeus dev'essere stato il dio di una stirpe; la sua sposa secondo i poemi omerici era indiscutibilmente una divinità locale argiva e molti santuari di Zeus mostrano che il dio tribale e il dio celeste si è fuso con divinità locali. La Grecia ha costituito un campo fecondo per lo sviluppo dei piccoli culti locali, le cui divinità hanno potuto subire la stessa sorte degli dei funzionali ed essere assorbite da divinità maggiori. Non diversamente in Egitto e in Babilonia: anche qui la molteplicità degli dei locali (per lo più di città) costituì l'ampio substrato della vita religiosa, dal quale si svolsero poi le figure divine maggiori e generali.


Il terreno su cui esso è cresciuto il politeismo è la concezione pluralistica dei fenomeni naturali e il frazionamento della società umana, poiché la raffigurazione d'una molteplicità di dei e di potenze è vitale solo in queste circostanze. Ma non è necessario che esista un politeismo cultuale. Spesso, e proprio negli stadi inferiori, il culto locale o sociale si rivolge di preferenza verso un dio, magari circondato dalla sua famiglia o dalla sua servitù (monolatria), mentre sussiste ancora l'idea dell'esistenza indubitabile di altre divinità accanto a quella invocata. Un vero pantheon, quale si trova nella piena fioritura del politeismo, è per lo più il risultato di una combinazione cosciente compiuta da sacerdoti, da dominatori, o anche - come il pantheon omerico - da poeti. 


Il panteismo è in realtà una via migliore del sincretismo per afferrare e rilevare l'infinitezza del divino. Caratteristica del panteismo è la rappresentazione del divino come Essere universale, come forza cosmica impersonale e spirituale. Questa concezione si manifestò molto presto nella filosofia greca, poiché i pitagorici parlavano di un Nus, di una Mente universale: pensiero rielaborato in senso più idealistico dai platonici, più materialistico dagli stoici. Ma la classica patria di questa concezione religiosa resta sempre l'India. Nella filosofia dei Brahmaa, delle Upani ad l'unità e l'universalità dell'essere furono espresse mediante il concetto del brahman. Il divino, che secondo la sua essenza viene chiamato atman o praa ("respiro") era concepito come astratto e impersonale nella maniera più rigorosa, come un essere non solo incorporeo, ma completamente privo di qualità, spoglio d'ogni particolarità: un essere del quale si poteva appena riconoscere l'esistenza, per non caricarlo di qualificazioni positive. La scuola del Vedanta mantenne questo concetto nella più nuda astrazione: scuole più recenti del Medioevo indiano (Ramanuja, sec. XII), al contrario, hanno attribuito all'Essere supremo la piena esistenza con tutte le qualità particolari, tra cui quelle materiali, anche le più basse, affinché nulla mancasse alla sua universalità. Questo oscillare fra le posizioni estreme è caratteristico del panteismo. Una certa instabilità è sempre propria di questa audace concezione unitaria. Il panteismo autentico si riconosce da ciò, che esso vuole fondere insieme, per quanto è possibile, le tre grandezze: Dio, natura, uomo; ma in questo processo una di esse tenderà sempre a prendere il sopravvento. Così l'unità tra Dio e la natura cade o nell'acosmismo o nel naturalismo, secondo che la natura venga riassorbita in Dio, o Dio nella natura. 



L'unità tra l'uomo e Dio è pure soggetta a cadere nell'assorbimento o dell'umano in Dio  o del divino nell'umano. Questa instabilità del pensiero panteistico rimane sempre un fermento che si direbbe indispensabile, come dimostra la storia delle speculazioni teologiche nel seno di religioni anche molto diverse tra loro.


Di monoteismo si può parlare soltanto dove si tratta non solo di unità, ma anche di una vera divinità. Perciò il vero monoteismo si dìstingue dalla nuda monolatria, che si può trovare anche in situazioni inferiori e limitate. Per la massa del popolo israelita al tempo dei Giudici era una cosa abbastanza naturale che i Moabiti avessero il loro Kemosh, com'essi avevano il loro Jahvè. Ma in seguito all'efficace azione dei Profeti essi giunsero a superare questa limitatezza di vedute e a riconoscere in Jahvè non già un dio tribale o locale, bensì l'autentico signore del mondo, che ha creato ogni cosa e che tutto governa secondo la sua volontà; che ha largito la sua legge, che infligge la punizione e concede la sua grazia, in quanto giudice di tutti i popoli, che alla fine egli raccoglierà sulla sua santa montagna quando stabilirà il suo regno divino in terra. Qui si presenta come fatto assolutamente distintivo il rapporto religioso, il completo abbandono alla fede nel Dio che dirige. Questo è appunto il carattere che distingue il monoteismo profetico da quello puramente ritualistico-sacerdotale, che ci appare in alcune grandi religioni. Come esempi di queste potremmo considerare i culti egiziani di Rie e di Osiride o la venerazione in apparenza esclusiva di un dio babilonese quale Sin, il potente dio locale della città di Ur. Nonostante la grande insistenza sulla sua potenza e il vasto dominio sulla natura che dà origine ai suoi predicati, questo dio resta pur sempre uno tra i molti, non il principio che produce ogni esistenza umana, ed è in realtà solo un esempio di una monolatria superlativa, che fa, di un essere potente, l'unico.


In maniera affatto diversa fu concepita la divinità cui il parsismo di Zarathustra sottopose il mondo: Ormazd o Ahura Mazdah ("il Signore della Saggezza"): considerato non solo come creatore e signore dell'universo, ma come un principio, come il reggitore morale del "Mondo della purezza" che governa il mondo secondo le leggi di questo e lo dirige verso una finale perfezione, dopo aver vinto il principio malvagio a lui avverso, il diabolico Ahriman. Anche questa concezione si può considerare come profetica; e la stessa cosa si può dire, in maniera anche più recisa, per l'Islam. Come religione derivata sostanzialmente dal giudaismo e dal cristianesimo, il messaggio di Maometto non ha le sue radici nel rituale e anche la sua teologia fin dall'inizio non fu concepita in maniera teoretica. L'idea base era quella dell'assoluta e onnipotente volontà di Allah, che si manifesta nel reggimento del mondo e nel dirigere i destini umani con assoluto arbitrio, al disopra di ogni motivo umano: unità e assolutezza che sarebbero state condannate a un totale irngidimento, se la mistica e la filosofia non avessero reso meno ristretto questo concetto della divinità.


Senza una certa cooperazione del pensiero filosofico difficilmente il monoteismo riesce a dare tutti i suoi frutti. L'unità può essere un concetto primitivo, non però l'universalità. All'universale, che costituisce la base necessaria di un monoteismo compiuto, non si giunge senza un allargamento e un approfondimento di visuali. La formazione del concetto di universalità presuppone da una parte una concezione della natura capace di abbracciare la molteplicità dei fenomeni, mentre d'altra parte sono necessarie anche esperienze umane, che dal frazionamento dei popoli facciano sorgere l'ideale, e anche la realtà, di un'unica umanità. Al realizzarsi della prima condizione ha senza dubbio contribuito l'osservazione del cielo - cioè delle prime leggi naturali constatabili - e questo già al tempo della formazione delle grandi religioni. In Babilonia, in Egitto, e specialmente in Cina, l'osservazione degli astri ha dato una grande spinta all'universalismo. Gli antichi filosofi greci hanno cercato un principio delle cose, ciascuno a suo modo; e sempre più ci si avvicina, in forma sia personale sia ideale, alla grande coscienza dell'unità, che è alla base così dell'idealismo di Platone come della filosofia naturale di Aristotele: dottrine che non furono senza influenza anche sulla teologia del cristianesimo. La quale usò bensì termini, come quelli di "padre", "Signore", "Dio", "divinità" che erano comuni alla filosofia antica e al paganesimo; ma diede loro un nuovo significato e un nuovo valore, strettamente monoteistico. E al monoteismo rigido, alieno da ogni forma d'immanentismo evoluzionista, quale troviamo nella Bibbia, essa tenne fede, pur affermando d'altra parte il dogma della Trinità: in quanto essa distinse nettamente le tre Persone o "ipostasi" divine e l'essenza di Dio: la divinitas, la divinità di Dio: nozione del divino ben più viva di quella del rigido Islam o del posteriore deismo razionalistico.


La divinità si può dunque definire come "l'Essere perfetto, spirituale, che abbraccia tutto ciò che esiste, la cui azione è alla base di tutto, la cui volontà è la legge della natura inanimata e la forma assoluta della morale, e che mediante il suo solo essere dà valore all'esistente". Da questo concetto di Dio si sono dedotte le ulteriori nozioni della divinità, in cui si dà il maggior peso o alla natura di Dio (unità, universalità, spiritualità, sublimità, assolutezza), o alla sua potenza (come creatore, reggitore dell'universo, giudice, redentore), o al valore e al carattere morale della divinità (purità, giustizia, perfezione e bontà), o alla santità di Dio e al suo amore: gl'ideali dell'Antico e del Nuovo Testamento, i due elementi fondamentali del concetto cristiano della personalità di Dio.


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