giovedì 31 dicembre 2015

IL TE DEUM

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Te Deum laudamus:                                                     
te Dominum confitemur.                                        
Te aeternum patrem,
omnis terra veneratur.

Tibi omnes angeli,
tibi caeli et universae potestates:
tibi cherubim et seraphim,
incessabili voce proclamant:

"Sanctus, Sanctus, Sanctus
Dominus Deus Sabaoth.
Pleni sunt caeli et terra
majestatis gloriae tuae."

Te gloriosus Apostolorum chorus,
te prophetarum laudabilis numerus,
te martyrum candidatus laudat exercitus.

Te per orbem terrarum
sancta confitetur Ecclesia,
Patrem immensae maiestatis;
venerandum tuum verum et unicum Filium;
Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.

Tu rex gloriae, Christe.
Tu Patris sempiternus es Filius.
Tu, ad liberandum suscepturus hominem,
non horruisti Virginis uterum.
Tu, devicto mortis aculeo,
aperuisti credentibus regna caelorum.
Tu ad dexteram Dei sedes,
in gloria Patris.
Iudex crederis esse venturus.

Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni,
quos pretioso sanguine redemisti.
Aeterna fac
cum sanctis tuis in gloria numerari.
Salvum fac populum tuum, Domine,
et benedic hereditati tuae.
Et rege eos,
et extolle illos usque in aeternum.

Per singulos dies benedicimus te;
et laudamus nomen tuum in saeculum,
et in saeculum saeculi.

Dignare, Domine, die isto
sine peccato nos custodire.
Miserere nostri, Domine,
miserere nostri.

Fiat misericordia tua, Domine, super nos,
quem ad modum speravimus in te.
In te, Domine, speravi:
non confundar in aeternum.


“Nella preghiera non basta solo la nostra voce”: la preghiera “ha bisogno di rinforzarsi con la compagnia di tutto il popolo di Dio, che all’unisono fa sentire il suo canto di ringraziamento”. Con queste parole il Papa ha spiegato il significato del “Te Deum”, il tradizionale canto di ringraziamento a conclusione dell’anno civile, inserito nei primi Vespri della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, presieduti questo pomeriggio da Francesco nella basilica di San Pietro. “Per questo, nel Te Deum chiediamo l’aiuto agli Angeli, ai Profeti e a tutta la creazione per dare lode al Signore”, ha proseguito: “Con questo inno ripercorriamo la storia della salvezza dove, per un misterioso disegno di Dio, trovano posto e sintesi anche le varie vicende della nostra vita di quest’anno trascorso”. “Quanto è colmo di significato il nostro essere radunati insieme per dare lode al Signore al termine di questo anno!”, le parole d’esordio dell’omelia: “La Chiesa in tante occasioni sente la gioia e il dovere di innalzare il suo canto a Dio con queste parole di lode, che fin dal quarto secolo accompagnano la preghiera nei momenti importanti del suo pellegrinaggio terreno. È la gioia del ringraziamento che quasi spontaneamente promana dalla nostra preghiera, per riconoscere la presenza amorevole di Dio negli avvenimenti della nostra storia”.




ll Te Deum (estesamente Te Deum laudamus, "Dio ti lodiamo") è un inno cristiano di ringraziamento che viene tradizionalmente cantato la sera del 31 dicembre, per ringraziare dell'anno appena trascorso durante i primi vespri della solennità di Maria Ss. Madre di Dio oppure in altre particolari occasioni solenni come nella Cappella Sistina ad avvenuta elezione del nuovo pontefice, prima che si sciolga il conclave oppure a conclusione di un Concilio.

Sono diversi gli autori che si contendono la paternità del testo. Tradizionalmente veniva attribuito a san Cipriano di Cartagine, oggi gli specialisti attribuiscono la redazione finale a Niceta, vescovo di Remesiana (Dacia inferiore) alla fine del IV secolo. Secondo una leggenda (risalente al più tardi a una cronaca milanese del sec. XI falsamente attribuita al vescovo Dacio) il Te Deum è stato intonato da Sant’Ambrogio e Sant’Agostino il giorno di battesimo di quest'ultimo, avvenuto a Milano nel 386, per questo è stato chiamato anche "inno ambrosiano".

Il Te Deum è stato musicato da diversi autori: Giovanni Pierluigi da Palestrina, de Victoria, Händel, Mendelssohn, Mozart, Haydn e Verdi. Da sempre la musica del Te Deum è stata utilizzata in diverse occasione: il preludio del Te Deum H. 146 di Charpentier viene usato come sigla di inizio e fine delle trasmissioni in Eurovisione ed è anche suonato alla fine di tutti i concerti dei Nomadi. Il Te Deum viene anche intonato dal coro nel finale del primo atto della Tosca di Giacomo Puccini. Alcuni versi del testo sacro sono stati usati per la colonna sonora del film “Il gobbo di Notre Dame” della Disney, in particolare nel pezzo “Rifugio (Sanctuary!)”, che accompagna la scena in cui Frollo sta per uccidere Esmeralda sul patibolo e le scene dell'assalto alla cattedrale.

L'inno si può dividere in tre parti:

-La prima, fino a Paraclitum Spiritum, è una lode trinitaria indirizzata al Padre. Letterariamente è molto simile ad un'anafora eucaristica, contenendo il triplice Sanctus.

-La seconda parte, da Tu rex gloriæ a sanguine redemisti, è una lode a Cristo Redentore.

-L'ultima, da Salvum fac, è un seguito di suppliche e di versetti tratti dal libro dei salmi.

Solitamente viene cantato a cori alterni: presbitero o celebrante e il popolo.




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PIURO

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Piuro è un comune situato a nord-ovest del capoluogo della provincia di Sondrio. Parte del suo territorio non appartiene alla Regione geografica italiana essendo idrologicamente compreso nel bacino del mare del Nord.

Il nome deriverebbe dal latino plorare (piangere) in ricordo di un'antica catastrofe, che distrusse l'antico borgo di Belforte nel secolo IX, secondo quanto ci narra Johann Guler von Wyneck.
Successivamente Piuro, raggiunta una notevole prosperità economica, venne sconvolto da un'altra catastrofe, il 4 settembre 1618, quando il Monte Conto franò sul paese cancellandolo dalle mappe. Questo evento ebbe vasta eco in tutta Europa, data la fama dei mercanti piuraschi. I pochi superstiti fondarono il nucleo di Borgonuovo, nelle vicinanze della chiesetta di Sant'Abbondio e delle cascate dell'Acquafraggia.

Attualmente non esiste più un paese di nome Piuro, ma vi sono diverse frazioni sul territorio che hanno mantenuto la vecchia denominazione a livello comunale. Il Comune e le maggiori attività produttive si trovano in località Prosto.

Il territorio comunale di Piuro si estende su due diverse valli: a sud nella Val Bregaglia, tra i comuni di Chiavenna e di Villa, ove vi sono svariati nuclei abitati su entrambi i fianchi della Valle, sulla strada che conduce da Chiavenna al Maloja. A Nord la Val di Lei appartiene quasi totalmente a Piuro, in virtù di antichi diritti di pascolo. Dal 1961 buona parte della valle è occupata da un lago artificiale. In virtù di questa particolare disposizione, Piuro è uno dei pochi comuni italiani che si estende al di là dello spartiacque alpino, con il Reno di Lei. Dal lato meridionale, oltre al Mera, corso d'acqua principale, vi sono svariati torrenti, il più noto dei quali è l'Acquafraggia.

Ecco cosa scrive nel resoconto dei suoi viaggi in Valtellina e Valchiavenna, intitolato “Raetia”: “Piuro è un bellissimo borgo, che si potrebbe benissimo paragonare a una cittadina per i suoi architettonici palagi, per i campanili, le chiese ed altre costruzioni, se fosse anche cinta di mura. Il suo nome deriva dalla parola latina “plorare”, ossia piangere, a cagione di un lacrimevole disastro che ivi accadde in antico. Narra infatti una vecchia leggenda che nei tempi andati questo borgo sorgesse più addentro nella stretta gola della valle, dove una tremenda ed improvvisa piena del fiume lo travolse, distruggendolo totalmente. In seguito i superstiti trasferirono le loro dimore nel luogo dove sorgono oggidì, e mutarono pure al paese l’antico nome di Belforte in quello attuale: ad eterna memoria della passata sciagura. Piuro è il capoluogo del territorio circostante, donde vengono gli abitatori per ricevere giustizia… Gli abitanti sono gente operosa che attende per lo più ai traffici; e poche piazze commerciali ci sono in Europa dove essi non esercitino qualche industria; perciò hanno guadagnato grande ricchezza. Ma la sventura potrebbe di bel nuovo abbattersi su questo paese, prostrandolo una seconda volta”.
Il von Weineck si riferisce, nelle sue note, ad un primo disastro che si compì, probabilmente, molti secoli prima, forse nell’VIII secolo d. C. A Piuro non seppe delle lodi del viaggiatore di lingua tedesca, e neppure ebbero modo di inquietarsi del suo monito finale. E neppure se avessero potuto leggere quelle parole, con tutta probabilità, si sarebbero preoccupati: la fama del von Weineck non era quella di profeta. Eppure, due anni dopo, nel 1618, in un piovoso scorcio d’estate, accadde qualcosa di incredibile, come se un destino inscritto nella denominazione di paese del pianto si compisse inesorabilmente.
Il mese di agosto volgeva al termine, quando una decina di giorni di pioggia ininterrotta parvero porre bruscamente fine all’estate. Una pioggia torrenziale, insistente, preoccupante. I montanari sanno che piogge violente e concentrate posso riservare amare sorprese: la Mera sarebbe potuta straripare di nuovo, come quando si portò via l’antica Belforte, oppure dal monte sarebbero potuti scendere smottamenti e frane. Ma poi la fitta coltre di nubi cominciò a diradarsi, il cielo finalmente si aprì, mostrando un sole ancora caldo, in quell’inizio di settembre.
Le apprensioni rientrarono, si ringraziò il cielo perché nulla di grave era accaduto, nonostante la Mera, con le sue acque limacciose e turbolente, si precipitasse ancora verso Chiavenna con una violenza impressionante. Altri segni avrebbero dovuto indurre a non ritenere cessato il pericolo: alcune crepe inquietanti si erano aperte sul fronte montuoso meridionale, in diversi punti le piante avevano assunto un’inclinazione anomala, le api, con comportamento inspiegabile, erano sciamate ad est, verso Villa di Chiavenna, le bestie davano segni insistenti di inquietudine. Si trattò di segni che non furono, però, colti, ed allora accadde l’imponderabile. Un intero pezzo di monte, il monte Conto, venne giù, una massa immensa di materiale calcolabile nell’ordine dei milioni di metri cubi. Era il 4 settembre, secondo il calendario gregoriano (ma, secondo il calendario imposto a Piuro dal dominio protestante dei Grigioni, che, in opposizione a Roma, non avevano accettato la riforma gregoriana, si era ancora al 25 agosto).
Fu un disastro immane, la cui notizia corse per l’Europa, quell’Europa nelle cui piazze commerciali, come notava il von Weineck, erano ben conosciuti i mercanti di quel borgo sperduto nella bassa Val Bregaglia. La notizia suscitò ovunque grande impressione e commozione, e la frana che aveva sepolto Piuro venne raffigurata anche in diverse stampe. Potremmo tranquillamente paragonare l’impatto emotivo di quel che accadde a ciò che, in tempi assai più vicini a noi, è accaduto con la frana del monte Coppetto, in val Pola, durante la tragica alluvione del luglio 1987. Si salvarono le frazioni di Prosto, Cranna, S. Croce, ma nel centro del paese un migliaio di persone rimasero sepolte sotto l’enorme frana. Vennero, poi, iniziati gli scavi per cercare di recuperare qualche segno del paese sepolto, ed ancora oggi l’area di questi scavi è ben visibile: si tratta della zona detta di Ruina, segnalata da cartelli ben visibili, che si incontrano, sulla destra (per chi proviene da Chiavenna), mentre si attraversa il paese.
La cultura popolare ben poco sa del fatale concorso di cause naturali, dell’instabilità geologica di versanti che, magari senza dare segno di sé per secoli, può rovinosamente manifestarsi in pochi minuti: la cultura popolare associa il grande disastro naturale ad un’idea di giustizia cosmica, o divina, che si serve anche degli eventi naturali per punire una colpa. Già, ma quale colpa? Una ben nota leggenda ("Leggenda sulla distruzione di Piuro", di Romerio Zala, in "Quaderni Grigionitaliani", Poschiavo, 1965, pp. 12-13, e "Alcune memorie sulla magnifica comunità di Piuro", del celebre storico Crollalanza), nata per spiegare la tragedia della Piuro sepolta, parla di una colpa relativa ad una delle più antiche leggi di umanità, conosciuta presso tutti i popoli, una legge non scritta che prescrive di offrire asilo allo straniero, di ospitare il viandante, di soccorrere il mendicante. Il tema della leggenda è semplice e classico: la ricchezza aveva indurito molti cuori, fra gli abitanti di Piuro, rendendoli insensibili al bisogno dei poveri e dei mendicanti, una colpa che doveva essere pagata nel modo più terribile.
Non fu la pioggia torrenziale, allora, ma un mendicante, capitato la sera del 3 settembre 1618 a Piuro, la causa vera della frana distruttrice. Questo mendicante aveva bussato inutilmente alla porta delle famiglie più ricche del paese: nessuno aveva avuto compassione per la sua povera e stanca figura. Solo presso una famiglia umile e misera trovò ospitalità. Cenò, quindi, nell’umile casa dei contadini, O meglio, condivise la loro profonda miseria e la loro fame. Non c’era, infatti, da mangiare a sufficienza per le numerose bocche da sfamare, ed i bambini non si saziavano del poco che veniva dato loro come cena. La madre, allora, mestamente, metteva sul fuoco una pentola d’acqua, aggiungendo dei sassi ed invitando i figli a pazientare: alla fine anche quelli, cotti, si sarebbero potuti mangiare. I bambini attendevano, affamati, finché il sonno li vinceva, e la madre poteva gettar via i sassi di quel triste inganno. Questo vide il mendicante, e fu lui ad essere preso dalla compassione. Non si trattava, in realtà, di un mendicante qualunque. Era una figura che veniva da Dio, e quella sera accadde un prodigio che lo attestava: la madre, accingendosi a gettar va i sassi, si accorse, incredula, che questi si erano tramutati in profumate patate, una manna per la povera famiglia contadina. Svegliò, ebbra di gioia, i bambini ed il mendicante, che si era ritirato con discrezione, e servì le patate fumanti a tutti, che ne mangiarono con gusto, a sazietà. Il mendicante ringraziò e disse che ora poteva andare.
Ma prima di lasciare la casa, pronunciò alcune frasi misteriose: quella notte, disse, si sarebbero uditi rumori violenti ed impressionanti, ma per nessun motivo gli abitanti della casa avrebbero dovuto affacciarsi alla finestra per guardare o, peggio ancora, uscire all’aperto. Poi scivolò via, nel cuore della notte, e, dopo non molto tempo, accadde proprio quel che egli aveva detto: un boato sordo ed immane scosse le mura della casa. Tutti balzarono in piedi, e la madre non resistette alla curiosità: non guardò dalla finestra, come le era stato raccomandato, ma almeno un’occhiata dal buco della serratura volle gettarla. Vide solo per pochi istanti la frana che si precipitava su Piuro: poi non vide più nulla, perse la vista.
Le case dei ricchi furono sepolte, ma la casa che aveva dato ospitalità al viandante rimase intatta. Una seconda versione della leggenda racconta che non fu la madre, ma il padre a non resistere alla curiosità: guardò alla finestra e rimase cieco.
Piuro fu davvero, allora, il paese del pianto, e tale, forse, appare ancora oggi a chi visiti la zona degli scavi, circa duecento metri oltre Borgonuovo: qui è venuto alla luce un tratto di strada, con cinque scheletri, resti delle mura di abitazioni ed il pavimento di un’officina di tornitura.
Una leggenda riportata nel bel volume di Antonio Colombo "Piuro sepolta" (L'Ariete, Milano, 1969, pg. 84), racconta di un capitano che agli inizi del settecento giunse allo sbocco della Val Bregaglia deciso ad intraprendere degli scavi per portare alla luce l'immenso tesoro che, si favoleggiava, fossero rimasti sepolti sotto la frana. Gli scavi cominciarono, ma ben presto, una notte, mentre il capitano si accingeva a tornare alla locanda nella quale dimorava, si vide sbarrare la strada da un pauroso fantasma, che gli intimò di interromperli e di lasciare in pace i morti. Così fece e nessuno più, dopo di lui, osò profanare la terra della tragedia per cercare di portare alla luce le ricchezze sepolte.
Don Peppino Cerfoglia, nella "Sintesi di storia e vita valchiavennasca" (Edizioni S.A.G.S.A., Como, 1948, pg. 178), riporta un'analoga leggenda: gli spiriti dei morti nella tragedia tornerebbero, nel cuore di alcune notti, a danzare fra i vigneti ed i macigni del Pian della Giustizia a Piuro.
Nei pressi della chiesa di S. Abbondio a Borgonuovo si trova il museo degli scavi della frana di Piuro; i pannelli illustrativi così ricostruiscono l'immane catastrofe:
"Appare difficile immaginare quanto sia potuto accadere la sera del 4 settembre del 1618, quando una frana staccatasi dal versante settentrionale de "il Mottaccio" distrusse l'intero paese di Piuro, seppellendo tutti i suoi abitanti. Non appaiono chiari elementi che ci aiutino a ricostruire un fenomeno così rapido e disastroso; il fondovalle degrada infatti dolcemente verso il fiume Mera.
L'evento è stato perciò ricostruito sulla base dell'analisi della ricca documentazione bibliografica e di indagini e rilievi condotti sul terreno.
La settimana che precedette la frana fu caratterizzata da prolungate ed intense precipitazioni che ingrossarono sia la Mera che i torrenti delle valli laterali. Le acque dei torrenti che scendevano erano torbide fangose. Nei giorni precedenti la frana era stata osservata l'apertura di fessure nel terreno, in località "Prato del Conte". I contadini che lavoravano in questa zona sentirono tremare il terreno sotto i piedi con intensi rumori. Un uomo che era intento a tagliare un albero notò con grande stupore il rapido aprirsi di una profonda frattura; corse ad avvertire gli abitanti che, riluttanti ad abbandonare la propria terra, non fecero caso alla notizia.
Lo sera del 4 settembre del 1618 (corrispondente al 25 agosto dell'antico calendario) si verificò la frana. Nel giro di qualche minuto l'abitato di Piuro fu investito da una valanga costituita da massi, blocchi e terriccio che distrusse e seppellì il fiorente abitato.
La nicchia di distacco è stata localizzata sul versante idrografico sinistro della Val Bregaglia, in corrispondenza del versante settentrionale de "il Mottaccio" (1925.2 m slm), poco ad est della località "Prato del Conte" (1436.8 m slm). I crolli successivi all'evento principale hanno determinato l'arretramento verso l'alto della nicchia, sino al raggiungimento del crinale del versante, in accumuli ancor oggi individuabili morfologicamente a partire da metà versante sino a sotto la nicchia stessa. Il volume totale franato è stato stimato nell'ordine di 6 milioni di metri cubi.
La tipologia del fenomeno franoso è riconducibile ad una valanga di roccia, ovvero ad un movimento in massa di tipologia complessa, nel quale si distinguono almeno due stadi: in una prima fase si ha il distacco e/o lo scivolamento del volume di roccia; 'successivamente il detrito prodotto si muove rapidamente lungo il versante, nel caso specifico su un dislivello di 1000-1200 metri, in un movimento simile a quello di un fluido. La massa in movimento ha coinvolto più o meno direttamente una fascia di versante diretta nord-sud ed estesa lateralmente 200-300 metri che presenta una pendenza media del 55-65%, ed è costituita da diversi gradini (salti) in roccia.
Lo spostamento d'aria provocato dalla massa in rapida discesa ha raggiunto il versante opposto, arrecando danni e distruzione anche in quell'area. L'accumulo di frana ha sbarrato le acque del fiume Mera. Il livello dell'acqua ha iniziato così a salire ed ha invaso la piana retrostante lo sbarramento, creando un lago (estensione 4-6 ettari) di aspetto simile a quello formatosi in Valtellina a seguito della frana di Val Pola del 1987. Nel giro di un paio d'ore è stata raggiunta la quota di massimo invaso ed è iniziata una lenta, naturale tracimazione delle acque.
Se si osserva oggi l'accumulo di frana, presente in fondovalle, si può valutare come la sua estensione verso nord raggiunga la strada statale e la parte di "Borgonuovo" posta in destra al fiume Mera (420-430 m slm). L'estensione massima in direzione sia nord-sud che est-ovest raggiunge i 700-800 metri.
La topografia di questa zona, ad esclusione della presenza di alcuni promontori costituiti da blocchi rocciosi, si presenta praticamente pianeggiante e degradante dolcemente verso il fiume con pendenze medie del 4-5%.
Singolari sono l'appiattimento dell'accumulo nel fondovalle e l'assenza di una fascia di detrito di raccordo al pendio retrostante.
Il giorno successivo alla frana iniziarono i soccorsi fra le rovine dove si udirono lamenti per due giorni e due notti. Una grida stabiliva che si dovesse dare sepoltura alle "creature" trovate "in Mera, lagho, et ogni altro luogo d'essa Giurisdizione".
Gli scavi per il recupero dei beni sepolti seguirono su iniziativa del governo grigione e del comune di Piuro. Gli scavatori, sotto giuramento, si impegnavano a consegnare il ritrovato, con pena, per chi non avesse obbedito, di 10scudi "et squassi tre di corda in publico" per volta. Furono recuperate ferramenta, legnami, suppellettili, biancheria oltre ad arredi sacri: una pianeta in broccato d'oro, un bacile d'argento, una croce capitolare e cinque calici d'argento. Gli scavi proseguirono anche per iniziativa degli eredi e dei preti di Piuro che incoraggiarono la ricerca delle campane, recuperate nel 1618, 1639 e 1767.
Il campanone ("la Piura") venne ritrovato nel 1859 da una società di scavo costituita da gente delle borgate vicine. In questi anni l'organizzazione civile e religiosa di Piuro rimase distribuita fra le frazioni che attorniavano la "rovina" (S. Croce, Savogno, S. Abbondio e Prosto) mentre nel territorio devastato si succedevano attività private di scavo e bonifica di terreni con ripristino di colture.
L'attività di estrazione e lavorazione della pietra ollare procedette fino alla metà dell'800; nel 1851 sorse la contrada Borgonuovo sulla sponda destra della Mera, a nord della rovina.
Anche nell'ottocento e nel novecento si fecero ritrovamenti più o meno occasionali di reperti dell'antica Piuro: ossa umane, utensili, suppellettili e monete. Nel 1963 e nel 1966 campagne di scavo vennero condotte su iniziativa dell'Associazione italo-svizzera per gli scavi di Piuro ed il materiale recuperato fu esposto a partire dal 1972 nel Museo di Piuro. Un ulteriore arricchimento di reperti si ebbe nella breve campagna di stavo eseguita nel 1988 dall'Amministrazione comunale e in occasione di scavi edilizi.
A tutt'oggi dell'antica Piuro è visibile una piccola parte emersa con gli scavi del '63: un tratto di strada ed i resti di un'officina di tornitura testimoniano il borgo sepolto dalla montagna.
Fra le attuali frazioni, S. Croce conserva un antico impianto urbanistico con due chiese del XII secolo, il palazzo del pretorio o "Ca de la giustizia", costruito dopo la frana ed un grande torchio da vino settecentesco; S. Abbondio, significativo nucleo di architettura rurale, è poco discosto dal campanile isolato nella Valle Duana privato della chiesa nel 1755 in seguito ad un'alluvione (ospita, presso la chiesa costruita successivamente, il Museo degli scavi); Prosto, sede comunale, conserva antichi edifici ed il sontuoso palazzo Vertemate, oggi Museo, ricco di affreschi ed arredi cinquecenteschi, dove è custodito il dipinto che raffigura Piuro prima della rovina.
Da Prosto, oltre il ponte sulla Mera, dalla chiesa di S.Maria si dipartono i sentieri che salgono alla montagna dove si trovano sparse le antiche cave di pietra ollare ,il cui commercio, insieme a quello della seta, contribuì alla ricchezza della Piuro scomparsa.


La catastrofe del 4 settembre 1618 (nei Grigioni, non essendo stato adottato il calendario gregoriano, era il 25 agosto) vide l'immane frana del Monte Conto, sovrastante Piuro, che venne in tal modo cancellato: non vi fu nulla da fare, nonostante i tempestivi soccorsi dalla vicina Chiavenna, coordinati dal commissario grigionese Fortunato Sprecher. Le vittime furono valutate dallo stesso Sprecher nel numero di 900, mentre lo storico contemporaneo Benedetto Parravicini aumentò questa cifra di 300 unità, per un totale di 1200 persone. La frana cancellò non solo il paese e le sue ricchezze, ma anche intere famiglie. I pochi superstiti e i piuraschi scampati alla rovina fondarono Borgonuovo. Il disastro ebbe vasta eco in tutta Europa, finendo per essere citato, a distanza di secoli da Ludovico Antonio Muratori e Immanuel Kant. Da quel momento Piuro non ebbe più alcuna rilevanza politica, seguendo in tutto le vicende della vicina Chiavenna.

Le cascate dell´Acquafraggia si trovano a Borgonuovo e le parti visibili anche dalla strada sono solamente le più suggestive, ma non le uniche.
Il bacino dell´Acqua Fraggia è situato all´imbocco ovest della Val Bregaglia.
Il torrente omonimo nasce dal pizzo di Lago a 3050 msm, in un punto di spartiacque alpino dal quale scendono fiumi che sfociano nel mare del Nord, nel mar Nero e nel Mediterraneo. Scendendo verso il Fondovalle percorre due valli sospese, ambedue di origine glaciale, l´una sui duemila e l´altra sui mille metri di altitudine. L´Acqua Fraggia forma quindi una serie di cascate, di cui quelle più in basso, con il loro doppio salto sono solo le più suggestive. Si capisce così l´origine del nome Acqua Fraggia, da "acqua fracta", cioè torrente continuamente interrotto da cascate.

Le cascate, con il loro maestoso spettacolo, impressionarono pure Leonardo da Vinci che "trovandosi a passare per Valle di Ciavenna" ne ammirò la bellezza selvaggia e le menzionò nel suo "Codice Atlantico": "Su per detto fiume (la Mera) si truova chadute di acqua di 400 braccia le quale fanno belvedere...".
Dalla sommità delle cascate si percorre un sentiero attrezzato tra castagni, ginestre e rocce; di qui è possibile ammirare da vicino questo stupendo spettacolo naturale, unico nel suo genere per bellezza e imponenza. Una breve deviazione sulla destra porta ad un ampio terrazzo, a pochi metri dal fragoroso turbinio delle acque.

Si ha qui la sensazione di essere "dentro" la cascata stessa, di farne parte, tanto
sono forti il rombo e i forti spruzzi di acqua e di luce.

Geologicamente la zona è interessata dalla unità Tambò del pennidico medio, con gneiss biotitici, generalmente a grana fine. Nel settore botanico rilevanti sono gli ontani, l´abete bianco e la flora rupicale, tra cui la rara Oplimennus undulatifolia, l´erica arborea e, in un suggestivo castagneto alla base delle cascate, un esteso tappeto di Allium ursinum. Ma va segnalata anche una felce, la pteris cretica, che qui trova la stazione europea più settentrionale grazie alla costante nebulizzazione dell´acqua della doppia cascata.
Sulle sponde del torrente, circa a quota mille, sorgono i paesi di Savogno e Dasile.
Più in basso, a quota 558, il villaggio di Cranna.

Le cascate dell´Acquafraggia costituiscono un complesso naturale imponente.
Allo splendido assetto paesaggistico si somma il grande interesse geologico presentato dalla sua origine e le conseguenze ambientali che ne sono derivate.

Le due imponenti cascate, ben visibili da lontano, rappresentano un tipico esempio di escavazione glaciale ad "U" nella valle principale (la Valchiavenna), che ha lasciato "pensili" gli affluenti, che vi precipitano mediante un poderoso salto.
Sulle pareti della roccia, e principalmente al suo piede, cresce una flora rupicola particolare, favorita dal microclima che la nebulizzazione dell´acqua, cadente dalle cascate, determina.
Di eccezionale interesse è la presenza di una rara felce (Pteris cretica) che qui trova la sua stazione europea più settentrionale; frequenti erica arborea e altre specie. Al piede, sui prati non falciati, è presente la rara Oplismennus undulatifolia. Lateralmente alle cascate vi è un bellissimo castagneto con tappeto ad Allium ursinum.
Non sono state svolte ricerche faunistiche ma si presume che il microclima particolare, determinato dalle cascate, possa ospitare una fauna, specialmente micro e mesofauna, di particolare interesse. Non si nutrono eccessivi timori per la conservazione di questo interessante fenomeno naturale fatte salve le minacce, periodicamente incombenti, di captazione delle acque a monte.
È opportuno sottolineare l´importanza che le cascate rivestono, dal punto di vista didattico, quale completamento della notevole rassegna di fenomeni glaciali diversi, presenti nella zona di Chiavenna.

Geologicamente la zona è interessata dalla unità del Tambò del pennico medio, con gneiss biotitici, generalmente a grana fine.
Nel settore botanico rilevanti sono gli ontani, l´abete bianco e la flora rupicale, tra cui rara Oplimennus undulatifoglia, l´erica arborea, e in un suggestivo castagneto alla base delle cascate, un esteso tappeto di Allium Ursinum.

Ma va segnalata anche una felce, la pteris cretica, che qui trova la stazione europea più settentrionale grazie alla costante nebulizzazione dell´acqua della doppia cascata.
Sulle sponde del torrente, circa a quota mille, sorgono i paesi di Savogno e di Dasile permanentemente abitati a partire dal secolo XV allorché l´aumento della popolazione, l´insalubrità e l´insicurezza del piano spinsero ad abitare i nuclei di mezza costa. Essi sono raggiungibili da Borgonuovo percorrendo una mulattiera formata da oltre duemila gradini, che tocca dapprima gli interessanti nuclei delle stalle dei Ronchi e dei crotti di Savogno (nel primo nucleo, di particolare rilievo il mastodontico Torchio da vino).

Il Monumento Naturale della Cascate dell´Acquafraggia, offre la possibilità di godere dell´affascinante spettacolo di questo angolo di natura ancora selvaggia nel cuore della Bregaglia italiana.
Un percorso attrezzato all´interno del parco permette di conoscere da vicino l´ambiente che circonda le cascate con rigogliosa vegetazione e rocce scure, ammirando, dalle terrazze panoramiche lungo il sentiero, la vista sull´intera vallata fin verso la piana di Chiavenna.
Diversi itinerari escursionistici hanno come punto di partenza le Cascate dell´Acquafraggia.

Il principale è la caratteristica mulattiera che sale all´antico borgo di Savogno con lenti tornanti. Il percorso è interessante dal punto di vista storico-culturale, perché fa rivivere momenti di storia delle genti di montagna. Savogno può essere raggiunto attraverso la variante del "sentiero di Pigion", che da S. Abbondio (Crotti della Cànoa) sale in diagonale fino a congiungersi con la mulattiera, e anche da Villa di Chiavenna (crotti di Motta), attraversando a mezza costa la Bregaglia fra i boschi di castagni e betulle.
A Savogno si trova un´accogliente rifugio, base di partenza per escursioni verso il vicino borgo di Dasile e per raggiungere gli alpeggi di Corbia e di Lago dell´Acquafraggia. Gli itinerari in quota affrontano le traversate dei passi alpini sovrastanti che portano alle mete di Avero e della Valle di Lei.
Savogno è tappa importante all´interno dell´itinerario storico escursionistico Via Bregaglia, che si snoda tra Italia e Svizzera, con partenza da Chiavenna ed arrivo al passo del Maloja.
Una segnaletica orizzontale e verticale (bandierina bianco-rossa e frecce di indicazione con relativi tempi di percorrenza) caratterizza la rete di sentieri di fondovalle, di mezza costa e in quota.

Il Palazzo Vertemate-Franchi: una delle poche testimonianze storiche della Piuro pre 1618, fu costruito in località Cortinaccio di Prosto dalla famiglia Vertemate come residenza di campagna. Dopo la catastrofe rimase come palazzo principale della famiglia, venendo via via restaurato ed abbellito da numerose opere d'arte. Attualmente è di proprietà del Comune di Chiavenna.
Il borgo di Savogno, nucleo abitato nella Valle dell'Acquafraggia (a circa 900 metri di quota), rimasto pressoché intatto dopo lo spopolamento avvenuto dopo il Secondo Dopoguerra. La locale chiesa fu una delle prime parrocchie assegnate al futuro santo Don Luigi Guanella. È raggiungibile solo a piedi, tramite una mulattiera di 2000 gradini.
La Chiesetta di Sant'Abbondio: fu costruita in località Borgonuovo ed ospita il Museo degli scavi dedicato alla Piuro pre 1618 e contenente i reperti ritrovati dall'Associazione Italosvizzera degli Scavi di Piuro.
Le chiese romaniche di S. Croce: in numero di due, si trovano nell'omonima frazione del comune di Piuro. In quella di S. Martino si conservano gli affreschi più antichi della Provincia di Sondrio risalenti al 1030-1050. Di autore ignoto, gli affreschi vengono attribuiti alla scuola del Maestro dell'Apocalisse di Civate e la sua squadra. La seconda chiesa romanica, dedicata all'invenzione della Croce, è ad insolita pianta circolare. Nominata la prima volta nel 1176, viene comunque fatta risalire al periodo precristiano, magari come tempio dedicato alla Dea Madre. All'interno si conserva l'ancona lignea di Yvo Strigel di Memmingen in Germania. Questo altare a sportelli, datato 1499, è l'unico altare ligneo giunto sino ai nostri giorni.
I torchi: lungo i sentieri e nelle antiche contrade di Piuro si possono trovare anche gli antichi torchi a trave pesante, utilizzati per la pigiatura dell'uva e la successiva pressatura delle vinacce. Uno si trova alle stalle dei Ronchi di Savogno, uno a S. Croce a pochi passi dalla chiesa Rotonda, e l'altro nella frazione montana di Cranna.
Belfort e il campanile di S. Abbondio: si possono ammirare sul luogo dell'antica Piuro, i resti di uno degli 8 palazzi dei Vertemate in Piuro. Questo luogo, Belfort o Pe dei Rovan, è raggiungibile attraverso le piste ciclabili, a poche centinaia di metri dal centro abitato di Borgonuovo, direzione est. Anche il campanile di S. Abbondio, datato 1600, è scampato alla furia delle frane piurasche. È visitabile.


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SAN SILVESTRO



Silvestro è il primo Papa di una Chiesa non più minacciata dalle terribili persecuzioni dei primi secoli. Nell’anno 313, infatti, gli imperatori Costantino e Licinio hanno dato piena libertà di culto ai cristiani, essendo papa l’africano Milziade, che è morto l’anno dopo. Gli succede il prete romano Silvestro. A lui Costantino dona come residenza il palazzo del Laterano, affiancato più tardi dalla basilica di San Giovanni, e costruisce la prima basilica di San Pietro. Il lungo pontificato di Silvestro (21 anni) è però lacerato dalle controversie disciplinari e teologiche, e l’autorità della Chiesa di Roma su tutte le altre Chiese, diffuse ormai intorno all’intero Mediterraneo, non è ancora affermata. Nel Concilio di Arles (314) e di Nicea (325) papa Silvestro non ha alcun modo di intervenire: gli vengono solo comunicate, con solennità e rispetto, le decisioni prese. Fu il primo a ricevere il titolo di «Confessore della fede».

Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino

È il primo Papa di una Chiesa non più minacciata dalle terribili persecuzioni dei primi secoli. Nell’anno 313, infatti, gli imperatori Costantino e Licinio hanno dato piena libertà di culto ai cristiani, essendo Papa l’africano Milziade, che è morto l’anno dopo. Gli succede il prete romano Silvestro. A lui Costantino dona come residenza il palazzo del Laterano, affiancato più tardi dalla basilica di San Giovanni, e costruisce la prima basilica di San Pietro.
In pace con l’autorità civile, ma non tra di loro: così sono i cristiani del tempo. Il lungo pontificato di Silvestro (ben 21 anni) è infatti tribolato dalle controversie disciplinari e teologiche, e l’autorità ordinaria della Chiesa di Roma su tutte le altre Chiese, diffuse ormai intorno all’intero Mediterraneo, non è ancora compiutamente precisata.
Costantino, poi, interviene nelle controversie religiose (o i vescovi e i fedeli lo fanno intervenire) non tanto per “abbassare” Silvestro, ma piuttosto per dare tranquillità all’Impero. (Tanto più che lui non è cristiano, all’epoca; e infondata è la voce secondo cui l’avrebbe battezzato Silvestro).
Costantino indice nel 314 il Concilio occidentale di Arles, in Gallia, sulla questione donatista (i comportamenti dei cristiani durante le persecuzione di Diocleziano). E sempre lui, nel 325, indice il primo Concilio ecumenico a Nicea, dove si approva il Credo che contro le dottrine di Ario riafferma la divinità di Gesù Cristo («Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre»).
Papa Silvestro non ha alcun modo di intervenire nei dibattiti: gli vengono solo comunicate, con solennità e rispetto, le decisioni prese. E, insomma, ci appare sbiadito, non per colpa sua (e nemmeno tutta di Costantino); è come schiacciato dagli avvenimenti. Ma pure deve aver colpito i suoi contemporanei, meglio informati di noi: tant’è che, appena morto, viene subito onorato pubblicamente come “Confessore”. Anzi, è tra i primi a ricevere questo titolo, attribuito dal IV secolo in poi a chi, pur senza martirio, ha trascorso una vita sacrificata a Cristo.
Silvestro è un Papa anche sfortunato con la storia, e senza sua colpa: per alcuni secoli, infatti, è stato creduto autentico un documento, detto “donazione costantiniana”, con cui l’imperatore donava a Silvestro e ai suoi successori la città di Roma e alcune province italiane; un documento già dubbio nel X secolo e riconosciuto del tutto falso nel XV.
Un anno dopo la sua morte, a papa Silvestro era già dedicata una festa al 31 dicembre; mentre in Oriente lo si ricorda il 2 gennaio.

Silvestro promosse la costruzione delle grandi basiliche di Roma, e Costantino ne fece le "sue" opere. Secondo il Liber Pontificalis, infatti, su suggerimento del papa l'imperatore fondò la basilica di San Pietro sul Colle Vaticano, sopra un preesistente tempio dedicato ad Apollo, tumulandovi, in un sarcofago di bronzo, il corpo dell'apostolo Pietro. Sempre su ispirazione del papa sorsero la basilica ed il battistero del Laterano vicino al palazzo appena donato, la basilica del Sessorium (basilica di Santa Croce in Gerusalemme), la basilica di San Paolo fuori le mura sulla Via Ostiense, e molte chiese cimiteriali sulle tombe di martiri, in particolare quella sulla Via Salaria, presso le catacombe di Priscilla, le cui rovine sono tornate alla luce verso la fine dell'Ottocento. La memoria di Silvestro è legata principalmente alla chiesa in titulus Equitii (Basilica dei Santi Silvestro e Martino ai Monti) che prende il nome da un presbitero romano che si dice abbia eretto questa chiesa sulla sua proprietà. Essa sorge tuttora nei pressi delle terme di Traiano accanto alla Domus Aurea. Parti dell'edificio attuale risalgono al IV secolo.

Senza dubbio Silvestro I contribuì anche allo sviluppo della liturgia, per ciò che riguardava interventi propriamente interni alla vita della Chiesa: durante il suo regno, probabilmente, fu scritto il primo martirologio romano. Il nome di Silvestro è legato anche alla creazione della scuola romana di canto.

Nella Chiesa di Alessandria d'Egitto si andava in quel periodo affermando la predicazione di Ario, un presbitero che diffondeva una sua dottrina sulla Trinità. Affermava che Gesù era "adottato" da Dio come figlio, sostanzialmente negando l'essenza divina di Cristo. Nonostante la scomunica, la sua dottrina continuò a fare proseliti, soprattutto in Oriente, trovando tra i sostenitori anche alcuni vescovi, tra cui Eusebio di Nicomedia ed Eusebio di Cesarea. Non riuscendo a frenare la diffusione delle idee di Ario, il patriarca Alessandro di Alessandria chiese l'intervento di Silvestro. Ma prima che questi decidesse sul da farsi, Costantino aveva già inviato sul posto il vescovo Osio di Cordova e, viste le serie difficoltà della questione, aveva immediatamente convocato, per il 14 giugno del 325, tutti i vescovi della Chiesa cristiana ad un concilio a Nicea: si trattò del primo concilio ecumenico della storia.

L'assemblea degli oltre 300 vescovi fu presieduta da Osio di Cordova, mentre Costantino ne era il presidente onorario. Il Papa comunque prese parte ai negoziati sull'arianesimo e sul Concilio: benché fisicamente assente "per motivi di età" inviò i suoi legati, ma non è certo se Costantino avesse concordato in anticipo con lui la convocazione del concilio, né se, oltre alle firme dei suoi legati in calce ai documenti conciliari, ci fosse un'espressa conferma papale alle deliberazioni.

Fu confermata la condanna dell'arianesimo, fortemente ribadita dalla prima formulazione del "Simbolo niceno" (il "Credo" dei Cristiani) che però non bastò a debellare il movimento eretico in Oriente. Anzi lo stesso imperatore, indubbiamente non esperto di questioni teologiche ma preoccupato soprattutto della stabilità politica, sostituì a breve il suo consigliere per le questioni ecclesiastiche Osio con l'ariano Eusebio di Nicomedia. Questi riuscì ad ammettere lo stesso Ario alla presenza di Costantino (ormai trasferito nella nuova capitale Costantinopoli), il quale, fidandosi del suo nuovo consigliere, ritenne che una riabilitazione e un rientro di Ario nella Chiesa sarebbe servita ad una riconciliazione tra la Chiesa di Roma e quella d'Oriente. Al rifiuto di Atanasio, nuovo vescovo di Alessandria, senza neanche concordarlo con Silvestro, Costantino convocò nel 335, a Tiro, un nuovo concilio di soli vescovi ariani, che deposero Atanasio. Le rimostranze di Silvestro, che morirà il 31 dicembre di quello stesso anno, saranno del tutto inutili.

Fu sepolto nella chiesa da lui voluta presso le Catacombe di Priscilla. La sua sepoltura è espressamente menzionata negli itinerari dei fedeli del VII secolo.

Il 2 giugno 761, secondo un'antica tradizione, papa Paolo I fece traslare il suo corpo nell'oratorio della chiesa di San Silvestro in Capite ed il 17 luglio dello stesso anno lo fece portare all'interno della chiesa, dove fu ritrovato durante i restauri del 1596. Papa Clemente VIII lo fece porre sotto l'altare maggiore. Un'altra tradizione indica, invece, che nel 756 fu traslato all'abbazia di Nonantola.

Secondo la Depositio episcoporum, l'elenco dei giorni della sepoltura dei vescovi romani che fu compilato appena un anno dopo la morte di papa Silvestro I, la sua festa si celebra il 31 dicembre, e la stessa data ricorre sul Calendario di Filocalo. Questo giorno, perciò, è sicuramente il giorno della sua sepoltura.



La Chiesa cristiana ortodossa e le chiese cattoliche che seguono i riti orientali lo celebrano il 2 gennaio.

San Silvestro papa era il patrono dell'ordine cavalleresco chiamato Milizia Aurata o anche "dello Speron d'Oro" che la tradizione voleva fosse stato fondato addirittura dall'imperatore Costantino in persona. Dopo varie vicende nel corso dei secoli, nel 1841 papa Gregorio XVI, nell'ambito di una vasta riforma degli ordini equestri, dalla "Milizia Aurata" separò l'"Ordine di San Silvestro Papa", assegnandogli propri statuti e decorazioni. Nel 1905 papa Pio X vi apportò ulteriori modifiche, ancora vigenti. L'Ordine prevede quattro classi: Cavaliere, Commendatore, Commendatore con placca (Grand'Ufficiale), Cavaliere di Gran Croce. Dei tre ordini equestri disciplinati dalla Santa Sede quello di San Silvestro è il minore; il rango più elevato appartiene all'"Ordine Piano", seguito da quello di San Gregorio Magno.

Attorno a papa Silvestro esistono diverse leggende, ma ciò che riportano è in contrasto con gli avvenimenti storici. Queste leggende furono tramandate attraverso la Vita beati Sylvestri, comparsa in seguito presso le Chiese orientali e tradotta in greco, siriaco, e latino attraverso il Constitutum Sylvestri (un resoconto apocrifo di un supposto sinodo romano, inserito nelle falsificazioni simmachiane e comparso tra il 501 ed il 508), e attraverso la Donatio Constantini. I racconti riportati in tutti questi scritti, riguardo alla persecuzione di Silvestro, la conversione e il battesimo di Costantino, la donazione dell'imperatore al papa, i diritti garantitigli, ed il concilio di 275 vescovi a Roma, sono completamente leggendari.

La storia secondo la quale avrebbe battezzato Costantino è pura leggenda, poiché prove dell'epoca mostrano che l'imperatore ricevette il sacramento nei pressi di Nicomedia per opera di Eusebio, vescovo di quella città. Secondo lo storico del XIX secolo, Johann Döllinger, l'intera leggenda di Silvestro e Costantino, con tutti i dettagli sulla lebbra dell'imperatore e la proposta del bagno di sangue per guarirne, risale a non più tardi della fine del V secolo, mentre vi fanno certamente allusione Gregorio di Tours e san Beda. La cosiddetta Donazione di Costantino (con cui la Chiesa, per secoli, ha preteso di giustificare il suo potere temporale con una legge costantiniana) è stata già da lungo tempo dimostrata falsa, ma il documento è di considerevole antichità e, secondo Döllinger, venne redatto a Roma tra il 752 e il 777. Era certamente noto a papa Adriano I nel 778 e venne inserito nei falsi decreti verso la metà del secolo seguente. La leggendaria relazione di Silvestro con Costantino ottenne comunque l'effetto voluto, e fu importante nel Medioevo per sostenere le basi storiche del potere temporale della Chiesa. Papa Innocenzo IV, nel 1248, fece addirittura affrescare la leggenda della "donazione" in una cappella della basilica dei Santi Quattro Coronati, in Roma: probabilmente era in buona fede convinto della veridicità dell'avvenimento, che si rivelò comunque, ancora una volta, un ottimo mezzo di propaganda a dimostrazione della superiorità della Chiesa rispetto all'impero.
Secondo Claudio Rendina, l'agiografia cristiana ha costruito a posteriori (quando la Chiesa era diventata una potenza politica oltre che spirituale) la personalità di Silvestro come figura esemplare di cristiano, forse nel tentativo di recuperare una figura opaca per restituirle, a forza, una dimensione di parità, se non di superiorità, con l'imperatore.

La notte di San Silvestro corrisponde alla notte tra il 31 dicembre e il Capodanno. Essa è celebrata in diversi modi a seconda della nazione. Si chiama così in quanto il 31 dicembre il santo che si festeggia è proprio San Silvestro. Il 31 dicembre viene spesso anche erroneamente chiamato Capodanno, pur trattandosi in realtà solo della vigilia di Capodanno (il Capodanno è infatti il 1º gennaio).

In Italia, è tradizione fare la cosiddetta cena di Capodanno, un'abbondante cena per alcuni elementi simile a quella della vigilia di Natale, ma in cui il piatto tradizionalmente più caratteristico che lo distingue dal cenone natalizio sono lo zampone o il cotechino con le lenticchie. Si usa in genere trascorrere la serata in compagnia in quello che è il cosiddetto "veglione"; i festeggiamenti non di rado proseguono fino alle prime luci del mattino del primo dell'anno. I veglioni spesso consistono in feste private o in locali, in concerti nelle principali piazze italiane, ma non solo. Inoltre a partire dalla mezzanotte si usa salutare l'inizio del nuovo anno con fuochi d'artificio spesso allestiti da privati cittadini, ma non mancano anche spettacoli pirotecnici organizzati pubblicamente, soprattutto nelle grandi città.

La sera del 31 dicembre il Presidente della Repubblica legge il tradizionale messaggio televisivo di fine d'anno in cui, oltre a fare gli auguri agli italiani, coglie l'occasione per discutere delle principali tematiche politico-sociali dell'anno appena trascorso e per fare auspici per il nuovo anno, dando così spunti di riflessione agli italiani e ai politici del suo paese. Generalmente il messaggio viene mandato in onda a reti unificate a partire dalle 20:30 e la sua durata ha un limite all'incirca di 30 minuti.


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mercoledì 30 dicembre 2015

LA VEDRETTA DELLA SPIANATA

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La vedretta della Spianata è un ghiacciaio che occupa il circo sommitale del versante Sud-orientale del pizzo Tambò, del quale cinge su quel lato la vetta.

È così denominata perché, incontrandola nella parte finale della via normale di salita alla vetta del Tambò, se ne attraversa la sua parte superiore, pressoché pianeggiante.

Il bacino della vedretta è posto tra una quota media di circa 3.000 metri del limite superiore, e la fronte posta attorno ai 2.740 metri; quest'ultima risulta sospesa sullo zoccolo roccioso che interrompe il versante Sud-orientale sopra la val Loga e il bacino di Montespluga, e ne scaturisce sovente una copiosa cascata.

Il ghiacciaio è da tempo in regresso, sfavorito anche dalla sua esposizione in parte meridionale, e solo limitatamente protetto dalla mole sommitale del pizzo Tambò.




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MONTEMEZZO

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Montemezzo  è un comune situato a mezza costa lungo le pendici del monte Berlinghera ed è formato dai due principali centri abitati di Burano e Montalto. Il ritrovamento di massi coppelliformi dimostra che la zona fu abitata fin dalla preistoria. Dal sec. XVI agli inizi del XIX subì massicciamente il fenomeno dell'emigrazione per lo più verso la città di Palermo da cui furono importate usanze e tradizioni vive ancora oggi. La localtà Montalto si trova sulla Via dei Monti Lariani, un percorso di trekking lungo 125 km, che collega le località montane disseminate sui pendii della sponda ovest del lago. Dalla loc. S. Bartolomeo si può raggiungere la cima del Monte Berlinghera.

La Chiesa di S. Martin fu eretta in posizione dominante le acque del lago, con ampio panorama verso le foci dell’Adda, del Mera ed il Pian di Spagna.
Riconosciuta come una delle chiese maggiormente affrescate della zona, divenuta parrocchiale nel 1480, con campanile dell’ultimo 500.
All’interno, nella zona absidale, sono affrescati una “Crocifissione” ed un “Giudizio Universale” attribuiti ad Aurelio Luini, figlio del celebre Bernardino che usò, pare, i cartoni che il padre aveva utilizzato per affrescare la chiesa di Santa Maria degli Angeli di Lugano.
Affresco di rilevante importanza è anche “La battaglia di Murat” ispirazione del Fiamminghino, simbolica figurazione del trionfo della fede cattolica su quella luteranense.
Gli altri affreschi delle cappelle, tra cui uno del Caracciolo di Vercana, l’altare di sinistra, parte dei paramenti sacri ed una lampada in argento sono omaggio degli emigrati locali in Sicilia.



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martedì 29 dicembre 2015

LA VAL DI LEI

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La Val di Lei è l'unica valle alpina italiana che appartiene al bacino idrografico del Reno. Delle acque del lago artificiale posto sul fondo della valle è immissario ed emissario il Reno di Lei.

Attualmente la Val di Lei è disabitata e viene usata come alpeggio d'estate, mentre d'inverno è possibile sciare sul versante del Pizzo Groppera che scende verso la valle stessa. Le piste da sci che qui si trovano fanno parte del comprensorio di Madesimo.

La valle, per lo sfruttamento come pascolo, fu acquistata dal comune di Piuro già nel 1462.

L'intera Valchiavenna fu poi occupata dai Grigioni, successivamente uniti alla Svizzera, ma nel 1797 chiese, insieme alla Valtellina, di far parte della Repubblica Cisalpina, e nel 1814/15 il Congresso di Vienna confermò il passaggio al Regno Lombardo-Veneto, in deroga al principio di legittimità. La definitiva conferma del confine di stato con l'inclusione della Val di Lei nel Regno d'Italia avvenne nel 1863.

Dopo la seconda guerra mondiale una società con interessi misti italiani e svizzeri chiese le autorizzazioni per lo sfruttamento idroelettrico. Ci fu però l'opposizione delle autorità militari elvetiche, perché un crollo o un attentato alla diga avrebbe provocato gravissimi danni alla popolazione svizzera della Val Ferrera e della Val Schons.

Dopo una lunga trattativa tra i due governi la soluzione fu trovata in un accordo internazionale. L'Italia cedette alla Svizzera una striscia di terreno di circa mezzo kilometro quadrato, sulla quale costruire la diga, ottenendo in cambio una porzione equivalente di territorio poco più a nord. Si ha perciò una linea di confine molto curiosa: il lago artificiale alimentato dal Reno di Lei è in territorio italiano, mentre la diga è in territorio svizzero.

La valle è raggiungibile con la macchina solo attraverso la strada che la collega con il comune svizzero di Ferrera (GR), mentre dall'Italia si può giungere fin qui solo a piedi, superando il passo Angeloga o uno degli altri passi minori che separano la Val di Lei dalla valle Spluga.

Anticamente era in funzione una funivia che partiva dal comune di Campodolcino, in frazione Tini e, attraversando il Pizzo Stella, portava soprattutto gli operai in Val di Lei.

Esiste, in Valchiavenna, una valle dal nome singolare, la valle di Lei, la cui denominazione allude ad una figura femminile (o parrebbe alludere: in realtà il toponimo significa "lago"). Sull’identità di questa figura, però, le spiegazioni divergono.
Una prima storia rimanda ad uno sfondo storico assai lontano nel tempo, cioè all’epoca della dominazione romana della Rezia. Ne è infelice protagonista la moglie di un soldato romano, un centurione di stanza in val Ferrera, attualmente in territorio svizzero. Costei tradì il marito, che non la prese affatto bene e le inflisse una punizione terribile: la rinchiuse in una caverna e la lasciò morire lì.
Passarono circa mille anni, prima che alcuni pastori di Piuro (i pascoli della valle di Lei, assai pregiati, sono, infatti, nel territorio di tale comune) rinvenissero quel che restava della sventurata, sopra l’alpe del Scengio. Come abbiano fatto a ricostruire la vicenda che aveva portato alla tragica fine, non ci è dato sapere: la scoperta, però, suscitò tale impressione e mosse gli animi a tali sentimenti di pietà, che la valle, da allora, assunse il nome che doveva ricordare lei, la donna che trovò nel cuore dei suoi monti la propria tomba.
Da allora quando il vento sibila e pare produrre gemiti lamentosi, i pastori dicono che è l'anima di "lei", un'anima in pena, che piange per il suo tradimento e la sua terribile sorte.
Esistono, però, almeno un paio di altre leggende, che ci portano a scenari decisamente più fantastici, anche se non meno tragici.
La prima ci presenta un tempo in cui la valle godeva di un clima particolarmente favorevole e caldo, ed era quindi particolarmente prospera.Vi dimorava allora una principessa, che possedeva consistenti ricchezze. Purtroppo le situazioni felici, anche nel mondo fantastico delle leggende, non sono mai durature, ed ecco, quindi, entrare in scena un perfido mago, che le intimò di consegnarle tutto l'oro. Inizialmente la principessa resistette alla sua prepotenza, ma quando questi minacciò di congelare la sua bella valle, fu presa dalla paura e cedette.
Aver donato tutto il suo oro, però, non le valse a nulla, perché il mago si fece avanti ancora, con pretese maggiori: questa volta voleva l'intera valle. Questa volta la principessa rispose che non avrebbe mai acconsentito a cedere la sua bella valle. Questo rifiuto segnò il suo destino, perché il mago la uccise. Era tanto malvagio, che neppure volle godersi la valle conquistata con il sopruso, preferendo godersi il gusto di un atto di malvagità gratuita: usò, infatti, le sue arti magiche per stendervi sopra una coltre di ghiaccio. Da allora, in memoria della sua ultima sventurata principessa, la valle assunse l'attuale denominazione.
Una seconda leggenda spiega il nome con una vicenda per certi versi analoga. Questa volta la protagonista è una ragazza di grande bellezza, che abitava sul versante montuoso che scende ad oriente del pizzo Groppera, la vetta che segna il confine sud-occidentale della valle. La sua bellezza non sfuggì ad un malvagio stregone, che passò un giorno nella valle, e che le chiese di sposarlo. La ragazza oppose un netto rifiuto, anche perché, come tutti gli esseri malvagi nell'universo delle leggende, costui era davvero brutto. Brutto e vendicativo: non ci pensò su due volte, e trasformò la ragazza in una grande massa di ghiaccio, in un vero e proprio ghiacciaio. Anche in questo caso alla sventurata venne tributato l'omaggio del ricordo nel nome della valle.
Le due leggende prendono spunto dalla presenza, nella valle, di ghiacciai, in particolare di quello della Ponciagna, che occupa il vallone dello Stella, il quale, a sua volta, scende dal versante settentrionale del pizzo Stella (m. 3163), ed il ghiacciaio della cima di Lago (m. 3083), che presidia l'angolo di sud-est della valle. Le diverse leggende fiorite sull'origine del suo nome testimoniano della singolarità della valle, che, idrograficamente appartiene al territorio elvetico, essendo tributaria del bacino del Reno, mentre politicamente appartiene all'Italia.

La valle si mostra ampia, aperta, luminosa, ma il senso di solitudine rimane: si intuisce la presenza umana, ma questa non cancella l’impressione di un luogo remoto, sconosciuto agli uomini. Tutto ciò, unito alla dolcezza del paesaggio, genera un fortissimo senso di pace e di armonia, che vale interamente le tre ore e mezza approssimativamente necessarie per giungere fin qui, superando i 950 metri circa di dislivello in salita. Nulla sembra suggerire, dunque, la tragedia delle tre donne che si contendono il privilegio di essere la “lei” evocata dal nome della valle.

Il Lago di Lei è la caratteristica principale della vallata. Lungo quasi otto chilometri e largo mediamente mezzo, ne occupa tutto il fondo valle. E' circondato da due file di monti che culminano in fondo con l'imponente mole del Pizzo Stella (m. 3163).


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lunedì 28 dicembre 2015

GERA LARIO

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Gera Lario è il comune più a nord sulla riva settentrionale del Lago di Como. Il grazioso lungolago passa alla zona ricreativa con un porto turistico, spiaggia del mare con una riva del lago fortificato, molto grande prato, una piscina pubblica, scuola di surf con noleggio attrezzature e parco giochi per bambini.  La posizione rivolta a sud è un buon punto di partenza per escursioni su entrambi i lati del lago, alla Valtellina, e per sfidare montagna escursioni fino alle vicine villaggi di montagna sopra e Bugiallo.

L'edificio quattrocentesco della chiesa parrocchiale di S. Vincenzo rientra nello schema delle altre chiese altolariane coeve, ad unica ampia navata con tetto a travature in vista impostato su tre arconi in muratura che scendono fino a terra. A chiudere il presbiterio quadrato con volte costolonate, scende una grande parete affrescata appena aperta, al centro, da un arco trionfale a tutto sesto. La facciata a capanna ha un oculo tondo nell'alto e due lunghe finestre acute trilobate a lato del portale che fu protetto in epoca più tarda da un pronao su due colonne in «molera». Il rosso del cotto che contorna le tre finestre e quello degli archetti acuti che decorano anche tutto il giro sottogronda dell'edificio e del pronao sono una nota di colore sull’uniformità. Le due lesene che scendono dall'alto della facciata dandole movimento senza peraltro sottintendere ora una corrispondente partitura interna, s'interrompono, nel nostro edificio, alla muratura romanica, già fianco sud della primitiva chiesa di Gera. Il portale, che si apre in questa muratura, è ancora quello del secondo edificio romanico, già orientato come il quattrocentesco, e riutilizza a sua volta alcuni marmi scolpiti del precedente portale di cui sopravvive lì vicino un avanzo di arco murato, già ingresso laterale del primissimo edificio. All'infuori di questi resti, la chiesa di Gera appartiene, come s'è detto, al «tipo» delle chiese quattrocentesche dell'Alto Lago: Gravedona con Santa Maria delle Grazie, le vecchie parrocchiali di Livo (S. Giacomo) e di Dosso Liro (S. Pietro in Costa), quelle di Peglio e di Garzeno (ora scomparsa la prima e rimaneggiata la seconda), di Stazzona, Brenzio e Montemezzo. Una fioritura che risale dalle sponde del lago ai paesi della montagna e che si spiega storicamente con l'aumento della popolazione ed un suo maggior benessere dopo l'annessione di tutta la regione al Ducato di Milano al termine dell'irrequieto periodo comunale. Gera risulta eretta in parrocchia solamente nel 1587 dal Vescovo Antonio Volpi, ma secondo lo studioso comasco Monti Santo l'edificio fu costruito nel 1467 , contemporaneamente cioè alle Grazie di Gravedona con la quale appunto, pur essendo di minor imponenza, ha precisi punti di contatto. Una croce affrescata in rosso, del tipo che solitamente veniva usato per documentare la consacrazione di una chiesa, e riapparsa ora sul secondo pilastro di destra sotto ad un avanzo di intonaco affrescato con una cinquecentesca testa di S. Ambrogio, confermerebbe comunque una consacrazione anteriore al secolo XVI. Come l'architettura, così anche la decorazione pittorica accomuna tutte queste chiese. Costruite, come s'è visto, verso la metà del secolo XV, esse vengono quasi completamente ricoperte di affreschi ad incominciare dalla fine dello stesso secolo fin oltre la metà del seguente. Essendo quasi contemporanei fra di loro e distribuiti in un'area molto circoscritta, è ovvio che nella loro massa questi pittori appartengano alla stessa scuola, o almeno alla stessa corrente pittorica: scuola lombarda nella scia del Luini, caratterizzata da uno o da pochi maestri che ripetono loro stessi ed impostano negli aiuti i medesimi schemi nella costruzione della impalcatura di finte architetture e di deco-razioni a girali, raffaellesche e festoni dei riquadri. L'affresco, in particolare a Gera ed a Montemezzo riempie completamente l'abside, dalle pareti alla volta, poi trasborda allo stesso modo su tutto l'arco trionfale, e scende in due fasce regolari lungo le pareti della navata. A Gera stupisce per la ricchezza e complessità soprattutto nella zona presbiteriale, che è pur preparata dal complesso della navata, dove purtroppo, sulla parete sinistra furono cancellati fra il Sette e l'Ottocento parecchi dei riquadri cinquecenteschi: se ne intravede ancora la vecchia incorniciatura archeggiata, come le Sante Margherita e Marcella, o rettilinea, come per il S. Michele, o il nome del santo che vi era prima effigiato, come per l'Angelo e Tobia, oppure riaffiora il primo sotto al secondo dipinto, come per le stigmate di S. Francesco. Ad un altro pittore locale, Antonio Maria Caracciolo, detto il Caracciolo da Vercana (nato a Caino di Vercana, sopra Domaso, il 23 marzo 1727), si potrebbero attribuire i rifacimenti nella parete sinistra della navata, e qualche tela degli altari, come lo stesso pittore lasciò memoria fra il 1748 ed il 1775 in un suo libro manoscritto ora nell'Archivio parrocchiale di Vercana. Di un pennello migliore invece dovrebbe essere l'Arcangelo S. Michele, che consiste in una copia a fresco quasi fedele della pala d'altare della parrocchiale di Cremia, per la quale si fa addirittura il nome di Paolo Veronese. In questo più antico ciclo, che ora fortunatamente dà ancora il tono alla decorazione di tutta la chiesa, sembra di riconoscere tre diverse mani. Un buon pittore cinquecentesco affresca sulla parete centrale del presbiterio, sopra ed attorno al polittico della stessa epoca, le figure dell'Eterno Padre e dei martiri diaconi Vincenzo e Stefano; sulle due pareti laterali, a fianco delle finestre, i quattro dottori della Chiesa, Ambrogio, Agostino, Gerolamo e Gregorio; sulle spalle dell'arco trionfale i santi Pietro e Paolo, cui sovrappone i preziosi cartigli con la data del suo lavoro - 1546 - e la precisazione che gli offerenti erano i barcaioli di Gera riuniti nella loro numerosa corporazione.
La chiesa della Nostra Signora di Fatima edificata nel 1634 in centro del paese per rendere più comoda la partecipazione della popolazione alle funzioni religiose, fu decorata con il contributo dei pescatori che versavano il guadagno della pesca effettuata nei giorni festivi dopo aver soddisfatto l'obbligo del precetto. L'edificio venne invaso dal fango e gravemente danneggiato dalla tragica alluvione dell'8 agosto 1951 che provocò la morte di 17 cittadini di Gera Lario. Ristrutturata dopo dieci anni di lavoro, fu consacrata nel 1963 dal Vescovo di Como Felice Bonomini come "Santuario dei pescatori". Successivamente il Santuario venne visitato dal Vescovo di Fatima, Venancio Pereira, che consacrò i due altari laterali dando inizio ad un gemellaggio spirituale tra Gera e Fatima. Nel Santuario, ora meta di pellegrinaggi e d'incontri, è conservata un'effigie della Vergine proveniente da Fatima e benedetta a Roma in San Pietro nel 1959 da Papa Giovanni XXIII.

Uno scavo ha permesso di individuare fondamentali dati planimetrici relativi all'edificio della Pieve di Olonio, uno dei più importanti centri di culto dell'alto lago. Sono state individuate almeno quattro fasi. La prima, più profonda, è relativa a strutture di età tardo romana, con materiali di IV secolo, tra i quali una bella moneta costantiniana. Il rispetto delle strutture sovrapposte ha impedito l'ampliamento dello scavo: le planimetrie rimangono quindi molto incomplete. La seconda fase documenta la costruzione ad Olonium di un piccolo edificio per il culto cristiano: un oratorio rettangolare con abside semicircolare, ampliato - nella terza fase - prolungando la navata verso N-W. Una rara moneta in rame del VI secolo conferma la datazione del sacello paleocristiano. Nella quarta fase, probabilmente protoromanica, l'edificio, nel quale possiamo riconoscere la Pieve nota dalle fonti letterarie, venne monumentalizzato, con una pianta a tre navate (una, laterale, corrisponde al primitivo sacello), con tre absidi. L'ultima fase sembra abbia interessato l'abside centrale, che venne sistemata a pianta rettangolare, con copertura a volta. Lo scavo ha permesso di dare una nuova lettura alle vicende del centro preromano (dei Vicani Aneuniates) posto a controllare la chiusura settentrionale del lago di Como, sul quale erano possibili solo traffici via acqua. Un edificio a pianta quadrangolare, con peristasi (non sappiamo se a colonne o a pilastri, o addirittura in materiale deperibile, in legno), scoperto alla fine del secolo scorso e interpretato come mausoleo, può oggi essere inteso come cultuale, nella tradizione degli edifici sacri nel mondo celtico, spesso in rapporto con il culto delle acque e collocati a sacralizzare «il passaggio»: guadi, traghetti, ponti. Accanto a questo supposto centro cultuale preromano si formò un agglomerato, con funzioni amministrative e civili, legate alle riscossione dei pedaggi, all'assistenza dei viaggiatori, all'amministrazione del modesto comprensorio agricolo tra i due laghi. Gli edifici sotto il sacello e la Pieve sono certamente relativi a questa fase, nella quale venne anche sistemata la strada per la Valtellina, della quale sono state individuate tracce delle potenti arginature che le permettevano di attraversare la piana paludosa. La cristianizzazione portò alla creazione del sacello, poi trasformato in una grande chiesa: la posizione importantissima del sito, che controlla tutte le comunicazioni verso la Rezia (l'attuale Svizzera) e la Valtellina, portò alla creazione della Pieve, tra le più importanti del lago. Il destino di Olonium era però legato al progressivo spostamento del corso dell'Adda, che originariamente sboccava nel lago di Mezzola, ma che progressivamente si spostava verso occidente e poi verso Sud, avvicinandosi sempre di più all'insediamento. Soprattutto nel XIV e XV secolo la situazione divenne insostenibile per gli abitanti di Olonium: lo scavo ha rivelato come il fianco stesso della chiesa venisse erosa dalle acque del fiume. Alla costante minaccia delle inondazioni si aggiungeva il flagello della malaria. Nel 1444 veniva deciso il trasferimento della Pieve nel vicino paese di Sorico (dove già era un'antica chiesa, altomedievale). A Olonio rimase una torre, con un piccolo presidio di soldati, a controllare il passaggio dell'Adda (non ancora il Mera), frequentato soprattutto dai contrabbandieri e chiuso da pali piantati sul fondo e da catene. Ma anche la torre, nel XVI secolo, venne distrutta nel corso delle operazioni militari degli Svizzeri, che premevano verso il lago e il territorio lombardo. A non molto distanza, nei primissimi anni del secolo successivo, la poderosa struttura del Forte di Fuentes raccolse l'eredità militare di Olonio. Infine, nel XIX secolo, il corso dell'Adda venne spostato verso Sud, direttamente nel lago di Como. Si ponevano così le premesse per la bonifica della piana tra i due laghi e per la ripresa, dalla fine dell'800, degli insediamenti nel sito che nascondeva i resti dell'antica Olonium.
Sul territorio comunale sono presenti diverse cappellette ed edicole votive a testimonianza del radicamento del sentimento religioso nella comunità locale. Sulla piazza principale e nelle contrade si trovano anche antiche case che propongono in facciata affreschi raffiguranti soggetti sacri.

Nella zona a lago, nel 1957 è stato eretto un faro votivo, nei pressi del porticciolo turistico. Il manufatto è situato nella zona devastata nel 1951 dall’alluvione che provocò diciassette vittime e la devastazione dell’intero paese, a memoria del tragico evento. Il faro costituisce un esempio unico di tali architetture nel litorale dell’alto lago, è un punto di particolare emergenza visuale ben identificabile dall’ ampio bacino dell’Alto lago e dalle alture circostanti il paese, che connota la sponda di Gera Lario divenendone il simbolo.


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domenica 27 dicembre 2015

SAN GIOVANNI EVANGELISTA



San Giovanni l'autore del quarto Vangelo e dell'Apocalisse, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo maggiore, venne considerato dal Sinedrio un «incolto». In realtà i suoi scritti sono una vetta della teologia cristiana. La sua propensione più alla contemplazione che all'azione non deve farlo credere, però, una figura "eterea". Si pensi al soprannome con cui Gesù - di cui fu discepolo tra i Dodici - chiamò lui e il fratello: «figli del tuono». Lui si definisce semplicemente «il discepolo che Gesù amava». Assistette alla Passione con Maria. E con lei, dice la tradizione, visse a Efeso. Qui morì tra fine del I e inizio del II secolo, dopo l'esilio a Patmos. Per Paolo era una «colonna» della Chiesa, con Pietro e Giacomo.
Nel Vangelo e in altri scritti si dimostra teologo, che, ritenuto degno di contemplare la gloria del Verbo incarnato, annunciò ciò che vide con i propri occhi.

Giovanni era originario della Galilea, di una zona sulle rive del lago di Tiberiade (forse Betsaida Iulia), figlio di Zebedeo e di Salome, fratello di Giacomo il Maggiore; la madre era nel gruppo di donne che seguivano ed assistevano Gesù salendo fino al Calvario, forse era cugina della Madonna; il padre aveva una piccola impresa di pesca sul lago anche con dipendenti.
Pur essendo benestante e con conoscenze nelle alte sfere sacerdotali, non era mai stato alla scuola dei rabbini e quindi era considerato come ‘illetterato e popolano’, tale che qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che lui abbia solo dettato le sue opere, scritte da un suo discepolo.
Giovanni è da considerarsi in ordine temporale come il primo degli apostoli conosciuto da Gesù, come è l’ultimo degli Apostoli viventi, con cui si conclude la missione apostolica tesa ad illuminare la Rivelazione.
Infatti egli era già discepolo di s. Giovanni Battista, quando questi additò a lui ed Andrea Gesù che passava, dicendo “Ecco l’Agnello di Dio” e i due discepoli udito ciò presero a seguire Gesù, il quale accortosi di loro domandò: “Che cercate?” e loro risposero: “Rabbi dove abiti?” e Gesù li invitò a seguirlo fino al suo alloggio, dove si fermarono per quel giorno; “erano le quattro del pomeriggio”, specifica lui stesso, a conferma della forte impressione riportata da quell’incontro.
In seguito si unì agli altri apostoli, quando Gesù passando sulla riva del lago, secondo il Vangelo di Matteo, chiamò lui e il fratello Giacomo intenti a rammendare le reti, a seguirlo ed essi “subito, lasciata la barca e il padre loro, lo seguirono”.
Da allora ebbe uno speciale posto nel collegio apostolico, era il più giovane ma nell’elenco è sempre nominato fra i primi quattro, fu prediletto da Pietro, forse suo compaesano, ma soprattutto da Gesù al punto che Giovanni nel Vangelo chiama se stesso “il discepolo che Gesù amava”.
Fra i discepoli di Gesù fu infatti tra gli intimi con Pietro e il fratello Giacomo, che accompagnarono il Maestro nelle occasioni più importanti, come quando risuscitò la figlia di Giairo, nella Trasfigurazione sul Monte Tabor, nell’agonia del Getsemani.
Con Pietro si recò a preparare la cena pasquale e in questa ultima cena a Gerusalemme ebbe un posto d’onore alla destra di Gesù, e dietro richiesta di Pietro, Giovanni appoggiando con gesto di consolazione e affetto la testa sul petto di Gesù, gli chiese il nome del traditore fra loro.
Tale scena di alta drammaticità, è stata nei secoli raffigurata nell’"Ultima Cena" di tanti celebri artisti. Dopo essere scappato con tutti gli altri, quando Gesù fu catturato, lo seguì con Pietro durante il processo e unico tra gli Apostoli si trovò ai piedi della croce accanto a Maria, della quale si prese cura, avendola Gesù affidatagliela dalla croce.
Fu insieme a Pietro, il primo a ricevere l’annunzio del sepolcro vuoto da parte della Maddalena e con Pietro corse al sepolcro giungendovi per primo perché più giovane, ma per rispetto a Pietro non entrò, fermandosi all’ingresso; entrato dopo di lui poté vedere per terra i panni in cui era avvolto Gesù, la vista di ciò gli illuminò la mente e credette nella Resurrezione forse anche prima di Pietro, che se ne tornava meravigliato dell’accaduto.
Giovanni fu presente alle successive apparizioni di Gesù agli apostoli riuniti e il primo a riconoscerlo quando avvenne la pesca miracolosa sul lago di Tiberiade; assistette al conferimento del primato a Pietro; insieme ad altri apostoli ricevette da Gesù la solenne missione apostolica e la promessa dello Spirito Santo, che ricevette nella Pentecoste insieme agli altri e Maria.
Seguì quasi sempre Pietro nel suo apostolato, era con lui quando operò il primo clamoroso miracolo della guarigione dello storpio alla porta del tempio chiamata “Bella”; insieme a Pietro fu più volte arrestato dal Sinedrio a causa della loro predicazione, fu flagellato insieme al gruppo degli arrestati.
Con Pietro, narrano gli Atti degli Apostoli, fu inviato in Samaria a consolidare la fede già diffusa da Filippo.
San Paolo verso l’anno 53, lo qualificò insieme a Pietro e Giacomo il Maggiore come ‘colonne’ della nascente Chiesa.
Il fratello Giacomo fu decapitato verso il 42 da Erode Agrippa I, protomartire fra gli Apostoli; Giovanni, secondo antiche tradizioni, lasciata definitivamente Gerusalemme (nel 57 già non c’era più) prese a diffondere il cristianesimo nell’Asia Minore, reggendo la Chiesa di Efeso e altre comunità della regione.
Anche Giovanni adempì la profezia di Gesù di imitarlo nella passione; anche se non subì il martirio come il fratello e gli altri apostoli, dovette patire la persecuzione di Domiziano (51-96) la seconda contro i cristiani, che negli ultimi anni del suo impero, 95 ca., conosciuta la fama dell’apostolo, lo convocò a Roma e dopo averlo fatto rasare i capelli in segno di scherno, lo fece immergere in una caldaia di olio bollente davanti alla porta Latina; ma Giovanni ne uscì incolume.
Ancora oggi un tempietto ottagonale disegnato dal Bramante e completato dal Borromini, ricorda il leggendario miracolo.
Fu poi esiliato nell’isola di Patmos (arcipelago delle Sporadi a circa 70 km da Efeso) a causa della sua predicazione e della testimonianza di Gesù. Dopo la morte di Domiziano, salì al trono l’imperatore Nerva (96-98) tollerante verso i cristiani; quindi Giovanni poté tornare ad Efeso dove continuò ad esortare i fedeli all’amore fraterno, finché ultracentenario morì verso il 104, cosicché il più giovane degli Apostoli, il vergine perché non si sposò, visse più a lungo di tutti portando con la sua testimonianza, l’insegnamento di Cristo fino ai cristiani del II secolo.
Sulla sua tomba ad Efeso, fu edificata nei secoli V e VI una magnifica basilica. In vita la tradizione e gli antichi scritti gli attribuiscono svariati prodigi, come di essersi salvato senza danno da un avvelenamento e dopo essere stato buttato in mare; ad Efeso risuscitò anche un morto.
Alle riunioni dei suoi discepoli, ormai vecchissimo, veniva trasportato a braccia, ripetendo soltanto “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” e a chi gli domandava perché ripeteva sempre la stessa frase, rispose: “ Perché è precetto del Signore, se questo solo si compia, basta”.
Fra tutti gli apostoli e i discepoli, Giovanni fu la figura più luminosa e più completa, dalla sua giovinezza trasse l’ardore nel seguire Gesù e dalla sua longevità la saggezza della sua dottrina e della sua guida apostolica, indicando nella Grazia la base naturale del vivere cristiano.
La sua propensione più alla contemplazione che all’azione, non deve far credere ad una figura fantasiosa e delicata, anzi fu caldo e impetuoso, tanto da essere chiamato insieme al fratello Giacomo ‘figlio del tuono’, ma sempre zelante in tutto.
Teologo altissimo, specie nel mettere in risalto la divinità di Gesù, mistico sublime fu anche storico scrupoloso, sottolineando accuratamente l’umanità di Cristo, raccontando particolari umani che gli altri evangelisti non fanno, come la cacciata dei mercanti dal tempio, il sedersi stanco, il piangere per Lazzaro, la sete sulla croce, il proclamarsi uomo, ecc.
Giovanni è chiamato giustamente l’Evangelista della carità e il teologo della verità e luce, egli poté penetrare la verità, perché si era fatto penetrare dal divino amore.
Il suo Vangelo, il quarto, ebbe a partire dal II secolo la definizione di “Vangelo spirituale” che l’ha accompagnato nei secoli; Origene nel III secolo, per la sua alta qualità teologica lo chiamò ‘il fiore dei Vangeli’.
Gli studiosi affermano che l’opera ebbe una vicenda editoriale svolta in più tappe; essa parte nell’ambiente palestinese, da una tradizione orale legata all’apostolo Giovanni, datata negli anni successivi alla morte di Cristo e prima del 70, esprimendosi in aramaico; poi si ha un edizione del vangelo in greco, destinata all’Asia Minore con centro principale la bella città di Efeso e qui collabora alla stesura un ‘evangelista’, discepolo che raccoglie il messaggio dell’apostolo e lo adatta ai nuovi lettori.
Inizialmente il vangelo si concludeva con il capitolo 20, diviso in due grandi sezioni; dai capitoli 1 a 12 chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli scelti da Giovanni per illustrare la figura di Gesù, Figlio di Dio e dai capitoli 13 a 20 chiamato “Libro dell’ora”, cioè del momento supremo della sua vita offerta sulla croce, che contiene i mirabili “discorsi di addio” dell’ultima Cena. Alla fine del I secolo comparvero i capitoli finali da 21 a 23, dove si allude anche alla morte dell’apostolo.
All’inizio del Vangelo di Giovanni è posto un prologo con un inno di straordinaria bellezza, divenuto una delle pagine più celebri dell’intera Bibbia e che dal XIII secolo fino all’ultimo Concilio, chiudeva la celebrazione della Messa: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio….”.
L’Apocalisse come già detto è l’unico libro profetico del Nuovo Testamento e conclude il ciclo dei libri sacri e canonici riconosciuti dalla Chiesa, il suo titolo in greco vuol dire ‘Rivelazione’.
Denso di simbolismi, spesso si è creduto che fosse un infausto oracolo sulla fine del mondo, invece è un messaggio concreto di speranza, rivolto alle Chiese in crisi interna e colpite dalla persecuzione di Babilonia o della bestia, cioè la Roma imperiale, affinché ritrovino coraggio nella fede, dimostrandolo con la testimonianza.
È un’opera di grande potenza e suggestione e anche se il linguaggio e i simboli sono del genere ‘apocalittico’, corrente letteraria e teologica molto diffusa nel giudaismo, il libro si autodefinisce ‘profezia’, cioè lettura dell’azione di Dio all’interno della storia.
Colori, animali, sogni, visioni, numeri, segni cosmici, città, costellano il libro e sono gli elementi di questa interpretazione della storia alla luce della fede e della speranza.
Il libro inizia con la scena della corte divina con l’Agnello - Cristo e il libro della storia umana e alla fine dell’opera c’è il duello definitivo tra Bene e Male, cioè tra la Chiesa e la Prostituta (Roma) imperiale, con la rivelazione della Gerusalemme celeste, dove si attende la venuta finale del Cristo Salvatore.
Di Giovanni esistono anche tre ‘Epistole’ scritte probabilmente a Efeso, che hanno lo scopo di sottolineare e difendere presso determinati gruppi di fedeli (o uno solo, con la terza) alcune verità fondamentali, che erano attaccate da dottrine gnostiche.
San Giovanni ha come simbolo l’aquila, perché come si credeva che l’aquila potesse fissare il sole, anche lui nel suo Vangelo fissò la profondità della divinità.
È il patrono della Turchia e dell’Asia Minore, patronato confermato da papa Benedetto XV il 26 ottobre 1914; giacché Gesù gli affidò la Vergine Maria, è considerato patrono delle vergini e delle vedove; per i suoi grandi scritti è patrono dei teologi, scrittori, artisti; per il suo supplizio dell'olio bollente, protegge tutti coloro che sono esposti a bruciature oppure hanno a che fare con l’olio, quindi: proprietari di frantoi, produttori di olio per lampade, armaioli; patrono degli alchimisti, è invocato contro gli avvelenamenti e le intossicazioni alimentari.
Anche i “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” che rappresentano conquista, guerra, fame, morte, sono un suo simbolo. In Oriente il suo culto aveva per centro principale Efeso, dove visse e l’isola di Patmos nel Dodecanneso dove fu esiliato e dove nel secolo XI s. Cristodulo fondò un monastero a lui dedicato, inglobando la grotta dove l’apostolo ricevette le rivelazioni e scrisse l’Apocalisse.
In Occidente il suo culto si diffuse in tutta Europa e templi e chiese sono a lui dedicate un po’ dappertutto, ma la chiesa principale costruita in suo onore è S. Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma.
Inizialmente i grandi santi del primo cristianesimo Stefano, Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni, erano celebrati fra il Natale e la Circoncisione (1° gennaio); poi con lo spostamento in altre date di s. Pietro, s. Paolo e s. Giacomo, rimasero solo s. Stefano il 26 dicembre e s. Giovanni apostolo ed evangelista il 27 dicembre.

Figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. I due fratelli sono detti "figli del tuono" (Marco 3, 17); di entrambi, nei Vangeli sinottici, Gesù deve talvolta frenare lo zelo intemperante e l'ambizione (Marco 10, 35, cfr. Matteo 20, 20; Luca 9, 49-50 e 54). Ma il Quarto Vangelo, secondo l'opinione tradizionale, ci presenta come proprio autore "il discepolo che Gesù amava", che nel corso dell'Ultima Cena reclina il capo sul petto di Gesù, e al quale questi morendo affida la madre; a Pietro e a lui Maria Maddalena annuncia che la pietra del sepolcro è tolta, sì che entrambi vi accorrono, ma il discepolo arriva per primo. Si tratta dunque di un apostolo, strettamente legato a Pietro. Ed è Pietro infatti che, sul Lago di Tiberiade (dove tra i presenti sono ricordati i figli di Zebedeo), dopo aver ricevuto l'incarico e la profezia che lo riguardano, domanda al Risorto che sarà di costui, e Gesù risponde: "Se io voglio ch'egli rimanga finché io venga, a te che importa?"; ma il testo sottolinea che questa risposta non significa, come alcuni credevano, che il discepolo non sarebbe morto (Giovanni 13, 23-25; 19, 26-27; 20, 2-9; 21, 7 e 20-24). Si discute se sia anche da identificare, come parecchi credono, con "il discepolo" conosciuto dal sommo sacerdote che accompagna Pietro e gli fa aprire la porta (Giov. 18, 15-16) e con il compagno di Andrea che abbandona il Battista per seguire Gesù (Giov. 1, 37-41). Ma accanto a Pietro, G. appare anche negli Atti degli apostoli (3, 3-11; 4, 13) dove è uno degli apostoli più importanti; e tra le "colonne" della Chiesa, con Giacomo e Cefa, è ricordato inoltre da s. Paolo (Galati 2, 9). La tradizione, attestata soprattutto da s. Ireneo e dalle notizie conservate da Eusebio, aggiunge che fu relegato nell'isola di Patmo, dov'ebbe le rivelazioni esposte nell'Apocalisse, e che visse a lungo (il Quarto Vangelo lo presenta come assai giovane) in Efeso, fino ai tempi di Traiano. D'altra parte, la profezia di Gesù ai figli di Zebedeo ("berrete la coppa che io bevo e sarete battezzati del battesimo di cui io sono battezzato", Marco 10, 39), e che appare realizzata nel martirio di Giacomo (Atti 12, 2), ha indotto molti critici a pensare che anche G. subisse la sorte del fratello.



Secondo la tradizione esoterica Giovanni avrebbe ricevuto un insegnamento segreto dallo stesso Gesù e questo insegnamento Giovanni lo avrebbe trasmesso in seguito ad una Chiesa invisibile. Secondo questa concezione, il cristianesimo ufficiale o esoterico, quindi, non sarebbe altro che una volgarizzazione di quell'insegnamento primitivo. Secondo la tradizione esoterica accanto ad una Chiesa di Pietro essoterica ed esteriore esiste invisibile e sotterranea una Chiesa di Giovanni, una chiesa più interiore. Non è quindi un caso che Giovanni è stato ed è il patrono di numerose società segrete. Egli è per esempio tenuto in alta considerazione dalla massoneria.
Delle disavventure del pensiero originario di Giovanni all'interno di questa tradizione esoterica c'è da annoverare per esempio l'esperienza della Chiesa Gioannita, una setta che si rifaceva appunto all'evangelista Giovanni e ai suoi cosiddetti "insegnamenti segreti" che in seguito si è dissolta in un'altra setta denominata "Chiesa Gnostica".
C'è chi sostiene che questa presunta Chiesa di San Giovanni abbia tramandato segretamente i suoi insegnamenti di generazione in generazione sino ad arrivare ai Templari, che di questa Chiesa sarebbero un'espressione.
In questo campo le opinioni che circolano sono le più disparate. Tra le tante quella che vede Giovanni affidare i suoi insegnamenti a Maria Maddalena prima che questa si imbarcasse diretta verso la Francia. Ovviamente non si può affermare nulla sulla veridicità di quanto qui narrato ma solo sulla reale esistenza di questi racconti storici, in quanto essi sono stati comunque prodotti ed hanno avuto un seguito più o meno numeroso.

Del 1903 è Le Quatrième Évangile un commentario al vangelo di Giovanni ad opera del più noto esponente del "modernismo", il sacerdote Alfred Loisy docente di storia delle religioni al Collège de France. Poco tempo dopo verrà scomunicato da Papa Pio X.
Nel 1929 appare uno scritto dal titolo Apocalisse. Scritto quasi come un testamento spirituale, l'autore è il noto romanziere inglese David Herbert Lawrence (1885-1930).
Lawrence distingue tra Gesù, ben descritto dall'apostolo Giovanni, autore del quarto vangelo, il vangelo dell'amore, e un Giovanni di Patmo, che è invece per Lawrence l'autore della sola Apocalisse di Giovanni. L'apocalisse infatti, secondo la lettura che ne dà Lawrence, risulta un testo carico di odio e d'invidia. Di lì a considerare Giovanni, Giovanni di Patmo come lui lo chiama, alla stregua di un Giuda, il passo è breve.
Una sua ipotesi sostiene che la cosiddetta Apocalisse di Giovanni, sia in realtà il rimaneggiamento di un testo originariamente pagano, reso cristiano da Giovanni di Patmo.
Il testo di Lawrence su Giovanni verrà ripreso in un saggio apparso in una prima edizione nel 1978 dal titolo Introduzione all'Apocalisse di D.H.Lawrence. Gli autori sono il filosofo francese contiguo ai movimenti dell'anti-psichiatria Gilles Deleuze e Fanny Deleuze. Lo stesso Deleuze ne curerà una seconda edizione riveduta che uscirà nel 1993.

Tra gli esponenti del movimento teosofico, sorto sul finire del XIX secolo da una concezione secondo la quale la religione vera e originaria è una sola e le religioni ufficiali non sono che aspetti parziali di quest'unica religione, Rudolf Steiner, pedagogo ed esoterista, è il più vicino e sensibile alla figura di Giovanni a cui ha dedicato svariate conferenze pubbliche e infine due libri rispettivamente sull'Apocalisse di Giovanni (1908) e il relativo Vangelo di Giovanni.

Più recentemente, nel '900, con l'apparire della nuova scienza dell'inconscio, si è occupata della figura per certi aspetti enigmatica di Giovanni e dei testi giovannei, di una ricchezza di simboli che non ha uguali, anche la psicoanalisi.

Tra gli psicoanalisti che sono intervenuti, con le loro specifiche competenze sull'inconscio, in questa riflessione ormai bimillenaria sulla figura di Giovanni e le prospettive riflessive a cui aprono i suoi testi, va segnalato in particolare lo stesso Carl Gustav Jung.

Ancor più recentemente una psicoanalista anch'essa di formazione junghiana, Silvia Montefoschi, dopo la pubblicazione nel 1979 di un testo "Oltre il confine della persona" in cui metteva a confronto la vicenda edipica e la vicenda cristica di cui sono espressione rispettivamente il più antico "mito greco di Edipo", centrale in psicoanalisi, e il mito di Cristo, pubblica nel 1997 Il regno del figlio dell'uomo nel quale sviluppa il discorso precedente mostrando ancor più la continuità evolutiva del discorso cristico e del discorso psicoanalitico grazie proprio alla mediazione di colui che secondo tale interpretazione rappresenta la coscienza cristica al massimo livello e che designa con il termine di "coscienza giovannea".

Sempre in Il regno del figlio dell'uomo (1997) dalla lettura attenta e dialogica della psicoanalista con la parola del teologo ed evangelista coglie quello che è il progetto giovanneo nel passare dalla coscienza cristica che è la coscienza della consustanzialità tra il figlio e il padre ovvero tra l'uomo e dio a quella della assoluta identicità tra l'umano e il divino. Questa intuizione è anche la consapevolezza, come progetto, che la consustanzialità sul piano del pensiero sia anche un'assoluta identicità sul piano della realtà concretamente vivente.

Così scrive Giovanni:

« E Filippo gli disse: "Facci vedere il padre: ciò sarà sufficiente per noi"
Gesù rispose:
"Da tanto tempo sono con voi e tu, Filippo, non mi hai conosciuto? Chi ha visto me ha visto anche il padre. E tu come puoi dire: "facci vedere il padre"? »   (Giovanni 14,8-9)
E ancora:

« "Le parole che io dico a voi non vengono dalla mia mente ma il padre che è in me esprime il suo pensiero. Credetemi: io sono nel padre e il padre è in me." »   (Giovanni 14,10-11)
E nel lavoro di attuazione di questa intuizione giovannea, in cui consta il progetto giovanneo, vede l'ulteriore evoluzione della coscienza cristica alla cui attuazione si sono dati il cambio in maniera sotterranea e esoterica come in una staffetta passandosi il testimone i mistici e i filosofi raggiungendo infine Hegel e individua l'ultimo passaggio del testimone proprio nella psicoanalisi in cui il discorso per la prima volta si manifesta a livello essoterico.
È infatti la psicoanalisi che sin dallo stesso Freud riconosce il femminile come un soggetto attivo anche se inconsapevole di sé, avvicinando così il momento in cui il progetto giovanneo giungerà a compimento e con esso l'immagine di Dio raggiungerà la sua completezza: nel momento in cui anche la figlia si farà simile al padre tutt'uno col padre.
Del resto già Jung aveva individuato nell'immagine trinitaria di Dio propria del cristianesimo una incompletezza e riteneva che per colmarla occorreva una quarta persona che era l'ombra di questo Dio cristiano, ciò che questo dio cristiano non voleva riconoscere in sé e che proiettava fuori di sé come altro da sé. Jung è proprio in questi termini che spiega il simbolo dell'Anticristo, l' umbra trinitatis che urge per venire alla luce, essendosi l'opposizione tra i contrari acutizzata al punto da spezzare il mondo in due e che quale metà dell'essere negata fa sì a sua volta che esso neghi che l'essere si dia soltanto nella dualità maschile Padre-Figlio ovvero nella dialettica spirituale Padre-Figlio, sì che l'Anticristo quale autore di questa nuova negazione assume il volto del "maligno".
L'allieva di Jung tuttavia, pur riconoscendosi d'accordo con il suo maestro, ritiene che questa persona esista già compresa nella trinità ed è ciò che tradizionalmente è stato chiamato Spirito Santo, quale dio-femmina ovvero quello stesso spirito che consustanziava il Padre e il Figlio. Lo Spirito quale dialettica erotica Madre-Figlia completa così l'altra dialettica, la dialettica spirituale Padre-Figlio


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