lunedì 2 marzo 2015

STORIA MILANESE : LE CINQUE GIORNATE DI MILANO

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Le cinque giornate di Milano furono un'insurrezione avvenuta tra il 18 e il 22 marzo 1848 nell'omonima città, allora parte del Regno Lombardo-Veneto, che portò alla liberazione della stessa dal dominio austriaco.

Fu uno dei moti liberal-nazionali europei del 1848-1849 nonché uno degli episodi della storia risorgimentale italiana del XIX secolo, preludio all'inizio della prima guerra di indipendenza: la rivolta infatti influenzò le decisioni del re di Sardegna Carlo Alberto che dopo aver a lungo esitato, approfittando della debolezza degli Austriaci in ritirata, dichiarò guerra all'Impero austriaco.

Venerdì 17 marzo si diffuse in città la notizia delle dimissioni di Metternich a seguito della insurrezione popolare a Vienna. La notizia spinse a decidere di approfittare dell'occasione per organizzare il giorno successivo una grande manifestazione pacifica davanti al palazzo del governatore (nell'attuale Piazza Mercanti) per richiedere alcune concessioni tese a dare maggiore autonomia a Milano e alla Lombardia: abrogazione delle leggi più repressive, libertà di stampa, scioglimento della polizia, deferimento al comune di Milano della responsabilità sull'ordine pubblico e istituzione di una Guardia Civica agli ordini della municipalità.

Il 18 marzo 1848 la manifestazione pacifica ben presto si trasformò in un assalto: O'Donell, rappresentante del governatore Spaur, venne costretto a firmare una serie di concessioni e in tutta Milano cominciarono i combattimenti in strada.

Colto alla sprovvista, Radetzky si rinchiuse con i suoi 8.000 uomini nel Castello Sforzesco (allora poco più che un grande quadrato senza il perimetro esterno demolito da Napoleone e separato dalla città da uno spiazzo vuoto) e ordinò di riprendere il palazzo del governatore sperando anche di catturare in esso i capi della rivolta, che invece si erano trasferiti in una casa di Via Monte Napoleone, motivo per cui fallì anche una retata nella sede dell'arcivescovo. Radetzky comunque non era assediato, poteva infatti muovere i suoi uomini (saliti col tempo a 18.000/20.000) isolando la città dall'esterno; era inoltre in possesso di quasi tutti gli edifici pubblici, delle caserme, degli uffici di polizia e del Duomo, dal cui tetto gli Jäger sparavano ai rivoltosi che capitavano nella loro area di tiro.

La situazione degli Austriaci non era comunque delle migliori. Già il 19 marzo i milanesi avevano allestito circa 1.700 barricate difese anche dalle finestre e dai tetti delle abitazioni, che a volte vennero private dei muri per creare vie di comunicazione più veloci. La scarsità di armi da fuoco portò i milanesi a usare i fucili esposti nei musei e ad assegnarli solo ai tiratori più esperti. Le strade vennero dissestate e cosparse di ferri e vetri per rendere impossibile l'azione della cavalleria. Il 20 marzo Radetzky diede ordine a tutti i distaccamenti sparsi per Milano di trincerarsi nel castello e di mantenere il controllo della cinta muraria permettendo così a Luigi Torelli e Scipione Bagaggia di salire sul Duomo per porre simbolicamente la bandiera italiana sulla guglia della Madonnina.

Il 20 marzo si fondò un consiglio di guerra (per iniziativa di Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi, Giorgio Clerici e Carlo Cattaneo) che prese il comando effettivo delle operazioni e, nella notte tra il 21 e il 22 marzo, nacque il Governo provvisorio presieduto dal podestà Gabrio Casati (il segretario era Cesare Correnti). La resistenza fu organizzata costruendo mongolfiere per poter inviare in tutta sicurezza messaggi fuori le mura; agli astronomi fu detto di sorvegliare il nemico da torri e campanili, gli impiegati del catasto e gli ingegneri vennero consultati per sapere come meglio muoversi in città, e divennero famosi i Martinitt ("piccoli martini", dal nome dell'orfanotrofio in cui vivevano) che funsero da staffette portaordini.

Tra la fine del terzo giorno di lotta e l'inizio del quarto, la situazione era entrata in stallo: le truppe austriache salde sulle loro posizioni (ma senza edifici capaci di ospitare tutti i soldati e consci che la perdita di una sola porta avrebbe vanificato l'assedio) e i milanesi relativamente sicuri per le strade, ma a corto di rifornimenti. Radetzky inviò quindi un'offerta di tregua che divise il Consiglio di guerra tra moderati e democratici.

Casati e i nobili chiedevano ad alta voce l'accettazione dell'armistizio e la chiamata in causa del re di Sardegna Carlo Alberto (con cui già aveva parlamentato il conte Enrico Martini il quale riferì al Consiglio, il 21 marzo, di averne ricevuto una risposta interlocutoria); il sovrano aveva già radunato l'esercito a Novara, pronto a muoversi non appena le personalità milanesi più influenti avessero firmato una petizione che reputava necessaria per giustificare, di fronte alle diplomazie internazionali, l'entrata delle truppe nel Lombardo-Veneto.

A detta dei moderati, l'intervento delle truppe sabaude era necessario per sconfiggere l'esercito austriaco in una vera e propria campagna militare (secondo loro impraticabile dagli inesperti rivoltosi) e per prevenire eventuali degenerazioni rivoluzionarie; alcuni proposero anche che, se il futuro regno fosse stato lombardo-piemontese, il suo baricentro sarebbe stato Milano, a scapito di Torino. Diversa era invece la posizione dei democratici, con in testa Cattaneo: contrari ad ogni petizione e ad ogni armistizio, erano convinti che la rivoluzione avrebbe trionfato anche senza ricevere aiuti; un'alleanza con il Re di Sardegna sarebbe stata possibile solo se in posizione di parità.

Alla fine prevalse il punto di vista dei democratici, l'armistizio fu rifiutato e si tornò a combattere. Il 21 marzo il calzolaio Pasquale Sottocorno riuscì ad incendiare la porta del palazzo del Genio in via Monte di Pietà, permettendo ai milanesi guidati da Luciano Manara, Enrico Dandolo ed Emilio Morosini di impossessarsi della struttura. Durante l'attacco restò ucciso Augusto Anfossi, uno dei capi militari della rivolta.

La mattina del 22 marzo le strade cittadine erano sotto il controllo degli insorti, mentre gli Austriaci controllavano le mura spagnole ed il Castello Sforzesco chiudendo la città in una cerchia; tuttavia nella campagna circostante le strade erano bloccate dalla popolazione in rivolta e agli Austriaci mancava la possibilità di ricevere rifornimenti e rinforzi, perciò Radetski decise di prepararsi all'abbandono della città, ma conservando le posizioni (per garantirsi una ordinata ritirata delle sue truppe). Gli scontri proseguirono quindi con i milanesi che attaccarono per forzare il blocco e unirsi con gli insorti della campagna; le armi ai rivoltosi ormai non mancavano, grazie a quelle catturate in combattimento e a quelle rinvenute nelle caserme austriache abbandonate.

Un primo attacco fu tentato la mattina contro Porta Comasina, quindi Porta Ticinese, entrambi respinti; ebbe infine successo un terzo assalto a Porta Tosa (in seguito per questo motivo chiamata Porta Vittoria) guidato da Manara. La porta fu conquistata a notte fonda sotto la luce degli incendi che divampavano nelle case adiacenti, la bandiera tricolore fu issata sulle rovine della porta da Francesco Pirovano, un garzone di panetteria di diciassette anni. La conquista di Porta Tosa segnò la vittoria della rivolta.

Porta Tosa comunque fu temporaneamente ripresa dagli Austriaci in quanto da questa posizione iniziava la strada che forzatamente avrebbe dovuto percorrere in ritirata per raggiungere le fortezze del Quadrilatero, seguendo la via dell'Adda. Radetzky, infatti, considerata anche la possibilità di rimanere bloccato tra milanesi e piemontesi, preferì ritirarsi la notte tra il 22 e il 23 marzo 1848 verso il "Quadrilatero" con 19 ostaggi al seguito.

L'idea vincente per assaltare le posizioni fortificate austriache arrivò da Antonio Carnevali, professore di scuola militare ed ex ufficiale della Guardia di Napoleone nella campagna di Russia, che propose di avvicinarsi usando delle barricate mobili costituite da fascine di tre metri di diametro, bagnate per prevenire incendi, che i milanesi avrebbero dovuto far rotolare davanti a sé per ripararsi dai proiettili austriaci.

Nonostante l'ormai certa vittoria sul campo, sul piano politico Cattaneo fu sconfitto al consiglio di guerra, infatti fu spedito a Torino un messaggero che portava la petizione con cui i milanesi chiedevano a Carlo Alberto di entrare in Lombardia.

Terminata la battaglia nacque infine l'organo ufficiale del governo provvisorio milanese che, in ricordo di quel giorno, ebbe come nome Il 22 marzo. Il giornale iniziò le sue pubblicazioni il 26 marzo 1848, dalla sede di Palazzo Marino, sotto la direzione di Carlo Tenca.

La sera del 22 i milanesi abbatterono il portone della Scuola militare Teuliè e fecero prigioniero il presidio. I cadetti di origine milanese furono riportati presso le famiglie, mentre la scuola fu chiusa e trasformata in "Scuola di Artiglieria e Genio" sotto la direzione del maggiore Antonio Carnevali.

Terminati i combattimenti, il 6 aprile la scacciata degli austriaci fu celebrata con un "Te Deum" solenne celebrato nel Duomo, in prima fila, assieme alle autorità cittadine due posti furono riservati alla patriota Luisa Battistotti Sassi e a Pasquale Sottocorno distintisi nei combattimenti.

Il 23 marzo, il giorno successivo alla fine dei combattimenti a Milano, le truppe piemontesi passarono il Ticino dirigendosi verso Milano, dando così inizio alla prima guerra d'indipendenza.

L'esercito piemontese si mosse con estrema lentezza, dando modo agli austriaci di ritirarsi senza rilevanti perdite nel Quadrilatero, sconfitte solo in due piccole battaglie al ponte di Goito (9 aprile) e Pastrengo (30 aprile). Circa un mese dopo, i sardo-piemontesi si impadronirono della fortezza di Peschiera del Garda, per cercare di liberare la quale Radetzky sconfisse i volontari toscani a Curtatone e Montanara, venendo però egli stesso fermato di nuovo a Goito.

L'incapacità di assumere l'iniziativa da parte piemontese diede in ogni caso modo agli austriaci di ricevere rinforzi che gli permisero di riconquistare Vicenza, il 10 giugno, e di riprendere l'offensiva, battendo l'esercito sardo-piemontese in una serie di scontri passati alla storia come prima battaglia di Custoza (22-26 luglio).

Il 10 giugno Carlo Alberto ricevette una delegazione guidata dal podestà di Milano Casati, che recava l'esito trionfale del plebiscito che sanciva l'unione della Lombardia al Regno di Sardegna. La situazione dell'esercito sardo-piemontese era però compromessa e il Re ordinò una ritirata verso l'Adda e Milano, dove i piemontesi vennero accolti da una città fredda e deserta, delusa di aver offerto una vittoria per trovarsi senza colpe in una sconfitta. Il Re, sebbene avesse inizialmente respinto ogni proposta di abbandonare la città, il 4 agosto decise di porre fine alla guerra, scatenando l'ira dei milanesi che si ammassarono attorno alla sua residenza. Questo il resoconto della nobildonna Cristina di Belgioioso, che partecipò attivamente ai moti di Milano (e in seguito prese parte alla difesa della Repubblica romana dai Francesi):

« ...Una deputazione della guardia nazionale salì ad interrogare Carlo Alberto sul motivo della capitolazione. Egli negò, ma fu costretto a seguire, suo malgrado, quei deputati al balcone da dove arringò al popolo, scusandosi della sua ignoranza dei veri sentimenti dei Milanesi; e compiacendosi di vederli così pronti alla difesa, promise solennemente di battersi alla loro testa sino all'ultimo sangue. Qualche colpo di fucile partì contro Carlo Alberto. Alle ultime parole del suo discorso, il popolo sdegnato gridò: 'Se è così lacerate la capitolazione'. Il re allora levò di tasca un pezzo di carta, lo tenne in alto affinché il popolo lo vedesse, e poi lo fece a pezzi.»
Nella sera i bersaglieri sgomberarono la folla e scortarono Carlo Alberto fuori dalla città.

Il 5 agosto fu firmata la capitolazione. Il giorno dopo gli austriaci rientrarono a Milano, da dove nel frattempo la maggior parte dei partecipanti alla lotta di liberazione era fuggita. Come nuovo governatore fu posto Felix Schwarzenberg.

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