mercoledì 25 maggio 2016

I GENOCIDI

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L'11 dicembre 1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione 96 come "Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte". Il riferimento a "gruppi politici", un'aggiunta rispetto alla proposta di Lemkin, non era gradito all'Unione Sovietica, che fece pressioni per una formulazione di compromesso.

Il 9 dicembre 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce:

« Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
uccisione di membri del gruppo;
lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;
trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.»

Tale definizione, valida ancora oggi, non soddisfa alcuni storici soprattutto per la limitazione dei gruppi vittime dovuta al compromesso. Essa ha di fatto escluso i crimini imputati all'Unione Sovietica, fra cui l'Holodomor del 1932 e i successivi stermini su base economica o di classe sociale che hanno caratterizzato alcuni regimi comunisti successivi, come l'eliminazione dei proprietari terrieri cinesi del 1951 o quelli perpetrati dai Khmer Rossi in Cambogia dopo il 1975, ma anche lo sterminio degli stessi comunisti in Indonesia nel 1965. Inoltre, porta al paradosso di considerare i Tutsi come vittime del genocidio ruandese e non gli Hutu che furono parimenti sterminati perché si rifiutarono di collaborare con i carnefici.

Gli autori che considerano l'Holodomor e lo sterminio in Cambogia come genocidio si basano non su un'estensione della definizione, ma sulla definizione stessa, perché nell'Holodomor fu colpita in modo particolare la popolazione ucraina e in Cambogia furono colpite con maggiore intensità le etnie cinese e vietnamita e i musulmani Cham (la stragrande maggioranza delle vittime fu però cambogiana).

La definizione ufficiale ha indotto gli storici a studiare i crimini precedenti e successivi per identificarne la natura genocidiaria. Le analisi hanno portato a numerose proposte di modifica soprattutto a causa delle limitazioni della definizione ufficiale.

Pieter N. Drost (The crime of state), professore olandese di diritto, esperto di storiografia coloniale, sostiene la necessità di reintrodurre il criterio politico e considera genocidio "La distruzione fisica intenzionale degli esseri umani in ragione della loro appartenenza ad una qualunque collettività umana".
Irving Louis Horowitz (Taking lives. Genocide and state power) sottolinea il ruolo chiave della burocrazia e propone "La distruzione strutturale e sistematica di persone innocenti".
Helen Fein (Accounting for genocide) segue un approccio sociologico e suggerisce una classificazione del tipo di genocidio: genocidio di sviluppo se le vittime ostacolano un progetto economico; genocidio dispotico se le vittime sono oppositori reali o potenziali; genocidio ideologico se le vittime sono presentate come un nemico diabolico. La definizione proposta è "Un omicidio calcolato perpetrato su una parte o sulla totalità di un gruppo da un governo, un'élite, un gruppo o una massa rappresentativa".
Gérard Prunier, professore e ricercatore all'Università di Parigi, include i gruppi politici ma sottolinea che il genocidio, a differenza della "pulizia etnica", ha come obiettivo la distruzione del gruppo vittima per intero: propone "Tentativo coordinato di distruggere un gruppo predefinito razziale, religioso o politico nella sua totalità".
Frank Chalk e Kurt Jonassohn ritengono il genocidio "Una forma di massacro di massa unilaterale con cui uno stato o un'altra autorità ha intenzione di distruggere un gruppo, gruppo che è definito, così come i suoi membri, dall'aggressore". È questa una delle definizioni più recenti ed apprezzate.
Un esempio di aggiornamento concreto è presente nel Codice penale francese del 1994 che, in merito al crimine di genocidio (articolo 211-1), include anche "gruppi determinati in base a qualsiasi criterio arbitrario".
Secondo Bernard Bruneteau (Il secolo dei genocidi), il tribunale internazionale per processare i Khmer Rossi, istituito con notevole ritardo per la situazione dinamica e difficile, è stato un'occasione mancata per riformulare la definizione di genocidio in seno all'ONU includendo, in particolare, i gruppi politici.

Nell'ambito del dibattito, sono stati valutati altri termini, con significato più o meno ampio, come etnocidio (distruzione della cultura più che eliminazione fisica delle persone) o politicidio. Rudolph Joseph Rummel ha coniato il termine democidio, di accezione ampia, per indicare "l'omicidio seriale, sistematico e concentrato di una larga porzione della propria popolazione da parte di un governo", che esclude gli atti di guerra verso l'esterno e l'uccisione di soggetti combattenti.

La maggior parte degli storici, anche a causa della sua valenza giuridica, tende a non estendere l'uso del termine genocidio ma a cercarne una definizione corretta.

Nella cultura popolare, il termine è spesso usato in modo più esteso rispetto alla sua definizione giuridica o in modo improprio, per sottolineare la gravità di alcuni atti di sterminio oppure il numero elevato delle vittime. Tale uso, di solito, non tiene conto dell'intenzione dell'aggressore.

Alcuni autori ritengono genocidio un sinonimo di pulizia etnica e di etnocidio, mentre secondo altri si tratta di un fenomeno diverso, almeno per gradazione. Secondo Gérard Prunier, la pulizia etnica è lo sterminio di massa di una parte della popolazione per allontanare i sopravvissuti ed occupare il territorio, mentre nel genocidio "vero" non esistono vie di fuga: anche i gruppi religiosi e politici non possono salvarsi attraverso la conversione o la sottomissione.

Un fattore considerato importante è l'intenzione genocida, il desiderio di distruggere la popolazione vittima in quanto tale (spesso assieme alla sua memoria culturale) e non solo quello di assicurarsi il controllo di territori o risorse economiche eliminando gli oppositori reali o potenziali. Nel genocidio, il massacro è un fine e non un mezzo. È facile constatare tale intenzione se è esplicita e sistematica e accompagnata da prove documentarie prodotte dall'aggressore, mentre è difficile se è implicita e tendenziale.

Il criterio quantitativo (la distruzione in tutto o in parte) pone problemi nello stabilire eventuali soglie "numeriche" assolute o relative e rischia di viziare gli aspetti morali e più delicati. Benjamin A. Valentino fa riferimento preciso a soglie numeriche e definisce omicidio di massa "L'intenzionale uccisione di almeno 50.000 non combattenti nell'arco di 5 anni".

Molti distinguono fra un "crimine motivato" politico e un "crimine immotivato" razziale, quindi fra vittime uccise "per quello che fanno" e "per quello che sono". Tale distinzione tende però a scomparire nella logica genocidiaria, in cui il nemico viene demonizzato e comunque aggredito per quello che è. Il gruppo vittima è identificabile a priori e con certezza su base razziale, ma non su base politica, sociale o economica, in quanto gli stessi criteri di identificazione variano nel corso degli eventi (si consideri ad esempio la difficoltà di definire i Kulaki). Tale difficoltà non riduce l'intenzione dell'aggressore che, una volta identificate le singole vittime "per quello che fanno", ne decreta l'eliminazione, anche fisica, "per quello che sono", stigmatizzandole come "altro da sé" su base ideologica (come sottolinea la citazione di Bernard Bruneteau). Importante è dunque la definizione che l'aggressore stesso fa del gruppo vittima, aspetto che sottende alla menzionata definizione di Chalk e Jonasshon. Tale definizione ha il pregio di non escludere a priori nessun gruppo umano.

Se il dibattito in rapporto ad avvenimenti remoti assume soprattutto un valore accademico, quando riguarda eventi recenti (per i quali è possibile perseguire i colpevoli) o addirittura contemporanei, si riveste di aspetti molto drammatici fino a condizionare lo stesso evolversi del presunto o reale genocidio. Il genocidio ruandese è stato riconosciuto come tale tardivamente (si trattò in realtà di un ritardo di appena 2 mesi, ma che fu sufficiente all'attuazione del genocidio stesso), a causa dell'indugiare dell'ONU e della diplomazia statunitense, e fu fermato solo dall'intervento di milizie locali quando metà delle vittime predestinate erano già state uccise. Il Conflitto del Darfur, attualmente in corso, è stato definito dal Segretario di stato americano Colin Powell come genocidio nel dicembre del 2004, ma ad oggi non è ancora stato riconosciuto come tale dall'ONU. Nessuna forza di pace è stata dispiegata in Darfur ed alcuni movimenti di cittadini lamentano in tutto il mondo la scarsità di attenzione dedicata al conflitto, sia a livello diplomatico che mediatico

Nei territori interessati dalla colonizzazione, numerosi popoli indigeni hanno subito una forte diminuzione numerica e alcuni sono quasi scomparsi o scomparsi del tutto. Nel complesso, diversi fattori agirono sinergicamente: azioni di guerra bilaterali o unilaterali, lavoro forzato e condizioni di sfruttamento, carestie naturali o provocate, epidemie causate da nuovi agenti patogeni introdotti dai coloni e, più genericamente, cambiamenti socio-economici radicali prodotti dal violento confronto fra i dominatori occidentali e i popoli colonizzati.

Il dibattito è spesso ancora aperto sia per quanto riguarda il numero di vittime che per l'attribuzione di colpe e responsabilità. Se alcuni autori parlano di "genocidi coloniali", ponendo l'accento sugli atti di sterminio deliberato, altri ritengono che le principali cause siano non intenzionali, per esempio le epidemie. Anche le grandi carestie del periodo 1870-1890, che fecero da 30 a 50 milioni di morti, sono state attribuite ad una concomitanza di cause naturali e profondi cambiamenti economici dovuti all'imperialismo e allo sfruttamento capitalista. È stato fatto notare che, nell'ambito della distinzione fra il concetto di guerra (bilaterale - si riconoscono due entità combattenti) e quello di genocidio (unilaterale - si distinguono per loro natura un aggressore e una vittima), le guerre coloniali sono fortemente sbilanciate a favore degli aggressori, soprattutto per il numero di vittime (il 90% sono indigeni), a causa della notevole disparità tecnologica. Esempi sono le guerre di conquista a Giava (dal 1825 al 1830 gli olandesi fanno 200.000 vittime), in Mozambico (i portoghesi uccidono 100.000 persone) o in Africa Orientale (i tedeschi fanno 145.000 morti).
Il 90% dei Tahitiani, il 70% dei Canachi e i due terzi dei Maori è scomparso nel periodo coloniale, mentre i Tasmaniani si sono estinti completamente.



Durante la colonizzazione europea delle Americhe i popoli nativi americani, che contavano all'origine circa più di 80 milioni di individui, vennero ridotti del 90%, anche se la maggioranza delle morti sono dovute alle malattie importate dagli europei nel caso soprattutto del Nord America ci furono numerosi casi di eliminazione sistematica. Le varie etnie, genericamente denominate indiani d'America, Pellerossa, Amerindi, Amerindiani, Prime Nazioni, Aborigeni americani, Indios, popolanti il sud e nord del continente, vennero soppiantate quasi ovunque dagli europei, e dai discendenti delle popolazioni forzatamente prelevate dall'Africa tra il 1500 e i primi anni del 1900.
Negli anni settanta del 1800 il governo argentino, principalmente per mano del generale Julio Argentino Roca, intraprese la cosiddetta conquista del deserto per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene. Che tale campagna possa essere considerata un genocidio, è recentemente materia di dibattito.

Nel Congo la politica del re belga Leopoldo II, avrebbe provocato la morte di 10 milioni di persone (metà della popolazione) attraverso la militarizzazione del lavoro forzato (con donne e bambini presi in ostaggio) e un duro sistema di quote di produzione e crudeli punizioni (amputazione delle mani).
In Costa d'avorio, tra il 1900 e il 1911, la popolazione si è ridotta da 1,5 milioni a 160.000.
In Sudan sotto il dominio inglese (1882 - 1903) la popolazione si è ridotta da 9 a 3 milioni.
Fra il 1904 e il 1906 i tedeschi sono stati responsabili, nella regione dell'attuale Namibia, di uno sterminio che è oggi considerato da molti come un vero e proprio genocidio: dal 50 all'80% degli Herero e il 50% dei Nama sono stati uccisi o fatti morire, per un totale che varia da 24.000 a 75.000 vittime.

Con riferimento alla questione dell'intenzione genocida, il comportamento dei colonizzatori è stato influenzato da forme di razzismo diffuso, giustificato sia moralmente che scientificamente dalla dottrina del darwinismo sociale di Herbert Spencer, dal famoso libro La lotta delle razze di Ludwig Gumplowicz, dalle teorie eugenetiche di Francis Galton e dalla Gerarchia delle razze umane di Ernst Haeckel. Tali dottrine hanno alimentato l'idea di una missione colonizzatrice dell'"uomo bianco", destinato dalle leggi naturali a sottomettere e sostituire le "razze inferiori" e, si esprimeranno in modo estremo nell'ideologia nazista (interi brani di La lotta delle razze sono presenti nel Mein Kampf di Adolf Hitler).

Il XX secolo è stato definito "il secolo dei genocidi" o "il secolo dei totalitarismi" ed è in genere considerato come un periodo in cui la violenza, lo sterminio di massa e la guerra raggiungono livelli senza precedenti. Lo stesso termine genocidio è stato pensato da Lemkin per descrivere la nuova realtà dell'Olocausto.

Il secolo si apre all'insegna dell'etnocentrismo nazionalista. Ormai tutti, dai nazionalisti ai socialisti, pensano in termini di "nazione", "etnia", "diritto di autodeterminazione" dei popoli. Con la Prima guerra mondiale (1914-1918) l'Europa viene riorganizzata su basi etniche, sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali.

Fu poi con la Conferenza di pace di Parigi del 1919, successiva alla guerra mondiale, che il principio di avere stati nazionali etnicamente omogenei, tanto caro al presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson (autore dei famosi Quattordici punti), prese il sopravvento, aprendo - secondo lo storico britannico di origini ebraiche Eric Hobsbawm - la via alle pulizie e ai genocidi etnici del XX secolo.

Il genocidio degli Armeni del 1915 è forse il primo e sicuramente più famoso genocidio etnico del Novecento. Il genocidio dei Cristiani di Rito Assiro-Caldeo-Siriaco, avvenuto nello stesso periodo, assieme a quello contro i greci rimasero in ombra. L'Impero Ottomano, tradizionalmente abituato ad azioni di dura repressione, raggiunge così livelli inediti di estremismo.

Le guerre mondiali sono espressione di un nuovo tipo di "guerra totale" in cui "tutto è permesso" e in cui il maggior numero di vittime si conta fra i civili, che subiscono massicci bombardamenti e sono considerati come parte integrante del "nemico" da distruggere.

I grandi sistemi totalitari (il Terzo Reich e i regimi comunisti) concepiscono il nemico come un'entità demonizzata e in quanto tale destinata all'eliminazione da leggi naturali o storiche, che fanno da sfondo ad un'ideologia totalitaria basata su distinzioni razziali, economiche o sociali:

L'Olocausto è riconosciuto come genocidio all'unanimità e da alcuni come una forma estrema di genocidio o addirittura come un fenomeno unico nella storia (soprattutto perché tutti gli elementi che caratterizzano il genocidio sono presenti contemporaneamente e in forma estrema).
Nel regime sovietico si possono riconoscere "comportamenti genocidiari" già ai tempi di Lenin; l'Holodomor è considerato da molti come un genocidio vero e proprio; si possono individuare parallelismi fra l'uso che Hitler e Stalin fanno dei concetti di "razza" e "classe", "razza ariana" e "popolo", "sub-umani" (o "Ebrei") e "nemici del popolo".
Cina: Mao Tse-tung. Le stime del numero di vittime totali del periodo 1949-1976 sono molto discordanti fra loro e variano da 20 a 80 milioni: comprendono da 2 a 5 milioni di contadini durante il terrore della riforma agraria nel 1951-1952, da 20 a 40 milioni per la carestia del 1959, alcuni milioni per i laogai e da 1 a 3 milioni per la Rivoluzione Culturale.

L'Olocausto è certamente il genocidio più noto, fu metodicamente condotto dal Regime Nazista tedesco in buona parte dell'Europa prima e durante la seconda guerra mondiale, e portò all'annientamento di 6 milioni di ebrei (oltre la metà degli ebrei in Europa), colpendo anche gruppi etnici Rom e Sinti (i cosiddetti zingari), comunisti, omosessuali, prigionieri di guerra, malati di mente, Testimoni di Geova, Russi, Polacchi e altri Slavi, per un totale di vittime stimabile tra 13 e 20 milioni. Le forze armate della Germania nazista compirono sistematicamente massacri di civili in Polonia ed in Russia volti alla eliminazione delle classi intellettuali degli slavi e alla riduzione del loro numero complessivo nei territori orientali che dovevano divenire terreno di colonizzazione germanica. La cifra delle vittime solo nei territori occupati in Unione Sovietica ammonta a circa 27 milioni. In Italia, i nazisti, appoggiati dalle milizie fasciste italiane, deportarono e uccisero circa 7.000 ebrei italiani.
Secondo genocidio armeno - negli anni 1915-1916, il governo turco, guidato dai Giovani Turchi, condusse deportazioni ed eliminazioni sistematiche della minoranza armena. Il numero di morti è molto incerto e valutato da 200.000 a oltre 2 milioni; la cifra più accettata è di 1.500.000. È possibile identificare una prima fase del genocidio nei massacri hamidiani, che negli anni 1896-1897 fecero da 80.000 a 300.000 vittime.

Unione Sovietica - durante il regime bolscevico e lo stalinismo, furono compiuti gravi massacri.
Holodomor - nel 1932, il popolo ucraino fu sterminato per carestia indotta; il numero di vittime è molto incerto e varia da 1,5 a 10 milioni. Diverse parti (fra cui l'Ucraina, l'Italia e gli USA) riconoscono l'Holodomor come genocidio a causa dell'aggressione specifica del popolo ucraino volta a spezzarne le aspirazioni indipendentiste.
I Kulaki furono deportati a milioni in Siberia e nei gulag e si stima che circa 600.000 (un terzo) morì o fu ucciso. Nonostante esistano diversi elementi a favore (eliminazione dei Kulak in quanto tali, azione unilaterale e pianificata burocraticamente), lo sterminio dei kulaki non può essere definito genocidio a causa dell'incertezza e della variabilità con cui le vittime venivano classificate come Kulaki e a causa del fatto che l'eliminazione, non era considerata un fine ma un mezzo. Per motivi analoghi (non un fine ma un mezzo), anche la deportazione di milioni di persone appartenenti a diversi gruppi etnici (soprattutto ai confini dell'URSS), che ha prodotto centinaia di migliaia di vittime, non può essere definita genocidio. Analogamente, le "purghe" del partito e le deportazioni nei gulag degli anni trenta, che videro la morte di centinaia di migliaia di prigionieri politici, non possono essere definite genocidio in quanto colpirono un gruppo politico.
Massacro di Katyn - il 22 marzo 2005, il Camera dei deputati della Polonia (parlamento) polacco ha approvato all'unanimità un atto con il quale si richiede alla Russia di classificare il massacro di Katyn come genocidio. Il massacro, infatti, era volto a indebolire la Polonia, in quanto venne eliminata una parte importante dell'intellighentsja polacca, poiché il sistema di coscrizione prevedeva che ogni laureato divenisse un ufficiale della riserva.
Una pulizia etnica era stata tentata anche dalle autorità militari italiane durante la seconda guerra mondiale ai danni degli sloveni nelle zone conquistate in Jugoslavia dall'esercito italiano. L'attuazione di tale progetto portò alla deportazione di circa 35.000 civili sloveni, di cui circa 3.500 persero la vita nei campi di concentramento allestiti a tale scopo dall'esercito italiano. Le istruzioni di attuazione della bonifica etnica venivano impartite, su istruzioni di Benito Mussolini, direttamente dal comandante dell'esercito italiano nella provincia di Lubiana generale Mario Roatta e dal comandante dell'XI Corpo d'Armata, generale Mario Robotti.
Il massacro delle foibe ad opera dei partigiani di Tito contro gli italiani in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia nel 1943 e nel 1945 viene da taluni considerato genocidio in quanto il fine era quello di far scomparire la componente italiana da queste due regioni. Il numero delle vittime varia da diecimila a ventimila.
Pulizia etnica ai danni dei serbi durante la seconda guerra mondiale - Durante la seconda guerra mondiale il regime fascista croato organizzò il massacro sistematico delle minoranze etniche (soprattutto serbi, ebrei e zingari) provocando circa mezzo milione di vittime.
Romania - Nicolae Ceauescu e la moglie furono condannati a morte il 25 dicembre 1989, dopo tre giorni di prigionia, da un "tribunale volante" militare con l'accusa principale di genocidio per la strage di Timioara e con l'aggravante di aver condotto la popolazione rumena alla povertà. Successive ricerche giornalistiche mostrarono come il numero dei morti riportato inizialmente dai media (decine di migliaia in Romania di cui diverse migliaia solo a Timisoara), oltre che alcune immagini riprese dalla televisione, fossero in realtà dei falsi, costringendo anche alcuni quotidiani (tra cui Liberation) a scusarsi con i lettori per l'acriticità con cui erano state riportate le notizie. Al termine della rivoluzione, secondo i dati del ministero della Salute rumeno, i morti saranno 1104 (di cui solo 93 a Timisoara, 20 dei quali avvenuti dopo il giorno della cattura di Ceauescu) e 3321 i feriti. Complessivamente la maggior parte delle vittime si avranno comunque a Bucarest con 564 morti (di cui 515 dopo il 22 dicembre, data in cui Ceauescu fu catturato).
Bosnia - la guerra in Jugoslavia, successiva alla proclamazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia, provoca 250.000 vittime, due terzi delle quali civili. Nonostante le atrocità caratterizzino tutte le parti belligeanti, solo i dirigenti comunisti serbi si rendono aggressori e colpevoli di pulizia etnica ed alcuni di loro: Ratko Mladic, Radovan Karadzic, Radislav Krstic, Slobodan Milosevic e Momcilo Krajisnik) vengono incriminati di genocidio nei confronti dei musulmani bosniaci. Il 18 dicembre 1992, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite parla di una "politica esecrabile di pulizia etnica che è una forma di genocidio".
Massacro di Srebrenica - nel corso della guerra in Bosnia (1992-1995), la città di Srebrenica venne occupata l'11 luglio 1995 e le truppe serbo-bosniache deportarono e massacrarono la popolazione. Morirono circa 8.000 uomini e ragazzi bosniaci. Il massacro è stato definito come genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia il 19 aprile 2004.
Georgiani in Abkhazia - Alcuni usano il termine genocidio per descrivere i massacri e le espulsioni forzate di migliaia di abitanti di etnia georgiana dell'Abkhazia durante la guerra abkhazo-georgiana (1991-1993). Tra i 10.000 e i 30.000 georgiani furono uccisi dai separatisti abkhazi, dai mercenari stranieri e dalle forze della Federazione russa. Tra le vittime si ebbero anche alcuni greci, estoni, russi e abkhazi moderati.
Kosovo - Negli anni compresi tra 1996 e 1999, gli atti di violenza (inclusi massacri, rapimenti, stupri altro) sono considerati un genocidio, che nell'anno dell'intervento internazionale causò la deportazione forzata di oltre 800.000 civili kosovari di etnia albanese. Il numero di vittime del genocidio appoggiato da Milosevic si stima intorno alle 10.000 persone.

Zanzibar - nel gennaio 1964, furono sterminati da 5.000 a 12.000 arabi (su un totale di 22.000), con modalità che assunsero i tratti del genocidio.
Nigeria - nel 1966, il governo centrale nigeriano reagì duramente ai tentativi secessionisti del popolo Igbo, che aveva proclamato la nascita della Repubblica del Biafra. La guerra civile (e la conseguente carestia) ha causato migliaia di morti ed è stata considerata da diverse parti, fra cui i leader del Biafra, come un genocidio.
Burundi - nel 1972, nel teatro dei conflitti etnici della regione intorno al Ruanda, 150.000 Hutu furono massacrati dal governo Tutsi.
Etiopia - tra il 1977 e il 1991, il governo di Mengistu Haile Mariam uccise da 500.000 a 2 milioni di oppositori politici.
Ruanda - il peggiore genocidio africano avvenne nel 1994 in Ruanda da parte di milizie e bande Hutu contro la minoranza Tutsi e tutti coloro che erano sospettati di favorirli. Le vittime, circa un milione, furono spesso uccise barbaramente con armi rudimentali. Nel 1962, 100.000 Tutsi erano già stati massacrati per gli stessi motivi che avrebbero portato al genocidio del 1994, inoltre, massacri occasionali si verificarono per tutta la seconda metà del Novecento, anche dopo il 1994. La storia spesso si dimentica di citare le vittime del genocidio perpetuato dalle armate Tutsi nella riconquista del Rwanda verso la popolazione Hutu nelle fasi finali della guerra del 1994. Tuttora la popolazione Hutu viene vessata tramite Gacaca, tribunale popolare allestito per giudicare i crimini della guerra del 1994, in cui l'accusato deve smentire le accuse mosse portando prova di innocenza, mentre l'accusa non necessita di provare la colpevolezza dell'accusato.
La regione del Darfur (nel Sudan occidentale) dal 2003 è teatro di un conflitto che gli Stati Uniti e alcuni media e studiosi considerano come genocidio. I Janjawid, gruppo di miliziani appoggiati dal governo, uccidono sistematicamente i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit.  

Indonesia - nel 1965 e nel 1966, il regime di Suharto attuò una repressione anti-comunista per annientare il partito comunista, in cui furono sterminate da 500.000 a un milione di persone.
Bangladesh - nel 1971, il regime di Yahya Khan condusse una sanguinosa operazione militare contro il Pakistan dell'est, in cui furono uccisi da alcune centinaia di migliaia a 3 milioni di civili.
Cambogia - tra il 1975 ed il 1979 i Khmer rossi, sostenuti ed armati dalla Cina, massacrarono o fecero morire nei cosiddetti campi di rieducazione o Killing Fields (campi della morte) da 1 a 2,2 milioni di persone (su una popolazione totale di 7,5). Il termine genocidio fu usato per la prima volta dal filosovietico Vietnam, il cui esercito nel 1979 occupò la Cambogia, sconfiggendo i Khmer Rossi. Solo nel dicembre 1997, l'ONU parlò di "atti di genocidio". Fra le vittime, furono colpiti soprattutto cattolici, musulmani Cham, cinesi e vietnamiti, perseguitati in quanto tali o in quanto abitanti delle città o commercianti. La popolazione fu classificata in categorie come "popolo nuovo" (da rieducare), "sotto-popolo" e "traditori" (da eliminare).
Timor Est - nel 1975 l'occupazione indonesiana provocò la morte di 60.000 - 200.000 persone.
In Iraq tra il 1973 e il 2003 il regime di Saddam Hussein condusse uccisioni di massa contro la popolazione dei Curdi.

Guatemala - a partire dal 1960, il regime militare di Carlos Castillo Armas causò trenta anni di guerra civile e la morte di 200.000 civili. La Commissione per la verità, sponsorizzata dall'ONU, ha concluso che in certe aree (come Baja Verapaz) il governo avviò intenzionalmente una politica di genocidio contro determinati gruppi etnici, soprattutto Maya.

Tra l'aprile e il settembre di 28 anni fa, il regime iracheno condusse la vasta campagna anti-curda dell'al Anfal: otto operazione militari, in sei aree geografiche del Nord del Paese, sotto il comando di Ali Hassan al Majid «il chimico», il cugino di Saddam Hussein noto per il ricorso alle armi di distruzione di massa.
Bersaglio dichiarato erano i maschi tra i 12 e gli 80 anni, considerati parte della Resistenza, ma in realtà le armate irachene ricevettero l'ordine di distruggere tutti e villaggi (circa 1.200). Dei 180 mila curdi mancanti all'appello non sono state trovate tracce: i loro resti potrebbero essere sepolti nelle fosse comuni con migliaia di corpi, rinvenute nel deserto iracheno.

Holodomor, Ucraina. Con holodomor (dal russo moryty holodom, letteralmente ‘infliggere la morte per fame’) si indica una carestia ideata e realizzata dal regime comunista di Stalin nei primi anni Trenta per indebolire l’Ucraina e la sua tradizione di aziende agricole private. Dapprima si assistette ad una collettivizzazione forzata delle strutture agricole, alla quale si opposero i ricchi contadini e proprietari terrieri (i kulaki) del ‘granaio d’Europa’ che furono con questa scusa deportati in Siberia, dove morirono a migliaia. La collettivizzazione provocò una prima carestia e le confische alimentari dove vennero una prassi istituzionalizzata, ma fu alla fine del 1932 che la situazione precipitò definitivamente: le autorità iniziarono a requisire non sono il grano ma qualunque genere alimentare e attrezzo agricolo nelle campagne,  distrussero i forni da cucina, vietarono il possesso di cibo nelle zone rurali e qualunque tipo di commercio alimentare e arrivarono ad stabilire la pena di morte per chi rubasse qualcosa da mangiare. Dopo questi provvedimenti la gente cominciò a morire in massa: dapprima i bambini, poi gli uomini e gli anziani ed infine le donne. In tutto morirono di fame tra i sette ed i dieci milioni di persone: un numero che si aggiunge ai morti nei campi di lavoro in Siberia istituiti dal regime staliniano, i cosiddetti ‘gulag’, dove secondo le stime persero la vita all’incirca sei milioni di persone. L’holodomor è stato riconosciuto come crimine contro l’umanità dal Parlamento Europeo solo nel 2008.

Bosnia, Srebrenica. Il massacro di Srebrenica si inserisce nel quadro della guerra in Bosnia (1992-1995), che causò in totale più di 250.000 morti: i dirigenti comunisti serbi nel corso del conflitto si rendono colpevoli di pulizia etnica nei confronti dei musulmani bosniaci. Il massacro di Srebrenica è considerato uno degli stermini di massa più sanguinosi avvenuti in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: nel luglio 1995 le truppe serbo-bosniache, guidate da Ratko Mladic, condussero un massacro sistematico dei musulmani bosniaci della zona protetta di Srebrenica che si trovava sotto la tutela delle nazioni Unite. Le stime ufficiali parlano di più di ottomila morti, anche se le associazioni per gli scomparsi e le famiglie delle vittime ritengano più plausibile una cifra che superi i diecimila. Una volta entrate nella città, le truppe serbo-bosniache separarono gli uomini dai 14 ai 65 anni dal resto degli abitanti per essere ammazzati. Delle migliaia di salme esumate dalle fosse comuni, solo poche più di sei mila sono state identificate: alle altre si sta ancora cercando di dare un volto.  la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja nel 2007 ha riconosciuto il fatto come genocidio poiché ‘l’azione commessa a Srebrenica venne condotta con l’intento di distruggere in parte la comunità bosniaco musulmana della Bosnia-Erzegovina e di conseguenza si trattò di atti di genocidio commesse dai serbo bosniaci’.


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lunedì 23 maggio 2016

DELEBIO

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Delebio è un comune della provincia di Sondrio.

Il territorio di Delebio vide svolgersi la cruenta battaglia di Delebio che nel 1432 vede i Visconti di Milano contrapposti alla Repubblica di Venezia nel contendersi il dominio della Valtellina.

Pur essendo un piccolo borgo della bassa Valtellina, il paese custodisce importanti opere d'arte, tra cui la chiesa barocca di Badia. Otto tra chiese e oratori, molte edicole e cappellette, diversi affreschi sacri rappresentano il ricco patrimonio artistico religioso di Delebio costituitosi tra il XV ed il XX secolo. I suoi beni culturali si completano con Palazzo Peregalli e con i vari esempi di architettura rurale, che ancor oggi offrono uno spaccato caratteristico con i "Culundei", con i torchi e mulini ad acqua, alcuni dei quali ancora funzionanti. Visitare Delebio significa riscoprire la realtà contadina, artigianale ed industriale che ha caratterizzato nel percorso lungo i secoli l'evolversi di questo dinamico paese della Valtellina.

La chiesa parrocchiale di S. Carpoforo fu iniziata nel 1419, si presenta ad una sola navata con tre cappelle e fu terminata dal maestro Gaspare Aprile di Carona. Al suo interno, di notevole pregio, si possono ammirare due opere di Giuseppe Petrini: a sinistra dell'organo, in alto, la Vergine del Rosario e a destra Pio V che indice la crociata contro i Turchi (sec. XVIII). La parrocchiale conserva anche lavori di: G. Gavazzeni, Fumagalli, e P. Bianchi. Altri due lavori del Petrini: Vergine col Bambino e Vergine col Bambino e una devota si trovano nell'attiguo oratorio di S. Giuseppe (1600).

I recenti restauri hanno ridato tutta la luce settecentesca al grande vano dell'aula e del presbiterio quadrangolare rivelando eleganti decorazioni ad opera di Pietro Bianchi detto il Bustino, già attivo in Bassa Valtellina nell'Insigne Collegiata di San Giovanni Battista, nella chiesa di San Pietro e nella ex chiesa domenicana di sant'Antonio di Morbegno. Il Bianchi è riconosciuto come uno degli antesignani del gusto rocaille in Valtellina.

Una chiesa dedicata a San Carpoforo dovette esistere probabilmente già nel XII secolo (Visita Archinti 1614-1615, note). Essa dipendeva in origine dalla chiesa plebana arcipresbiterale e collegiata di Santo Stefano protomartire di Olonio (Visita Ninguarda 1589-1593, note). Il 4 febbraio 1425 la comunità di Delebio avanzò nei confronti della plebana Olonio la richiesta per avere nella propria chiesa di San Carpoforo un rettore o beneficiale, come risulta dall'atto rogato dal notaio Giacomo Castellargegno. L'1 aprile 1428 venne effettuata la nomina del primo beneficiale. Il 3 dicembre 1429, con atto rogato da Giacomo Castellargegno, vennero stabilite le rendite perché la chiesa di San Carpoforo potesse essere eretta in parrocchia. Nel 1437 risulterebbe che la nuova parrocchia era stata costituita, con territorio smembrato da Cosio (Fattarelli 1986). Si dovrebbe ipotizzare un'erezione della parrocchia prima del 1445, data in cui la chiesa di San Carpoforo compare con le qualifiche di "parochialis et curata" (Collationes Benefitiorum, vol. I, n. 23a; Xeres 1999).
Come "parochialis et curata" compare anche negli atti della visita pastorale del vescovo Gerardo Landriani del 1445. La prebenda curata risultava di nomina comunitaria ("per homines de Adalebio") (Visita Landriani 1444-1445).
San Carpoforo era stata dotata dai vicini di Delebio, di Andalo Valtellino, di Rogolo e delle contrade annesse nel 1429 (Quadrio 1775-1776), ma probabilmente la separazione era stata contestata dal rettore di San Martino a Cosio, chiesa dalla quale le comunità dipendevano, come risulta da una sentenza arbitramentale tra il parroco di San Martino di Cosio e il parroco di San Carpoforo di Delebio che il 7 giugno 1452 definì le relazioni tra le due chiese e i segni dell'antica preminenza di San Martino. Una nuova vertenza intentata nel 1476 dall'arciprete di Sorico, riguardò invece la dipendenza del rettore di San Carpoforo dalla pievana e vide la difesa dei diritti patronali da parte dei vicini di Delebio (Visita Landriani 1444-1445, note).
In data 7 giugno 1452 si ha una sentenza arbitramentale tra il parroco di San Martino di Cosio e il parroco di San Carpoforo di Delebio (Index alphabeticus).
Nel 1589, durante la visita pastorale del vescovo Feliciano Ninguarda, la "ecclesia parochialis" di San Carpoforo di Delebio faceva capo a una comunità di 260 famiglie cattoliche. In Delebio sorgeva anche una chiesa dedicata a Santa Domenica, eretta dai monaci cisterciensi dell'Abbazia dell'Acquafredda di Lenno (Visita Ninguarda 1589-1593). Con atti rogati da Luigi Sala, notaio apostolico della curia vescovile di Como, datati 29 dicembre 1591 e 6 marzo 1595, la chiesa di Santa Domenica di Delebio venne unita in perpetuo alla chiesa parrocchiale di San Carpoforo (Fattarelli 1986).
Alla metà del XVII secolo la parrocchia di San Carpoforo di Delebio era inserita in un vicariato esteso al territorio che costituiva il terziere inferiore della Valtellina, comprendente la squadra di Morbegno e la squadra di Traona, la prima delle quali coincideva con una “congregatio” del clero, la seconda con due “congregationes”, con centro rispettivamente a Traona e Ardenno; Delebio rientrava nella "congregatio prima" (Ecclesiae collegiatae 1651).
Il 17 agosto 1769 il vescovo di Como Agostino Neuroni, dando esecuzione alle lettere apostoliche di Clemente XIV dell'11 luglio 1769, eresse la chiesa di San Carpoforo di Delebio in collegiata ed elevò in essa una dignità prepositurale e nove canonicati (Visita Ninguarda 1589-1593, note).
La chiesa di San Carpoforo di Delebio è attestata come prepositurale con sette canonici alla fine del XVIII secolo "in vicariatu Tertierii inferioris Vallistellinae, Squadrae Morbinii" (Ecclesiae collegiatae 1794). Nel 1811, dopo la soppressione del capitolo, rimasero il preposito con quattro coadiutorie, ridotte a due a causa della tenuità dei redditi (Visita Ninguarda 1589-1593, note).
Nel 1898, anno della visita pastorale del vescovo Teodoro Valfré di Bonzo, la rendita netta del beneficio parrocchiale era di lire 885. Entro i confini della parrocchia di Delebio, di nomina vescovile, esistevano le chiese della Santissima Trinità al cimitero, di Santa Domenica, della Santa Croce nella frazione Tavani, e gli oratori di San Michele, attiguo alla chiesa parrocchiale, quello detto all'abbazia dedicato a San Girolamo, San Placido e al Santissimo Nome di Maria, di Sant'Antonio abate, detto oratorio Bassi, di San Rocco, della Beata Vergine della Neve di Canargo. Nella chiesa parrocchiale di San Carpoforo si avevano le confraternite del Santissimo Sacramento, solo maschile, e del Santo Rosario, solo femminile. Il numero dei parrocchiani era 2050 (Visita Valfré di Bonzo, Vicariato di Morbegno).
Alla fine del XIX secolo il clero di San Carpoforo risultava composto dal parroco e da un coadiutore (Visita Ninguarda 1589-1593, note).
Nel corso del XX secolo la parrocchia di Delebio è sempre stata compresa nel vicariato foraneo di Morbegno fino al decreto 1 gennaio 1938 del vescovo Alessandro Macchi, quando divenne sede di un vicariato comprendente le parrocchie di Andalo Valtellino, Delebio, Piantedo e Rogolo (decreto 1 gennaio 1938 III/b) (Bollettino Ecclesiastico Ufficiale Diocesi di Como 1938). Con decreto 29 gennaio 1968, mediante il quale furono istituite le zone pastorali nella diocesi di Como fu assegnata alla zona pastorale XII della Bassa Valtellina e al vicariato di Morbegno (decreto 29 gennaio 1968) (Bollettino Ecclesiastico Ufficiale Diocesi di Como 1968). Con il decreto 10 aprile 1984 fu inclusa nel vicariato A della Bassa Valtellina (decreto 10 aprile 1984) (Bollettino Ecclesiastico Ufficiale Diocesi di Como 1984).

L'oratorio di S. Girolamo, era cappella privata dei nobili Peregalli, risale alla prima metà del sec. XVIII. Si presume fosse stato fatto costruire su progetto dell'architetto Pietro Solari di Bolvedro. Al suo interno si trovano stuccature di vari autori tra cui G. Coduri detto Vignoli; le tele sono attribuite a G.P. Ligari e a G. Petrini. Nella piazzetta adiacente si trova Palazzo Peregalli (sec. XVIII) ricavato dalla casa conventuale dei monaci dell'Acquafredda. Vi hanno abbellito le sue sale artisti come P. Ligari e G. Romegialli. Al suo interno si può ammirare uno splendido oratorio privato, in stile roccocò, frutto del lavoro di P. Solari e del quadraturista G. Coduri; si presenta ricco di stucchi, marmi ed arredi. Attiguo al Palazzo si trova l'ex filanda della seta costruita nel 1730 al posto della chiesa di S. Agrippino e di parte del rustico della "grangia" dei monaci dell'Acquafredda di Lenno.

Sempre nella piazzetta Peregalli si trovano il Cantinone, il torchio delle noci ed il vecchio maglio. Una passeggiata lungo via Manzoni completa la visione dalla strada del Palazzo Peregalli. Via Torelli, via Cavour e via Roma delimitano i tipici "colundei" o cortili interni a gruppi di case rurali, con attigui stalle e fienili; qui vivevano piccole comunità agricole impegnate nella lavorazione dei fondi appartenenti alla nobiltà locale. Di pregio artistico Palazzo ex Bassi con l'affresco di G. P. Romegialli: il Ratto d'Europa. Andando verso Piantedo è possibile ammirare l'oratorio di S. Rocco del sec. XVIII.
La chiesa di S. Domenica, che sorge nei pressi del municipio, fu fondata nel sec. XII. Nel sec. XVII subì importanti rifacimenti, attualmente si presenta al visitatore abbellita dal prato verde ben curato che la circonda. L'ingresso della vicina casa di riposo presenta un interessante affresco del pittore delebiese Eliseo Fumagalli (sec. XX) raffigurante una Madonna. Spostandosi verso il nord del paese, in direzione del cimitero, si può notare la Rotonda del Cimitero, iniziata nel 1730 dopo la distruzione della chiesetta della Grangia cistercense di Badia. Si presuppone sia stata costruita con le pietre della torre del Carlascio. All'interno sono conservati un affresco del Gavazzeni rappresentante la Deposizione di Cristo ed una tela di Pietro Ligari raffigurante la Crocifissione.

L'economia di Delebio ebbe, fin dal passato, un importante ruolo per l'intera Valtellina. I suoi magli risuonavano nel fondovalle già dal lontano 1500 grazie alla forza motrice dell'acqua del torrente Lesina e numerosi erano i manufatti di rame e ferro che venivano prodotti. Delebio vanta più di un importante primato: qui fu attivata la prima centrale elettrica della provincia di Sondrio, nel 1894, data che segnò la fine dell'artigianato. Iniziò "l'era industriale": due filande della seta e numerose concerie davano lavoro alla popolazione locale e non. Nel 1809 Napoleone permise a Delebio di avere una propria fiera durante il mese di ottobre. In quest'occasione si vendevano soprattutto carri, una produzione che era conosciuta ed apprezzata anche oltre i confini valtellinesi e valchiavennaschi. Una vocazione al commercio che è continuata fino ai giorni nostri. La lavorazione dell'alluminio, la produzione di prodotti sanitari, di fibre sintetiche, di materiale elettromeccanico e di segherie fanno di Delebio un operoso centro artigianale ed industriale. Il settore zootecnico è ancora vivace e la presenza di un grosso caseificio testimonia una vitalità agricola di rilievo per la bassa Valtellina. Numerose sono le superfici coltivate a mais e foraggio che si estendono dalla strada statale verso il fiume Adda, nella parte nord del territorio comunale.


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LA VAL SANGUIGNO

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La Val Sanguigno è una valle minore che si sviluppa sulla destra orografica della Val Seriana, di cui è tributaria, ed è situata nel territorio amministrativo del comune di Valgoglio, in provincia di Bergamo.

La valle, molto apprezzata dagli escursionisti in tutte le stagioni, nella parte bassa è percorsa dall'omonimo torrente che, raccogliendo i numerosissimi rigagnoli che bagnano la zona, crea pozze, forre e cascate, rendendo il paesaggio molto suggestivo, gettandosi poi nel torrente Goglio nei pressi della centrale idroelettrica di Aviasco.

Ad ovest è delimitata dal monte Zulino, ad est dal monte Salina e dal monte Crapel, mentre a nord, nella parte più elevata, è chiusa dalla conca delimitata dal monte Corte, dal Pizzo Farno e dal monte Pradella. Tra queste tre cime si trovano il passo di Valsanguigno ovest e quello di Valsanguigno est (noto anche come Passo del Farno), che permettono di raggiungere il versante orografico della val Brembana.

La valle presenta inoltre caratteristiche naturalistiche di elevato profilo. Grazie a particolari condizioni ecologiche, ma anche per via della quasi nulla presenza dell'uomo, in essa si è sviluppato un particolare habitat in cui hanno trovato spazio numerose specie vegetali ed animali di interesse scientifico e conservazionistico, tra cui l'aquila, il capriolo, il camoscio, l'ermellino, ma soprattutto il coleottero denominato Ubychia leonhardi Reitter ed il sempreverde Lycopodiella inundata, entrambi endemici.

Al fine di tutelare questa delicata condizione naturalistica, rendendola contemporaneamente fruibile agli appassionati, la valle è stata inserita nel progetto “Bi.O.S. – Biodiversità Orobica in Valle Seriana” che, promosso dalla Fondazione Cariplo e da enti locali tra cui il Parco delle Orobie Bergamasche e la Provincia di Bergamo.

La via più breve è quella che parte a fianco della centrale idroelettrica di Aviasco, posta poco a monte rispetto all'abitato di Valgoglio, che per il primo tratto è inclusa nell'itinerario conosciuto come Sentiero dell'Alto Serio.

Da qui si segue il segnavia C.A.I. numero 232 che l'attraversa e costeggia il torrente Sanguigno, toccando il rifugio Gianpace (dopo poco meno di un'ora di cammino), le baite di Val Parma (detta anche baita di Bindagola) e di Presponte, dopo la quale la traccia si divide: ad ovest culmina presso il passo di Valsanguigno ovest (2320 m s.l.m.), tramite il quale si raggiunge il Rifugio Laghi Gemelli, ad est giunge al passo di Valsanguigno est (2380 m s.l.m.), noto anche come Passo del Farno, che collega la valle con il lago Colombo.

La Val Sanguigno è una delle zone più incontaminate di tutta la Lombardia, con pochi eguali nelle valli prealpine, e ricchissima di acqua. Dai colori sgargianti, tendenti al rosso alla fine dell’estate (da qui il nome “Sanguigno”) è percorsa dal torrente Sanguigno che crea pozze, forre e cascate, alimentando la centrale idroelettrica di Aviasco.
In tutto il territorio del Parco delle Orobie Bergamasche, di cui fa parte, è un caso quasi unico di sostanziale integrità idrogeologica.

La valle accoglie una flora molto ricca di specie endemiche di elevatissimo interesse scientifico, oltre a faggete e boschi di tigli ed aceri, pascoli e praterie alpine. A circa 1425 m.s.l.m., in un ampio pianoro, si comincia a camminare su morbidi prati che paiono cuscini d’erba: sono le torbiere, accumuli continui di materiale vegetale saturi d’acqua e in lenta decomposizione. La torba spugnosa e soffice è abitata da specie vegetali rarissime come la Lycopodiella inundata e la Drosera rotundifolia, minuscola pianta carnivora che grazie ai lunghi tentacoli intrappola piccoli insetti.


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PEDOFILI IN CARCERE




Chi finisce in carcere con una condanna per pedofilia non deve solo fare i conti con la sentenza sancita dal giudice ma anche con il pregiudizio degli altri carcerati.I bimbi non si toccano, reciterebbe una legge tacita in vigore tra i carcerati di tutto il mondo. Capaci di battezzare a sangue i neo arrivati macchiatisi di uno dei crimini più orrendi.

E proprio a causa della specificità del reato commesso sono confinati in un’ala ben precisa della struttura. È una prassi in vigore da tempo. Anche perché poi gli altri tendono a fare comparazioni. Chi è in carcere per truffa o per furto si sente comunque un po' migliore rispetto a chi ha commesso atti pedofili o legati alla sfera sessuale. D’altra parte questa separazione permette ai condannati per pedofilia di prendere coscienza di quanto sia terribile il reato commesso. Il fatto che abbiano una pena per un reato grave da scontare non significa che debbano essere lasciati in balia degli altri carcerati. Anche perché in carcere la concentrazione di persone con tratti caratteriali dissociali è maggiore rispetto all’esterno. Di conseguenza il rischio di aggressioni è più alto.

La mediatizzazione dei casi di pedofilia, constatabile negli ultimi anni, ha accresciuto il livello di guardia sulla tematica. "I detenuti hanno la possibilità di leggere i giornali. Sanno che magari arriverà un determinato personaggio, autore di reati pedofili. Si creano attese e aspettative, c'è chi vuole vedere queste persone in faccia, dobbiamo fare ancora più attenzione quindi".
In alcune occasioni i condannati per reati sessuali su minori hanno la possibilità di mescolarsi con gli altri carcerati. "Ma solo in circostanze in cui noi abbiamo il massimo controllo e possiamo dunque intervenire rapidamente in caso di difficoltà – ammette un direttore di un carcere –, capita ad esempio per quanto riguarda le feste o le celebrazioni. Per il resto, forse è meglio che stiano separati. E sono loro stessi a rendersene conto, si sentono più protetti. Va ricordato che non di rado questi detenuti hanno un età molto maggiore rispetto alla media degli altri e sono dunque più vulnerabili”.

Per il trattamento specifico delle persone condannate per i reati nella sfera sessuale, oltre ai colloqui individuali è stata aggiunta anche una terapia di gruppo. Momenti in cui i condannati hanno la possibilità di ripercorrere i loro errori, esplicitandoli di fronte agli altri. "Questo lavoro di gruppo – evidenzia il direttore – viene portato avanti indipendentemente dalle sedute di psicoterapia individuale. Lo scopo principale è quello di sviluppare la presa di coscienza da parte dei detenuti. Funziona un po' come in una comunità di recupero".

Gli altri detenuti li chiamano "infami", traditori dell'etica carceraria. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono "protetti", gente che va tutelata dalla violenza dei reclusi comuni, dalle intimidazioni e dagli atti di intolleranza che colpiscono anche collaboratori di giustizia e detenuti appartenenti alle forze dell'ordine. Sono stupratori, pedofili, molestatori, torturatori di donne e bambini. Quelli che assistenti sociali, psicologi ed educatori del carcere chiamano sex offender, autori di reati sessuali.



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venerdì 20 maggio 2016

VALGOGLIO

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Valgoglio è un comune situato in una valletta che, bagnata dal torrente Goglio, si sviluppa perpendicolarmente alla Val Seriana, dista circa 44 chilometri a nord-est dal capoluogo orobico.

Posto ad un'altezza di 930 m s.l.m., presenta le caratteristiche di un borgo alpino con una natura circostante pressoché intatta.

Il nome del paese deriva dalla valle in cui esso è inserito, la quale a sua volta deve il nome al torrente che la bagna. Il Goglio, che sfocia nel fiume Serio nel territorio di Gromo, etimologicamente deriva da goi, che in dialetto bergamasco sta ad indicare un corso d'acqua con gole e forre profonde.
Il paese di Valgoglio, unitamente alle frazioni di Colarete e di Novazza, ha una storia con pochi eventi di rilievo, legati per lo più alle vicende del vicino comune di Gromo.

Difatti il borgo è rimasto estraneo sia alla colonizzazione romana che alle dispute medievali, legando il proprio nome soltanto alla grande capacità estrattiva che il sottosuolo garantiva.

La ricchezza di minerali ha da sempre fornito una sussistenza più che dignitosa per gli abitanti del luogo fin dai tempi del medioevo. In quel tempo quando gran parte delle armi, armature e corazze era prodotta con il ferro qui estratto, così come le monete della zecca di Bergamo, coniate con l'argento di Valgoglio. Unitamente a questi materiali veniva estratto anche l'oro, che contribuì a creare un certo benessere nella zona.

Recentemente, in una miniera dismessa nella frazione Novazza, sono state rinvenute modeste quantità di uranio, tanto da ipotizzare l'apertura di una miniera per l'estrazione di questo minerale da molti considerato pericoloso. Per questo motivo gran parte della popolazione, anche dei paesi circostanti, ha manifestato un forte dissenso, facendo rientrare il progetto.

Il paese tuttora vive grazie allo sfruttamento delle risorse che offre la natura, quali il turismo, l'industria idroelettrica e, in qualche caso, di pastorizia.

Il 17 luglio 2014, con seduta straordinaria il Consiglio Comunale approva lo Statuto Costitutivo dell'Unione di Comuni dell'Alto Serio con Gromo, Gandellino e Valbondione, per poter affrontare la situazione economica di criticità.

La chiesa parrocchiale del capoluogo, edificata nel XVII secolo, ma rifatta due secoli più tardi, è intitolata a Santa Maria Assunta, e custodisce affreschi e sculture di buona fattura, risalenti ad un periodo compreso tra il XIV ed il XV secolo. L’edificio è caratterizzato da un campanile a cipolla e da un tipico e ampio porticato che conserva pregevoli pitture a narrazione del Quattro-Cinquecento (Madonne, Santi, Cristo Crocifisso e Santissima Trinità) tra le quali un affresco, o forse più, attribuito a Jacopo de Busca, l’autore della Danza Macabra di Clusone. All’interno, sulla volta della navata belli e antichi affreschi e sul presbiterio, dietro l’Altare Maggiore, una magnifica “Ultima Cena” del XVI secolo. Splendido il polittico ligneo del primo Cinquecento e rilevanti le tele di Grazio Cossali, Saverio della Rosa e Antonio Brighenti. Sulla parete destra del presbiterio è la tela dell’Annunciazione di Grazio Cossali, opera seicentesca di pregiata fattura.
Più a valle, appare davvero grazioso il nucleo antico della frazione Colarete ove spiccano alcune case rustiche ben conservate e la locale chiesetta dedicata a San Michele, dal tetto in ardesia (XV secolo). All’interno conserva affreschi davvero unici, che coprono quasi integralmente il presbierio e la parete sinistra della navata, insieme a tele del Carpinoni. Lungo il sentiero verso i laghi, da vedere il nucleo agreste di Bortolotti, di antica formazione, con la chiesetta di San Rocco che custodisce graziosi affreschi e la miracolosa statua del Santo e, nel magnifico pianoro di Selvadagnone, la chiesetta dedicata a Sant’Antonio. Nella Frazione di Novazza, si trova invece, la chiesa dedicata ai Santi Apostoli Pietro e Paolo all’interno della quale il turista potrà ammirare stupendi affreschi di Ponziano Loverini.

Notevoli sono le escursioni che si possono compiere sul territorio comunale, adatte ad ogni tipo di utenza: si va dalla semplice passeggiata ad itinerari riservati a persone più esperte. Tra questi vale la pena segnalare la Val Sanguigno ed il cosiddetto Giro dei cinque laghi, che tocca i laghi artificiali di Aviasco, Nero, Campelli, Sucotto e Cernello.

Protagonista assoluto è l’ambiente. Le aree incontaminate presenti a Valgoglio sono davvero magiche e avvolgono i centri abitati abbracciandoli con dolcezza senza che le une prevalgano sugli altri. I panorami mozzafiato che si possono scorgere sono tra i più fiabeschi della Lombardia.

Da non perdere lo splendido e impegnativo giro dei cinque laghi, avvincente percorso che trova il suo punto di partenza nella contrada Bortolotti. Il sentiero, ben segnalato, sale dapprima su morbido terreno tra fitte conifere, e scavalca, dopo circa un’ora di cammino, un gradino roccioso, accanto all’imponente e storica condotta forzata. All’arrivo, ecco l’ampio altipiano segnato da numerose testimonianze dell’attività idroelettrica di valle (condotte forzate, canali, guardianie) ma soprattutto dalla poesia di cinque laghetti inseriti in un contesto alpino e insieme lunare. Ci riferiamo al Lago Nero, al Sucotto (1.854 m), al Cernello (1.954 m), al Campelli basso (unico bacino naturale) e al lago di Aviasco (2.070 m) dalla curiosa forma di pera allungata, coronato da pendii verdissimi, e infine un ambiente davvero singolare, circondato dalla magia di imponenti vette (pizzo Pradella - 2.626 m, Cabianca, Madonnino, Costa d’Agnone). Rinomate l’omonima Baita Cernello da cui raggiungere il Passo d’Aviasco o il Passo Portula (230 CAI) e la Capanna Lago Nero.


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LA VALLE DEL VO'

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La Valle del Vò è una diramazione occidentale della Val di Scalve che inizia nella frazione di Ronco nel comune di Schilpario, in provincia di Bergamo, nelle Prealpi Orobie.

La valle è percorsa dal torrente Vò, dal quale ne prende il nome.

La coronano il Monte Bognaviso (2287 m), il Pizzo Tornello (2687 m) ed il Monte Demignone (2586 m), montagne verdi che tuttora mantengono una natura incontaminata, e termina al Passo del Vo.

È percorsa da un'antica mulattiera, utilizzata per raggiungere un forno di fusione del minerale (del quale ne rimane traccia). La Val di Scalve, per secoli, sviluppò il lavoro in miniera che diede ferro già ai tempi dei Romani.

Ancora oggi i resti delle Baite del Brusa sono la testimoniare di un villaggio abitato in passato dai minatori.

La mulattiera che la percorre, è il tratto finale della Via dei contrabbandieri, che da Ponte Frera (1373 m) conduceva a Ronco di Schilpario, riedificata dalle donne scalvine in tempo di guerra.

La vegetazione alterna boschi di abete rosso, pino mugo, ontani e noccioli. La fauna è ricca di camosci.

Risalendo la mulattiera si incrociano: la Baita del Venano di sotto (1542 m), la Baita del Venano di mezzo (1679 m) e la Baita di Venano di sopra (1859 m) dislocate nell'alpeggio dal quale prendono il nome, mentre il Rifugio Nani Tagliaferri (2328 m) è situato nell'estremità settentrionale della valle.

Di interesse è la cascata del Vò che, durante il periodo invernale, ghiacciando diventa palestra meta apprezzata per gli arrampicatori.
Un tuffo di 25 metri del torrente Vò che si butta nel fiume Dezzo.






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giovedì 19 maggio 2016

GANDELLINO

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Gandellino è un comune situato prevalentemente sulla parte sinistra orografica del fiume Serio che lo attraversa, a 675 m s.l.m. in alta Val Seriana, circa a 44 chilometri a nord di Bergamo, ed è composto dal capoluogo sul fondovalle, che prosegue nella parte a nord lungo la strada provinciale con le frazioni Gromo San Marino, Bondo, Pietra e Grabiasca, sulla sua parte a est con la frazione Tezzi e sulla parte ovest con la frazione Foppi.

Salendo la Val Sedornia, uno strano masso sembra testimoniare la presenza dell'uomo sul territorio almeno due millenni a.C., in località Spiaz de Martisola.

Un parallelepipedo con incisi segni circolari che si susseguono su linee parallele, e coppelle, che non sono sicuramente di origine naturale. Un masso-altare usato per culto e sacrifici dei sacerdoti precristiani, i drudi celtici,come nelle vicina valle Canonica.

Il primo documento che riporta il nome Oltre il dragone, riconducibile al bergamasco "dargùn", 'torrente rovinoso', o "drag", 'frana', questo è infatti l'antico nome della località, risale al 774, documento in cui Carlo Magno re dei Franchi, dona tutta l'Alta Valle Seriana al Monastero di San Martino di Tours in Francia, a testimonianza di questo, Gandellino mantiene S. Martino quale santo patrono.

Nel 1267 ottiene l'autonomia dal Vicariato di Bergamo, che nel 1067 era subentrato al Monastero di S.Martino, partecipando con Gromo e Valgoglio all'espugnazione del paese di Covo con mezzi propri, sia economici che di uomini in qualità di soldati e di forza lavoro. Il documento, detto "Instrumento del privilegio", è ora conservato e consultabile presso il museo sito nel Palazzo Milesi di Gromo. Con l'autonomia i ricavati dell'estrazione e lavorazione di minerali, diventano l'economia del paese. Risale al 1396 invece il documento, un atto notarile di vendita, dove compare, per la prima volta, il nome di Gandellino, anche questo con ogni probabilità dalla voce bergamasca “ganda”, che significa “frana”.

Nel 1428, passando sotto il dominio veneto, il mercato e il lavoro delle armi, subiscono un notevole incrementato, come per tutti i paesi della valle, ma una terribile frana nel XV secolo, distrugge le fucine che erano presenti lungo il torrente Sedornia per la lavorazione dei metalli, e la successiva frana del 1834 ne cancella ogni traccia, rimangono consultabili solo gli atti notarili a testimonianza storica.
L'economia contadina, molto povera, data la posizione montana porta nei primi del '900 ad una migrazione corposa, in Francia e in Svizzera. Nel 1968 cedette le frazioni Ripa e Bettuno al comune di Gromo.

Sul territorio si sono susseguite frane anche nel 2000 che richiedono da anni interventi di prevenzione con canali di scolo acque e muri di contenimento con lavori che hanno richiesto studi approfonditi del territorio.

Le sempre difficili situazioni economiche porteranno ad una unione amministrativa di Gromo con i paesi confinanti e il 17 luglio 2014, con seduta straordinaria il Consiglio Comunale approva lo Statuto Costitutivo dell'Unione di Comuni dell'Alto Serio con Gromo, Valgoglio e Valbondione.

Immerso nel Parco Regionale delle Orobie, Gandellino è un verdeggiante borgo protetto dalle cime del Redorta, Grabiasca, Brunone, e Cardeto, e bagnato dalle acque del Serio e del suo affluente Sedornia. Il territorio comunale comprende, oltre al capoluogo, la frazione di Gromo San Marino e altre contrade, come Foppi, Tezzi, Bondo, Pietra e Grabiasca.

Dal paese è possibile collegarsi ai diversi sentieri alpini, il Sentiero dell'Alto Serio passa sui due versanti della valle: la terza tappa porta da San Giovanni di Gorno (punto di partenza) a Grabiasca passando per la Ripa sulla parte occidentale; la quarta tappa parte invece da Aprico (Fino del Monte) per arrivare ancora a Grabiasca, ma passando per i Tezzi Alti sulla parte orientale del paese.

Mentre attraverso il Sentiero delle Orobie, si possono raggiungere alcune cime delle prealpi bergamasche: i monti Redorta, Grabiasca, Brunone, e Cardeto.

Si possono così raggiungere i numerosi laghi alpini e rifugi: Laghi di Cardeto, Passo della Portula, Curò e Coca (da Valbondione), Brunone (da Fiumenero), Calvi (da Ripa di Gromo), Alpe Corte e Laghi Gemelli (da Valcanale); proprio da quest'ultimo ha inizio anche il sentiero dei rifugi delle Orobie, che si conclude all'Albani.

La pista ciclabile attraversa tutto il territorio di Gandellino, per lunghi tratti anche nel centro abitato. Sul territorio c'è un impianto sportivo comunale completo di campi di pallavolo calcetto e tennis, mentre nella frazione Gromo S. Marino si trova il campo comunale di calcio e di pallavolo.

Spias de Martisola è il mistero di un luogo, le cui tracce sono per noi oggi sempre di difficile interpretazione. Partendo dalla frazione Tezzi si percorre un sentiero, antico che sale una valle nel bosco, la Val Sedornia, nome che è una trasformazione del nome romano "Saturnia", Saturnus quindi un elemento religioso, il dio Saturno, dio della natura, della potenza e abbondanza. La valle che percorre un bosco, si apre poi in pascoli, ma è stranamente deserta.

Giunti in località detta Spias de Martisola, compare una radura con un masso a forma di parallelepipedo ora completamente ricoperto di muschio, le cui incisioni e coppelle lo rendono sicuramente riconducibile all'opera dell'uomo, e di un uomo preistorico. Lungo un lato del Masso erratico son ritagliati una serie di gradini, che conducono alla sua sommità. Un masso-altare per sacrifici, e questo secondo gli studi che sono stati fatti qui e in altre zone delle Alpi e Prealpi si ritiene che il masso altare sia stato utilizzato fra il terzo e il primo millennio prima di Cristo. Sulla superficie son ben visibili dei solchi chiamati coppelle. Mentre la faccia rivolta a Nord mostra una serie di incisioni circolari, e di linee oblique, forse indicanti costellazioni.

Un masso-altare usato dai druidi, sacerdoti dei Celti per riti sacrificali, le coppelle sembrano che potessero raccogliere il sangue di vittime, animali o addirittura umane, altri parlano di riti religiosi legati all'acqua che feconda la terra, anche questa possibilità attendibile essendo presente il torrente Sedornia.

Di pregevole interesse artistico sono le due chiese parrocchiali.

La chiesa, dedicata alla Natività di Maria,è risalente al 1350, situata sopra un dosso, è ben visibile dalla valle. Anticamente era annessa ad un convento di monache ora soppresso. Un porticato sui lati nord e ovest la contorna. Sul lato verso valle, presenta sette aperture ad arco a tutto sesto in pietra arenaria, complete di colonne in stile toscano che poggiano su di un alto parapetto in muratura coperto da piana in pietra come basamento.
L'interno è caratterizzato da una pianta a tre navate, di cui quella centrale più alta rispetto le due laterali. Le volte di sostegno poggiano su grosse colonne di pietra diverse tra loro per dimensione, ciò rende le arcate a loro volta diverse, creando un'asimmetria architettonica nella chiesa.
Tra le opere artistiche degne di nota vi sono da citare antichi affreschi, molto probabilmente riconducibili proprio alla chiesa primitiva poi ampliata, presumibile opera di Giacomo de Buschis detto il Borlone, che già aveva lavorato nella valle affrescando la Danza Macabra, mentre altri di epoca quattrocentesca rappresentano il "Il credo degli apostoli". Sia la navata centrale che il presbiterio sono decorati con medaglie e cornici in stucco di epoca barocca che raffigurano scene della vita di Maria mentre l'ancona lignea posta dietro l'altare è caratterizzata dalla scultura di un Cristo Risorto, opera della cerchia dello scultore Pietro Bussolo del 1510 circa.
L'edificio è stato restaurato tre volte: la prima nel 1877 e in seguito nel 1936 e infine1987.
Nel cimitero accanto è stato tumulato il missionario Alessandro Dordi, proclamato beato il 3 febbraio 2015 da Papa Francesco.

La Chiesa Parrocchiale di San Martino, del XX secolo, fu iniziata nel 1920 e terminata con la costruzione della torre campanaria nel 1984, si presenta all'esterno completamente rivestita in pietra, con ai lati due ambulacri aperti verso l'esterno con archi a tutto sesto, a cui si accede per mezzo di due scalinate. L'architettura dell'edificio da la sensazione di trovarsi davanti ad un edificio a tre navate. L'interno è a pianta rettangolare ad unica navata ripartita in sei campate uguali. Le pareti laterali sono interessate da un'alta zoccolatura in pietra, mentre la parte superiore s'imposta un matroneo con sei ordini di trifore per lato. Sopra, oltre il cornicione, si aprono dodici finestre circolari, due per campata, una per lato, che illuminano naturalmente l'interno della chiesa. Oltre la sesta campata inizia il presbiterio, una larga scalinata di sei gradini, nel cui mezzo spicca dominante il tiburio dell'altare centrale con ciborio proveniente dalla cappella dell'ex seminario di Clusone. La facciata opposta,sopra la porta d'ingresso, è interessata da una cantoria in muratura sorretta da quattro colonne con base e capitello. Alla base della torre campanaria posta nella parte occidentale della chiesa, vi è l'ingresso che porta all'interno della cripta. La cripta, usata per le funzioni nelle stagioni invernali, è a pianta rettangolare con un'unica navata e con copertura a volta a botte ed ha dimensione analoga alla chiesa soprastante. Ha un deambulatorio absidale e altare con colonne ed arcate in marmo rosso. Sulla parete rivolta a nord colpiscono gli intensi colori nella rappresentazione, di autore anonimo, raffigurante l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Nella cripta è conservata la statua della Madonna del Carmine di opera fantoniana.

Altre chiese da visitare sono quelle di San Giorgio a Bondo, dedicata alla Madonna di Lourdes, di San Giovanni Battista in località Tezzi e di Santa Lucia in contrada Foppi. L'abitato di Tezzi offre anche alcuni esempi di architettura tipica della montagna bergamasca: un tempo contrada popolosa, oggi, ancora percorsa da viottoli e angusti acciottolati, ha ben conservato le case rurali con finestrelle e inferiate, ballatoi in legno e tetti con tipiche lastre di ardesia.

Pregevole esempio di archeologia industriale è invece la centrale idroelettrica Enel, risalente al 1920, di aspetto neogotico.

Malgrado il paese abbia come santo patrono S. Martino, è la festa della Madonna del Carmelo che cade il 16 luglio, quella maggiormente solennizzata. I numerosi emigranti, che dai primi del Novecento si sono allontanati dal paese alla ricerca di lavoro tornando solo durante le vacanze estive, hanno portato a posticipare i festeggiamenti al 15 agosto, giorno della Assunta.

Le vie e gli angoli del paese, che diventano il percorso della precessione, vengono addobbati di fiori e di simboli mariani, ma l'attrazione della festa è l'incanto al porto della statua della Madonna.

Pochi minuti prima della processione, infatti, sul sagrato della chiesa, si radunano i paesani e seguono l'incanto all'asta per il porto della statua durante la processione.

Dopo il susseguirsi di suggestivi lanci e rilanci di offerte, il banditore proclama chi si è aggiudicato il porto della statua lungo le vie del paese, tra i maridac e i suen, tra gli sposati e i giovani. Lo scoppio di botti segna l'inizio della processione.

Oltre al trekking, Gandellino può offrire ai suoi ospiti sfidanti percorsi per mountain bike lungo i numerosi sentieri montani presenti sul territorio come il tracciato tra Gromo e la Valsedornia, o il più tranquillo e recentissimo tracciato della ciclovia della Valseriana, che conduce a Gromo e Valbondione. Funzionale il locale Centro Sportivo Comunale, con campi di pallavolo, calcetto e tennis nel capoluogo mentre a Gromo San Marino si trovano un campo di calcio e uno di volley. Per gli amanti delle ciaspole e dello scialpinismo stupendi i percorsi da Tezzi a Vigna Vaga, Pizzo di Petto.


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VAL CERVIERA

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La valle della Cerviera è una valle laterale della Val Seriana; si diparte dal lato sud del lago del Barbellino in corrispondenza della prima cascata che si incontra provenendo dal Rifugio Antonio Curò. La valle è stretta nella parte bassa e si apre a sud, nella parte alta, in corrispondenza del salto d'acqua del torrente che l'attraversa.

Nonostante non sia molto ampia vi dimorano diversi animali selvatici, tra cui Camosci e Marmotte, e vi crescono diversi tipi di piante protette. Ospita nella parte sud-occidentale i Laghi della Cerviera ed è percorsa dai sentieri che portano al Pizzo Recastello, al Pizzo dei Tre Confini e al Rifugio Nani Tagliaferri lungo il Sentiero Naturalistico Antonio Curò. La valle in inverno e in primavera è percorsa da sci-alpinisti durante la salita al Pizzo dei Tre Confini.

I laghi della Cerviera sono alimentati dalle acque provenienti dallo scioglimento delle nevi e dalle frequenti precipitazioni, che si trovano nella valle della Cerviera, ad una quota media di 2326 m s.l.m.

I principali di questi misurano una superficie rispettivamente di 5.100, 2.900 e 2.400 metri quadrati, mentre gli altri hanno estensione trascurabile e variabile.

Il sentiero più breve per raggiungerli parte da Valbondione, in provincia di Bergamo. Si sale fino al rifugio Curò percorrendo la carrabile che parte a nord del paese e, arrivati al rifugio, si costeggia il lago del Barbellino fino alla cascata sulla destra. Qui si imbocca il Sentiero Naturalistico Antonio Curò, si prosegue lungo la valle della Cerviera e si costeggia a sinistra un secondo salto d'acqua. Arrivati in cima al salto bisogna prendere il sentiero a destra, ovvero quello che attraversa il torrente, e salire verso l'altopiano a sinistra. Il sentiero non è molto battuto e l'erba copre la via il più delle volte, ma ci sono dei segnavia che indicano il percorso, tra l'altro molto agevole.

In fondo all'ultimo lago, ovvero quello più a ovest, si ha un piacevole panorama sulle Cascate del Serio, sul Pizzo Coca, sul Pizzo Redorta, sulla Punta Scais, sul Pizzo del Diavolo di Tenda e sul Monte Grabiasca.


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