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martedì 19 maggio 2015

LE VILLE DI LIMBIATE : VILLA CRIVELLI

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Villa Pusterla-Crivelli-Arconati è una villa settecentesca situata a Mombello, (frazione di Limbiate in Provincia di Monza e della Brianza), in cui soggiornarono Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, e Napoleone Bonaparte, che la utilizzò anche come suo quartier generale.

E´ la più importante villa di Limbiate sia sotto l´aspetto storico sia sotto quello artistico.Palazzo Crivelli, più conosciuto come Villa Pusterla - Crivelli, è una delle maggiori testimonianze dell´architettura lombarda del Settecento.
L´attuale struttura è stata realizzata dall´architetto Francesco Croce su incarico del conte Stefano Gaetano Crivelli e risale probabilmente al 1754.
In realtà, le origini dell´edificio sono molto più antiche e giungono al periodo dell´alto medioevo.
Giacomo Antonio Carcano, appartenente alla nobile e antichissima famiglia milanese, lascia alla sua morte, avvenuta nel 1543, come eredi delle sue proprietà i nipoti Arconati, figli di sua sorella Elena e di Giovanni Gaspare. Di questa eredità anche Mombello, con i suoi molti terreni e le case da nobili.

La villa si presenta con una forma a ferro di cavallo, con la facciata, ornata da due semi torri, rivolta a levante. La costruzione risale al XIV secolo per volere dei Pusterla che la utilizzavano come dimora suburbana. L'aspetto della villa in quel tempo erano quelle di una fortezza-palazzo dalla forma quadrata: gli edifici, molto semplici, occupavano i quattro lati lungo una corte chiusa e un bastione la recingeva. Si pensa anche che fosse molto più antica, risalente addirittura al medioevo, come risulterebbe dalle indagini svolte dall’ingegner Quarantini per conto della famiglia Crivelli: egli riconobbe antichi locali posti nel palazzo (dispense, cucina e cantine sotterranee) che erano preesistenti ai lavori svolti nel ‘500 dalla famiglia Arconati.

La villa nel XVI secolo era divenuta proprietà di Giacomo Antonio Carcano che alla sua morte la lasciò in eredità ai nipoti Arconati, figli di sua sorella Elena e del marito di lei Giovanni Gaspare. Oltre all’edificio i nipoti, ebbero in eredità anche Mombello: terreni e case. La famiglia Arconati apportò delle modifiche alla residenza, in particolare Giovanni Battista Arconati che tra il 1560 e il 1564 fece modificare la struttura preesistente creando poco armonici contrasti tra la parte antica e quella nuova . In seguito fu Anna Visconti a ordinare dei lavori alla villa, in particolare il doppio portico aperto sulla facciata a ponente del palazzo. Il portico venne chiuso e riaperto più volte; oggi è aperto, anche se non più nell'aspetto con cui si presentava all’epoca.

La famiglia Arconati cedette quindi la residenza al Conte Giuseppe Angelo Crivelli nel 1718 che la trasformò in un lussuoso palazzo con giardino all’italiana ricco di fontane e giochi d’acqua. Durante questo periodo la villa fu in parte rifatta in stile barocco e fu alleggerita delle residue sue forme medioevali. Le venne conferita una pianta a U con le ali unite da un doppio porticato che racchiude un cortile interno. La facciata della villa venne ornata da due torri sotto le quali si stendono delle terrazze degradanti che sostituiscono il precedente scalone che risaliva il declivio della collina. Le terrazze si affacciavano sull’ampio giardino dove l’abate Crivelli impiantò un giardino botanico che al tempo era tra i più grandi d’Europa. La struttura, che è quella che ritroviamo oggi, venne realizzata da Francesco Croce su incarico di Stefano Gaetano Crivelli nel 1754. Venne anche costruito l’oratorio di S. Francesco (di cui oggi rimane la chiesetta non collegata all’edificio) che era collegato alla villa: una semplice cappella privata in stile barocco con affreschi rappresentanti san Francesco D' Assisi, san Carlo Borromeo e santo Stefano Martire.

Nel 1797, Napoleone Bonaparte per la sua bellezza preferì la villa Crivelli alla Reggia di Monza e vi insediò il suo quartier generale. Qui prese la decisione di creare la Repubblica Cisalpina. Napoleone fece anche celebrare il matrimonio delle sue sorelle Elisa e Paolina nell’ oratorio dei Crivelli, l’oratorio dedicato a San Francesco. In questo periodo Mombello ospitò anche Giovanni Gros, autore del primo grande ritratto di Napoleone che si trovava esposto nella Villa.

È stato prodotto un breve documentario, a cura dell'ass. Teses, che mostra i numerosi ambienti sotterranei del complesso.

Nel corso del XIX secolo la villa è rimasta in stato di abbandono sino a quando il comune di Milano nel 1863 acquistò l’edificio per utilizzarlo come manicomio apportando alla struttura numerose e depauperanti modifiche e fu utilizzata come manicomio sino all'entrata in vigore della famosa Legge Basaglia del 1978. Il manicomio di Mombello è il punto di arrivo di De là del mur, un poemetto di Delio Tessa.

Oggi l’edificio è sede dell’Istituto Tecnico Agrario Statale Luigi Castiglioni. Il nome gli deriva dall’illuminista italiano Luigi Castiglioni che abitò la villa per un breve periodo durante la seconda metà del ‘700 e ne utilizzò il parco per i suoi studi botanici, per i quali fu premiato da Napoleone .

La villa di recente è stata restaurata negli esterni; mantiene a grandi linee i caratteri barocchi e neoclassici apportati dai Crivelli, la chiesa di San Francesco oggi non è più collegata al palazzo, se non tramite i sotterranei, che sono la parte più antica dell’edificio, dove vi sono resti delle scale che scendevano la collina prima delle attuali terrazze. All’interno l’edificio conserva affreschi e varie decorazioni che tuttora testimoniano l’importanza della villa e la sua passata bellezza.







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lunedì 6 aprile 2015

IL REGNO LOMBARDO VENETO

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Il nome di Regno Lombardo-Veneto fu istituito dall'Impero Asburgico il 7 aprile 1815 nelle aree riunite della Lombardia e del Veneto, ricevute grazie alle decisioni del Congresso di Vienna. In precedenza e per secoli, la Lombardia era stata divisa fra lo Stato di Milano e la Repubblica di Venezia (più la Valtellina appartenente ai Grigioni), mentre il Veneto (che comprendeva anche il Friuli) era interamente compreso nei territori della Repubblica di Venezia.

Lombardia e Veneto divennero così le due parti di una nuova entità statale bicefala, in quanto all'interno non mancavano differenti aspetti amministrativi per motivi di eredità storica tra la radicata società veneta di stampo repubblicano e la patriziale Milano di stampo monarchico.

Il nome venne scelto ad esito di un, non breve, dibattito. Gli austriaci (o i loro alleati) non vollero conservare il nome scelto da Napoleone, Regno d'Italia. Vi sono evidenze che si prese in considerazione la dizione Ost und West Italien (Italia orientale ed occidentale), e perfino Österreichische Italien (Italia austriaca). Vennero infine scartate dizioni eccessivamente legate ad una delle due capitali o regioni: d’altra parte, Milano e le Venezie non erano mai state unite sotto un unico governo sin dall'arrivo dei Longobardi. Non esisteva quindi alcun termine per definire unitariamente i due territori. Si preferì quindi pronunciarle entrambe, con l'intento di stimolare un senso di avvicinamento che rendesse possibile un futuro unitario tra le popolazioni lombarde e quelle venete, ed anche per ridurre il senso di appartenenza storica delle stesse. La difficile onomastica segnalava bene, tuttavia, l'artificiosità della nuova creazione amministrativa.

Il 20 agosto 1813 l’Austria dichiarò guerra a Napoleone, reduce dalla disastrosa campagna di Russia ed abbandonato dai Prussiani. Essa costituì un'armata per invadere l'Italia affidata al feldmaresciallo Heinrich Bellegarde, che fu sconfitto dall'esercito del Regno d'Italia del Viceré Eugenio di Beauharnais sul Mincio l’8 febbraio 1814.

Nei due mesi successivi la posizione di Beauharnais peggiorò però sensibilmente, a causa del passaggio del Regno di Napoli di Gioacchino Murat all'alleanza con l'Austria l'11 gennaio, del successo della parallela offensiva austro-prussiana sulla Francia che portò il 31 marzo all'occupazione di Parigi e il 6 aprile all'abdicazione di Napoleone, e di una congiura anti-francese a Milano, sostenuta dalla meglio nobiltà milanese, che sfociò il 20 aprile nel saccheggio del Senato e nel massacro del ministro Giuseppe Prina: fu così che il 23 aprile il Viceré dovette firmare a Mantova la capitolazione. Il 26 aprile il commissario austriaco Annibale Sommariva prendeva possesso della Lombardia a nome del feldmaresciallo Bellegarde, e il 28 aprile Milano veniva occupata da 17.000 soldati austriaci.

Il 25 maggio Bellegarde sciolse la Reggenza del Regno d'Italia, che cessava di esistere, ed assunse i poteri come Commissario plenipotenziario delle province austriache in Italia per il nuovo sovrano, l’Imperatore Francesco I d'Asburgo. Il 12 giugno assunse la carica di Governatore generale in conseguenza dell'annessione della Lombardia già milanese all'Impero, proclamata il giorno stesso.

La caduta di Napoleone avrebbe dovuto, nei piani delle Potenze vincitrici, riportare l'Europa a quella che era prima del 1789, sennonché la profondità dei cambiamenti portati dalla conquista francese, unita ad alcuni vantaggi territoriali che qua e là le antiche dinastie avevano ottenuto negli ultimi cinque lustri, consigliarono l'apertura a Vienna di un Congresso per la risistemazione dell'Europa.

L’Austria poteva riannettere sotto il suo governo diretto territori che le appartenevano da lunga data per dominio diretto, cioè Trento, Trieste e Gorizia, o indiretto, come l'antico Ducato di Milano (Milano, Como, Cremona, Lodi, Pavia) e il connesso Ducato di Mantova - annessione sancita giuridicamente il 12 giugno da un proclama di Bellegarde, ripetitivo di una sanzione imperiale del giorno 7 - ma, differentemente, l'antica Repubblica di Venezia, per la quale l'unico diritto risaliva al disconosciuto Trattato di Campoformio (1797), non poteva avere medesima sorte: lì l'annessione allo stato austriaco era legittimata unicamente dall’accordo delle potenze vincitrici al Congresso di Vienna, che fu ottenuto solo a fronte della rinuncia ai diritti dinastici degli Asburgo sui Paesi Bassi cattolici (l'attuale Belgio). Per comprendere l'utilità per Vienna dello scambio, basti ricordare il classico argomento del Carlo Cattaneo, il quale sempre sostenne che dal Lombardo-Veneto Vienna traeva «un terzo delle gravezze dell'impero, benché facessero solo un ottavo della popolazione». Ben sintetizzò la situazione Giuseppe Martini: «Apertesi le trattative intorno alle cose d'Italia, e volendo quivi, siccome ne faceva pubblica promessa il congresso viennese, incominciare le sue decisioni da un grande atto di giustizia, statuì che l'Austria rientrerebbe in possesso di Milano e di Mantova; acquisterebbe altresì gli Stati veneti di terraferma con la giunta di alcuni territorii che, per antichi accordi fra i potentati italiani, appartennero un tempo agli Stati di Parma e di Ferrara; acquisterebbe ancora, non solo le terre della Valtellina con le contee di Bormio e di Chiavenna, siti molto opportuni a sopravvedere dappresso le cose della Svizzera, ed in caso di bisogno, introdurvi dissensioni, ma più lungi, in fondo alla Dalmazia, quelle che una volta componevano la repubblica di Ragusi».

I territori già veneti sulla costa orientale adriatica furono dunque aggregati direttamente all'Austria, ma Milano e Venezia erano tradizionalmente legittimate, per antica consuetudine, a godere di governi autonomi (anche se, nel caso di Milano, sotto sovrano straniero). Occorreva quindi riorganizzare tali territori in una entità amministrativa apparentemente autonoma, anche se unita all’Austria dalla persona del sovrano. La soluzione scelta fu di creare un unico Regno con una capitale e due governi, cui venne dato il nome di Regno Lombardo-Veneto.

Il 7 aprile 1815 veniva annunciata la costituzione degli Stati austriaci in Italia in un nuovo Regno del Lombardo-Veneto. Esso veniva costituito in base al Trattato di Vienna aggregando i territori dei soppressi Ducato di Milano, Ducato di Mantova, Dogado e Domini di Terraferma della Repubblica di Venezia, oltre alla Valtellina già parte della Repubblica delle Tre Leghe, e all'Oltrepò ferrarese già pontificio, mentre lo Stato da Màr, già sottoposto alla Serenissima, ne fu invece escluso incorporandolo direttamente ai territori dell'Impero.

Il Regno fu affidato a Francesco I d'Asburgo-Lorena, Imperatore d'Austria e re del Lombardo-Veneto. Il re e imperatore avrebbe governato attraverso un Viceré, con residenza a Milano e a Venezia, nella persona dell’Arciduca Ranieri, nato in Toscana e fratello minore dell'imperatore.

Lombardia e Veneto, separate dal Mincio, ebbero ciascuna un proprio Consiglio di Governo, affidato ad un Governatore, e distinti organismi amministrativi detti Congregazioni Centrali, alle cui dipendenze stavano le amministrazioni locali, tra cui le Congregazioni Provinciali e le Congregazioni Municipali.

Le competenze del Governatore, attraverso il Consiglio di Governo, erano assai ampie e riguardavano: censura, amministrazione generale del censo e delle imposizioni dirette, direzione delle scuole, lavori pubblici, nomine e controllo delle Congregazioni Provinciali. Oltre, naturalmente, al comando dell’esercito imperiale stanziato nel Regno, che, negli anni successivi si sarebbe occupato soprattutto di garantire l’ordine pubblico.

L’amministrazione finanziaria e di polizia, infine, era sottratta al Consiglio di Governo ed attribuita direttamente al governo Imperiale a Vienna, che agiva attraverso un Magistrato camerale (Monte di Lombardia, zecca, lotto, intendenza di finanza, cassa centrale, fabbricazione di tabacchi ed esplosivi, uffici delle tasse e dei bolli, stamperia reale, ispettorato dei boschi e agenzia dei sali), un Ufficio della Contabilità, una Direzione generale della Polizia.

Considerata la eccezionale centralizzazione del potere nelle mani del Governatore, nominato da Vienna, e del governo imperiale, ben si comprende come il ruolo del Viceré fosse assai marginale, ridotto a mera rappresentanza. A tal fine egli manteneva splendidi palazzi, ove teneva corte.

Tutte le alte cariche del Regno erano naturalmente di nomina regia, mai elettive. È questo uno dei motivi per cui esse erano in gran parte affidate ad austro-tedeschi; tutti austro-tedeschi furono i governatori, la grandissima parte degli ufficiali stanziati in Italia (mentre la truppa rispecchiava l’eterogenea composizione delle popolazioni dell’impero) e il Viceré: i forestieri godevano, quindi, del controllo quasi assoluto sulla vita del Regno. Famoso, a tal proposito, un colloquio del 1832 fra il nobile lombardo Paolo de' Capitani e Metternich: "Che necessità c'è di far occupare ogni posto notevole da Tirolesi e da sudditi di altre province?".

Questa situazione si presentava molto diversa dall'epoca di Maria Teresa d'Austria, quando invece si era cercato di far compenetrare molto di più austriaci ed italiani nell'amministrazione dei domini di possesso imperiale, legando simultaneamente la nazione alla corona dell'Imperatrice. Ovviamente questa era la linea che inizialmente si era proposta la commissione del Congresso di Vienna del 1815, anche se le condizioni cambiarono repentinamente già dai moti del 1820-21. Queste rivolte, infatti, avevano portato gli austriaci a ridurre la loro stima nei confronti degli italiani e per questo molte cariche erano state loro precluse per rappresaglia.

Per completare il quadro, il 1º gennaio 1816 entrarono in vigore i codici civile e penale austriaci, cosa che azzerò ogni possibilità di intervento italiano, sia pur attraverso il Consiglio di Governo.

Al patriziato locale italiano non restava quindi che il governo delle Congregazioni Provinciali e Municipali, cioè posizioni assolutamente secondarie. Le Congregazioni Municipali, ad esempio, curavano solamente la manutenzione di edifici comunali, chiese parrocchiali e strade interne, gli stipendi dei propri dipendenti e della polizia locale.

Come ricompensa ulteriore, seguendo il modello caro a Luigi XIV di Francia, il patriziato (in particolare lombardo) viveva di feste ed eventi mondani che si tenevano al Palazzo Reale, ed i rappresentanti dell'aristocrazia venivano sommersi di cariche (anche se di secondo piano) e di onorificenze, per essere legati sempre più all'amministrazione austriaca.

Sempre agli italiani era inoltre riservata la direzione dei teatri più importanti del Regno come quello alla Scala di Milano o La Fenice di Venezia. La sapiente direzione di questi importanti mezzi di comunicazione per l'epoca e la complicità dei direttori, permisero indirettamente e direttamente il passaggio anche dei messaggi che furono fondamento dei moti patriottici per la liberazione d'Italia, che videro impegnato primo tra tutti Giuseppe Verdi che non a caso fece rappresentare alcune delle proprie opere a Milano ed a Venezia. A teatro l'aristocrazia sfogava la propria impossibilità di farsi notare al governo con l'acquisto dei posti più in vista e dei palchi più ricercati in prossimità delle autorità.

Puntando sull'orgoglio degli italiani, va anche detto che il governo austriaco fece di tutto per rivalutare il passato glorioso delle tradizioni dell'area lombardo-veneta e fu così che ad esempio la Corona Ferrea venne mantenuta (seguendo l'esempio già avviato da Napoleone Bonaparte nel suo Regno d'Italia) quale simbolo della regalità nel Regno Lombardo-Veneto e prescelta quale corona ufficiale per le incoronazioni di ogni nuovo sovrano al titolo di Sovrano, incoronazioni che si svolgevano nel Duomo di Milano. Per commemorare l'importanza di queste glorie, venne istituito inoltre il mantenimento dell'Ordine napoleonico della Corona Ferrea, che venne concesso in prevalenza ad italiani per ricompensarli delle loro benemerenze verso l'amministrazione austriaca.

Subito dopo la proclamazione del regno, i sudditi lombardi e veneti si accorsero subito di come l’interezza del potere fosse affidato al governo viennese, sotto predominio austro-tedesco.

I "tedeschi" erano onnipresenti e sottraevano al patriziato e agli intellettuali lombardi e veneti grandi spazi che, in un regno realmente autonomo, sarebbero spettati loro.

Non solo: si trattava di un drastico peggioramento rispetto al Regno d'Italia, il quale era, sì, retto da un re (Napoleone) e da un viceré (Eugenio) francesi, che ne avevano fatto un protettorato di Parigi, ma godeva di un'amministrazione autonoma e quasi totalmente nazionale, come pure di un esercito nazionale, ove numerosi erano gli ufficiali lombardi e veneti.

In definitiva, sembrava ai più che il governo austriaco, ancorché efficiente, non rispettasse i diritti tradizionali della Lombardia e di Venezia e che, quindi, non godesse di alcuna legittimità. Né, com'è evidente, v’era la minima possibilità che tale legittimità venisse recuperata attraverso un processo costituzionale.

Queste considerazioni furono alla base della perenne instabilità politica in cui visse il Regno, almeno sin dal 1820, nonché della grande disponibilità delle élite e delle popolazioni a sostenere le guerre di indipendenza.

Il 22-23 marzo 1848 al termine delle Cinque giornate di Milano, gli Austriaci vennero cacciati da Milano e da Venezia. I due Consigli di Governo furono sostituiti dall'auto-proclamato Governo provvisorio di Milano e dalla restaurata Repubblica di San Marco.

Il 9 agosto 1848 con l'Armistizio di Salasco, seguito alla vittoria austriaca del 24-25 luglio a Custoza sulle truppe piemontesi, terminò la prima fase della prima guerra di indipendenza: Milano venne rioccupata ed il Governo Provvisorio di Lombardia viene sciolto. Il 22-23 marzo 1849 Carlo Alberto venne di nuovo sconfitto a Novara e abdicò in favore di Vittorio Emanuele II. Il successivo 24 agosto, dopo un lungo assedio, Venezia si arrese agli Austriaci.

Il Regno Lombardo-Veneto sopravvisse formalmente alla perdita della Lombardia (con l'eccezione di Mantova, come stabilito dai termini della Pace di Zurigo) al termine della Seconda guerra di indipendenza nel 1859 che ebbe come conflitto decisivo la Battaglia di Solferino e San Martino, per poi scomparire definitivamente nel 1866, al termine della Terza guerra di indipendenza quando il Veneto venne ceduto al Regno d'Italia dopo la Guerra delle sette settimane, con il trattato di Praga.

L'economia del Regno Lombardo-Veneto dalla sua fondazione è stata sommariamente imperniata attorno all'agricoltura, la quale ha sempre rivestito un ruolo fondamentale soprattutto nella Lombardia dell'Oltrepò. Le coltivazioni essenziali, che consentivano il sostentamento dello Stato e le esportazioni, consistevano in frumento, orzo, segale e soprattutto riso.

Nella stessa città di Milano, inoltre, era molto attivo il commercio legato alle grandi industrie produttive e manifatturiere comprese i calzaturifici e le fonderie di metalli. A Venezia era invece assai diffusa la pesca e le attività di produzione delle navi in quanto la città, assieme a Trieste, rappresentava il porto principale dell'Impero Austriaco e l'unico grande sbocco verso il Mar Mediterraneo.

Dagli studi condotti già all'epoca, apprendiamo che il Regno Lombardo-Veneto si trovava all'avanguardia anche nel campo dei trasporti e delle linee di comunicazione, in particolare se rapportato per l'epoca ad altri stati della Penisola.

Rilevanti erano stati gli sforzi compiuti per la realizzazione delle strade ferrate che tra Lombardia e Veneto coprivano una distanza notevole che poneva il grande stato di dipendenza austriaca secondo solo al Regno di Sardegna ove, grazie all'impulso del primo ministro Cavour tale opera evolutiva era iniziata alcuni anni prima.

La tratta ferroviaria Novara-Milano venne inaugurata nel maggio del 1859 dopo il frutto di lunghe trattative di collaborazione nei costi tra il Regno di Sardegna e la Lombardia, anche se meno di un mese dopo il milanese sarà conquistato da Vittorio Emanuele II con la Battaglia di Magenta che coinvolgerà direttamente questa ferrovia per l'invasione del territorio austriaco da parte dei piemontesi.

Altro mezzo di trasporto abbondantemente utilizzato nel regno Lombardo-Veneto (data anche la presenza di grandi corsi d'acqua) era il trasporto per mezzo di barche. Le corriere operavano regolarmente lungo il Naviglio Grande e gli altri navigli minori in Lombardia, collegando buona parte della periferia con la darsena di Milano, mentre a Venezia i traghetti collegavano le isole della laguna tra loro e con la costa illirica.

Il governo del Regno Lombardo-Veneto era strutturato secondo una precisa situazione gerarchica che comprendeva poche cariche effettive accentratrici del potere e molte cariche quasi puramente onorifiche.

Sovrano dello Stato era l'Imperatore d'Austria, che aveva il titolo di Re di Lombardia e delle Venezie, ma egli risiedendo a Vienna (capitale dell'intero Impero), governava attraverso un proprio sottoposto o Viceré, il quale come abbiamo detto aveva una rappresentanza solo formale in quanto egli risiedeva prevalentemente alla corte viennese. A reggere i rapporti tra governo centrale e Stato dipendente, erano due Governatori, rispettivamente uno per la Lombardia con sede a Milano ed uno per il Veneto con sede a Venezia. A ciascun governatore sottostava un Vicepresidente di governo il quale aveva funzione di operare in assenza del governatore, al quale seguiva un Imperial Regio Consigliere Aulico prescelto dall'Imperatore, col compito di vigilare sull'operato di governatore e vicepresidente di governo.

A queste prime cariche seguivano gli Imperial Regi Consiglieri di Governo che avevano il compito di coadiuvare il Governatore nell'amministrazione fisica dello Stato assegnatogli, ed erano solitamente nel numero di 9 per Lombardia e 9 per il Veneto. A questi facevano seguito gli Imperial Regi Segretari di Governo ed altre cariche minori di cancelleria ed amministrazione spicciola.

Seguivano quindi le Imperial Regie Delegazioni Provinciali che vantavano un delegato ed un vice-delegato per ogni provincia del regno, sia in Lombardia che in Veneto. Tali delegazioni raccoglievano di fatto le questioni dei comuni minori e le portavano a conoscenza del governo.

L'unione fra le due regioni del regno era assai labile, e così l'amministrazione reale del territorio fu affidata a due distinti Consigli di Governo facenti capo ai due Governatori. Le classi agiate erano rappresentate nelle due Congregazioni Centrali, nominate dai Governi su proposta delle stesse, che erano composte da un nobile e un possidente per ogni provincia, un borghese per ogni città, e il governatore quale membro e presidente di diritto.

I due Governi della Lombardia e del Veneto erano suddivisi in diciassette Province. Ciascuna Provincia era retta da una Delegazione Provinciale, istituita per la prima volta il 1º febbraio 1816 e al cui capo era posto un Regio Delegato, che sostituiva il prefetto napoleonico. In ogni Provincia era inoltre presente una Congregazione Provinciale composta per metà da nobili e per metà da possidenti locali, nominati per sei anni dal Governo su proposta delle autorità locali. I deputati provinciali erano proposti al Governo dalla Congregazione Centrale la quale sceglieva sulla base di terne presentatele dalle Città e dalla stesse Congregazioni Provinciali uscenti. Le prime nomine nel 1815 furono fatte direttamente dall'imperatore, mentre in seguito per rinnovi parziali triennali. Le Congregazioni vennero sciolte durante il periodo di governo militare del regno fra il 1848 e il 1857. Le Congregazioni erano composte da quattro o sei o otto deputati provinciali, più un deputato per ogni città, più il Regio Delegato in qualità di componente e presidente di diritto.

Ogni Provincia era suddivisa in Distretti, di cui 127 in Lombardia e 91 nel Veneto. Ogni Distretto era suddiviso in Comuni, cellule di base dell'amministrazione pubblica. A secondo della loro popolazione, i Comuni potevano appartenere a tre classi differenti: i Comuni di I classe, cioè i capoluoghi controllati direttamente dalle Delegazioni Provinciali, avevano un Consiglio Comunale di non più di 60 membri; i Comuni di II classe, dotati di un Consiglio Comunale di almeno 30 membri, erano sottoposti ad un Cancelliere del Censo; i Comuni di III classe, i più piccoli, erano diretti dall'Assemblea dei proprietari che si riuniva una volta l'anno, alla presenza del Cancelliere del Censo, per nominare i funzionari e per approvare il bilancio e i tributi, mentre nella restante parte dell'anno venivano delegati tre proprietari per l'ordinaria amministrazione.

All'interno di tutte le forme di amministrazione del governo Lombardo-Veneto, vennero formalmente mantenute le divisioni tradizionali tra Lombardia e Veneto, a loro volta unitamente dipendenti dall'Impero d'Austria.

È altresì vero, però, che l'Imperatore nominava un suo rappresentante amministrativo e legale nei suoi territori italiani, il quale prendeva il nome di Viceré. È bene premettere che molti dei Viceré del Regno, anche se formalmente accettanti l'incarico, non risiedettero mai entro i confini del Lombardo-Veneto, preferendogli di gran lunga la corte austriaca e l'amministrazione imperiale. Ad ogni modo i Viceré avevano la loro sede formale al Palazzo Reale di Milano, il quale accoglieva gli appartamenti del Viceré che erano utilizzati come residenza ufficiale anche dall'Imperatore quando questi si trovava in visita nel Regno. La residenza di campagna era rappresentata dalla Villa Reale di Monza.

La preferenza di Milano su Venezia per la scelta di una residenza, era dovuta a due fattori fondamentali: innanzitutto essa era una città strategicamente importante per tutta l'area dell'Italia settentrionale e soprattutto l'aristocrazia patriziale milanese era molto più incline a vedere un sovrano che direttamente risiedeva entro i propri confini che non i repubblicani veneziani. Peraltro questa tradizione di residenza milanese, seguiva le orme di quanto aveva fatto già Maria Teresa d'Austria ponendo la sede dell'antico Ducato di Milano a Milano. Tale territorio era stato tradizionalmente austriaco da molto più tempo rispetto a quello veneto, che invece era giunto entro i possessi della real casa d'Austria a partire dal crollo della Repubblica di Venezia nel 1797 e che era andato consolidandosi effettivamente solo a partire dal Congresso di Vienna.

Il senato di giustizia del Regno Lombardo-Veneto dopo che lo stato venne costituito, venne aperto ufficialmente il 7 aprile 1815, con sede a Vienna, rimanendo nella capitale imperiale sino al 28 giugno 1816, ovvero sino a quando il comandante Bellegarde non poté assicurare l'indiscusso potere austriaco sull'area della Pianura Padana. Nelle sessioni di questa prima fase vennero trattati gli affari giudiziari relativi al Veneto ed alla Dalmazia.

A partire dal 30 giugno 1816 apprendiamo che l'Imperial Regio governo diede disposizioni perché a partire dal 1º agosto 1816 venisse attivato il Senato di Giustizia del Regno a favore dell'intero stato da poco costituito e come tale che riprendesse l'attività amministrativa e deliberativa direttamente sul territorio italiano. Esso aveva essenzialmente il compito di controllare che tutte le azioni di governo si svolgessero "secondo la legge stabilita". Tale organo era praticamente un grande tribunale, ovvero aveva il compito di avallare le condanne più gravi che poi dovevano essere sottoscritte dall'Imperatore, giudicando delitti come la lesa maestà, la sommossa generale, fino a comminare il carcere a vita o addirittura la pena di morte nei casi più gravi.

In base alla sovrana risoluzione dell'11 aprile 1829, apprendiamo che il senato era retto da un presidente e da dieci consiglieri aulici, sei austriaci, quattro italiani (solitamente due lombardi e due veneti).

Il Senato sopravvisse di fatti sino al 3 gennaio 1851 quando il Feldmaresciallo Radetzky, con parere favorevole dell'Imperatore, visti i recenti disordini che le rivoluzioni avevano portato soprattutto in Lombardia, ne decise la soppressione e i compiti amministrativi di sua precedente competenza vennero trasferiti al Ministero della Giustizia, quindi a Vienna, altro punto che gettò il Lombardo-Veneto nel malumore, sentendosi gli abitanti di queste regioni privati di un'importante pietra miliare: l'autonomia nella giustizia.

L'amministrazione della giustizia nel regno Lombardo-Veneto era suddivisa in tre gradi: Pretura e Tribunale, Tribunale d'appello e Supremo Tribunale di Giustizia. Ciascun capoluogo provinciale era sede di un tribunale di primo grado, mentre nei due centri regionali di Milano e Venezia erano presenti due corti d'appello. Al vertice del sistema si trovava il Senato, la Corte di Cassazione del Regno, che era stabilita a Verona, presso il Palazzo dei Capitani, a capo del quale venne posto il conte d'Oettingen-Wallerstein.

Circa la giustizia lombardo-veneto sovente gli storici hanno ravvisato incongruenze ed inesattezze tra i vari emendamenti legislativi pubblicati dal 1815 al 1859, il che si ritiene fosse alla base di fraintendimenti, disordini e dei consequenziali inasprimenti delle pene, soprattutto dopo i due periodi rivoluzionari della prima guerra di indipendenza. A differenza di altri domini austriaci in Italia come il Granducato di Toscana, nel Regno Lombardo-Veneto la pena di morte non era stata abolita e continuava ad essere comminata per lesa maestà, ribellione ed altri gravi reati.

In parallelo, altrettanto diffuso, era l'esilio o il carcere duro che la giustizia lombarda e veneta prescrisse in quegli anni in special modo per i cospiratori rivoluzionari ed i carbonari i quali erano presenti in gran numero su tutto il territorio. Vittime illustri di questa giustizia furono Silvio Pellico, Piero Maroncelli e Federico Confalonieri. Il carcere duro era rappresentato dalla Fortezza dello Spielberg presso Brno, in Repubblica Ceca, allora parte remota e sperduta dell'Impero austriaco.

Anche in questo passo, come si è visto, la giustizia austriaca si accaniva in particolare contro gli italiani, in quanto essa era amministrata dagli austriaci, il che penalizzava i giudizi a sfavore degli insorgenti.

Tutte le milizie armate non austriache, e perciò gestite da italiani soggetti all'amministrazione austriaca (come la guardia civica o polizia municipale), indossavano la caratteristica giubba verde, il che li fece soprannominare non senza un tocco di malizia "remolazz" ovvero "sedani", un termine che nel dialetto lombardo è usato tradizionalmente per indicare un individuo sciocco, uomo da poco, inesperto, ignorante. Evidenti sono gli intenti di odio ed insulto verso coloro che collaboravano con lo "straniero invasore".

L'esercito del Regno Lombardo-Veneto constava di nove reggimenti che rientravano all'interno del più vasto esercito imperiale.
Uno, il 22° (Trieste), apparteneva al Litorale austriaco.
Inoltre il Lombardo-Veneto forniva il personale che costituiva: i battaglioni cacciatori da campo (Feldjäger-Bataillone) N° 6, 11, 18 (lombardi), 8 e 25 (veneti), i reggimenti ulani (unità di cavalleria armate di lancia) N° 9, 11 (lombardi), 6 e 7 (veneti) ed il reggimento dragoni N° 8.

Contingenti lombardi e veneti erano altresì destinati a servire in tutte le altre unità combattenti e di servizio dell'armata imperiale: artiglieria da campagna (reggimenti N° 3, 6, 9 e 10), lanciarazzi (racchettieri) e artiglieria costiera, genio (battaglioni N° 1, 2, 6, 9, 10, 11) e pionieri (battaglioni N° 2, 6). Sudditi del Regno formavano gli equipaggi della flottiglia dei laghi italiani e del Danubio, oltre naturalmente che della marina da guerra: alle province di Treviso e di Venezia (distretti di leva del reggimento di linea N° 16) spettava infatti alimentare il Corpo Marinai, mentre alle province di Padova e di Rovigo per intero e Vicenza in parte (distretti di leva del reggimento N° 13) e a quelle di Udine e di Belluno (reggimento N° 26) spettava inviare i contingenti annui alla fanteria ed all'artiglieria di Marina. Nel territorio del Regno era reclutata anche la gendarmeria locale (Gendarmerie).

Una modifica alla ripartizione territoriale del 1856 venne introdotta tre anni dopo. Già con la chiamata di leva dell'anno di guerra 1859 (seconda guerra di Risorgimento italiano), le reclute prima assegnate ai reggimenti ulani N° 7 (veneto) e 9 (lombardo), che divennero ambedue galiziani, furono avviate ai reggimenti dragoni N° 1 e 3.
(Ordinanza circolare del 17 gennaio 1859)

Il Litorale Adriatico contribuiva, come si addice agli abitanti di una terra affacciata sul mare, ad alimentare la marina da guerra ed il corpo delle flottiglie, oltre a formare il 19º battaglione cacciatori, il reggimento corazzieri N° 5 e quello dragoni N° 4, l'artiglieria costiera, il 6º battaglione genio ecc.

Nel reggimento Cacciatori dell'Imperatore (Kaiserjaeger), reclutato tradizionalmente nelle regioni montane del Voralberg e del Tirolo, di cui faceva parte anche l'attuale Trentino, affluivano invece le reclute italiane che popolavano quella provincia.

Il battaglione era la pedina fondamentale per dosare le forze in funzione del compito da assolvere; in guerra contava 1336 uomini suddivisi in 6 compagnie; la compagnia contava 221 uomini (4 ufficiali, 2 sergenti maggiori "Feldwebel", 4 sergenti "Zugsführer", 8 caporali, 12 sotto-caporali "Gefreite" e 191 soldati semplici inclusi tamburini, trombettieri, zappatori, conducenti e attendenti).

Sul piede di guerra il reggimento era formato da 4 battaglioni operativi (uno di granatieri su 4 compagnie e tre di campagna su 6 compagnie), più il 4º battaglione di campagna, destinato di norma di presidio nelle guarnigioni, e quello di deposito su 4 compagnie, per un totale di 6886 uomini delle 32 compagnie, compreso lo stato maggiore di reggimento, a cui faceva parte la banda musicale che sempre seguiva il reggimento in campagna. Il carreggio, affidato ad un apposito sottufficiale denominato "Wagenmeister", era composto da 32 carri e 76 cavalli, inclusi la fucina da campo ed il carro ambulanza.
(Organisationsstatut für die k.k. Armee, 26 gennaio 1857)

La religione era forse l'argomento che più di ogni altro univa il Regno Lombardo-Veneto al suo interno e con l'Impero Austriaco, in quanto entrambe le nazioni avevano alla loro base una profonda fede cristiana e come tale il cattolicesimo era stato dichiarato religione di Stato.

A Venezia, permaneva un copioso nucleo ebraico con sede nel ghetto di Cannaregio. A Milano il cattolicesimo, ad ogni modo, aveva pesantemente risentito delle riforme apportate da Giuseppe II alla fine del Settecento, il quale aveva soppresso molti conventi e monasteri nel tentativo di incamerare i beni della chiesa nelle casse statali dell'allora Ducato di Milano. La nuova politica austriaca consistette quindi in una parziale e formale riconciliazione con la chiesa milanese, alla quale vennero concessi nuovi onori e privilegi da poter esercitare come ad esempio la presidenza spirituale dell'ordine cavalleresco lombardo-veneto della Corona Ferrea. Non mancarono ad ogni modo le pesanti pressioni d'influenza anche nell'ambito ecclesiastico appena dopo la costituzione del Regno: a Milano, ad esempio, nel 1818 venne eletto arcivescovo l'austriaco Karl Kajetan von Gaisruck che rimase in carica sino al 1846, governando la diocesi per una buona parte della vita del neonato regno lombardo-veneto.

Idioma ufficiale del Regno Lombardo-Veneto era l'italiano, lingua nella quale veniva impartita l'istruzione elementare, che era obbligatoria e gratuita per tutti i bambini del Regno.

La popolazione parlava abitualmente le lingue locali: lombardo, veneto, friulano e ladino. Presenti anche minoranze germanofone (cimbri, sappadioti) nelle province di Vicenza, Belluno, inoltre una minoranza parlava sloveno in provincia di Udine nella Slavia veneta.

Costituita nel 1797 dalla originaria marina veneziana, la "Marina da guerra austro-veneziana" ( österreichische-venezianische Kriegsmarine) usava ufficialmente la lingua veneta, e anche i capitani (austriaci) erano obbligati ad usarla.

Proseguendo nella strada già tracciata sotto il dominio francese, dal 1822 il Lombardo-Veneto conobbe una radicale trasformazione anche in cambio monetario.

Il sistema di conto scelto fu quello milanese, restaurato dopo la parentesi napoleonica e preferito in quanto già armonizzato ai modelli tedeschi, mentre non fu restaurato l'antico retaggio di epoca medievale della complessa monetazione della Repubblica di Venezia. La coniazione austro-milanese consisteva in una monetazione nei classici tre metalli (oro, argento, rame), la quale andò a differenziarsi e perfezionarsi sotto i diversi sovrani che regnarono. All'epoca della sua fondazione nel Regno Lombardo-Veneto circolavano ancora le valute francesi, in quanto i pesanti debiti contratti in guerra non permettevano un'immediata coniazione.

Fu Francesco Giuseppe ad apportare le prime variazioni nel sistema monetario Lombardo-Veneto: egli infatti eliminò il 1/4 di lira austriaca, sostituendolo con una moneta in rame da 15 centesimi, aggiungendone anche una da 10 centesimi. Successivamente alla Seconda guerra d'indipendenza, nel Veneto entrò in vigore come moneta spicciola il soldo e i 5/10.

Il governo austriaco, inoltre, abolì definitivamente tutta una serie di zecche minori che già si trovavano poco attive sul finire del Settecento e sotto l'amministrazione di Maria Teresa e Giuseppe II, mantenendo attive unicamente le zecche di Milano e Venezia.

Parallelamente a questa circolazione di monete, erano usate come monete di libero scambio anche quelle dell'Impero Austriaco (austriaca ed ungherese), che seguivano una tipologia di monetazione differente: il calibro in questi casi era costituito dal peso effettivo del metallo della moneta.

La storia filatelica del Lombardo-Veneto è assai più giovane rispetto a quella numismatica in quanto i primi francobolli stampati ufficialmente (e quindi non a timbro) vennero realizzati a partire dal 1º giugno 1850 sotto l'amministrazione di Francesco Giuseppe che regolamentò anche questi valori tassati con precise normative.

A Milano come a Venezia si diffusero in parallelo anche i valori tassati per i giornali, gli almanacchi e le pubblicazioni ed all'amministrazione austriaca va anche il merito di aver introdotto in queste regioni le marche da bollo ed i valori tassati per la grande quantità di documentazione cartacea che andava producendosi negli uffici governativi.

Secondo le normative postali d'epoca il costo era delle normali lettere era il seguente (1 lega = 7420 metri):

nel circondario di distribuzione dell'ufficio postale di impostazione: cent. 10
per una distanza inclusivamente a 10 leghe: cent. 15
oltre a 20 leghe: cent. 45
Si considerava lettera semplice quel plico che non superasse in peso un "lotto viennese" che corrispondeva a 17,5 grammi.


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lunedì 16 marzo 2015

LA VILLA REALE DI MONZA

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La Villa Reale di Monza è un grande palazzo in stile neoclassico che fu realizzato e usato come residenza privata dai reali Austriaci, successivamente diventato Palazzo Reale con il Regno d'Italia Napoleonico, e mantenuto in tale funzione - seppur via via diminuendo - dalla monarchia Italiana dei Savoia, ultimi Reali ad utilizzarlo.

Attualmente ospita mostre, esposizioni e in un'ala anche l'Istituto Superiore d'Arte e il Liceo artistico di Monza.

Maria Teresa d'Austria decise la costruzione della Villa Arciducale quando stabilì di assegnare al figlio Ferdinando d'Asburgo-Este la carica di Governatore Generale della Lombardia austriaca. La scelta di Monza fu dovuta alla salubrità dell'aria e all'amenità del paese, ma esprimeva anche un forte simbolo di legame tra Vienna e Milano, trovandosi il luogo sulla strada per la capitale imperiale.

L'incarico della costruzione, conferito nel 1777 all'architetto imperiale Giuseppe Piermarini, fu portato a termine in soli tre anni. Successivamente il giovane arciduca Ferdinando fece apportare aggiunte al complesso, sempre ad opera del Piermarini e usò la Villa come propria residenza di campagna fino all'arrivo delle armate napoleoniche nel 1796.

Eugenio di Beauharnais, nel 1805 nominato viceré del nuovo Regno d'Italia, fissò la sua residenza principale nella Villa che quindi in questa occasione assunse il nome di Villa Reale. Tra il 1806 e il 1808 per suo volere al complesso della Villa e dei suoi Giardini fu affiancato il Parco, recintato e vasto 750 ettari, destinato a tenuta agricola e riserva di caccia.

Dopo la caduta di Napoleone (1815) vi fu il ritorno degli austriaci fino alla seconda guerra di indipendenza (1859) quando la Villa Reale diventò patrimonio di Casa Savoia. La Villa fu specialmente cara al Re Umberto I che amava risiedervi e che la volle trasformata in molti ambienti dagli architetti Achille Majnoni d'Intignano e Luigi Tarantola.

Il 29 luglio 1900 Umberto I fu assassinato proprio a Monza da Gaetano Bresci mentre assisteva ad una manifestazione sportiva organizzata dalla società sportiva "Forti e Liberi", tuttora in attività. In seguito al luttuoso evento il nuovo Re Vittorio Emanuele III non volle più utilizzare la Villa Reale, facendola chiudere, lasciandole un senso di mausoleo e trasferendo al Quirinale gran parte degli arredi.

Nel 1934 con Regio decreto Vittorio Emanuele III fece dono di gran parte della Villa ai Comuni di Monza e di Milano, associati. Ma mantenne ancora la porzione sud con sale dell'appartamento del padre, Re Umberto I, sempre costantemente chiusi, in sua memoria. Le vicende dell'immediato dopoguerra della seconda guerra mondiale provocarono occupazioni, ulteriori spoliazioni e decadimento del monumento. Con l'avvento della Repubblica, l'ala sud è diventata patrimonio e amministrata dallo Stato. Il resto della Villa Reale è amministrata congiuntamente dai comuni di Monza e Milano.

Dopo un lungo periodo di degrado dovuto anche al frazionamento delle amministrazioni, a marzo 2012 sono iniziati i lavori di restauro all’interno della villa, che prevedono il recupero e la valorizzazione del corpo centrale, il recupero parziale delle ali nord e sud, la realizzazione dell’area tecnica esterna alla Villa nel lato nord e la messa in sicurezza della corte d’Ingresso. Per quanto riguarda la struttura edilizia, è previsto il consolidamento delle murature del piano terra, il ripristino delle volte e dei solai lignei, la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza della corte e il ripristino della pavimentazione, della cancellata e della facciata sud dell’area nord. Inoltre, il progetto prevede la riqualificazione del belvedere e il restauro delle sale del piano terra. I lavori dureranno circa due anni e termineranno a marzo 2014. Attualmente la Villa è gestita da un Consorzio unico, di cui fanno parte gli enti proprietari della villa.

Piermarini realizza un edificio esemplare della razionalità neoclassica adattata alle esigenze di una realtà suburbana. I tre corpi principali, disposti a U, delimitano un'ampia corte d'onore chiusa all'estremità dai due volumi cubici della Cappella e della Cavallerizza, da cui partono le ali più basse dei fabbricati di servizio: si definisce in tal modo uno spazio razionale, costituito dall'ordinata disposizione dei volumi che si intersecano ortogonalmente e che, progressivamente, si sviluppano in altezza. Come nella reggia di Caserta di Vanvitelli e prima ancora a Versailles, nella Villa reale di Monza si sottolinea un percorso che, attraverso un viale principale, collega la villa al centro del potere.

La decorazione delle facciate, rinunciando a timpani, colonnati e riquadri a rilievo, si presenta estremamente rigorosa, segnando le superfici di sottili gradazioni. L'essenzialità stilistica dell'edificio è dovuta, oltre che a precise scelte di gusto, anche a ragioni politiche: la corte illuminata di Vienna preferiva evitare un'eccessiva ostentazione di ricchezza e potere in un paese occupato. Anche gli interni si accordano al principio di razionalità e semplicità che caratterizza l'intero progetto. In particolare appare curata la loro funzionalità: i corridoi ad esempio sono tagliati in modo da servire indipendentemente varie sale adibite ad usi diversi.

Il complesso della Villa comprende la Cappella Reale, la Cavallerizza, la Rotonda dell'Appiani, il Teatrino di Corte, l'Orangerie. Nel primo piano nobile sono le sale di rappresentanza, gli appartamenti di Umberto I e della Regina Margherita. La fronte della Villa rivolta ad est si apre sui Giardini all'inglese progettati dal Piermarini.

L'edificio destinato alle serre per il servizio dei giardini della Villa, denominato Orangerie nel progetto originale piermariniano e oggi comunemente noto come il Serrone, fu costruito nel 1790.

L'ambiente, imponente per le dimensioni, è esposto e riceve la luce da sud da una lunga serie di finestre. In esso, oltre al ricovero invernale delle piante più delicate ed in generale delle piante esotiche, in età asburgica si soleva tenervi anche spettacoli di vario genere per la Corte.
Nella seconda metà del XX secolo, proprio davanti al Serrone, è stato impiantato un vasto roseto nel quale annualmente nel mese di maggio viene indetto un concorso floreale.
Dopo i restauri intervenuti, l'edificio oggi è destinato a sede di mostre d'arte temporanee.

Nella planimetria con il perimetro del parco tracciata da Luigi Canonica e datata intorno al primo decennio dell'Ottocento, sulla base della mappa catastale, si distingue un "casino della vigna toscana", contemporaneo alla stesura della mappa. Canonica aveva prima pensato, come attestato dai suoi disegni per la sistemazione di un primo ampliamento del Parco tra 1805 e 1808, di mantenere la “vigna” entro un contorno sistemato all’inglese; in seguito, nei disegni riguardanti la sistemazione dell’interno parco nella sua estensione definitiva, aveva previsto l’eliminazione della “vigna” e l’inglobamento della sua area nei giardini reali, dove il sedime della vigna è sistemata a prato, con un viale alberato che ne definisce il confine.

È Giacomo Tazzini, succeduto a Canonica nel ruolo di architetto dei Reali fabbricati, ad arricchire gli ampliati giardini reali di un altro notevole pezzo topico del repertorio del giardino romantico: la torre gotica e la rovina medioevale; ovvero “il finto castello con annessa torre”, come l’architetto stesso definisce l’edificio in una lettera del 1829. Il sito prescelto è poco distante dalla grotta e dal tempietto, là dove il piano piermariniano aveva dato spazio, incuneata tra due scene del giardino inglese, alla “vigna toscana” a filari, bordata da quella “tratta tortuosa di strada a Vedano” che limitava a est i primitivi giardini.

L’idea della torretta però inizia a trovare esecuzione solo nel 1822, quando Giacomo Tazzini progetta di sfruttare il fabbricato rurale del vecchio casino toscano per realizzare un edificio “alla gotica” con torretta. In un primitivo disegno, in pianta e alzato, si distinguono accanto a quelli di nuova costruzione, i muri di una cascina esistente, che verrebbero in parte interrati e in parte riutilizzati per il nuovo fabbricato, composto da un portico, una sala terrena e una superiore, cui è aggiunta ex novo una torre a pianta circolare alta circa venti metri, nella cui canna è collocata una scala a chiocciola, che sale ad un ballatoio superiore ed infine ad una terrazza merlata: dunque una vera e propria torre-belvedere, al margine dei giardini, da cui godere del panorama dei giardini stessi e del parco da un punto di visuale nuovo ed inusuale.

In un disegno datato 28 aprile 1824 e firmato da Tazzini, il progetto risulta in gran parte compiuto. In una legenda scritta dallo stesso architetto si legge che risultano ancora da costruire i “muri fingenti un interno cortile dirocato, decorati con frammenti di marmi antichi e altro”, e i “pilastri e i marmi dirocati da farsi” (in adiacenza al Casino) “per meglio piramidare il fabbricato già eretto”.

Una incisione datata 1826 di Frederic Lose ed intitolata La Tour dans le jarden, riporta la torretta finalmente ultimata ed identica a come la si trova ad oggi. Quindi si può dedurre che la data di ultimazione dei lavori si collochi tra la fine del 1824 e l’inizio del 1826. Questa incisione evidenzia inoltre quella che poteva essere la forte suggestione che un edificio di questo genere potesse creare nell’atmosfera di un parco all’inglese come quello dei Giardini della Villa.


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IL PARCO DI MONZA

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Il Parco di Monza è uno tra i maggiori parchi storici europei, il quarto recintato più grande d'Europa e il maggiore circondato da mura. Ha una superficie di 688 ettari ed è situato a nord della città, tra i comuni di Lesmo, Villasanta, Vedano al Lambro e Biassono. Con i Giardini Reali, il Parco di Monza costituisce un complesso di particolare valore paesaggistico, storico e architettonico, incluso nel più ampio Parco regionale della Valle del Lambro. Dal 1922 ospita al suo interno l'Autodromo Nazionale di Monza, uno dei più importanti e prestigiosi circuiti automobilistici al mondo.

Il parco fu voluto da Eugenio di Beauharnais, figliastro di Napoleone e viceré del Regno d'Italia, come complemento alla Villa Reale costruita alcuni decenni prima per volontà del governo austriaco. Venne costituito ufficialmente con decreto napoleonico il 14 settembre 1805 in estensione ai già esistenti Giardini Reali. Il progetto fu affidato all'architetto Luigi Canonica; i lavori iniziarono nel 1806 e terminarono nel 1808.

Il parco nacque fondamentalmente come una tenuta modello che conciliava il soggiorno suburbano del sovrano alla possibilità di disporre di una riserva di caccia personale. Sono diverse tuttavia le ipotesi sulla reale esigenza che portò alla sua realizzazione; secondo Francesco Rephisti, la fondazione del parco poteva essere vista come la predisposizione di una grande riserva territoriale a pochi chilometri da Milano, allora capitale del Regno d'Italia, pronta ad accogliere in caso di esigenza grossi contingenti militari. Ad avvalorare quest'ipotesi ci sarebbe stato il corposo allevamento reale di cavalli alla Villa Pelucca, a Sesto San Giovanni. Secondo Cinzia Cremonini, la villa e il parco rientravano invece in un più complesso disegno, volto ad esaltare la grandezza dell'Imperatore, del quale Eugenio di Beauharnais era l'erede.

Dal punto di vista territoriale, il parco si estendeva inizialmente fino alla Santa - al tempo frazione di Monza, oggi parte del comune di Villasanta - e a Vedano, includendo al suo interno le importanti proprietà dei Durini, a cui appartenevano Villa Mirabello e Villa Mirabellino. Già nel 1806 venne acquisita un'ulteriore fascia terrazzata di circa 5 km a nord-ovest di Monza, facente parte dei comuni di Monza, Vedano e Biassono. Il parco raggiungeva così l'estensione di circa 14.000 pertiche (all'incirca 9 km²) e comprendeva edifici preesistenti (ville, mulini e cascine), aree agricole e aree boschive.

A partire da questi anni il Canonica cominciò ad elaborare un ardito e complesso progetto, volto ad armonizzare le architetture presenti all'interno del parco col parco stesso, in un sistema quasi teatrale con cui conferissero bellezza e regalità alla tenuta. L'architetto lavorò personalmente a diversi progetti di realizzazione o trasformazione di vari edifici, compito che sarebbe stato in seguito sviluppato e portato a termine dal suo successore Giacomo Tazzini, qui attivo fra il 1818 e il 1848, in concomitanza con gli anni del soggiorno monzese dell'arciduca Ranieri Giuseppe d'Asburgo-Lorena.

L'arciduca Ranieri, nominato viceré del Regno Lombardo-Veneto nel 1818, entrò subito in possesso della Villa e delle relative pertinenze, cadute in un breve periodo di oblio dopo la fuoriuscita dei francesi nel maggio 1814. Coerentemente con quanto già accadeva a Vienna a quel tempo, aprì per la prima volta al pubblico i Giardini Reali e il Parco, iniziativa particolarmente significativa dal punto di vista simbolico, poiché voleva rappresentare il carattere democratico del nuovo governo austriaco, ben disposto nei confronti degli abitanti di Monza e di Milano. In quegli stessi anni si andavano affermando le idee, diffusesi anche in Italia nei primissimi anni del XIX secolo, dalla manualistica specializzata. Secondo Luigi Mabil le città dovevano sempre disporre - oltre alle piazze - di ulteriori e piacevoli luoghi di ritrovo e passeggio per la popolazione, ricavati - a seconda delle disponibilità - all'interno o all'esterno del perimetro cittadino. Dovevano offrire al cittadino la possibilità di respirare un'aria più salubre nonché immagini e momenti piacevoli, che lo distogliessero dagli affari personali. Coerentemente con tale pensiero, lo stesso Ercole Silva - che già aveva influenzato negli anni precedenti la sistemazione dei giardini - sosteneva l'importanza di questi spazi nella vita quotidiana delle persone, al pari di un vero e proprio bisogno. Queste aree, oltre a sollevare l'individuo dalle afflizioni personali, lo distoglievano dai divertimenti ignobili e pericolosi, educandolo a una maggiore sensibilità e una migliore socialità.

Il Parco e i Giardini Reali sarebbero stati aperti fino al 1º agosto 1857, quando si pensò alla soppressione della colonia agricola ivi insediata, in favore di un ridimensionamento del parco stesso, accompagnato da un maggiore sviluppo delle zone a prato e a bosco. Caduti gli austriaci il progetto non venne mai attuato, e con l'Unità d'Italia nel 1861 venne riaperto al pubblico dai nuovi proprietari, i sovrani della Casa Savoia.

I Savoia, succeduti agli Asburgo, mostrarono in un primo tempo una sostanziale indifferenza alle vicende del parco e della Villa Reale. Fu solo con l'ascesa al trono di Umberto I nel 1878 che si invertì questa tendenza, inaugurando un periodo di importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento, concentrati quasi esclusivamente sulla Villa Reale, nella quale il sovrano amava soggiornare. Nel corso di questo periodo, i principali progetti di interventi inerenti al parco riguardarono le architetture ivi presenti, che sarebbero dovute essere a loro volta ristrutturate e ampliate. Tali progetti rimasero quasi esclusivamente sulla carta, poiché il 29 luglio 1900 Umberto I veniva assassinato nei pressi del parco mentre tornava alla villa, nell'attentato dell'anarchico Gaetano Bresci.

Tale evento condannò il parco e la Villa Reale ad un ventennio di abbandono, terminato in qualche modo con la restituzione delle proprietà al Demanio, avvenuta il 21 agosto 1919, e la successiva donazione delle stesse con Regio Decreto del 3 ottobre 1919 da Vittorio Emanuele III a vari beneficiari. Le aree a nord di viale Cavriga vennero cedute all'Opera Nazionale Combattenti, mentre quelle a sud - con la villa e i giardini - rimasero al Demanio; la Villa Mirabellino fu donata all'Opera Nazionale Orfani Infanti, mentre cinquanta ettari situati al di là del Lambro, insieme con l'attiguo Convento delle Grazie, vennero ceduti alla Scuola Superiore d'Agricoltura di Milano.

L'Opera Nazionale Combattenti, che giudicava la donazione un onere passivo, si attivò ben presto per trovare una nuova destinazione d'uso alle vaste aree che doveva gestire. Molteplici furono le proposte di speculazione emerse fin dall'inizio. Fra queste, una delle più significative fu quella del progetto Giacchi-Viganoni, del 1919, secondo la quale quelle aree si sarebbero trasformate in una moderna città giardino direttamente collegata con Milano (fu prevista anche la costruzione di una stazione ferroviaria all'interno del parco) e dotata di impianti sportivi e di svago all'avanguardia. All'incirca 200 ettari di terreno sarebbero stati destinati alla città giardino principale, circondata da una fascia di verde residua di circa 270 ettari (comprendenti tuttavia anche gli impianti sportivi e di svago) che la separava dal secondo agglomerato abitativo di circa 50 ettari. Un'ottantina di ettari rimanenti sarebbero invece stati occupati dai servizi.

Tramontata l'ipotesi del progetto, nel 1920 l'Opera Nazionale Combattenti strinse un accordo con il Consorzio costituito dai comuni di Monza e di Milano, insieme con la Società Umanitaria. Tale consorzio, che perseguiva logiche volte al massimo sfruttamento del parco da un punto di vista economico, diede a sua volta in concessione alcune aree a soggetti che ne avrebbero sconvolto l'originale configurazione. Nel 1922 venne concessa alla SIAS (Società per l'Incremento dell'Automobilismo e Sport) un'area di 370 ettari nella parte nord-occidentale del parco sulla quale, anche grazie alle spinte ricevute dal senatore Silvio Benigno Crespi, presidente della Banca Commerciale Italiana e dell'Automobile Club d'Italia, fu realizzato nel tempo record di 110 giorni l'Autodromo di Monza, terzo circuito automobilistico permanente al mondo in ordine cronologico. Il progetto, affidato all'architetto Alfredo Rosselli e all'ingegnere Piero Puricelli, prevedeva inizialmente un circuito di 14 km, a doppio anello, che sarebbe arrivato a lambire viale Cavriga, ma fu bocciato dal Ministero della Pubblica Istruzione e dalla Commissione per la Conservazione dei Monumenti di Antichità e di Arte della Provincia di Milano, in quanto giudicato eccessivamente invasivo e lesivo dell'integrità del parco.

Il progetto realizzato, relativamente più contenuto, si fonda sulla compenetrazione di due circuiti separati - una pista stradale da 5.500 metri e l'anello d'alta velocità da 4.500 metri - che condividono il rettilineo d'arrivo. Tale soluzione, per quanto non annullasse l'estremo impatto che ebbe l'opera sul parco, consentì quantomeno di ridurre la superficie occupata ed il numero degli alberi da abbattere, al tempo concentrati quasi esclusivamente nell'area del Bosco Bello, avendo il parco un carattere ancora prettamente agricolo. Il circuito si impose come uno dei più celebri e prestigiosi a livello mondiale, costituendo anche il principale motivo di notorietà della città di Monza nel mondo.

Sempre nel 1922, anche la SIRE (Società per l’Incoraggiamento delle Razze Equine) ottenne una concessione di circa 100 ettari per la costruzione dell'Ippodromo del Mirabello, completato nel 1924. Sorse in un'area più centrale del parco, posta fra la Villa Mirabello - da cui prese il nome - e la Villa Mirabellino. La realizzazione dell'ippodromo fu meno osteggiata di quella dell'autodromo, giudicato già al tempo di eccessivo impatto ambientale e incompatibile con la natura del parco in cui si trovava. Anche le strutture architettoniche dell'ippodromo, progettate insieme alle due piste dal Vietti-Violi, risultavano molto più armoniose e leggere, essendo realizzate - secondo la moda del tempo - in stile liberty e in legno.

Nel 1928 fu realizzato il campo da golf, in un'area di 90 ettari nella zona nord-orientale del parco, a fianco all'autodromo. Il primo progetto, affidato all'architetto inglese Peter Gannon e all'ex maggiore dell'esercito Cecil Blandford - considerati al tempo fra i migliori golf designer - consisteva in un campo di sole nove buche, che fu ben presto trasformato in un campo a diciotto buche. L'architetto Piero Portaluppi realizzò la club house, per la quale adattò la vecchia Fagianaia Reale.

Nel 1934, la Villa Reale, i Giardini e parte del parco vennero ceduti gratuitamente e in via definitiva ai comuni di Milano e di Monza, che nel 1937 acquistarono anche le aree poste a nord di viale Cavriga, formalmente ancora di proprietà dell'Opera Nazionale Combattenti. Verso la metà degli anni trenta, in seguito ai gravi incidenti automobilistici che si verificavano all'autodromo, cominciarono pesanti interventi di adeguamento e messa in sicurezza del tracciato, accompagnati da polemiche riguardanti i massicci diboscamenti che si rendevano indispensabili ad ogni revisione del tracciato.

Nel 1958 si assistette ad un'ulteriore ampliamento dell'impianto golfistico, con la creazione di un campo a ventisette buche e la realizzazione di una nuova club house, ad opera dell'architetto Luigi Vietti. Nel 1976 cadde in disuso l'ippodromo, e nel 1990 un incendio distrusse ciò che rimaneva delle tribune in legno, in seguito demolite insieme alle stalle. Sempre negli anni settanta ripresero le polemiche da parte degli ambientalisti, quando nuove modifiche alla pista dell'autodromo, eseguite per ragioni di sicurezza, richiesero il taglio di nuovi alberi. Vennero inoltre costruiti i nuovi box, in deroga ai vincoli ambientali sul Parco. Gruppi ambientalisti si mobilitarono e tentarono di bloccare i lavori. La situazione si ripeté nel 1994-'95, quando l'ampliamento delle vie di fuga di alcune curve richiedeva il taglio di circa 500 alberi. Si trovò alla fine un compromesso che ridusse il numero a circa 100, con modifiche alle curve interessate per ridurne le velocità di percorrenza.

Anche il campo da golf è oggetto di pesanti critiche da parte degli ambientalisti e del pubblico in generale, che ritengono ingiusto che un'area pari a circa un settimo del Parco sia assegnata in concessione esclusiva ad un circolo privato (il Golf Club Milano) che conta circa solo 900 soci, impedendo ad altri visitatori l'accesso. Tra il 1995 e il 2006 sono state fatte due petizioni per la chiusura dell'impianto.

Il decreto del 14 settembre 1805 consentì l'acquisizione dei terreni prescelti per la formazione del Regio Parco, al tempo appartenenti ai Comuni di Monza, Vedano al Lambro e Biassono. L'originaria dislocazione dei confini seguiva la disposizione degli appezzamenti di terreno e delle relative proprietà, risalenti sostanzialmente al Catasto Teresiano. Dopo la realizzazione del Parco e la risistemazione del verde, coi viali prospettici e il distinguo fra le aree boschive e le aree agricole, si rivelò impossibile individuare i confini originali delle suddivisioni catastali. In virtù di ciò, già dal 1872 si pensò ad una rettifica dei confini, di modo che fossero più facilmente individuabili. I nuovi confini rettificati furono ufficializzati soltanto in data 24 febbraio 1899, alla presenza delle Commissioni censuarie, delle Giunte Municipali dei comuni interessati, oltre che degli ingegneri Luigi Tarantola per la Real Casa e Emilio Rigatti per il Catasto. Dal verbale redatto, si evince come il confine fra Biassono e Vedano al Lambro partendo dalla sponda destra del Lambro proseguisse per il viale della Fagianaia, passando per il viale dei Platani (parallelamente quindi al viale dei Cervi e al viale del Serraglio, andando ad incontrare il viale delle Noci e continuando fino al muro di recinzione del Parco, da cui riprendeva il tracciato storico costeggiando il parco di Villa Litta Bolognini Modigliani.

In quest'occasione la frazione della Santa cercò senza successo di distaccarsi dal Comune di Monza per unirsi a quello di Villa San Fiorano. In risposta, Monza chiese l'annessione della stessa Villa San Fiorano. La situazione rimase invariata, pur continuando ad alimentare un certo dibattito e risentimento tra le popolazioni dei comuni interessati. Nel 1924 La Santa rinnovò le proprie richieste, trovando questa volta una risposta ben più dura da parte di Monza, il cui Commissario Prefettizio in data 1º agosto 1925 chiese non solo l'annessione di Villa San Fiorano, ma anche di Vedano al Lambro e di Biassono. La forte opposizione intentata dapprima solo da Villa San Fiorano e Biassono, in un secondo tempo anche da Vedano al Lambro, parallelamente alla ricostituzione di un'amministrazione comunale anche a Monza, dopo il periodo di commissariamento durante il quale erano maturate le richieste, portarono a un ridimensionamento di queste, che si limitavano ora alla sola acquisizione dei terreni interni al Parco. Anche le nuove richieste monzesi furono contestate sia da Biassono che da Vedano, ma avrebbero trovato attuazione nel successivo Regio Decreto del 29 novembre 1928, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno il 7 gennaio 1929, che sanciva l'incorporazione del Regio Parco al Comune di Monza da cui veniva distaccata la frazione della Santa che veniva assegnata al Comune di Villa San Fiorano nella nuova municipalità di Villasanta. Tale decreto entrò in vigore ufficialmente il 23 gennaio 1929.

Storicamente erano attestate, grazie all'opera di Luigi Villoresi, numerose specie vegetali, sia autoctone, sia esotiche; al tempo erano addirittura attestate 43 specie di Quercus, 30 di Fraxinus, 22 di Prunus e 16 di magnolia. Al giorno d'oggi, pur aver perso gran parte dell'originaria fisionomia, il Parco conserva una buona varietà arborea, particolarmente significativa e importante, se contestualizzata nel panorama quasi interamente urbanizzato di Monza e dei comuni subito a nord di quest'ultima. Particolarmente significativa inoltre la presenza del Bosco Bello, una delle ultime testimonianze delle antiche foreste di pianura presenti in Lombardia, circoscritta tuttavia nell'area nord del Parco, ripetutamente compromessa per via dell'Autodromo e dei relativi continui interventi di diboscamento.

Fra le specie più caratteristiche e maggiormente diffuse nel parco si citano il Carpino bianco (Carpinus betulus), l'Ippocastano (Aesculus hippocastanum), il Liriodendro (Liriodendron tulipifera), varie specie di Platano, il Ciliegio selvatico (Prunus avium) e il Tiglio (Tilia cordata); fra gli arbusti il Biancospino (Crataegus monogyna), il Corniolo (Cornus mas) e l'Evonimo (Euonymus europaeus).

Cessata la funzione di riserva reale di caccia e la successiva di tenuta agricolo modello, il Parco vanta attualmente un discreto numero di specie animali spontanee, ai quali vanno aggiunte le specie allevate, in particolar modo bovine (Mulini San Giorgio) ed equine (Mulini San Giorgio e Cascina Cernuschi). Uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Pavia unitamente al Museo di storia naturale di Milano hanno individuato una sorprendente varietà di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci, che contribuiscono ad aumentare sensibilmente l'importanza e il valore di quest'area verde.

La fauna del Parco è costituita per la maggiore dallo scoiattolo rosso (Sciurus vulgaris), dalla lepre europea (Lepus europaeus), dal ghiro (Glis glis), dalla talpa europea (Talpa europaea), dalla volpe rossa (Vulpes vulpes), dal coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) e dal riccio comune (Erinaceus europaeus), per quanto riguarda i mammiferi; dal picchio rosso maggiore (Dendrocopus major), dal picchio verde (Picus viridis) e dal picchio muratore (Sitta europea), per quanto riguarda i picchi, dall'anatra mandarina (Aix galericulata), dal germano reale (Anas platyrhyncos), dalla nitticora (Nycticorax nycticorax), dal martin pescatore (Alcedo atthis) e dall'airone cenerino (Ardea cinerea), per quanto riguarda gli uccelli acquatici, dalla poiana (Buteo buteo), dall'allocco (Strix aluco), dal gufo comune (Asio otus), nei mesi invernali dal gabbiano (Laridae), dalla civetta (Athene noctua) e dal gheppio (Falco tinnunculus), per quanto riguarda gli uccelli rapaci; dal ramarro (Lacerta bilineata) e dal colubro d'Esculapio (Elaphe longissima), per quanto riguarda i rettili; dalla rana di Lateste (Rana latastei), dal tritone crestato italiano (Triturus carnifex) e dal rospo smeraldino (Bufo viridis), per quanto riguarda gli anfibi; dalla carpa comune e dal cavedano, per quanto riguarda i pesci.


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martedì 10 marzo 2015

BASILICA DI SAN PIETRO IN CIEL D' ORO - PAVIA -

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La basilica di San Pietro in Ciel d'Oro (in coelo aureo) è una basilica situata a Pavia, eretta in epoca longobarda (VIII secolo) e in seguito ricostruita in stile romanico (XII secolo). Consacrata da Papa Innocenzo II nel 1132, la basilica vanta grande prestigio e notorietà nel mondo cattolico in quanto ospita, da oltre un millennio, le spoglie di sant'Agostino da Ippona. Insigne esempio di architettura romanica lombarda, ricordato da Dante, Boccaccio e Petrarca, l'antichissimo tempio è generalmente considerato, insieme alla basilica di San Michele Maggiore, il più importante monumento religioso medievale della città di Pavia.

La tradizione vuole che la basilica sia stata fondata dal re longobardo Liutprando per ospitare le spoglie di sant'Agostino, custodite fino al 722 a Cagliari nella omonima cripta, ove giunsero nel 504 da Ippona, attualmente in Algeria, al seguito di san Fulgenzio di Ruspe, esiliato assieme ad altri vescovi del Nord Africa dal re Vandalo Trasamondo. Il re Liutprando, infatti, temeva che i saraceni potessero trafugare una così importante reliquia nel corso delle loro frequenti scorrerie.

Da giovane studiò e si formò come monaco Paolo Diacono, storico e poeta dei Longobardi.

Dopo il 1000, in epoca comunale i monaci lasciarono il cenobio pavese a causa dei disordini e si trasferirono sull'Appennino ligure, dando vita al monastero di Pietramartina di Rezzoaglio; a Pavia rimasero attive due chiese dedicate al santo irlandese Colombano fino al XVI secolo.

Successivamente passò ai monaci agostiniani.

Come gran parte delle chiese pavesi, fu ricostruita in epoca romanica, alla fine del XII secolo. Si trovava nella parte nord del centro storico, all'interno di una zona chiamata Cittadella, cinta da mura, che serviva per attività militari (la zona si trova molto vicina al Castello Visconteo). Il nome della basilica è dovuto al fatto che la copertura dell'originaria chiesa, probabilmente a cassettoni o a capriate lignee a vista, presentava una sontusa decorazione a foglia d'oro. Ai lati della chiesa si trovavano due conventi; quello a nord era occupato dai canonici lateranensi, quello a sud dai monaci agostiniani.

Nel 1796 le truppe al seguito di Napoleone Bonaparte entrarono in città e spogliarono la chiesa, che fu sconsacrata e usata come stalla o deposito, mentre i frati venivano cacciati ed i conventi affidati ai militari. L'Ottocento fu deleterio per l'edificio ormai all'abbandono: la navata destra e la prima campata della navata centrale crollarono e l'aula rimase aperta all'esterno, con gravissimi danni per gli affreschi sopravvissuti. Di fronte a questo stato, la "Società Pavese per l'arte Sacra" trattò con l'esercito il riacquisto della basilica e dell'antico convento degli agostiniani, avvenuto nel 1884. I lavori di restauro durarono molti anni e riportarono il prestigioso complesso romanico all'antico splendore, ricostruendo le navate mancanti, la cripta ed eliminando altre manomissioni che nei secoli precedenti erano state perpetrate all'impianto medievale della basilica. Le opere si conclusero nel 1901, con la riconsacrazione della basilica, finalmente restituita al culto ed all'arte. Le spoglie di sant'Agostino, che erano state trasferite nel Duomo, furono riportate nella chiesa, assieme all'arca trecentesca destinata ad accoglierle. Attualmente, la chiesa è officiata dai monaci agostiniani, che sono tornati ad occupare l'antico convento.

Della chiesa longobarda rimangono pochissimi resti, nascosti sotto la ricostruzione romanica. San Pietro in Ciel d'Oro si presenta, così, come molte altre chiese pavesi dell'epoca: un edificio in mattoni, a tre navate con transetto, abside e cripta.

La facciata a capanna è scandita da due contrafforti che la dividono in tre zone, corrispondenti alle navate interne; il contrafforte di destra, più spesso, ospita una scala interna che permette di accedere al tetto. La sommità è coronata da una loggetta cieca e da un motivo ad archi intrecciati. La pietra (arenaria) è usata solo per le parti più importanti, come il portale, le finestrelle e gli occhi di bue. Lungo i contrafforti si notano le tracce di un antico nartece, o forse di un quadriportico, che precedeva l'ingresso alla chiesa.


L'interno è scandito da cinque campate, rettangolari nella navata centrale e quadrate nelle navate laterali. Rispetto al San Michele Maggiore si percepiscono immediatamente le diverse proporzioni della navata centrale, più larga, più lunga e meno slanciata, la più rigorosa successione dei pilastri, tutti grossolanamente a medesima sezione anziché alternati come nell'altra chiesa, e l'assenza dei matronei. Le campate dalla seconda alla quinta sono coperte da volte a crociera; la prima, più alta, in funzione quasi di atrio interno (endonartece) o addirittura di falso transetto, è coperta da volta a botte. Essa svolge anche funzioni statiche poiché serve come appoggio per la facciata. Il diverso schema di coperture è percepibile anche all'esterno, osservando il differente andamento delle falde. La volta a crociera della navata centrale fu rifatta nel 1487 da Giacomo da Candia. Le prime due campate della navata sinistra sono decorate da interessanti affreschi cinquecenteschi. Dopo l'arco trionfale, si apre il transetto, che, contrariamente a quello di San Michele Maggiore non sporge rispetto al corpo principale, ma occupa la profondità delle tre navate. Le tre navate sono chiuse, ad est, da absidi decorate esternamente con una loggetta cieca, similmente alla facciata, come d'uso nell'architettura romanica; il catino di quella centrale, più grande delle altre due, è decorato da un affresco del Loverini (1900) che riprende un antico mosaico, distrutto nel 1796. All'incrocio tra la navata centrale e il transetto si eleva la cupola ottagonale su pennacchi di tipo lombardo, racchiusa esternamente dal tiburio in cotto.

La cripta, rifatta durante i restauri ottocenteschi sulle tracce esistenti, occupa lo spazio del presbiterio e del coro ed è collegata alla navata principale ed alle due laterali da quattro scale; chiusa ad est da un'abside, è spartita in cinque navate da ventiquattro colonne che reggono volte a crociera, le quali sostengono, a loro volta, il pavimento dei due ambienti superiori. La cripta ospita le spoglie di Severino Boezio. Addossato alla parete di fondo, si nota l'antico pozzo, di cui si narravano proprietà curative, già esistente nel XII secolo e ripristinato nel corso dei restauri di fine Ottocento.

Dalla navata sinistra si accede alla Sacrestia Nuova, ampio ed arioso ambiente rettangolare in schietto stile rinascimentale, con volte a vela ottimamente affrescate.

Nel presbiterio, prima del coro, si trova l'Arca di Sant'Agostino, un capolavoro marmoreo del Trecento, scolpito dai maestri comacini. Si tratta di un'opera gotica, divisa in tre fasce: in basso, uno zoccolo contenente l'urna con i resti del santo; al centro, una fascia aperta, con la statua di Sant'Agostino dormiente e, in alto, l'ultima fascia, poggiata su pilastrini e coronata da cuspidi triangolari. L'intera opera è decorata da più di 150 statue, che raffigurano angeli, santi, e vescovi, e da formelle con la vita del santo.

Oltre a quella di sant'Agostino, la chiesa ospita le tombe del mercenario condottiero Facino Cane, di Severino Boezio nella cripta come già accennato, e di re Liutprando, alla base dell'ultimo pilastro della navata destra.

Della presenza del corpo di Boezio presso San Pietro in Ciel d'Oro tratta Dante nel canto X del Paradiso, ove si trova scritto:

« Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da esilio venne a questa pace »

Nella chiesa vi è un pregevole organo a canne Lingiardi costruito nel 1913, modificato da Mascioni nel 1978 e restaurato nel 1990 dalla ditta Inzoli. Lo strumento è a due tastiere e pedaliera ed è contenuto in una sontuosa cassa in stile neogotico.

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lunedì 9 marzo 2015

IL DUOMO DI VIGEVANO

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Il duomo di Vigevano o cattedrale di Sant'Ambrogio è la principale chiesa di Vigevano.

L'attuale chiesa - consacrata il 24 aprile 1612 - fu iniziata da Francesco II Sforza nel 1532, su progetto di Antonio da Lonate, dopo aver demolito in gran parte quella precedente (della quale fu salvata la parte absidale) risalente alla seconda metà del Trecento, ma edificata su fondamenta ben più antiche. Sono presenti infatti documenti del 963 e del 967 che parlano della basilica di Sant'Ambrogio in Vigevano e pertanto le origini della chiesa primitiva affondano a prima dell'anno mille. Del precedente edificio si conservano alcuni frammenti degli archetti decorativi del cornicione di stile gotico-lombardo, appartenenti all'antica basilica. Francesco II morì poco dopo aver intrapreso la costruzione della cattedrale.

Venuta meno la munificenza del duca, essa poté avere compimento con le offerte dei fedeli, del Comune e dei vescovi, giungendo al tetto nel 1553 e venendo ultimata solo nel 1606 allo stato rustico, sotto la guida del vescovo Giorgio Odescalchi, per poi essere definitivamente terminata alla fine del seicento, allorché fu compiuta la grandiosa facciata barocca ideata dal grande poligrafo Juan Caramuel y Lobkowitz, che fu vescovo della città dal 1673 al 1682. Poiché gli assi del duomo e della piazza Ducale sono differenti (la piazza era infatti scenografico ingresso al castello, e non alla cattedrale), il Caramuel, fece erigere la nuova facciata in forma concava e fece eliminare l'originale rampa d'accesso al castello, completando il porticato sotto la torre del Bramante. L'espediente architettonico rendeva simmetrico il duomo rispetto alla piazza e mutava la "funzione politica" di quest'ultima: da "ingresso" del castello (potere civile) ad "anticamera nobile" del duomo (potere ecclesiastico). Il campanile sfrutta come base una torre trecentesca (probabilmente l'antica torre civica) su cui è stato realizzato un primo sopralzo nel 1450, e un secondo nel 1818 con la costruzione dell'attuale cella campanaria sormontata da merli. Nel 1716 venne completata la cupola con la copertura in rame e nel 1753 venne terminata la sacrestia capitolare.

Durante tutto l'Ottocento si susseguirono numerosi lavori di restauro tra cui la costruzione dell'altare maggiore (1828-1830), a opera di Alessandro Sanquirico, e la decorazione del grandioso e luminoso interno a tre navate a opera di Francesco Gonin, Mauro Conconi, Vitale Sala, Cesare Ferrari e del pittore vigevanese Giovan Battista Garberini.

La seconda cappella della navata sinistra, dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, oltre a un pregevole altare seicentesco ospita il Polittico Biffignandi', di Bernardo Ferrari, mentre nella cappella di San Carlo o del santissimo Sacramento sono conservate altre due opere recentemente restaurate del pittore vigevanese: il Trittico Gusberti e un San Tommaso di Canterbury tra le sante Elena ed Agata. Nelle altre cappelle laterali si conservano interessanti dipinti del '500 lombardo opera di Cesare Magni e Ferdinando Gatti (detto il Soiaro).

Di grande interesse è anche l'organo a canne che si trova in presbiterio, nella cantoria di destra, costruito nel 1782 dai Serassi di Bergamo e recentemente restaurato.

Il duomo di Vigevano è anche divenuto famoso per il tesoro della cattedrale, che in parte risale alle donazioni elargite al capitolo da Francesco II Sforza. Oltre a notevoli calici, pissidi e paramentali, esso conserva anche manoscritti di grande valore miniati da Giovan Giacomo Decio, un pastorale vescovile in avorio di narvalo e "La Pace", una preziosa suppellettile in argento dorato di scuola lombarda. Nella seconda sezione del museo sono conservati una serie di arazzi fiamminghi di Bruxelles (1520) e Auderaarde (seconda metà del XVII secolo) con raffigurazioni sacre e profane, e due pregevoli stendardi cinquecenteschi delle antiche confraternite di Santa Maria del Popolo e dell'Annunziata. Nel tesoro della cattedrale è conservato inoltre un prezioso paramentale ricamato con fili d'oro, utilizzato dal papa per incoronare Napoleone Bonaparte re d'Italia nel duomo di Milano nel 1805.

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