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lunedì 8 giugno 2015

LA BASILICA DI SAN VITTORE A RHO

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Già nel secolo VIII d.C. esisteva a Rho una chiesa dedicata a Sant'Ambrogio; alla fine del XIII secolo vi erano altre sei chiese, ed alcuni documenti accennano all'esistenza di un convento di frati agostiniani, posto all'ingresso del borgo sulla via di Milano.

Nel 1080 (ci sono riferimenti attendibili dell'esistenza di una Chiesa di S. Vittore di Rho in una mappa arrotolata proveniente dal monastero di S. Ambrogio di Milano) un certo "Bonizone  del luogo di Rho, di legge longobarda, vende ad Adamo prete, officiale della Chiesa di S. Vittore di Rho, tutte le case che egli possiede nel castello in via Ladenasca". Questa zona (via Ladenasca) sembra corrispondere oggi alla via Lainate, che congiunge Rho e, appunto, Lainate.

La Chiesa Prepositurale, dedicata a S. Vittore Martire, era situata al centro di una grande piazza, con la facciata rivolta ad occidente, cioè in direzione opposta a quella attuale. Davanti alla Chiesa si estendeva il cimitero e, al termine di esso, all'incrocio del quadrivio, si elevava una colonna di granito alla cui sommità era posta una croce. Nel 1928 la colonna venne rimossa per ordine dell'autorità civile, perchè considerata un pericolo per il traffico crescente, e posta a lato della torre campanaria. Nel 1998, causa riassetto urbanistico della piazza, la colonna venne rimossa nuovamente e fu ripristinata la sua posizione originaria all'incrocio delle vie.
Con il passare del tempo e l'aumento della popolazione locale, la chiesa divenne insufficiente ad accogliere i numerosi fedeli; pertanto si decise di intervenire con sostanziali modifiche, e nel 1834 essa fu ricostruita, su disegno degli architetti Besia e Aloisetti, in perfetto stile neoclassico. I precedenti due campanili furono demoliti nel 1889 e, un anno più tardi, fu ultimato l'ampio e delicato lavoro di restauro e di abbellimento dell'interno della chiesa e dell'altare maggiore. L'allora Arcivescovo di Milano, Mons. Luigi Nazari di Calabiana, venne a Rho per presiedere la cerimonia di consacrazione del nuovo Tempio.

L'odierno tempio solenne in stile neoclassico fu eretto a partire dal 14 settembre 1834, su disegni degli architetti Besia ed Aluisetti. Il primo progetto segnava due torri campanari e alte circa 34 metri, ma nel 1889 si riscontrarono dei problemi di stabilità e si decise di abbattere quella di sinistra, mantenendo solamente quella a destra, che fu a sua volta proseguita dal Perucchetti fino a raggiungere l'altezza di 58,40 metri. Il pronao fu eretto, col semplice e severo altare, dall'architetto milanese Giacomo Moraglia nel 1852; i dipinti sono stati eseguiti da Beghè di Milano, sotto la direzione di don Moioli; le sedici vetrate sono opera di Cisterna di Roma, con l'esecuzione del pittore Giulio Cesare Giuliani, altre sono di Tevarotto di Milano. Alcuni quadri provengono dalla scuola del Luini; molte opere sono di Bosoni (Santa Teresa del Bambin Gesù, Via Crucis). La costruzione della chiesa come oggi compare, fu terminata in data 18 ottobre 1847 e l'edificio venne consacrato in una cerimonia presieduta dall'allora arcivescovo di Milano, monsignor Luigi Nazari di Calabiana.

Nella medesima piazza si trova anche la Croce della peste. Questa era inizialmente posta all'incrocio del quadrivio, ma fu spostata accanto alla chiesa nel 1927, per problemi legati al traffico. Nel ricomporre la croce e nel rizzarla si rinvenne una teca arrugginita, nella quale c'era un foglietto semplice accompagnato da 11 Reliquie chiuse in plichi di carta, suggellati da un cero pasquale, quale autentica. Monsignor Giuseppe Benetti narra che su tal foglio si leggeva: "Questa Croce fu eretta dal Padre Pietro Paolo Castelli da Milano, guardiano dei cappuccini di Rho, le reliquie ve l'ha donate lui stesso con propria mano il dì di S. Ambrogio 1663 con festa ed ha istituito la Compagnia della Croce". Nel 1998, con il riassetto urbanistico della piazza, la colonna è stata nuovamente spostata nel luogo di erezione originario.

Il concerto originale delle campane, già posto sull’antico campanile ricostruito poi nel 1889, era composto dalle odierne sei campane maggiori, fuse da Felice Bizzozero di Varese. Nel 1962 venne ampliato a nove campane con l’aggiunta di tre campane minori ad opera di Roberto Mazzola di Valduggia (VC). Sul campanile son presenti anche altre due campane fuori concerto in Mi bemolle4 e Mi5 montate a mezzo ambrosiano. La maggiore venne fusa dalla fonderia dei Fratelli Barigozzi su un disegno dell’architetto Ratti di Rho. La sua forma richiama le sagome gotiche, ma grazie all’abilità fusoria della fonderia, questa presenta caratteristiche foniche tipiche delle sagome moderne. La minore proviene dall’oratorio, ormai demolito, di San Luigi Gonzaga.

Il concerto di campane è montato a sistema ambrosiano ed è intonato in Do3 Maggiore.





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LA BASILICA DI SAN MARTINO A MAGENTA

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La basilica di San Martino è la Chiesa principale della città di Magenta.

Nella basilica di San Martino, ha attualmente sede il Decanato di Magenta che a livello di gestione dell'Arcidiocesi di Milano, costituisce uno dei moderni compartimenti territoriali del milanese, che va a sostituire alcune antiche funzioni della vicina Pieve di Corbetta.

I membri del consiglio decanale sono costituiti dai parroci e dai sacerdoti del decanato.

L'idea di costruire un nuovo tempio per Magenta fu avanzata da don Cesare Tragella (prevosto vicario foraneo del paese dal 1885 al 1910) per assolvere a due doveri: la necessità di dare alla cittadinanza, in continua crescita, un nuovo tempio e la commemorazione dei caduti per la gloriosa battaglia del 4 giugno 1859, il cui successo coinvolgeva ancora attivamente i magentini.

Il progetto della chiesa, dedicata a san Martino di Tours e san Gioacchino, fu affidato all'architetto Alfonso Parrocchetti che ne fece un'opera neorinascimentale, impostata su una navata centrale più ampia e due laterali più strette e più basse, con una lunghezza di 87 metri, una lunghezza al transetto di 30 metri e l'altezza del tiburio di 57 metri, dimensioni che la rendono la più ampia della diocesi dopo il duomo di Milano.

La prima pietra venne posata nel 1893 e, superate le difficoltà tecniche ed economiche grazie alla manovalanza gratuita fornita dai parrocchiani, i lavori di costruzione della struttura furono terminati nel 1901, permettendo la celebrazione della prima messa su un altare improvvisato. La monumentale opera venne consacrata il 24 ottobre 1903 dal Cardinale Andrea Ferrari il quale tuttavia vietò il trasporto delle ossa dei caduti della battaglia all'interno della chiesa, facendo così venire a meno uno dei motivi principali che avevano portato all'edificazione della struttura.

Il complesso architettonico fu dotato di una torre campanaria alta 72 metri anch'essa in stile neorinascimentale italiano, opera di Benedetti per la parte artistica e dell'ingegner Monti per la parte strutturale, inaugurata il 15 novembre 1913 dall'arcivescovo di Milano cardinal Andrea Ferrari.

I lavori di costruzione della facciata, progettata dall'architetto Mariani, iniziarono nel 1932 e terminarono solo nel 1959 per le difficoltà economiche derivate dalla mancanza di fondi e dagli eventi bellici. La facciata venne inaugurata il 4 giugno dello stesso anno dall'arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI); il 3 marzo 1948 arrivò il riconoscimento ecclesiastico da parte del papa Pio XII con l'elevazione della chiesa a basilica romana minore.

In questa chiesa, nel 1955, si è svolto il matrimonio tra Santa Gianna Beretta Molla e il marito Pietro.

Il 30 settembre 2012, il cardinale Angelo Scola ha celebrato una messa con tutto il decanato di Magenta, in occasione della memoria del 90º anniversario dalla nascita di santa Gianna Beretta Molla (patrona della famiglia).

La facciata della basilica è stata costruita fra il 1932 e il 1959 su progetto dell'architetto Mariani. Con struttura a salienti, è decorata con bassorilievi raffiguranti Scene della vita di san Martino. Al centro, vi è il grande portale centrale, dotato di un protiro ad arco poggiante su quattro colonne in stile corinzio; nella lunetta che le sovrasta trova posto un bassorilievo raffigurante il Battesimo di san Martino, mentre ai lati delle stesse sono collocate nelle rispettive nicchie le statue degli apostoli Pietro e Paolo.

Sopra il portale vi è il rosone circolare scolpito. Questo raffigura la Gloria di san Martino e presenta la figura del santo più grande rispetto alle altre che lo circondano. Sopra le due navate laterali, più basse rispetto a quella centrale e dotate di una trifora e un portale con lunetta ciascuna, vi sono due statue raffiguranti i due vescovi milanesi Sant'Ambrogio (sulla navata di sinistra) e San Carlo Borromeo (sulla navata di destra).

All'incrocio con il transetto, si eleva il tiburio con tamburo illuminato da ampie bifore e sormontato dalla statua del Cristo Redentore realizzata in lamina di rame sbalzato e dorato . Di fianco all'abside si trova la torre campanaria.

L'interno della basilica, a croce latina, è suddiviso in tre navate da due file di colonne corinzie marmoree.

L'altare maggiore, progettato dall'architetto Parrocchetti, è un'importante opera realizzata con marmi policromi ed una mensa poggiante su quattro colonne di marmo bianco, tra le quali si trova un bassorilievo di metallo raffigurante l'ultima cena ed il ciborio, sormontato da una statua del Cristo risorto.

Negli anni sessanta del XX secolo è stato realizzato il nuovo pavimento in marmi policromi.

L'interno della basilica ha trovato definitivo compimento negli anni novanta del XX secolo con l'ampliamento, fin sotto la cupola, del presbiterio costituito dalla sede presidenziale, dall'ambone e dall' altare basilicale realizzati in marmo bianco e bassorilievi in bronzo.

Nel braccio sinistro del transetto si trova la cappella dedicata alla Madonna del Rosario progettata sempre dal Parrocchetti; l'altare fu realizzato in legno dall'artigiano Galli. Ai lati di questa cappella ve ne sono altre due, minori, dedicate a San Francesco ed a San Giuseppe.

Nel braccio destro del transetto è situata la cappella di Santa Crescenzia, opera del Parrocchetti; l'altare fu realizzato dall'artigiano Miramonti in legno dipinto, come pure l'urna contenente i resti della martire. Ai lati di questa cappella ve ne sono altre due, più piccole, dedicate al Sacro Cuore ed al Santo Crocifisso.

Tra i numerosi affreschi che arricchiscono la basilica, si ricordano quelli realizzati all'inizio del XX secoelo da Valtorta e dai suoi discepoli. La cupola viene affrescata invece da Conconi di Como negli anni '60 con profeti maggiori e minori e con i quattro evangelisti.

Sulla cantoria in controfacciata, in una monumentale cassa realizzata dall'artigiano magentino Corneo, si trova l'organo a canne costruito nel 1860 dalla casa organaria Prestinari per la vecchia chiesa e collocato in quella nuova nel 1904; in tale occasione lo strumento venne completamente revisionato e ampliato dal milanese Giovanni Bressani, che vi aggiunse l'Organo Eco. La mostra d'organo è di 35 canne divise in 3 campate e disposte a cuspide in ogni rispettiva campata, la canna maggiore corrisponde al Fa-1 (12') Principale 8' Bassi del Grand'Organo. L'organo, ripristinato con un restauro concluso nel 1991, è a trasmissione meccanica e dispone di due tastiere: la prima, corrispondente all'Organo Eco, di 61 note reali con estensione dal Do1 al Do6; la seconda, corrispondente al Grand'Organo, di 68 note reali con estensione dal Fa-1 al Do6 con la spezzatura fra i registri di basso ed i registri di soprano tra Si2 e Do3. Pedaliera retta di 27 note reali con estensione dal Do1 al Re3. Le manette che comandano i vari registri sono collocate in tre colonne, due alla destra della consolle e una alla sinistra, pedaloni per la Combinazione Libera alla Lombarda al Grand'Organo, per il Tiratutti del Ripieno al Grand'Organo e per il Tiratutti del Ripieno all'Organo Eco. Frontalmente, sopra la pedaliera, si trovano la staffa per l'espressione all' Organo Eco e tre pedaletti rispettivamente per l'unione delle tastiere, l'unione della seconda tastiera al pedale, ed il Rullante.

Nell'abside maggiore, sopra un'apposita cantoria lignea, si trova un secondo organo a canne, utilizzato per l'accompagnamento durante la liturgia. Lo strumento, costruito nel 1903 a trasmissione meccanica da Giovanni Bressani, è stato elettrificato e dotato di una nuova consolle negli anni novanta del XX secolo.

L'antico altare Maggiore, ricco di marmi e di bronzi cesellati e dorati (un'Ultima Cena, alla Leonardo da Vinci; la profezia di Malachia 1, 10-11, con l'abrogazione del culto antico). Sulla parete poi dirimpetto a S. Martino, è affrescato Papa Leone XIII (1878-1903) che in­dica, avendone parlato in diversi suoi scritti, la santa famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria. Il nuovo altare Maggiore, usato per le celebrazioni (mentre quello antico è usato per la conservazione dell'Eucaristia), altrettanto ricco di marmi e bronzi cesellati e dorati: riportano le rappresentazioni della morte e resurrezione di Gesù Cristo sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento (agnello pasquale, offerta in sacrificio di Isacco, offerta di pane da parte di Melchisedech). L'angelo che si vede all'ambone dove si proclama la Parola di Dio è invece quello, appunto, che al sepolcro di Cristo, vuoto, ne annuncia la resurrezione.

Partendo dalle porte delle sacrestie, prima a Est, poi a Ovest ci sono i seguenti altari: S. Francesco, S. Maria, S. Giuseppe, Sacro Cuore, S. Crescenzia, Santissimo Crocifisso. Sono gli elementi che più direttamente si ricollegano all'antica chiesa parrocchiale di S. Martino, un tempo collocata in piazza Kennedy. In particolare quello di S. Crescenzia, con le reliquie della compatrona (con S. Martino, patrono principale di Magenta), arrivate da Roma il 7 gennaio 1817. L'Altare di S. Maria, Madre di Dio, Nostra Signora della Vittoria (del bene sul male) e Regina della Pace: contiene una statua della Madonna del 1838 c.a che, col Bambino, non porge il Rosario, ma dei collari con medaglie asburgiche della metà del Settecento con le quali la Madonna è invocata come Regina della Pace. Quello del Crocifisso, che tale e quale si trovava nell'antica S. Martino. Contiene il Crocifisso un tempo collocato sopra l'altare Maggiore in legno della vecchia S. Martino. Quando agli inizi dell'Ottocento lo fecero, in quella chiesa, di marmo, salvarono il Crocifisso, al quale costruirono un apposito altare (che è quello che vediamo ancora oggi in Basilica). Dell'antico altare Maggiore in legno della vecchia S. Martino ci sono arrivate anche le statue cinquecentesche, raffiguranti degli angeli, che ora si trovano sull'altare di Santa Crescenzia.

Partendo dal pavimento della facciata, si presentano, magnifici tondi con il ritratto a bassorilievo dei seguenti santi: Luigi Gonzaga, Giovanna d'Arco, Rosa da Lima, Agnese, Filippo Neri, Giuseppe, Caterina da Siena, Vincenzo de' Paoli, Madonnina del Monte Grappa, Teresa del Bambin Gesù, Teresa d'Avila, Fran­cesco d'Assisi, Crescenzia, Sebastiano.
Di fianco alla porta centrale, le due statue con S. Pietro e S. Paolo.
Ai lati delle statue partono due lesene con motivi ornamentali, tra i quali, in quella di sinistra, una volta saliti di fianco alla lunetta col battesimo di S. Martino, lo stemma della famiglia Crivelli, legata a Magenta, che ha dato alla Chiesa Papa Urbano III; in quella di destra lo stemma dei Mazenta, diventato stemma comunale, che ha dato i natali a illustri personaggi ecclesiastici, tra i quali Faustino Mazenta, e non, tutti benemeriti della Città, per esempio nella costruzione della chiesa di S. Biagio prima e nella fondazione dell'istituto delle Madri Canossiane poi.
Due grandi tondi, ai lati esterni del cartiglio con "Basilica Romana Minore": a sinistra, San Giuseppe Cafasso, a destra San Giovanni Bo­sco. Sopra ci sono le statue di Sant'Ambrogio e di San Carlo: sono i due patroni della diocesi di Milano. Infine nei due tondi ai lati del rosone, a sinistra, il Prevosto Luigi Crespi, ideatore della facciata e di buona parte delle pitture interne; a destra, il Prevosto Cesare Tragella, ideatore della chiesa parrocchiale e dell'ornamentazione dell'antico altare Maggiore.


La basilica possiede un concerto di 8 campane in La2 Maggiore, fuso nel 1964 da Paolo Capanni di Castelnovo ne' Monti (RE). Le campane suonano a sistema ambrosiano.

Nel 1858 il campanile della vecchia chiesa di San Martino venne dotato di un concerto di sei campane in Sib2 Maggiore, fuse da Felice Bizzozero di Varese, interamente donato dall'arciduca Massimiliano d’Austria, al quale era dedicata la campana maggiore, del peso di 2420 kg. All’inizio del XX secolo, consacrata la nuova prepositurale di San Martino e San Gioacchino ed abbattuta la vecchia chiesa, si decise per la costruzione di una nuova torre campanaria. Le sei campane del campanile della vecchia chiesa di San Martino vennero trasferite sulla nuova torre campanaria ed il concerto venne esteso da sei ad otto campane, con l’aggiunta di due campane minori. Nel 1943, durante la requisizione bellica della seconda guerra mondiale, vennero asportate le due campane maggiori e la campana minore. Al termine del conflitto venne rifuso l’intero concerto da Carlo Ottolina e figli di Seregno (MB), ed inaugurato 12 ottobre 1947 in occasione dell'attribuzione a Magenta del titolo di città. Il nuovo concerto non soddisfava le aspettative e nel 1964 si decise per una sua nuova rifusione, in tonalità La2 Maggiore.



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lunedì 25 maggio 2015

LA CHIESA DI SAN DOMENICO A LEGNANO



I fedeli, prima che alla chiesa di San Domenico, facevano riferimento ad una cappellina chiamata Oratorio del Salvatore, che venne innalzata nel 1757 dai fratelli Pietro e Giacomo Oldrini per un voto religioso.

L'Oratorio di San Salvatore diventò chiesa nel 1863 per necessità di culto degli abitanti, quando fu ampliata e ristrutturata. Nell'edificio, conosciuto ora come Oratorio di San Domenico, si celebrarono funzioni religiose fin dal 1895. In questo anno don Emanuele Cattaneo capì che la costante espansione del quartiere richiedeva la costruzione una vera e propria chiesa al posto della piccola cappella. Don Cattaneo accelerò la fase progettuale della nuova chiesa dato che alcuni proposero di demolire l'Oratorio di San Domenico costruendo al suo posto una conceria.

In origine, al posto della chiesa di San Domenico, sarebbe dovuta sorgere una conceria, ma il sacerdote don Emanuele Cattaneo si oppose al progetto.
Nel rione di San Domenico esisteva una piccola cappella che per necessità di culto degli abitanti fu ampliata e ristrutturata: cominciò così nell’aprile del 1900 la costruzione di una vera e propria chiesa. Nel novembre del 1904 fu costruita la cupola ottagonale con grandi finestre bifore e sulla cuspide venne eretta una statua del Redentore in rame dorato. Le spese per la costruzione furono sostenute in gran parte dal parroco di San Magno, monsignor Domenico Gianni, e da alcuni filantropi legnanesi. La parrocchia fu istituita dal Cardinal Andrea Ferrari, arcivescovo di Milano e la Chiesa venne consacrata dallo stesso l’anno seguente. Il campanile alto 40m venne realizzato in stile rinascimentale nel 1924 e su di esso furono installate sette campane a sistema ambrosiano dotate di ceppi motorizzati. Nel 1925 fu rifatta la facciata in stile romanico, dove vennero collocate grandi statue raffiguranti simboli degli evangelisti come il leone (San Marco), l’angelo (San Matteo); il bue (San Luca), e l’aquila (San Giovanni). La chiesa è caratterizzata dalla classica pianta a croce latina a tre navate con transetto, sull’altare è collocato il Crocifisso trasferito dalla chiesa del convento dei frati di Sant’Angelo che si trovava nella stessa contrada. Quest’edificio è dedicato a San Domenico di Guzmàn.

Sul campanile della chiesa sono installate 7 campane a sistema ambrosiano dotate di ceppi motorizzati, un concerto di 6 campane in La grave (La2,Si2,Do#2,Re3, Mi3, Fa3) ed il Re# che permette di suonare con 5 campane in Si maggiore e Si minore.

Furono realizzate dalla fonderia fratelli Ottolina di Seregno, per un costo totale di circa 131 lire, e collaudate il 22 settembre 1924. La campana maggiore misura 168 cm di diametro e pesa 9.580 chili.




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mercoledì 13 maggio 2015

IL DUOMO DI MONZA

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Secondo una leggenda tardomedioevale, alla regina Teodolinda, che aveva fatto voto di erigere una chiesa in onore di Dio e di san Giovanni Battista, una voce celeste predisse che lo Spirito Santo, in forma di colomba, avrebbe indicato il luogo della costruzione.
Teodolinda, partita per un lungo viaggio, si fermò sulle sponde del fiume Lambro per riposare all’ombra di un grande albero dove le apparve appunto la colomba e una voce le disse: “modo”, invitandola a rimanere. La regina fu pronta a rispondere “etiam”, acconsentendo così alla costruzione della nuova basilica proprio in quel luogo. Dall’unione delle due parole, Modoetia, nacque l’antico nome di Monza.

Una trama di vicende lunga più di 1400 anni, una struttura complessa e monumentale, un ricchissimo apparato decorativo e di arredi, un Tesoro di valore inestimabile e un fitto intreccio di relazioni internazionali scandite sull’arco di tutta la sua storia, fanno del Duomo di Monza una delle più importanti istituzioni ecclesiastiche d’Italia e d’Europa.

Un’importanza cui la basilica sembra essere stata destinata fin dalle origini, che si collocano nei difficili anni della prima organizzazione del regno longobardo in Italia e si legano alla figura della Regina Teodolinda (570 circa – 627), principessa bavara di fede cattolica, andata in sposa, in successione, a due re dei Longobardi: Autari (nel 589-90) e Agilulfo (dal 590 al 616).

Il Duomo venne fondato alla fine del VI secolo dalla regina Teodolinda, moglie del re longobardo Autari e poi di Agilulfo, come cappella del vicino palazzo reale, in una zona allora marginale del piccolo borgo di Monza, a breve distanza dal fiume Lambro. Rosone del Duomo di MonzaCertamente la basilica era già costruita nel 603, quando l'abate Secondo di Non vi battezzò l'erede al trono Adaloaldo.

Essa nacque sotto un duplice segno: il legame con S. Giovanni Battista (al quale molto probabilmente la regina aveva impetrato la grazia della maternità) e quello con la sede pontificia romana, in particolare con papa Gregorio Magno. Centrale fu infatti il ruolo della regina nella conversione dei longobardi dall'arianesimo al cattolicesimo, processo complesso che si concluse solo un secolo dopo, sotto il regno di Liutprando. Per tali motivi, come testimonia Paolo Diacono, la Chiesa svolse di fatto il ruolo di "santuario" della nazione longobarda.

Di questa prima fase quasi nulla sopravvive, ad eccezione di pochi materiali edilizi (tegoloni, "tubuli" per la realizzazione di volte, oggi conservati in Museo) e di resti dell'arredo liturgico (due lastre decorate "a incisione"). Dalle scarse fonti scritte si ricava, comunque, che doveva trattarsi di un edificio a tre navate, ad andamento longitudinale, preceduto da un atrio quadriportico che svolgeva funzioni diverse, tra cui alcune civili: vi venne ospitata anche la sede del Comune, che alla fine del XIII secolo si trasferì nell'Arengario appositamente costruito. Nel 1989 sono state rinvenute nella navata nord tre tombe "privilegiate" internamente dipinte, riferibili ad epoca altomedievale, che suggeriscono di supporre l'area originaria occupata dalla chiesa, tra l'attuale collocazione ed il chiostrino a settentrione. Alle funzioni di campanile venne adattata una torre - forse sorta con funzioni militari - ancora superstite, inglobata nelle murature tra la sacrestia e la cappella di Teodolinda.

Straordinaria testimonianza dei primi secoli di vita è il prezioso Tesoro, formato dalla suppellettile liturgica e dai donativi offerti dalla regina (che nella chiesa alla sua morte venne sepolta) e da altre opere di oreficeria e avorio offerte da re Berengario all'inizio del X secolo. Nel cambio di secolo, tra Duecento e Trecento, si colloca il momento decisivo di trasformazione dell'antica basilica nell'attuale Duomo, questa volta sotto il segno dei Visconti. Non è un caso che l'anno cruciale sia il 1300, quello della "grande perdonanza", il primo giubileo indetto da Bonifacio VIII.

Come tutto nel Medioevo anche la rifondazione del Duomo si ammanta di leggenda. Secondo un cronista locale, Bonincontro Morigia, all'origine di tutto sarebbe da porre un'apparizione miracolosa (di Teodolinda e di S. Elisabetta) a un prete, Francesco da Giussano, al quale viene chiesto di riscoprire antiche reliquie, da tempo dimenticate. Ritrovate le reliquie all'interno di un sarcofago romano (quello di Audasia Cales), ed esposte alla pubblica venerazione, il 31 Maggio si pone la prima pietra della ricostruzione. Si tratta, evidentemente, di un'operazione insieme religiosa e politica (ai Visconti era infatti legato l'arciprete Avvocato degli Avvocati) per affermare il dominio dei nuovi signori sul contado, sostenere, in opposizione alla curia romana, le devozioni locali e recuperare la tradizione regale longobarda. Paliotto in argento sull'altare maggiore del Duomo di MonzaNel 1308 si provvede a traslare il corpo della regina in un sarcofago di pietra sostenuto da colonnine (oggi nella Cappella di Teodolinda), secondo un diffuso modello di prestigio.

La prima fase edilizia si conclude nel 1346, anno della consacrazione dell'altare maggiore e della realizzazione del paliotto in argento di Borgino del Pozzo, ispirato all'altare d'oro di Sant'Ambrogio a Milano.

Una seconda campagna costruttiva, motivata dalla necessità di ampliare l'edificio (sobriamente ispirato alle contemporanee architetture mendicanti, come il S. Francesco "ad pratum magnum" della stessa Monza) per adattarlo alle esigenze di rappresentanza che il ritorno del Tesoro da Avignone (1345) imponeva, cade a metà del secolo.

Artefice di questa seconda, più solenne, fase è Matteo da Campione, esponente di quella stirpe di costruttori proveniente dalla zona dei laghi tra Lombardia e attuale Canton Ticino, alla quale i Visconti commisero tante imprese edilizie e decorative del ducato nel corso del Trecento. La sua lapide funeraria (1396), immurata all'esterno della cappella del Rosario, ci informa sulla sua attività (il completamento della grande facciata "a vento", la realizzazione del pulpito e del battistero) e testimonia il prestigio da lui raggiunto e la sua devozione.
Egli fu certamente interprete dell'aspirazione dei Visconti a realizzare una grande basilica per le incoronazioni imperiali, secondo la tradizione germanica che imponeva all'imperatore di assumere tre corone: quella d'argento ad Aquisgrana, quella d'oro a Roma e quella "di ferro" appunto a Monza (o a Milano).
E di ciò si ha una straordinaria testimonianza iconografica nella grande lastra (già chiusura posteriore del pulpito) oggi collocata presso l'ingresso della sacrestia.

A Matteo spetta anche la costruzione delle due cappelle gemelle ai lati dell'abside maggiore. Quella di destra (già del S. Chiodo e oggi dedicata al S. Rosario) venne decorata intorno al 1417-18 (sopravvive un unico frammento con Cristo crocifisso, attribuito a Michelino da Besozzo); quella di sinistra (dedicata a Teodolinda) decorata tra il 1444 e il 1446 dalla famiglia di pittori lombardi Zavattari che realizzarono il celebre ciclo di affreschi tardogotici. Occorre attendere oltre un secolo per assistere alla ripresa dell'attività decorativa, che questa volta interessa i bracci dei transetti.
E' sempre nella seconda metà del Cinquecento che si avvia, in rapporto alle trasformazioni imposte dal Concilio di Trento, una profonda rielaborazione della zona absidale, con lo sfondamento del muro di fondo della cappella maggiore e la costruzione di un vasto presbiterio, all'esterno rigorosamente intonato alle precedenti architetture tardogotiche. Alla fine del secolo viene anche costruito, su progetto di Pellegrino Tibaldi, il nuovo campanile, a sinistra della facciata.

Nel 1644 viene gettata la volta della navata centrale e nel 1681 è costruita, nell'area delle sacrestie, la cappella ottagona destinata a ospitare il Tesoro. I primi decenni del Settecento, anche in coincidenza con il ripristino del culto del S. Chiodo, segnano anche una forte ripresa decorativa, che trasforma l'edificio in una sorta di antologia della pittura tardobarocca. La stagione neoclassica è segnata dall'altare maggiore progettato da Andrea Appiani (1798) e dal nuovo pulpito di Carlo Amati (1808).

Alla fine dell'Ottocento si collocano le grandi opere di restauro conservativo e stilistico della cappella di Teodolinda e soprattutto della facciata (L. Beltrami, G. Landriani), che viene trasformata radicalmente con la reintegrazione delle edicole sommitali (già tutte cadute, ad eccezione di una, all'inizio dei Seicento) e la sostituzione dei filari di marmo nero di Varenna con serpentino verde d'Oira, per enfatizzare, in una sorta di ipercorrettismo, la componente toscaneggiante della cultura figurativa campionese.

La torre campanaria, con la sua altezza di circa 75 metri, svetta nel cielo di Monza e costituisce un significativo punto di riferimento nel paesaggio della Brianza. La sua costruzione iniziò il 23 maggio 1592, quando l'arciprete Camillo Aulario pose la prima pietra della fabbrica. Nel 1606 la costruzione era completata, tuttavia il castello con le campane e il rivestimento si datano intorno al 1620.

Soltanto il 18 settembre 1628 il cardinale Federico Borromeo benedisse le campane alla presenza dell'arciprete Adamo Molteno e del clero monzese. Il progetto del campanile, che rivela l'influsso dello stile di Pellegrino Pellegrini, architetto di S. Carlo Borromeo, fu in realtà eseguito dall'architetto Ercole Turati, al quale si devono anche i progetti del battistero, della cripta e dell'ampliamento del coro, realizzati nei primi due decenni del XVII secolo.

Nella torre campanaria il Turati inserì nei quattro frontoni della cella grandi stemmi in cornici barocche di granito, che raffigurano: a sud, la Chioccia con i pulcini, del Tesoro; a est, la mitra e il pastorale, in uso all'arciprete; a nord, la Corona Ferrea e la Croce del Regno; a ovest, l'Agnello sul libro dei sette sigilli. Alla base della torre una lapide ricorda la visita dei sovrani d'Austria, Maria Luisa e Francesco I, avvenuta il 4 marzo 1816, preceduta dalla restituzione del tesoro, il 2 marzo.

La Basilica di San Giovanni Battista di Monza, detta comunemente Duomo, ha molti e antichi privilegi: l'Arciprete gode delle insegne episcopali quali la mitra e l'anello, può indossare vesti violacee e la cappa magna, usufruisce dell'uso del baldacchino per la processione del "Santo Chiodo". Ma il privilegio maggiore è quello di avere proprie guardie armate, un corpo denominato "Alabardieri" dal tipo di arma in dotazione agli stessi.

Questo onore è unico al mondo in quanto, oltre alla Guardia Svizzera in servizio al Vaticano a custodia del Sommo Pontefice, solo il Duomo di Monza può schierare delle guardie armate all'interno della Chiesa. La data certa della loro istituzione non si conosce e si perde nella notte dei tempi, dato che nell'editto di Maria Teresa d'Austria, del 1763, riguardante l'approvazione della nuova divisa degli alabardieri, si dice "l'immemorabile possesso di fare assistere le principali sacre funzioni da dodici uomini armati d'alabarda sotto la direzione di un capo". Non si conosce l'uniforme indossata prima dell'editto di Maria Teresa, ma quella approvata è ancora la stessa in uso oggi, ad eccezione del cappello, prima a tricorno, poi da Napoleone I sostituito con l'attuale feluca.

L'attuale uniforme di lana blu con filettature dorate è di foggia settecentesca, si compone di una lunga casacca e di pantaloni al ginocchio, la cintura porta fibbia con piccola riproduzione della Corona Ferrea, le calze sono color turchino ed uno spadino con elsa in ottone. Il servizio degli alabardieri è riservato solo alla messa pontificale delle 10,30 nelle grandi solennità quali l'Epifania, la Pasqua, il Corpus Domini, la natività di San Giovanni Battista (24 Giugno), il Santo Chiodo e il S. Natale.

In via straordinaria prestano il loro servizio anche in particolari occasioni, ad esempio la visita del Santo Padre nel maggio 1983, le visite dell'Arcivescovo di Milano, Card. Carlo Maria Martini prima, Card. Dionigi Tettamanzi poi, ma anche in occasione della visita del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti nel 1991. Fino agli anni cinquanta, come risulta da un diario dell'epoca, il picchetto riceveva una modesta ricompensa, prestava però servizio dalla messa dell'aurora, alle 6, fino all'ultima messa delle 18. Tra una funzione e l'altra, due guardie restavano di sentinella presso l'altare maggiore.

La Corona del Ferro è innanzitutto venerata come reliquia: al suo interno, infatti, si trova un cerchietto in ferro che, secondo la tradizione, fu ricavato da uno dei chiodi usati per la crocefissione di Cristo.  Sant’Elena, nel 326, lo avrebbe ritrovato e fatto inserire in un diadema per il figlio, l’imperatore Costantino il Grande. La corona sarebbe poi passata nella mani di S. Gregorio Magno, che ne avrebbe fatto dono alla Regina Teodolinda.

La Cappella di Teodolinda si trova a sinistra dell’abside centrale. Fu affrescata dagli Zavattari, una famiglia di pittori attivi in Lombardia nella prima metà del ‘400. Chiusa da una cancellata, la cappella è costituita da una volta a forma poligonale gotica coperta da costoloni e custodisce la Corona Ferrea ed il sarcofago dove nel 1308 vennero traslate le spoglie della regina Teodolinda.

Se si eccettua il ciclo della cappella di Teodolinda, poco è sopravvissuto della decorazione precedente la stagione barocca, che ha profondamente inciso nella percezione dello spazio interno del Duomo. In clima tardomanierista ci trasportano le decorazioni delle testate interne dei transetti, a iniziare da quella meridionale (Albero di Jesse, di Giuseppe Arcimboldi e Giuseppe Meda, 1558) per passare a quella settentrionale (Storie di S. Giovanni Battista, di G. Meda e Giovan Battista Fiammenghino, 1580).

La decorazione del presbiterio e del coro è la maggiore impresa pittorica del Seicento e vede all'opera Stefano Danedi detto il Montalto, Isidoro Bianchi, Carlo Cane e Ercole Procaccini il Giovane, con quadrature di Francesco Villa. La volta della navata maggiore viene invece affrescata alla fine del secolo da Stefano Maria Legnani detto il Legnanino, con quadrature del Castellino (1693).

I dieci quadroni della navata centrale con Storie di Teodolinda e della Corona ferrea, realizzati tra Sei e Settecento, appartengono a diversi pittori, fra cui Sebastiano Ricci, Filippo Abbiati e Andrea Porta.

E' però soprattutto il Settecento a segnare l'interno dell'edificio, che costituisce un osservatorio privilegiato per lo studio della cultura figurativa lombarda tra barocco, barocchetto e rococò. Pietro Gilardi affresca con Storie della Croce il tiburio (1718-19); Giovan Angelo Borroni dipinge nella cappella del Rosario (1719-21), in quella del Battistero e in quella di S. Lucia (1752-53); Mattia Bortoloni decora la cappella del Corpus Domini (1742). L'episodio conclusivo è costituito dall'intervento in Duomo di Carlo Innocenzo Carloni, il grande maestro del rococò internazionale, già attivo in Austria, Germania e Boemia.

Tra il 1738 e il 1740, secondo un programma stabilito dal gesuita Bernardino Capriate, egli decora le volte delle navate laterali, l'arcone trionfale e le pareti occidentali del transetto.

Il Museo e Tesoro del Duomo di Monza custodisce cimeli e reliquie che ci riportano ai primi secoli del Cristianesimo ed all’epoca longobarda e ci accompagna sino ai nostri giorni senza soluzione di continuità. Si va da una serie di ampolline palestinesi e romane, databili alla seconda metà del VI secolo, agli splendidi preziosi del periodo tardo romanico, VI-VII secolo, come la Croce detta di Agilulfo, la Corona votiva e la legatura dell'Evangeliario di Teodolinda; dai capolavori di epoca carolingia, IX secolo, come il Reliquiario del dente di S. Giovanni e la Croce reliquiario di Berengario I, alle opere artistiche di scuola lombarda, come la Madonna col Bambino in pietra ed il San Giovanni Battista in rame dorato del XV secolo; dai lasciti dell’età viscontea, come il Calice di Giangaleazzo Visconti e lo Stocco di Estorre Visconti, agli arazzi cinquecenteschi, fino alle tele del XVII-XVIII secolo.

La Biblioteca Capitolare, è costituita da una vasta raccolta di testi di elevato valore storico ed artistico, datati tra il VI ed il XX, per un totale di circa 900 volumi.

Per la sua antichità, la Biblioteca è una delle più importanti d’Italia. La raccolta contiene circa 200 manoscritti: tra i più antichi un volume di dialoghi di San Gregorio Magno ed un palinsesto di libro liturgico, risalenti all’VIII secolo.

Tra i pezzi più importanti vi è il codice illustrato “De ratione temporum” del Venerabile Beda (XI sec), il Codice Purpureo, codici gotici miniati e codici musicali. Accanto ai manoscritti, opere a stampa, incunaboli e cinquecentine.

L’Organo Meridionale o Organo ZANIN, inserito nella cassa in cornu Evangelii, è un grande strumento di 12 piedi nello stile rinascimentale italiano; conta 17 registri, su un'unica tastiera. Il prospetto, formato dalle canne del Principale, presenta la tipica disposizione a cinque campate con organetti morti. Sotto il prospetto è collocato, su un somierino a mo' di Brustwerk, un registro ad ancia (Cornamuse), accessibile per l'accordatura attraverso un pannello intagliato.

Le canne sono costruite con le tradizionali leghe di piombo e stagno (95% di stagno per le canne di prospetto, 94% di piombo per le canne interne), secondo misure ricavate dai modelli storici.

La tastiera ha un'estensione di 54 note; la pedaliera, a leggio, ha 18 note. Il Principale Secondo ed i tre Flauti hanno un'estensione di 4 ottave; il Cornetto, destinato principalmente all'esecuzione della letteratura spagnola, ha inizio dal Do#3. L'accordatura secondo il temperamento mesotonico a quarti di comma sintonico, con terze maggiori perfettamente pure, contribuisce in modo determinante a caratterizzare la sonorità dello strumento. Il corista è più alto di un tono rispetto alla norma moderna (La3=492 Hz), come si riscontra di frequente negli strumenti rinascimentali, e come doveva essere in origine, secondo quanto si può desumere dalle dimensioni delle casse, negli organi del Duomo. La pressione del vento è di 46 mm di colonna d'acqua.

Nella medesima cassa trova posto un secondo organo di 6 registri, completamente indipendente, accordato all'unisono dell'organo settentrionale e pensato per dialogare con questo, in particolare con il Positiv, nell'esecuzione di letteratura a due organi o a due cori con basso continuo. Questo organetto ha una tastiera di 49 note (Do1-Do5) ed una pedaliera a leggio di 12 note (Do1-Si1). Le misure delle canne e le tecniche di intonazione sono riprese dagli strumenti di scuola callidiana.

Settentrionale o Organo METZLER, collocato nell'antica cassa in cornu Epistolæ, conta 29 registri ripartiti fra Hauptwerk, Positiv e Pedale. I tre corpi sono disposti all'interno della cassa in modo da risuonare in volumi differenti: l'Hauptwerk (Grand'Organo) è posto in corrispondenza del prospetto; il Positivo è inserito nel basamento, a sinistra della consolle; il Pedale è posto contro la parete di fondo. Il prospetto è formato dalle canne del Principale 16', disposte in tre campate.

Lo studio del progetto fonico, una volta definite le scelte stilistiche di base, è stato condotto con speciale attenzione alla risposta acustica dello strumento nell'ambiente, tenuto conto di fattori quali la particolare conformazione interna della cassa e la posizione poco usuale per un organo di questo genere. Alcune peculiarità degne di nota sono, ad esempio, il raddoppio nei soprani delle Octaven di 8' e 4' del Grand'Organo, o l'uso di canaletti in legno per una parte delle canne ad ancia.

Le canne sono ricavate da lastra in lega di stagno e piombo, trattata con il tradizionale procedimento di martellatura allo scopo di conseguire una superiore stabilità dell'intonazione; la composizione della lega varia a seconda dei registri: 70% di stagno per i Principali delle due tastiere, 35% per il Pedale, 13% e 35% per i Flauti, 35% e 70% per i registri ad ancia, 82% per le canne di prospetto. Le canne del Subbasso 16' e le più gravi del Principale 16', tappate, sono in legno di rovere.

Il concerto di campane di cui è dotato il Duomo è una preziosa opera d'arte settecentesca e rappresenta, nel panorama campanario dell'Italia settentrionale, un unicum di rilevanza eccezionale.

Dopo il disastroso incendio del 1740, che distrusse le cinque campane esistenti, col concorso di tutta la cittadinanza, l'incarico di approntare il nuovo concerto di otto campane, fu affidato a Bartolomeo Bozzio, che già aveva lavorato per la Basilica di Sant'Ambrogio a Milano e per il Torrazzo di Cremona.

Le otto campane furono consacrate il 15 giugno 1741, a soli 10 mesi e 15 giorni dall'evento che ne aveva privato la città.

Le prime tracce dell’attività di un gruppo di musici laici che presta servizio nella Basilica monzese risalgono al 1345, come cita il Chronicon Modoetiense di Bonicontro Morigia. Fino ad allora, i Canonici regolari erano affiancati nel canto liturgico da un gruppo di pueri, avviati alla vita ecclesiastica ed appositamente istruiti alla musica.

Da allora, l’attività della Cappella Musicale del Duomo di Monza è stata quasi ininterrotta anche se sono rari nelle pubblicazioni musicologiche inserite nei circuiti internazionali, studi sistematici ed approfonditi riguardanti la Cappella Musicale del Duomo di Monza con i suoi Maestri, dal Rinascimento in poi. Eppure in più occasioni gli studiosi hanno rilevato l'importanza che la Cappella ha rivestito non solo per Monza ed il circondario, ma addirittura per Milano ed il suo ambiente musicale e liturgico. Compito primario della Cappella Musicale è il servizio a tutte le più importanti e solenni celebrazioni del Duomo.

Pur impegnata a mantenere viva la tradizione di prestigio che le è stata riconosciuta nella storia e alla quale hanno contribuito anche grandi musicisti la Cappella non trascura altresì l'attività concertistica. Praticando il repertorio sacro di tradizione, dal Rinascimento ai giorni nostri, pone particolare interesse alle opere dei Maestri della Collegiata Monzese, ormai ineseguite da tempo, proponendo anche programmi concertistici rivolti a musicisti poco noti dell'area lombarda.

Su questi autori la Cappella compie un lavoro di valorizzazione: ricerca, trascrizione, studio, esecuzione, pubblicazione, incisione e divulgazione. Negli ultimi anni sono ormai molteplici le esecuzioni di opere inedite, in prima esecuzione moderna, di musiche di proprietà della Cappella stessa.




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venerdì 17 aprile 2015

LA CHIESA DI SAN BERNARDINO A SESTO CALENDE



La chiesa prepositurale di San Bernardino in Sesto Calende fu costruita agli inizi del  XX secolo in luogo dell’antica chiesa di San Bernardino che era situata nell’attuale Piazza Garibaldi, abbattuta d’autorità dal comune di Sesto Calende. La chiesa attuale non è quindi la più antica, ma è la più vasta in ampiezza. Essa è ricca di affreschi che illustrano scene del Vangelo e della figura del Patrono. L’edificio sacro venne consacrato ufficialmente al culto dal Beato Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster il 2 giugno 1946. La chiesa custodisce le spoglie mortali del compianto Cardinale Angelo Dell'Acqua, sestese d’origine, poi diventato vicario di Roma sotto il pontificato di Papa Paolo VI.

Il nuovo altare costruito secondo le norme conciliari del Vaticano II, è ampio, elegante e apprezzato: fu consacrato dal Cardinale Carlo Maria Martini nel 1991. Da ammirare, all'interno, le meravigliose dodici colonne in granito di Baveno, destinate, secondo dicerie locali, alla Basilica di San Paolo in Roma, ma sequestrate in seguito al fallimento della ditta fornitrice, durante il trasporto per mezzo di barconi sul fiume Ticino. Rimasero per più di 20 anni abbandonate a Sesto Calende in riva al Ticino, in seguito vennero cedute a prezzo vantaggioso ed acquistate per la nuova chiesa. Degni di nota sono la pavimentazione di tutta la chiesa, gli affreschi della navata centrale attribuiti ad Arduino e raffigurati scene di Cristo e San Bernardino, l'altare in marmo, le vetrate di buona fattura, il soffitto ligneo a cassettoni rivestiti a stucchi policromi, la cappella del Sacro Cuore, i due affreschi di fianco all'altare e il magnifico organo, composto da più di 2500 canne installato nel 1937. Da ammirare anche, all'esterno i tre mosaici.

Dal 1932 ad oggi uno stormo di S55 sorvola ogni giorno il centro di Sesto Calende. La flotta di bombardieri, vanto dell’aeronautica italiana dei primi del Novecento, è stata scolpita sulle pareti della campana maggiore del campanile della Chiesa di San Bernardino. Il passato di questi velivoli si intreccia con la storia, e non solo con quella economica, della cittadina sulle rive del Ticino. Un legame fatto di lavoro e saperi – quelli che hanno contraddistinto la presenza della Siai Marchetti a Sesto Calende – che aiuta inoltre a comprendere come ci siano finiti degli idrovolanti da guerra sopra il simbolo sacro per eccellenza, le campane della chiesa parrocchiale.

Le  campane di Sesto Calende sono otto, formano un concerto musicale, della scala temperata, sulla corda del La naturale, pesano complessivamente intorno ai cento quintali, vennero testè eseguite nella secolare, rinomata Fonderia Bianchi di Varese. Delle otto, quella certamente più particolare, è appunto la campana maggiore di "Santa Maria". Quest’ultima, dedicata agli "eroi dell’aria", è stata disegnata dal pittore Papa, disegnatore della Siai, su ispirazione dell’ingegner Marchetti che è anche autore della dedica propiziatoria e ha apposto la firma sul modello in cera; pesa 28,80 quintali e ha un’apertura di 1,70 metri. È decorata con l’immagine della Madonna di Loreto, patrona degli aviatori, un disegno di onde raffigurante il mare, i segni dello zodiaco raffiguranti il cielo e uno stormo di S55. Il motto è "per aspera ad astra".
Le altre sette campane conservano ognuna una dedica particolare: la seconda, Crocefisso, è intitolata ai Caduti, la terza, San Paolo monaco, agli Esercenti, la quarta, San Rocco ai Contadini, la quinta, San Giacomo ai Vetrai la sesta, San Bernardino è un dono «del Rev. Sig. Prevosto», la settima, San Giovanni Battista «aere proprio fecerunt coniuges Henrica et Joannes Battista Farioli» e l’ottava, San Francesco, è offerta dai «coniuges Franciscus et Maria Barbieri».



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