Gli ebrei italiani hanno una storia molto antica, che risale fino al II secolo a.C.: reperti archeologici di lapidi tombarie e iscrizioni dedicatorie vanno indietro fino ad allora. A quel tempo la maggioranza viveva nell'estremo sud dell'Italia, con una ramificazione comunitaria a Roma, e generalmente parlavano il greco. Si pensa che alcune famiglie (per esempio gli "Adolescenti") siano i discendenti degli ebrei deportati dalla Giudea dall'imperatore Tito nel 70 a.C. Nel primo medioevo esistevano principali comunità nel meridione italiano, come per esempio Bari e Otranto. Gli ebrei medievali italiani produssero inoltre importanti opere halakhiche come Shibbole ha-Leket.
Verso la fine del XV secolo, gli Ebrei in Italia erano complessivamente 70.000 su una popolazione totale di circa 8-10 milioni di persone, quindi appena lo 0,7% - 0,9% degli abitanti (in Spagna, su una popolazione globale eguale all'Italia, vi erano allora ben 200.000 ebrei), distribuiti in 52 comunità. Di questi, circa 50.000 abitavano in Sicilia, dove si stima che nel 1492 gli ebrei componessero tra il 3 e il 6% della popolazione.
Dopo l'espulsione degli ebrei dal Regno di Napoli nel 1533, il centro di gravità si spostò a Roma e al nord.
Giulio Cesare rispettava l’osservanza delle prescrizioni ebraiche: nell’anno sabbatico gli Ebrei erano esonerati dal pagare il loro tributo allo Stato romano. E che gli Ebrei residenti in Italia mandassero regolarmente in Palestina il loro contributo per il Tempio, lo apprendiamo anche dall’orazione di Cicerone "Pro Flacco", tenuta nel 59 av. l’E.V. Flacco, già propretore in Asia, era stato accusato di concussione (de repetundis); e nel processo intentatogli figurano come testimoni Ebrei della provincia d’Asia, i quali accusano Flacco dì essersi appropriato del denaro che essi dovevano inviare a Gerusalemme. Dice Cicerone nella Difesa: Cum aurum ludaeorum nomine quotannis ex Italia et ex omnibus nostris provinciis Hierosolymam exportari soleret, Flaccus sanxit edicto ne ex Asia exportari liceret. Quis est, iudices, qui hoc non vere laudari possit? (Essendo consuetudine che dall’Italia e da tutte le nostre province, tutti gli anni venga esportato oro a Gerusalemme, a nome dei Giudei, Flacco sancì con un editto che non fosse lecito esportarlo dall’Asia. E chi è, o Giudei, che non abbia a lodare ciò?).
Orazio in due satire (Sat. 1, 4 e Sat. 1, 9) accenna al proselitismo ebraico nella Roma del suo tempo.
Nel 66 d. l’E. V. i Giudei, esasperati dalle angherie dei procuratori romani, si ribellano; ha così inizio la Guerra giudaica, che dura 4 anni. C’erano allora in Palestina due partiti, di cui quello degli Zeloti, che voleva la guerra a oltranza, ebbe il sopravvento. Nel 69 viene posto l’assedio a Gerusalemme, che, malgrado F accanita resistenza e gli atti di leggendario valore compiuti dai Giudei, viene conquistata, da Tito il 9 di Av dell’anno seguente; il Tempio è dato alle fiamme. Secondo le leggi di guerra, i vincitori potevano disporre della vita e delle proprietà dei vinti; ed ai Giudei era riservata la sorte comune ai vinti. Una parte di essi fu destinata a perire nel circo (ad circenses) e mandata a Cesarea; una parte fu inviata nelle miniere in Sardegna (ad metalla), dove nessuno poteva sopravvivere a lungo; e una parte ancora fu portata a Roma (circa 97 mila) e adibita alla costruzione del Colosseo; altri furono venduti come schiavi: tutti i mercati dì schiavi dell’Oriente erano pieni di schiavi giudei: Dopo la rivolta di Bar Kochba (132-135) al tempo dell’imperatore Adriano, soffocata nel sangue dal Romani nel 135 d. l’E. V., molte altre migliaia di Giudei furono venduti come schiavi. Ma vivendo, come già ricordato, molti Ebrei fuori della Palestina anche prima di tali avvenimenti, essi si adoperarono per raccogliere denaro per il riscatto degli Ebrei schiavi; questa attività fu chiamata Pidion ha-shvuim, ossia: "riscatto dei prigionieri"; e in tal modo molti Ebrei furono liberati.
Oltre alla Comunità ebraica di Roma, già molto numerosa, c’erano in quell’epoca Comunità ebraiche a Venosa e Siracusa dove si trovano tuttora catacombe ebraiche - ed è, questa, un’altra prova che nelle persecuzioni del tempo erano accomunati Cristiani ed Ebrei; ed abbiamo pure notizia di Ebrei che abitavano in varie altre città italiane dell’Impero romano (Ostia, Ravenna, Ferrara, Bologna, Milano, Capua, Napoli).
Nel 313 l’imperatore Costantino emana l’Editto di Milano, che doveva porre fine alle persecuzioni contro i Cristiani, ai quali si dovevano pure restituire i beni confiscati. Ma questo Editto proclama anche la tolleranza di tutti gli altri culti. Da questo momento la situazione della Chiesa cristiana si capovolge: da perseguitata, o da sola o insieme al nucleo ebraico, diviene di questo la persecutrice, i martiri che la Chiesa ha avuto sono in numero di gran lunga inferiore a quello di quanti hanno subito il martirio per colpa dei Cristiani. Tutte le calunnie scagliate dai pagani contro i Cristiani quand’essi formavano ancora una setta in seno all’ebraismo, vengono ora ritorte da questi contro gli Ebrei: esempio tragico è il cosiddetto "omicidio rituale", che per secoli e secoli fu origine di sanguinose persecuzioni e di cui ci dà notizia per la prima volta il vescovo di Lione Agobardo, vissuto nel IX secolo.
Da ora in poi la storia degli Ebrei in Italia è in gran parte storia delle relazioni fra Ebrei e Papato; secondo la concezione della Chiesa, gli Ebrei dovevano sopravvivere per dimostrare al mando la verità dei Vangeli, e perciò mai da Roma essi furono cacciati; anzi, questa è l’unica città dell’Occidente con un’antica Comunità di Ebrei, da cui essi non furono mai espulsi.
Dopo la conquista della Sicilia da parte degli Arabi, importanti Comunità ebraiche si formarono nell’Isola. Nel 1282 la Sicilia passa sotto la dominazione spagnola; da questo momento la sorte degli Ebrei siciliani è legata alle vicende della Spagna. Degli Ebrei in Sicilia, il primo a darne notizia è Beniamino da Tudela (Navarra), vissuto nel XII sec., il secolo di Maimonide, il secolo d’oro della letteratura ebraica; il quale, per i suoi viaggi - ch’egli compì dal 1160 al 1173 - fu chiamato il Marco Polo degli Ebrei. Intorno al 1160 Beniamino da Tudela parte da Saragozza, diretto a Marsiglia e a Genova; da qui passa in Toscana, dove si ferma a Lucca e Pisa, visita Bologna e Roma (dov’è papa Alessandro III); quindi si spinge a Otranto, da dove si imbarca per Corfù. Al suo ritorno dall’Oriente si ferma in Sicilia, e ci dà interessanti notizie sulla vita degli Ebrei siciliani, che esercitavano quasi esclusivamente l’arte dei tessitori e dei tintori. Il ricordo di questa professione è rimasto in alcuni cognomi di Ebrei d’origine siciliana: Croccolo, Cremisi (come nei paesi tedeschi c’è il cognome Farber, o Ferber, che significa: tintore), e la tassa che gli Ebrei dovevano pagare come Ebrei, era detta appunto tassa dei tintori. E quando, alla fine del Medio Evo, gli Ebrei vengono cacciati dalla Sicilia, l’arte del tessitori scompare dall’Isola. Erano in tutto 37 mila; la Comunità più importante era a Palermo (circa 3 mila Ebrei). Fra le Comunità della Bassa Italia, due soprattutto erano fiorenti: Bari e Otranto, ambedue centri culturali ebraici.
Uno degli ebrei italiani più famosi fu Rabbi Moshe Chaim Luzzatto (1707–1746) le cui opere religiose ed etiche sono studiate a tutt'oggi. La comunità ebraica nel suo complesso raggiungeva circa 50.000 persone dal momento che fu emancipata nel 1870. Un momento importante nella storia dell'Ebraismo italiano è il Congresso ebraico di Forlì del 1418, in cui vengono avanzate richieste al nuovo papa, Martino V, e vengono assunte decisioni relative alla vita interna delle comunità ebraiche.
Nel 1516 la Repubblica Serenissima istituì il Ghetto di Venezia, il primo ghetto della Storia e che prende il nome dall'isola in cui fu confinata la Comunità ebraica di Venezia, a quel tempo accresciuta di numero da un'immigrazione aschenazita, e che aveva l'obbligo di rientrare la sera e le cui porte venivano chiuse la notte. Con l'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 con il Decreto di Alhambra a Venezia si rifugiarono via via anche molti ebrei sefarditi. Traccia di queste progressive stratificazioni si ritrovano ancora oggi nelle varie Sinagoghe di Venezia (dette anche Scuole) nel Ghetto: italiana, tedesca, spagnola, levantina. Venezia ha un ruolo importante per l'ebraismo mondiale anche per la diffusione della stampa di libri in ebraico, a cominciare dalla Bibbia di Bomberg del 1517.
Nel '500 a Venezia si stamparono la maggior parte di tutti i testi in ebraico d'Europa, tra cui il Talmud completo (Bomberg 1520) ancora oggi utilizzato in tutto il mondo come base talmudica. Nel 1553 questa fioritura ebraica si interruppe traumaticamente a causa della disputa tra due case editrici veneziane, la Bragadin e la Giustiniani, sui diritti di stampa della Mishneh Torah di Maimonide curata dal Rabbino di Padova Katzenellenbogen. La disputa fu portata davanti ai tribunali dell'Inquisizione di Papa Giulio II che giudicarono eretici i testi e ne decretarono il Rogo, avvenuto prima a Campo dei Fiori a Roma, quindi in Piazza San Marco a Venezia.
Nel 1637 il Rabbino di Venezia Leone da Modena vede pubblicata a Parigi la "Historia de riti Hebraici", la prima opera intesa a spiegare l'ebraismo ai non ebrei ed a combattere i pregiudizi antisemiti del tempo. Destinata per un pubblico protestante anglosassone, l'opera precorre il dibattito sulla riammissione degli ebrei in Inghilterra al tempo di Cromwell (essendone stati espulsi nel 1290). Nel 1638 un altro Rabbino di Venezia, Simeone Luzzatto, pubblica il "Discorso circa lo stato de gl'Hebrei", sulla tolleranza religiosa ed i vantaggi reciproci dell'integrazione degli ebrei a Venezia.
Le porte del Ghetto furono abbattute nel 1797 con la conquista di Venezia da parte di Napoleone che impose l'emancipazione. Durante la Seconda Aliyah (emigrazione, tra il 1904 e il 1914) molti ebrei italiani si trasferirono a Israele, e a Gerusalemme esiste tuttora una sinagoga ed un centro culturale italiani.
Nel 1938 Mussolini emanò le Leggi razziali fasciste e, dopo l'8 settembre 1943, anche l'Italia collaborò coi nazisti, inviando circa 7000 italiani ai campi di sterminio durante l'Olocausto. Oggi, gli ebrei italiani sono circa 35.000 - 38.000 (secondo alcuni 45.000) su una popolazione di 60 milioni di abitanti; la metà circa vive a Roma con un numero che va dai 13.500 ai 14.000, circa 7.000 risiedono a Milano, mentre gli altri sono sparsi in Comunità medie o piccole in tutta la penisola.
Una delle sinagoghe più grandi d'Italia si trova a Trieste. La Comunità ebraica di Casale Monferrato ospita la sua sinagoga di rito tedesco edificata nel 1595, ricca di arredi ed iscrizioni, che è un esempio di barocco piemontese ed è considerata una delle più belle d'Italia. Anche Merano e Trani ospitano una Sinagoga ebraica come diverse ne ospita Venezia, situate nei caratteristici ghetti ebraici; in particolare la Sinagoga di Venezia è riconosciuta come una delle più belle d'Europa. Di particolare pregio le Tavole della Legge in legno dorato risalenti al secolo XVIII secolo, numerosi Rimonim (terminali per rotoli della Legge) e Atarot (corone per i rotoli della Legge) sbalzati, cesellati o in filigrana d'argento.
Storicamente gli ebrei italiani si suddividono in quattro categorie:
Ebrei di rito italiano, che risiedono in Italia, ed in particolare a Roma, dal tempo dei romani (da circa 2200 anni).
Ebrei sefarditi, che possono essere suddivisi in sefarditi levantini e ebrei iberici, cioè ebrei giunti in Italia dopo le espulsioni dalla Spagna nel 1492, dal Portogallo nel 1497 e dal Regno di Napoli nel 1533. Questi a loro volta includono sia gli espulsi di quel tempo sia la famiglie criptogiudaiche che lasciarono la Spagna e il Portogallo nei secoli successivi e ritornarono all'Ebraismo.
Ebrei aschenaziti, che vivono principalmente nella parte nord dell'Italia.
Ebrei di Asti, Fossano e Moncalvo ("Appam"). Questi rappresentano gli ebrei espulsi dalla Francia nel Medioevo. La loro liturgia è simile a quella degli aschenaziti, ma contiene alcuni usi distintivi provenienti dagli ebrei francesi del tempo di Rashi, particolarmente nelle funzioni delle Festività ebraiche.
Storicamente queste comunità rimasero separate: in una data città vi era spesso una "sinagoga italiana" e una "sinagoga spagnola" e di tanto in tanto anche una "sinagoga tedesca". In molti casi, queste si sono amalgamate, ma una data sinagoga può celebrare servizi liturgici di più riti.
Attualmente esistono anche altre categorie:
Ebrei di San Nicandro che sono discendenti gerim dei neofiti di San Nicandro Garganico;
Ebrei iraniani (più precisamente persiani) che vivono a Roma e Milano;
Ebrei libici, soprattutto a Roma;
Ebrei libanesi, giunti soprattutto a Milano in seguito alla guerra civile del Libano del 1974.
L' unica organizzazione ebraica italiana che rappresenti l'ebraismo italiano di fronte allo Stato secondo la legge è l'Unione delle comunità ebraiche italiane (UCEI), come previsto dall'intesa con lo Stato italiano stipulata il 27 febbraio 1987, approvata con la legge 101/1989, revisione conclusa il 6 novembre 1996 e approvata con la legge 638/1996. L'UCEI partecipa alla ripartizione della quota dell'otto per mille del gettito IRPEF. Poiche' per lo Stato Italiano l'unica organizzazione che rappresenti giuridicamente gli interessi dell'ebraismo in Italia è l'UCEI, ne risulta che l'unica definizione di "ebreo" rilevante per lo Stato è quella data dall'Assemblea Rabbinica Italiana. Gli unici enti che possono rilasciare una certificazione di ebraicità in Italia (al fine, ad esempio, di poter richiedere di sostenere un esame universitario in giorno diverso dal sabato, o al fine di richiedere il riposo settimanale durante il sabato, con obbligo per il datore di lavoro di concederlo) sono le Comunità Ebraiche locali membre dell'UCEI che rilasciano tali certificati soltanto in base alle regole dell'ortodossia ebraica. L'iscrizione alle Comunità locali è infatti consentita soltanto previo nulla osta dell'Autorità Rabbinica locale ed al cui diniego si può ricorrere unicamente presso l'Assemblea Rabbinica Italiana (Statuto UCEI).
Gli ebrei italiani autoctoni, distinti dai sefarditi e dagli aschenaziti, sono a volte indicati nella letteratura scientifica come Italkim viene usato anche in ebraico moderno per indicare la lingua italiana. Gli ebrei di rito italiano di solito parlavano tradizionalmente una varietà di lingue giudeo-italiane come il bagitto a Livorno; attualmente solo a Roma si continua a parlare il giudaico romanesco.
Le usanze ed i riti religiosi degli ebrei di rito italiano possono essere visti come un ponte tra le tradizioni aschenazite e quelle sefardite, mostrando somiglianze con entrambe; e sono ancora più vicini alle tradizioni dei romanioti (ebrei greci in Italia). Si riconosce inoltre una suddivisione tra il minhag Benè Romì, praticato a Roma, e il minhag Italiani, praticato in città del nord come Torino, anche se i due riti sono generalmente affini, nonché alcune differenze tra il minhag di Firenze (prettamente sefardita) e quello di Livorno.
In materia di diritto religioso, la maggior parte degli ebrei di rito italiano in generale seguono le stesse regole degli askenaziti codificate da Moshe Isserles (detto il Ramo) con l'eccezione della proibizione askenazita di mangiare legumi a Pesach, mentre a Roma e Firenze seguono generalmente le stesse regole dei sefarditi, secondo lo Shulchan Aruch senza le glosse Moshe Isserles (su un totale di circa 35000 ebrei presenti in Italia solo 12000 risiedono a Roma). Tuttavia la loro liturgia è diversa da quella di entrambi questi gruppi. Una ragione di ciò potrebbe essere che l'Italia era il centro principale della prima stampa ebraica, consentendo agli ebrei italiani di conservare le proprie tradizioni, quando la maggior parte delle altre comunità dovevano optare per un libro di preghiere di standard "sefardita" o "askenazita".
Si è spesso sostenuto che il libro di preghiere italiano contenga gli ultimi resti della tradizione ebraica giudeo/galilea, mentre sia quello sefardita sia, in misura minore, quello aschenazita riflettano la tradizione babilonese. Questa affermazione è molto probabilmente storicamente accurata, anche se è difficile verificare testualmente quanto materiale liturgico dalla Terra d'Israele sopravviva. Inoltre, alcune tradizioni italiane riflettono il rito babilonese in una forma più arcaica, più o meno allo stesso modo del libro di preghiere degli ebrei yemeniti. Esempi di antiche tradizioni babilonesi conservate dagli italiani ma da nessun altro gruppo (compresi gli yemeniti), sono l'uso di keter yitenu lach nella kedushah di tutti i servizi e di naḥamenu in Birkat Hamazon (ringraziamento dopo i pasti) nello Shabbat, entrambi i quali si trovano nel siddur di Amram Gaon.
La comunità di rito italiano tradizionalmente utilizza l'ebraico italiano, un sistema di pronuncia simile a quella degli ebrei spagnoli e portoghesi. Tale pronuncia è stata in molti casi adottata anche dalle comunità sefardite, aschenazite e appam d'Italia.
Ci sono ebrei aschenaziti che vivono nel Nord Italia fin dal tardo medioevo. A Venezia, erano la più antica comunità ebraica della città, anteriore sia a quella sefardita che ai gruppi italiani. Dopo l'invenzione della stampa, l'Italia divenne un importante centro editoriale per libri ebraici e yiddish utilizzati dagli ebrei tedeschi ed altri ebrei nordeuropei. Una figura rimarchevole era Elia Levita, esperto grammatico e masoreta, anche autore del poema epico-romantico yiddish Bovo-Bukh.
Altre comunità rinomate sono state quelle di Asti, Fossano e Moncalvo, che discendevano da ebrei espulsi dalla Francia nel 1394: la comunità astigiana comprende la nota famiglia Lattes. Solo la sinagoga di Asti è ancora in uso oggi. Il loro rito, conosciuto come appam (dalle iniziali ebraiche delle suddette tre città), è simile a quello aschenazita, ma ha alcune peculiarità tratte dal vecchio rito francese, in particolare al riguardo delle festività ebraiche. Queste variazioni si trovano su fogli mobili che la comunità utilizza in combinazione con il normale libro di preghiere aschenazita e vengono stampati anche da Goldschmidt. Questo rito è l'unico discendente superstite del rito originale francese, usato da Rashi e in tutto il mondo: gli aschenaziti francesi dal 1394 utilizzano il rito tedesco-aschenazita.
Nella tradizione musicale e nella pronuncia, gli aschenaziti italiani differiscono notevolmente dagli aschkenaziti di altri paesi e mostrano una certa assimilazione con le altre due comunità. Fanno eccezione le comunità nordorientali, come quella di Gorizia che data dai tempi austro-ungheresi, e sono molto più vicine alla tradizione tedesca e austriaca.
Dal 1442, quando il Regno di Napoli cadde sotto il dominio spagnolo, un considerevole numero di ebrei sefarditi vennero a vivere nell'Italia meridionale. A seguito dell'espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 così come dalla Sicilia e dalla Sardegna nello stesso anno, dal Portogallo nel 1495 e dal Regno di Napoli nel 1533, molti si spostarono nell'Italia centrale e settentrionale. Un rinomato profugo fu Don Isaac Abrabanel.
Nel corso dei secoli successivi furono raggiunti da un flusso costante di conversos che abbandonavano la Spagna e il Portogallo. In Italia, correvano il rischio di incriminazione per "giudaizzazione", dato che per legge erano battezzati cristiani; per questo motivo in genere evitarono gli stati pontifici. I papi permisero qualche insediamento spagnolo-ebraico ad Ancona, poiché questo era il porto principale per il commercio con la Turchia, dove i loro legami con i sefarditi ottomani erano utili. Altri stati ritennero vantaggioso consentire ai conversos di stabilirsi e mescolarsi con le comunità ebraiche già esistenti e chiudere un occhio sul loro Stato religioso. Nella successiva generazione, comunque i figli dei conversos avrebbero potuto rientrare nell'Ebraismo senza problemi legali, poiché non erano mai stati battezzati.
La Repubblica Veneta aveva spesso rapporti tesi con il Papato; d'altra parte erano consapevoli dei vantaggi commerciali offerti dalla presenza di colti ebrei di lingua spagnola, in particolare per il commercio con la Turchia. In precedenza gli ebrei di Venezia erano stati tollerati con decreti di una certa durata di anni, periodicamente rinnovati. Nei primi anni del XVI secolo, queste modalità furono rese permanenti e un decreto separato fu concesso alla comunità "ponentina" (occidentale). Il prezzo pagato per questo riconoscimento fu il confinamento degli ebrei nella nuova istituzione del "Ghetto". Tuttavia per lungo tempo la Repubblica di Venezia fu considerata come la migliore località di insediamento degli ebrei, equivalente ai Paesi Bassi del XVII secolo o agli Stati Uniti nel XX secolo.
L'immigrazione sefardita fu inoltre incoraggiata dai principi d'Este, nei loro possedimenti a Reggio Emilia, Modena e Ferrara. Nel 1598 Ferrara venne ripresa dagli Stati Papalini, il che provocò un flusso migratorio verso l'esterno.
Nel 1593, Ferdinando I de' Medici, Granduca di Toscana, concesse agli ebrei portoghesi di vivere e commerciare a Pisa e Livorno (cfr. "Comunità ebraica di Livorno").
Nel complesso gli ebrei spagnoli e portoghesi rimasero separati dagli ebrei italiani autoctoni, anche se c'era una notevole influenza religiosa e intellettuale reciproca tra i gruppi.
La Scola Spagnola (sinagoga spagnola) di Venezia fu originariamente considerata come la "sinagoga madre" dalle comunità spagnole e portoghesi di tutto il mondo, poiché fu tra le prime ad essere fondate e il primo libro di preghiere fu pubblicato lì: le comunità posteriori, come Amsterdam, seguirono la sua guida in merito a questioni rituali. Col declino dell'importanza di Venezia a partire dal XVIII secolo, il ruolo di primo piano passò alla comunità ebraica di Livorno (per l'Italia ed il Mediterraneo) e ad Amsterdam (per i paesi occidentali). La sinagoga di Livorno fu distrutta durante la seconda guerra mondiale: un moderno edificio fu eretto nel 1958-1962.
Oltre agli ebrei spagnoli e portoghesi strettamente detti, l'Italia ha ospitato molti ebrei sefarditi dal Mediterraneo orientale. La Dalmazia e molte delle isole greche, dove c'erano grandi comunità ebraiche, sono state per molti secoli parte della Repubblica Veneta, e vi fu una comunità "levantina" a Venezia. Questa rimase separata dalla comunità "ponentina" (cioè la spagnola e portoghese) e legata alle proprie radici orientali, come dimostra il loro uso nei primi anni del XVIII secolo di un libro di inni classificato come maqam alla maniera ottomana. (Oggi entrambe le sinagoghe sono ancora in uso, ma le comunità si sono amalgamate). In seguito la comunità di Livorno agì come collegamento tra gli spagnoli e i portoghesi e gli ebrei sefarditi orientali e punto di riscontro tra le altre tradizioni e gruppi musicali. Molti ebrei italiani oggi hanno radici "levantine", per esempio da Corfù, e prima della seconda guerra mondiale l'Italia considerava l'esistenza delle comunità sefardite orientali come possibilità di espandere l'influenza italiana nel Mediterraneo.
Nel XVIII e XIX secolo, molti ebrei italiani (per lo più, ma non esclusivamente, dal gruppo spagnolo e portoghese) mantennero una presenza commerciale e residenziale sia in Italia che nei paesi dell'Impero Ottomano: anche coloro che si stabilirono definitivamente nell'Impero Ottomano, mantennero la loro nazionalità toscana o altra italiana, in modo da avere il beneficio delle "Capitolazioni dell'Impero ottomano". Così in Tunisia vi era una comunità di Juifs Portugais, o di L'Grana (livornesi), quest'ultima comunità che si manteneva separata dagli ebrei nativi tunisini (Tuansa) considerandosi superiore. Comunità più piccole dello stesso tipo esistevano anche in altri paesi, come la Siria, dove erano conosciuti come Señores Francos, sebbene in genere non fossero abbastanza numerosi per stabilire le proprie sinagoghe; per pregare si incontravano invece nelle reciproche dimore. Diversi paesi europei spesso nominavano ebrei di queste comunità come loro rappresentanti consolari nelle città ottomane.
Tra le due guerre mondiali, la Libia fu una colonia italiana e, come in altri paesi del Nordafrica, il potere coloniale trovò utili gli ebrei locali, essendo una élite istruita e ben introdotta. Dopo l'indipendenza libica e soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967, molti ebrei libici si trasferirono sia in Israele che in Italia, e oggi la maggior parte delle sinagoghe "sefardite" a Roma sono in realtà libiche. (Il Tempio Spagnolo, senza dubbio di origine spagnola e portoghese come implica il nome, ora si considera "italiano", in contrasto con queste comunità più recenti).
Scopo delle Comunità è quello di provvedere al soddisfacimento delle esigenze religiose, associative, sociali e culturali degli ebrei.
L’ebraismo è infatti non solo una religione ma anche una “cultura” che interessa ogni momento della vita. Le Comunità organizzano la collettività ebraica e sono un punto di riferimento non solo per gli ebrei che vivono sul posto ma per chiunque voglia stabilire contatti con loro. Molto spesso, infatti, ebrei di passaggio o trasferiti momentaneamente in Italia si rivolgono alla Comunità per avere informazioni sulla vita ebraica locale e prendervi parte. Da un punto di vista giuridico le Comunità hanno poteri di amministrazione e vigilanza sulle istituzioni ebraiche di assistenza, beneficenza, quelle culturali e provvedono alla tutela degli interessi locali degli ebrei. Le ventuno Comunità hanno competenza su circoscrizioni territoriali. Fanno parte di diritto della Comunità tutti gli ebrei che hanno residenza nella circoscrizione. L’iscrizione avviene con esplicita richiesta (e non è più obbligatoria, come secondo la legge del 1930).
È considerato ebreo, secondo il diritto ebraico, il figlio di madre ebrea, non convertito ad altra fede. Per cessare di appartenere alla Comunità occorre una rinuncia esplicita, che comporta la perdita del godimento di tutti i diritti e servizi che la Comunità offre. Organi della Comunità sono l’assemblea, il consiglio, la giunta, il presidente, il rabbino capo, la consulta (esiste solo in alcune Comunità), i revisori dei conti. Il consiglio è eletto da tutti gli iscritti che abbiano compiuto i diciotto anni e siano iscritti alla Comunità da almeno un anno. Esso è composto di un numero di consiglieri che varia da tre a trenta, in base al numero degli elettori. Sono eleggibili tutti gli elettori che abbiano compiuto i venti anni e siano “garanti della continuità ebraica”.
Il presidente, eletto dal consiglio, è capo della Comunità e la rappresenta.
La giunta, composta dal presidente e da un terzo dei consiglieri, amministra la Comunità. Il consiglio è l’organo principale che approva gli atti importanti, mentre alla giunta spettano le delibere preparatorie. Il funzionamento delle Comunità è assicurato con la riscossione di contributi a carico degli appartenenti in ragione del reddito. Essi sono esigibili con le forme e i privilegi che godono le imposte del Comune. La direzione spirituale della Comunità spetta al rabbino capo, che è amministrativamente un suo dipendente, assunto per chiamata o per concorso. Il rabbino capo interviene con voto consultivo alle sedute di consiglio e di giunta e ha piena autonomia per tutte le questioni religiose e di culto. Il rabbino, parallelamente al presidente, che è capo dell’amministrazione, è capo del culto e, in quanto tale, ha la funzione di maestro e di autorità con esclusiva competenza rispetto all’interpretazione della legge ebraica in materia rituale e all’esercizio del culto. In tali materie, di fronte agli organi comunitari, gli è garantita piena indipendenza. Egli può celebrare matrimoni tra ebrei, che durante la cerimonia nuziale devono dichiarare di uniformarsi a tutte le norme del codice civile italiano che regolano l’istituto del matrimonio. Il rabbino in questo caso è anche ufficiale di stato civile.
Una segreteria segue l’amministrazione generale della Comunità, che amministra i contributi annuali degli iscritti utilizzati per il funzionamento delle organizzazioni comunitarie (scuola, templi, casa di riposo e, in alcune Comunità, come a Roma, ospedale ebraico), per aiuti finanziari e assistenza anche domiciliare ad anziani (molte associazioni sono su base di volontariato) o a coloro che si rivolgono al servizio sociale per aiuto, per attività culturali e manifestazioni. La segreteria centrale fa anche da collegamento con il rabbinato, il consiglio della Comunità, le associazioni di carattere istituzionale e le associazioni culturali o di appoggio organizzate su base volontaria.
Il corso di laurea in Studi ebraici si propone come polo di diffusione della cultura ebraica mediante “corsi istituzionali” per gli iscritti alle comunità ebraiche e “corsi speciali” di durata breve aperti anche a un pubblico non ebraico, per il quale, mancando un livello adeguato di conoscenze di base, è previsto un “corso propedeutico”. Nei corsi istituzionali vengono insegnate storia, filosofia, lingua e letteratura ebraica, esegesi, letteratura rabbinica, letteratura cabbalistica e chassidica, istituzioni di diritto rabbinico, paleografia e storia del libro ebraico, scienze sociali. Nei corsi propedeutici si insegna lingua ebraica, esegesi, Bibbia e letteratura rabbinica. Si ottiene il titolo superando venti esami annuali o un numero proporzionale di corsi brevi e presentando una tesi. Sono anche previsti corsi speciali di perfezionamento su problematiche relative al rapporto tra ebraismo e il mondo esterno.
L’ebraismo in quanto religione e gli ebrei in quanto minoranza religiosa hanno diritto alla tutela da parte dello Stato italiano.
Il fondamento di questo diritto è nell’articolo 8 della Costituzione: “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Nonostante il dettato costituzionale, fino al 1987 i rapporti tra ebraismo e Stato italiano sono stati regolati dalla vecchia legge Falco del 1930, che non garantiva un’adeguata sistemazione giuridica al diritto degli ebrei. Diritto di organizzarsi “secondo i propri statuti” che fino a quel momento non era mai esistito neppure per le altre confessioni non cattoliche. I primi a firmare una propria intesa con lo Stato furono i valdesi (1984), seguiti dalle chiese avventiste (1987/88) e dalle assemblee di Dio (1987). Dopo molti anni di riflessione, congressi straordinari, studi e proposte, in particolare da parte della commissione giuridica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei) (formata dagli avvocati Guido Fubini, Vittorio Ottolenghi, Giorgio Sacerdoti e Dario Tedeschi), fu trovata una formulazione soddisfacente e l’Intesa fu firmata il 27 febbraio 1987 dal presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e dal presidente dell’Ucei, Tullia Zevi.
L’Intesa regola i principi generali e lascia allo Statuto (58 articoli) il compito di organizzare la vita interna delle Comunità e dell’Unione. Questa impostazione rappresenta una svolta radicale rispetto al passato. “Prima, gran parte delle norme si occupavano dell’organizzazione e del funzionamento delle Comunità” conferma Giorgio Sacerdoti. “Ora questa materia scompare dalla normativa e viene invece riservata all’autonomia statutaria”.
L’Intesa garantisce libertà e parità agli ebrei e alle loro organizzazioni rispetto agli altri cittadini, prevede forme di riconoscimento degli enti ebraici e delle loro attività, in particolare delle Comunità e dell’Unione come enti che devono assicurare in concreto libertà e autonomia alla confessione. Riconosce poi, nel modo più ampio, il diritto di professare la religione ebraica, inclusa la libertà di associazione, l’attività di insegnamento da parte dei rabbini, con tutela dalle manifestazioni di intolleranza e discriminazione religiosa.
L’entrata in vigore dell’Intesa ha abrogato di fatto tutte le leggi precedenti, quella del 1929 sui “culti ammessi” e quella del 1930 (legge Falco).
L’Intesa non si occupa dell’organizzazione interna delle Comunità e dell’Unione, che è lasciata allo Statuto approvato nel dicembre 1987 da un congresso straordinario dell’Unione. Questo regola la vita quotidiana e di relazione delle Comunità e dell’Unione.
Nell’Intesa (articoli 23 e 24) vengono previsti i controlli che lo Stato esercita sulle Comunità e l’Unione, quelli stessi che regolano la vita degli altri enti morali o di culto. La Comunità, l’Unione e gli enti ebraici esistenti o futuri come “enti ebraici civilmente riconosciuti” sono tenuti all’iscrizione nel registro delle persone giuridiche ed è loro garantita l’autonomia di gestione senza ingerenza da parte dello Stato. Per l’acquisto di beni immobili, per l’accettazione di donazioni ed eredità e per il conseguimento di legati si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche.
L’articolo 1 garantisce in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti. Le norme del codice penale, riguardanti il vilipendio della religione cattolica, si applicheranno perciò, fino a una loro eventuale abrogazione, anche alle ipotesi di vilipendio della religione ebraica. Nell’Intesa si precisa che le norme della legge 654 del 1975, con le quali si vogliono combattere tutte le forme di discriminazione razziale, si intendono riferite anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso. Agli ebrei è riconosciuto il diritto, da esercitare nel quadro della flessibilità dell’organizzazione del lavoro, di osservare il Sabato e le altre festività religiose (articoli 3 e 4). Sempre a proposito di prescrizioni religiose, vanno ricordati (articoli 5, 9, 15): il diritto degli ebrei che vivono in collettività (militari, ricoverati in ospedali, carcerati) di osservare, con l’assistenza della Comunità e senza oneri per le istituzioni in cui si trovano, le prescrizioni in materia alimentare; l’assistenza spirituale ai militari ebrei e il loro diritto di partecipare alle attività di culto; l’accesso dei ministri di culto negli ospedali, case di cura o di riposo e nelle carceri; la perpetuità delle sepolture; la conferma del diritto della macellazione rituale.
L’Intesa sancisce il diritto degli ebrei di non seguire gli insegnamenti religiosi impartiti nella scuola pubblica. Per tutelare effettivamente questo diritto, è stabilito che l’insegnamento deve aver luogo secondo orari e secondo modalità che non si risolvano in una discriminazione per chi compie tale scelta.
L’articolo 13 riconosce, con la trascrizione, effetti civili al matrimonio celebrato in Italia secondo il rito ebraico. Esso costituisce un radicale cambiamento rispetto alla situazione posta dalla legge sui “culti ammessi” del 1929 che non riconosceva valore al matrimonio religioso ebraico.
Con l’articolo 16 per la tutela del patrimonio artistico, storico e culturale dell’ebraismo italiano, è sancito il principio della collaborazione dello Stato con l’Unione e con le Comunità.
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