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giovedì 2 luglio 2015

IL DISASTRO DEL GLENO



La Valle di Scalve è ubicata nelle Prealpi Lombarde (provincia di Bergamo), tra le più conosciute Val Seriana e Val Camonica. E' una valle ancora per ampi tratti incontaminata dall'edilizia e dal turismo di massa. Estese foreste risalgono le strette forre del torrente Dezzo per raggiungere le pendici dei ripidissimi massicci calcarei tra cui spicca il Gruppo della Presolana. E' proprio da quest'ultimo che, se si volge lo sguardo più in basso in direzione Nord , compare l'abitato di Vilminore di Scalve. Leggermente più decentrata è visibile la frazione di Bueggio. Dalla frazione Pianezza di Vilminore, si risale il sentiero n. 411 del CAI che porta alla Diga del Gleno, che appare all'improvviso. Dopo un percorso in salita di circa un'ora, il sentiero scavato nella roccia spiana, dopo un tornantino compaiono le tredici arcate di destra orografica. Solamente giungendo in prossimità della Diga sono visibili le altre due arcate di sinistra. In mezzo un enorme squarcio. Il torrente Gleno, affluente secondario del torrente Povo (a sua volta immissario del Dezzo) forma contro i resti della Diga un laghetto. Le arcate ormai scomparse hanno lasciato in bella vista la base in cemento, il famigerato "tampone a gravità", sulla quale è stato attualmente allestito un troppo pieno a sfioro del Lago del Gleno (precisiamo che già prima della costruzione della Diga esisteva un laghetto di montagna).

Il sentiero n. 411 non termina il suo tragitto in corrispondenza della Diga, ma conduce alla vetta del Monte Gleno percorrendo longitudinalmente una tipica valle alpina scavata dal torrente. Questa spettacolare ascesa nella Valle del Gleno nasconde innumerevoli meraviglie naturali. Il protagonista assoluto è comunque il torrente Gleno, che nel corso delle decine di migliaia di anni ha disegnato laghetti, marmitte dei giganti ed una numerosa serie di spettacolari cascatelle. Tutto ciò è racchiuso in un imponente anfiteatro allungato in direzione Nord. Una visita al Gleno quindi, risulterà molto limitata se ci accontenta di contemplare la misera opera umana.

Nel 1907 venne richiesta una concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo da parte dell'ing. Tosana di Brescia. La concessione venne poi ceduta all'ing. Gmur di Bergamo e poi alla Ditta Galeazzo Viganò di Truggio (Milano). Nel 1917 il Ministero del Lavori Pubblici fissò a 3.900.000 mc la capacità di invaso in località Pian del Gleno. Pochi mesi dopo la Ditta Viganò notificò l'inizio dei lavori, ma il progetto esecutivo non era stato ancora approvato dall'autorità competente (Genio Civile). Dopo una serie di proroghe venne presentato nel 1919 il progetto esecutivo per una diga a gravità a firma dell'ing. Gmur. Quest'ultimo però morì un anno dopo e la Ditta Viganò assunse al suo posto l'ing. Santangelo. Nel 1921 venne approvato il progetto esecutivo dell'ing. Gmur con i lavori già da qualche anno avviati. Nel 1921 la Ditta Viganò appaltò alla Ditta Vita & C. le opere di edificazione delle arcate.

Nell'agosto del 1921 l'ing. Lombardo del Genio Civile eseguì un sopralluogo al cantiere e rimase interdetto quando constatò che la tipologia costruttiva della diga a progetto, cioè a gravità (lo sbarramento che si oppone alla spinta del lago grazie al suo peso), era stato cambiata in corso d'opera in una diga ad archi multipli (struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago). Rilevò infatti che stavano per essere costruite le basi delle arcate e che quelle nella parte centrale della diga non erano appoggiate sulla roccia ma sul tampone a gravità. Ne seguì l'immediata diffida al proseguire la costruzione e nel giugno 1922 venne ingiunto alla ditta Viganò di presentare un nuovo progetto, quasi si trattasse di una semplice abitazione in cui è stata variata la posizione di un paio di finestre rispetto al progetto. I lavori andarono avanti malgrado le osservazioni dell'ing. Lombardo e solo nei primi mesi del 1923 venne presentato il nuovo progetto.

Nella seconda metà di ottobre del 1923 il lago venne riempito a seguito delle violente precipitazioni. Vi furono problemi negli scaricatori superficiali ma soprattutto si innescarono massicce perdite d'acqua alla base delle arcate sovrastanti il tampone a gravità. Tali perdite furono sfruttate nelle ore notturne per la produzione di energia elettrica. La diga non poteva dirsi ultimata. Ancora numerose opere edili dovevano essere portate a termine. Il cattivo tempo perdurò anche nella seconda metà di novembre. Il 1° dicembre 1923 alle 6.30 il Sig. Morzenti, guardiano della diga, avvertì un "moto sussultorio violento". In seguito la difesa della Ditta Viganò ipotizzò addirittura che vi fosse stata un'esplosione causata da un atto terroristico. Poco dopo, alle 7.15, avvenne il crollo delle dieci arcate centrali della Diga. Una massa d'acqua di volume compreso tra 5 e 6 milioni di metri cubi iniziò la sua folle corsa verso valle.

Bueggio, frazione di Vilminore, fu quasi immediatamente travolta. L'enorme massa d'acqua, preceduta da un terrificante spostamento d'aria, distrusse le centrali di Povo e Valbona, così come due chiese ed il cimitero. L'acqua percorse lo stretto alveo montano del Povo sino alla confluenza con il Dezzo. L'omonimo abitato fu travolto e scomparve, così come la centrale elettrica, l'antico ponte, la strada e la fonderia per la produzione di ghisa la quale determinò un terrificante spettacolo di acqua, fiamme e vapore. All'altezza di Angolo il Dezzo forma una serie di spettacolari forre (la Via Mala). L'ondata, colma di detriti, creò delle ostruzioni temporanee con effetti terrificanti. Infatti, nei punti più stretti si crearono dei laghi che dopo pochi istanti riuscivano a sfondare le dighe di detrito, causando ondate ancora più distruttive. Molte località furono falcidiate, a Mazzunno venne distrutta una quarta centrale elettrica. L'abitato di Angolo rimase invece quasi intatto. L'ondata si precipitò nell'odierna Boario Terme. Le Ferriere di Voltri vennero gravemente danneggiate e vi furono gravissimi danni alle viabilità ed alle strutture.

Più a valle (Corna e Darfo) la valle del Povo si allarga e raggiunge l'Oglio. L'energia dell'ondata andò attenuandosi ma causò ancora vittime a gravissimi danni sino a raggiungere, 45 minuti dopo il crollo, il Lago d'Iseo. Qui lo spettacolo non fu meno terribile: una cinquantina di salme galleggiavano nell'acqua torbida. Il calcolo delle vittime fu stimato sulle 500 unità, mentre il conteggio delle vittime ufficiali si fermò a 360.

Il 3 dicembre 1923 giunsero a Darfo a commemorare le vittime il Re Vittorio Emanuele III e Gabriele d'Annunzio. A causa dell'impraticabilità delle strade, nessuna autorità poté visitare Angolo Terme e Mazzunno.

Il 30 dicembre 1923 il Procuratore del Re incolpò per l'omicidio colposo di circa 500 persone i responsabili della ditta Viganò ed il progettista ing. Santangelo. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannò Virgilio Viganò e l'ing. Santangelo a tre anni e quattro mesi di detenzione più 7.500 Lire di multa. Va ricordato che la maggioranza dei sinistrati era stata precedentemente tacitata con indennizzi economici. I condannati scontarono solo 2 anni e la multa fu annullata. Il Cavalier Viganò morì nel 1928.

Dal processo, che ebbe luogo tra il gennaio 1924 e il 4 luglio 1927 e si concluse, come detto, con la condanna del titolare della società concessionaria e del progettista a tre anni e quattro mesi di detenzione, emerse che i lavori erano stati eseguiti in modo inadeguato ed in economia, che il progetto fu cambiato più volte in corso d'opera senza le opportune verifiche e che il controllo da parte del Genio Civile era stato svolto in maniera approssimativa e superficiale.

Il quadro che risultò dalle molte testimonianze fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo impiegavano tanto più Viganò guadagnava. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Venne anche criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse il disastro fu inevitabile.

Il Disastro del Gleno rappresenta un esempio macroscopico degli effetti di un'approssimativa progettazione e malcostruzzione di una diga. La scelta (dettata da ragioni puramente economiche) di variare in corso d'opera la tipologia stessa della Diga ha rappresentato una sorta di bestemmia strutturale.

Le dighe ad archi multipli presupponevano un ottimo terreno d'appoggio poiché le volte hanno la funzione di trasmettere gli elevati carichi alle fondazioni. Quest'ultime devono essere dunque incastonate in roccia compatta ed integra. A Pian del Gleno le rocce subivano gli effetti degradanti del gelo e disgelo ed inoltre erano state sottoposte all'azione dei ghiacciai durante le glaciazioni. Ma, anche tralasciando il fattore geologico dell'area, ben undici arcate furono appoggiate direttamente sul tampone a gravità inizialmente costruito. Si creò una pericolosissima discontinuità strutturale. Solo un'accuratissima esecuzione delle opere avrebbe garantito un certo grado di sicurezza. Durante la fase istruttoria del processo vennero sentiti molti testimoni. Il quadro che ne risultò fu agghiacciante. I materiali utilizzati erano di qualità pessima, mentre le armature erano quantitativamente insufficienti. Non solo: le imprese che lavorarono sotto la supervisione del Viganò (impresario all'antica, che non tollerava l'intrusione di ingegneri in cantiere e gli sprechi di materiale) vennero pagate a cottimo e quindi meno tempo vi impiegavano tanto era di guadagnato. Durante i carotaggi sulla struttura eseguiti dai periti dopo il disastro, venne evidenziato che in alcuni casi i muratori avevano gettato direttamente i sacchi di cemento all'interno dei piloni. Ed ancora: venne criticato il tempo di maturazione del cemento delle arcate. Testimonianze affermarono che i muratori, nelle ultime fasi di costruzione, lavorarono direttamente sulle barche: si riempiva il lago mano a mano che i lavori progredivano. Con queste premesse (e ve ne furono molte altre) il disastro fu inevitabile.



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mercoledì 1 luglio 2015

IL CASTELLO DI BRENO



Il castello di Breno sorge sopra una collina al centro del paese di Breno.

Alcune schegge di selce ritrovate sono state datate all'epigravettiano recente, poco dopo lo scioglimento del ghiacciaio in val Camonica.

Al di sotto del torrione ghibellino sono stati invece trovati i reperti di una abitazione neolitica, di forma trapezoidale, larga 5 metri appoggiata a guanciali laterali di roccia. Le pareti erano in graticci intonacati con fango: tipico modo di costruire le mura in Val Camonica fino ad alcuni decenni fa.

Nei pressi sono stati trovati reperti come utensili, vasi e due tombe, che gli studiosi definiscono cultura di Breno.

Rimangono proche tracce di un'abitazione dell'età del rame, mentre sembra che durante l'epoca romana il sito fosse completamente abbandonato (forse a causa della vicinanza della Civitas Camunorum.

La prima costruzione d'epoca storica fu la cappella dedicata a san Michele arcangelo, protettore dei longobardi. Sono venute alla luce cinque tombe fra cui una di bambino. Attorno al XII secolo venne ampliata in chiesa romanica, venne poi demolita in un ampliamento del castello: oggi se sono visibili i basamenti.

Le costruzioni civili sorgono a partire dal XII secolo, e sono il grande palatium a due piani, oggi distrutto, forse residenza dei Ronchi, potente famiglia di feudatari guelfi, la torre a torre adiacente alta una ventina di metri e coronata in origine di merli guelfi, e la casatorre.

Già attorno al 1250-1300 l'intera collina doveva esser cintata da una fortificazione, a cui si accedeva da una torre-porta.

I palazzi civili vennero trasformati dai signori milanesi in roccaforti militari, destinata al comandante e alle sue guarnigioni, e si modificarono i merli guelfi in ghibellini.

I Visconti inviano Francesco Bussone detto il Carmagnola che il 16 marzo 1421 conquista il castello di Breno e scacciando le forze di Pandolfo III Malatesta dalla Valle Camonica.

A seguito della battaglia di Maclodio nel 1427 i milanesi riducono le forze in Valle, permettendo al Carmagnola (allora schierato con la Serenissima) di raggiungere e conquistare il castello di Breno che viene messa sotto il comando di Giacomo Barbarigo.

Pietro Visconti scende dall'alta valle fino a giungere a Lovere il 18 settembre 1438. Consolidate le posizioni sul lago d'Iseo torna a Breno e ne pone il castello sotto assedio. L'assedio del castello di Breno si protrae per sei mesi finché Pietro Avogadro, giungendo con soccorsi da Brescia, rompe l'assedio dopo una lunga resistenza degli occupanti, tra cui l'eroico Giacomo Ronchi.

Nel 1453 il castello di Breno, difeso da Pietro Contarini, Capitanio di Valle, Nicolò Rizzi, Castellano, Decio Avogadro, Pasino Leoni e la famiglia brenese dei Ronchi oppone una fiera resistenza. L'assedio inizia nel novembre 1453, supportato dalla filomilanese famiglia Federici.

Francesco Sforza, avendo difficoltà a risolevere l'assedio, ordina al Colleoni di presentarsi con 1500 uomini e tramite l'uso dell'artiglieria da fuoco (qui per la prima volta in Valcamonica) i milanesi riescono a far capitolare la rocca.

Il 9 aprile 1454, la pace di Lodi mise fine alle contese tra la Serenissima e Ducato di Milano per il controllo sulla valle: i territori bresciano e camuno passarono definitivamente sotto il dominio veneto.

L'anno seguente, per evitare eventuali episodi di resistenza, Venezia ordinò la distruzione di tutti i castelli e rocche esistenti sul territorio valligiano, con l'esclusione di quello di Breno, che venne destinato a sede del reggimento locale, Cimbergo e Lozio, tenuti dalle famiglie Lodrone e Nobili schierate con la dominante.

Le fortificazioni curvilinee sul lato sud del castello sono datate a questo periodo: senza spigoli vivi resistevano meglio alle armi da fuoco.

Ripresa nel 1516 ai francesi, nel 1518 la rocca non più indispensabile per il controllo territoriale, e viene privata del presidio di sei uomini. Nella seconda metà del secolo il castello risultava "inhabitato": il Capitanio di Valle e gli altri funzionari avevano trovato sistemazione in paese.

Fra le sue mura per centinaia di anni si sono dipanate le vite di dame e cavalieri, umili servitori e ricchi signori, artigiani e soldati che hanno animato la rocca e il cui ricordo sembra ancora aleggiare negli ambienti e nei cortili.

La visita guidata si svolge nella dimensione del racconto, della lettura di stratigrafie murarie e dell’analisi degli ambienti, avvalendosi di schede didattiche e della documentazione fotografica del Centro di Divulgazione Archeologica (CIDA), sede distaccata del CaMus - Museo Camuno, particolarmente utile a illustrare la vita quotidiana delle diverse epoche di vita del sito.

Lo stile di alcuni muri indica che molte parti del castello esistevano già nel XII secolo, epoca di cui sono tipici i grandi blocchi di pietra rusticati, come quelli alla base della grande torre (altri esempi sono in Breno stessa). Di tale fase sono appunto la torre maggiore, un muro di recinzione, e almeno un edificio residenziale o palatium. Da qualche secolo doveva già esservi, sullo sperone roccioso, la piccola chiesa che la tradizione vuole dedicata a S. Michele. Nei rifacimenti della chiesa andarono sconvolte numerose sepolture umane, che indicano un villaggio e che formano il piu importante campione scheletrico della popolazione altomedievale della Valcamonica.

Nella parte sudovest dell'area dell'arroccamento fu costruito verso il 1200 un edificio signorile del tipo casa-torre. Della casa rettangolare, alta piu di 10 metri, si notano le porte simmetriche del piano superiore, che davano accesso a ballatoi, e i buchi delle travature orizzontali. Poco distante si erge ancora la piccola torre. Entrambe le strutture sono state modificate e inglobate in murature militari dei secoli XV-XVI. Già verso il 1250 l'intera cima della collina doveva essere stata chiusa con un muro di cinta, come indicano i tratti superstiti di bella muratura ordinata, e all'ingresso occidentale doveva esservi la torre-porta, ancora in uso. Ma la maggior parte di ciò che oggi si vede nel castello corrisponde alla sua funzione di fortezza militare durante tre secoli (XIV-XVI) punteggiati di costanti e frequenti rifacimenti edilizi. Le tracce si vedono soprattutto nella parte superiore dei muri; i cosiddetti merli ghibellini presso la torre-porta, per esempio, sono del XIV o XV secolo. D'altra parte la posizione naturalmente difesa non richiese adattamenti militari ingenti. Solo sul lato meridionale, dove la collina è un po' più dolce, si notano grandi opere difensive del tardo XV o dell'iniziale XVI secolo, gli avancorpi con torrette rotonde oggi in proprietà Franceschetti. Di tale età sono pure i corpi lungo la rampa di accesso, i vani chiusi a volta a sud dei cortili, e i rinforzi massicci della muraglia di cinta nei pressi dell'ex-chiesa. L'archeologia ha infine rivelato che fino agli ultimi decenni la roccaforte fu testimone di episodi cruenti.




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lunedì 29 giugno 2015

LA VILLA DELLA PORTA BOZZOLO A CASALZUIGNO



La famiglia notarile dei Della Porta, originaria di Porto Valtravaglia, nel Cinquecento aveva eletto Casalzuigno a propria dimora. Qui, Giraldino della Porta acquistò un vasto possedimento terriero dove edificò una residenza denominata “domus magna” le cui vestigia sono visibili ancora oggi. Tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo, Gian Angelo Seniore della Porta e Carlo Girolamo I apportarono consistenti modifiche e migliorie all’edificio, che assunse l’aspetto attuale.
Al figlio di Carlo Girolamo, Gian Angelo III si deve la creazione del magnifico giardino all’italiana. Egli, in aperto contrasto con la moda del tempo, che prevedeva i giardini in asse con le sale di rappresentanza, diede ordine di realizzare un viale d’accesso che congiungesse la grandiosa aiuola principale alle altre, commissionò quattro terrazze accessibili da una monumentale scalinata e un ampio prato (il cosiddetto teatro) chiuso da una fontana a nicchioni. Da qui si snodava un maestoso viale zigzagante, in origine fiancheggiato da soli cipressi, che scortava al belvedere situato sulla cima del colle.
Internamente, Gian Angelo III fece decorare la villa con fregi mitologici e floreali che richiamavano idealmente il giardino. Nel 1752 fece edificare l’Oratorio della Beata Assunta che venne utilizzato dapprima come cappella di famiglia, ma che divenne poi la chiesa parrocchiale del paese. Con l’estinzione della famiglia della Porta avvenuta nel 1814, la tenuta, dopo alterne vicende, venne ereditata dalla famiglia Bozzolo che, raggiunto un accordo con il Fondo Ambiente Italiano (FAI), nel 1989 gli donò la proprietà. La fondazione, dopo aver svolto le necessarie opere di ristrutturazione, ha aperto ai visitatori la villa e il giardino.

La facciata di Villa Della Porta Bozzolo è semplice ed elegante, in particolare per la linearità delle forme e per le decorazioni a tinte tenui concentrate soprattutto attorno alle finestre. Addenstrandosi all'interno, la prima stanza che si incontra è l'ampia sala da ballo, con il pavimento in cemento colorato e un imponente camino in marmo, affrescata con scorci paesaggistici che creano un interessante gioco di illusioni prospettiche. Nella volta sono invece rappresentate coppie di amorini che sorreggono dei tondi contenenti figure allegoriche e fanno da cornice all'immagine centrale dell'incontro tra la Pace e la Giustizia, richiamante un salmo di Davide.

Da qui dirigendosi a sinistra si incontrano la sala del biliardo coi busti di Camillo Bozzolo, senatore del Regno, e della moglie Caterina Belfanti, un salottino dotato di un prezioso arredamento ove spiccano un'ampia specchiera settecentesca, un pianoforte impero ed un orologio da parete di manifattura piemontese.

Appeso ad una parete della Sala del Biliardo è esposto il biribissi, un antico e popolare gioco d’azzardo in voga nel ‘700, da molti considerato l’antenato della roulette.

Andando invece verso destra, superato il camerino, si accede alla sala da pranzo dotata di una volta affrescata con l'immagine di San Francesco sul carro di Elia: in questa stanza è possibile ammirare una raccolta di vasi farmaceutici e, all'interno di un'antica credenza, un servizio da tavola in ceramica riportante lo stemma del casato fondatore. Si passa quindi attraverso le cucine ed un'anticamera impreziosita da un armadio settecentesco contenente parte della raccolta libraria della villa per poi raggiungere lo studio, il locale meglio conservato nel tempo con il suo austero arredo ligneo e, alle pareti, i ritratti dei fratelli Richini che divennero proprietari della villa poco dopo la metà del XIX secolo.

Salendo lo scalone si giunge al livello superiore dell'edificio, entrando in una galleria affrescata dove all'interno di finte nicchie sono rappresentate le figure femminili simbolo delle sette Virtù con al centro l'episodio biblico di Agar e Ismaele assistiti dall'Angelo. Sulla destra si apre il salone decorato con un fregio settecentesco opera del Romagnoli e, all'interno di cornici dipinte, ritratto di alcuni membri della famiglia Della Porta. Il piano si completa poi con una serie di stanze da letto: a destra del salone si trovano in successione la "camera del letto rosso" con il suo talamo a baldacchino della fine del XVIII secolo e la splendida "camera dal letto verde", dove spicca un originale letto del Settecento con le cortine del baldacchino damascate e il paramento alla base realizzato in seta intrecciata con fili d'argento; da notare anche le poltroncine e le sedie neoclassiche che completano l'arredo. Alla sinistra del salone, si costeggia una piccola alcova per giungere poi alla "camera del baldacchino giallo" che prende il nome appunto da un letto circolare in seta damascata collocato in un ambiente arricchito anche da una solida scrivania francese e da una specchiera d'epoca. Riattraversando la galleria si possono osservare le ultime tre stanze: "la camera del letto giallo" che ospita affreschi sulla vita di Mosè e un prezioso orologio da tavolo stile impero, e un'anticamera con un fregio decorato da vicende evangeliche che conduce ad un'ulteriore alcova.

Tratto distintivo della villa è sicuramente il ricchissimo giardino esterno, caratterizzato da un significativo patrimonio di piante e fiori, da edifici rustici che rimandano ad un passato in cui l'edificio era punto di riferimento dell'attività agricola della zona e da elementi monumentali che lo rendono una vera e propria "architettura dell'ambiente".

Varcato l'ingresso e superate le scuderie, ci si imbatte in una serie di strutture che erano adibite a scopi pratici: la ghiacciaia dove venivano conservati gli alimenti, il cinquecentesco monumentale torchio in legno (il più grande nel suo genere di tutta la Lombardia), utilizzato per la spremitura delle vinacce, la macina sfruttata per la produzione di olio, la vecchia filanda e la cantina, dove sono ancora conservate antiche botti.

Tutto questo fa da preludio allo stupefacente giardino barocco che si articola con scelta insolita, lungo un asse principale parallelo alla facciata dell'edificio, che risale la vicina collina attraverso quattro terrazzamenti ornati da balaustre e statue in pietra di Viggiù e collegati da un'elegante scalinata dello stesso materiale che raggiunge il cosiddetto "teatro", una vasta e scenografica area verde punteggiata da cipressi e impreziosita da un fontanile. Da qui è possibile proseguire lungo un sentiero sterrato che si inoltra nel bosco fino a raggiungere il vicino belvedere, dove godere della splendida vista sulla Valcuvia e le alture limitrofe e ammirare la chiesetta di San Bernardino, risalente al XV secolo. Partendo invece sempre dal parterre principale di fronte alla villa e superando una cancellata d'ingresso sulla quale spiccano le statue delle Quattro Stagioni, si giunge al "giardino segreto", uno spazio più raccolto e meditativo con un viale alberato che conduce ad un'edicola che racchiude un affresco raffigurante Apollo e le Muse. Dal punto di vista floreale il parco si presenta, in particolare da fine febbraio in poi, come una variopinta tavolozza di colori grazie soprattutto a roseti, ortensie ed una grandissima varietà di crocus.


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sabato 20 giugno 2015

PALAZZO GAMBARA A VEROLANUOVA



Nel tardo Medioevo i Gambara elessero quali residenze principali della famiglia due località del bresciano, Verolanuova e Pralboino. Ranuzio Gambara, fratello del cardinale Giovanni Francesco che a Viterbo - a fine '500 - fece costruire Villa Lante, fu il committente del palazzo di Verolanuova.

Sui pilastri d'ingresso a palazzo Gambara sono collocate le Statue di Marte e Pallade, ovvero forza e saggezza.

Le statue sono attribuite a Santo Callegari, capostipite di quella straordinaria dinastia di scultori che opererà a Brescia fino all'inizio dell'800.

I Callegari ebbero in Antonio il più fantasioso e geniale interprete del barocco bresciano. Le due statue hanno una presenza assai rilevante anche per i significati simbolici.

Marte, sinonimo di guerra significava capacità di portare offesa, Pallade, uno dei vari nomignoli attribuiti ad Atena (la Minerva romana), era la protettrice delle scienze e dell'arte, ispiratrice di nobili imprese ma armata per saper difendere gli ideali che perseguiva.

Il muro di difesa è coronato da una balaustra in pietra, il palazzo è nato, infatti, come struttura fortificata.

Nel muro si aprono tre cancelli: due all'estremità hanno più l'aspetto di porte pedonali chiuse fra due possenti pilastri a larghe fasce di pietra; quello centrale è più accogliente, arricchito da pilastri bugnati in pietra di Botticino portanti due statue barocche di Minerva e Marte del Callegari.
Altro cancello barocco è posto più a monte a dare accesso al giardino superiore.

Il lato sud è la parte più antica, testimonia l'origine fortificata del palazzo e cela tracce di una torre con coronamento a mensole ricurve.
Il corpo di fabbrica si configura come architettura dai caratteri tre-quattrocenteschi con portico su pilastri ottagoni, forse parte del monastero benedettino di S Donnino divenuto nel XIII secolo giuspatronato della famiglia Gambara (Perogalli, Sandri, 1983).
Il lato Sud ospitava anche lo scalone di accesso al palazzo di cui oggi rimangono solo alcune tracce. Attualmente è sede della biblioteca comunale, mentre il corpo bandistico svolge le sue attività nei locali interrati accessibili da via Semenza (Il Cantinù).

L'ala Nord dell'edificio presenta caratteri architettonici ottocenteschi.
Attualmente ospita la sede della polizia municipale, la casa del custode e una sala riunioni. La facciata posteriore è singolare e severa, decisamente meno ricca e articolata della principale.
L'impostazione architettonica è rimarcata dalla presenza di un toro marcapiano nella parte inferiore, chiara allusione all'architettura fortificata dell'epoca.
Le finestre hanno un ornamento semplice in pietra e al centro campeggia una bella trifora serliana, anch'essa in marmo, con balcone e balaustra di carattere tipicamente veneziano; essa illuminava il salone centrale ora distrutto.

Nella parte frontale, quella antistante la piazza, Il 'giardino d'onore', formalizzato e recentemente sistemato, si offre come verde cornice alla facciata del Palazzo.
Tutto intorno allo stesso, un giardino 'romantico' con un boschetto leggermente rialzato, un ruscello e vialetti pedonali.
Nella parte posteriore vi è un prato un tempo più vasto che oggi ospita la caserma dei carabinieri, l'acquedotto municipale e la sede del giudice di pace.
L'antica conformazione del giardino, dunque, è andata per lo più perduta; i recenti interventi di restauro si ripropongono di restituire all'area l'ordine e la fruibilità con opere di salvaguardia e ripristino della vegetazione.

Nella porta centrale sotto al porticato vi è l'ingresso a una scala di proporzioni modeste perchè di costruzione recente, la sua posa nel 1840 ha determinato l'infelice divisione di quello che doveva essere il salone d'onore del primo piano.
Lo scalone originale doveva invece essere a lato Sud. La distribuzione interna delle sale risulta, dunque, notevolmente trasformata dai secoli e dall'uso a cui il Palazzo fu di volta in volta adibito.
Oggi è sede comunale.



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lunedì 8 giugno 2015

VILLA BURBA A RHO

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E' una villa seicentesca ad architettura tipica lombarda, nata come residenza di campagna. La sua raffinata bellezza è data da ornamenti tardo-barocchi. Di rilievo sono i balconi, i cancelli, le ringhiere in ferro battuto e il salone centrale, caratterizzato dal camino in pietra. All'esterno della villa un parco con essenze pregiate.
Negli interni della villa, appartenuta ai marchesi Cornaggia Medici, è ospitata una mostra permanente di oggetti, mobili e suppelletili che costituivano gli arredi originali della villa tra la fine del 1700 e l'inizio del 1900, e che hanno permesso di ricreare alcuni ambienti originali come una cucina, un salotto e una camera da letto. Una piccola collezione archeologica raccoglie reperti di epoca romana (I-III secolo d.C.) rinvenuti nel corso di scavi in area locale. Presso la biblioteca ospitata in questo edificio, trova spazio un'altra mostra permanente: quella delle opere dello scultore Franco Fossa, allievo di Marini, Manzù e Messina. Nel 2006 uno splendido intervento di restauro ha recuperato i corpi rustici, la scuderia, la stalla, il fienile, il filatoio, oltre che una parte del retrostante giardino.

L'impianto strutturale propone uno schema ad U piuttosto dilatato nel corpo centrale, il quale dispone di un porticato caratterizzato da tre archi ribassati sorretto da colonne sobrie. L'area di accesso alla villa è delimitata da una vasta cancellata, e tra l'ingresso e l'edificio si staglia una elaborata fontana. Completano il complesso architettonico i corpi rustici costituiti dal fienile, dalla stalla e dal filatoio, recentemente recuperati ed adibiti ad attività culturali e sedi espositive.

Il parco di 13.000 mq: è aperto al pubblico nella buona stagione, ospita essenze varie e alcuni esemplari arborei molto antichi, conserva parte della recinzione originaria decorata con statue e mosaico in ciottoli di fiume.
La corte rustica, ricuperata a nuove funzioni: la rimessa, la stalla, il fienile e il filatoio sono oggi sale da convegno e da esposizione; due nuovi torricini ellittici trasparenti sul lato parco consentono l’accesso al pubblico e una fontana-lavatoio con pergolato evoca nel parco l’uso d’acqua originario.



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domenica 22 febbraio 2015

MILANO & SALUTE - IL SAN RAFFAELE -




L'Istituto scientifico universitario San Raffaele, meglio conosciuto con il nome di ospedale San Raffaele, è una struttura ospedaliera che sorge a cavallo dei comuni di Segrate e Milano. Fino al 10 maggio 2012 faceva parte della Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. Dall'11 maggio 2012 le attività sanitarie e di ricerca che facevano capo alla Fondazione sono state trasferite all' Ospedale San Raffaele srl controllata da Velca SpA. L'ospedale, accreditato nel 1999 come istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, fu fondato nel 1969 da don Luigi Maria Verzé, che ne è stato presidente fino al luglio 2011. Da maggio 2012 è diventato parte del Gruppo Ospedaliero San Donato.

L'ospedale si estende su un’area di 300.000 m2 nei pressi di Cascina Gobba e dell'Olgettina, sul confine tra Milano e Milano 2 di Segrate, mentre un suo distaccamento è situato nel quartiere milanese di Turro (San Raffaele Turro).

Un articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica pone l'Ospedale San Raffaele al primo posto tra gli ospedali italiani come qualità della cura. L'Ospedale San Raffaele è sede della Facoltà di Medicina e Chirurgia e della Facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute San Raffaele.
La costruzione dell'ospedale San Raffaele venne richiesta espressamente nel 1950 dall'allora arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, che incaricò don Luigi Maria Verzé di costruire un ospedale cristiano. Con questo scopo venne fondato nel 1958 il "Centro assistenza ospedaliera San Romanello", che elaborò un progetto di nosocomio, pronto due anni dopo. I finanziatori principali dell'opera furono la famiglia Bassetti e il conte Bonzi, che mise a disposizione il terreno per l'edificazione della struttura. Secondo alcuni, Luigi Verzé (nel frattempo interdetto dalla Curia milanese il 26 agosto 1964 con "la proibizione di esercitare il Sacro ministero") avrebbe potuto acquistare l'area del conte Bonzi grazie a un finanziamento statale di 600 milioni di lire, ottenuto attraverso i suoi contatti con i leader della DC romana.

Bisogna però aspettare il 24 ottobre 1969 per la posa della prima pietra, che avvenne a Segrate; l'anno successivo l'ospedale in costruzione viene conferito alla neonata Fondazione Centro San Raffaele del Monte Tabor. La struttura venne inaugurata il 31 ottobre 1971.

Le vicende di Verzé si incrociano presto con quelle di Silvio Berlusconi, all'epoca imprenditore e proprietario di Edilnord, dato che l'ex sacerdote aveva acquistato un terreno di 46 000 metri quadri - con l'idea di costruire quello che sarebbe poi diventato il "San Raffaele" - vicino all'area che sarebbe poi diventata "Milano 2", il complesso residenziale realizzato da Berlusconi. Il problema di allora era il transito su quell'area degli aerei in partenza dall'aeroporto di Milano-Linate, "così, nel 1971 inoltrarono, assieme, una petizione al Ministro dei Trasporti al fine di salvaguardare la tranquillità degli abitanti di Milano 2 e i ricoverati del san Raffaele". Tuttavia la modifica delle rotte, accordata dal Ministero, creò problemi di rumore ai comuni limitrofi; "la questione delle rotte si trascinerà per qualche anno, tra direttive serrate, proteste, irregolarità e comitati antirumore la direttiva Civilavia del 30 agosto 1973, a seguito dell'incontro di marzo scontenta tutti, eccetto, naturalmente, Edilnord e San Raffaele". Il 13 marzo 1973 si incontrano infatti comitati dei cittadini e funzionari del ministero, ma le carte topografiche di riferimento risultano pesantemente manomesse: Pioltello e Segrate rispecchiano la cartografia del 1848 mentre Milano 2, terminata al 25%, risulta completata.

Negli anni '70 si sviluppa anche la prospettiva scientifica di ricerca dell'HSR: nel 1973 vennero edificati laboratori per la ricerca e venne firmata con l'Università degli studi di Milano un'intesa di collaborazione, che si tradusse nel 1980 con l'apertura del Polo Universitario di Medicina e Chirurgia. Nel marzo 1976 Verzé è stato condannato dal tribunale di Milano a un anno e quattro mesi di reclusione per tentata corruzione in relazione alla convenzione con la facoltà di medicina dell'università statale di Milano e la concessione di un contributo di due miliardi di lire da parte della Regione Lombardia.

Negli anni ottanta proseguì l'espansione dell'ospedale: iniziò la costruzione del DiMeR (Dipartimento di Medicina Riabilitativa), il Dipartimento di Scienze Neuropsichiche presso la sede di Ville Turro, il centro per l'assistenza ai malati di AIDS. Seguirono negli anni novanta il Dipartimento di Biotecnologie (DiBit) e l'istituzione dell'Università Vita-Salute San Raffaele.

Nel 1999 l'Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico San Raffaele venne accreditato dalla Regione Lombardia.

Nel 2000 Verzé sostenne che, a causa di pressioni del mondo politico e degli ambienti finanziari di Roma, fu «costretto» a vendere la succursale romana dell'Ospedale San Raffaele «a un prezzo irrisorio» all'imprenditore romano Antonio Angelucci, il quale, soltanto pochi mesi più tardi lo rivendette allo Stato, suscitando scandalo sui media e numerose interrogazioni parlamentari.

Nel maggio 2003 viene inaugurata la nuova area di accettazione, con la Galleria delle Botteghe: per la prima volta in Italia una galleria commerciale si trova a operare all'interno di un ospedale.

Nel 2004 sono partiti i lavori per il raddoppio della struttura, con nuovi spazi per la ricerca, per la didattica, per l'accesso al Pronto Soccorso, per l'alloggio dei parenti e per il Dipartimento materno-infantile.

Nel marzo 2006 è stata inaugurata la prima parte del nuovo dipartimento di ricerca DiBit 2 ed è stata posata la prima pietra per la costruzione del Dipartimento materno-infantile.

Nel marzo 2008 è stata posata sulla sommità della cupola del nuovo DiBit 2 una statua raffigurante l'Arcangelo Raffaele, uno dei simboli dell'istituto.

Il 10 gennaio 2012 il gruppo ospedaliero San Donato si aggiudica l'ospedale per 405 milioni di euro. L'11 maggio 2012 le attività sanitarie e di ricerca che facevano capo alla Fondazione sono state trasferite alla Ospedale San Raffaele S.r.l. controllata da Velca S.p.A.



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