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sabato 6 giugno 2015

IL PALAZZO MOZZANICA A LODI

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Il palazzo fu l'elegante dimora del conte Lorenzo, feudatario di Turano e Melegnano, personaggio di spicco della corte milanese del Moro, capitano di cavalleria e poi commissario generale delle regie armate di Luigi XII in Italia. Probabilmente negli anni Ottanta del secolo, il conte entrò in possesso del palazzo che era stato fatto edificare nel Trecento dalla potente famiglia Vignati, cui appartenne Giovanni, signore di Lodi all'inizio del Quattrocento e di cui restano alcuni stemmi nel portico del cortile.
Spetta dunque a Lorenzo Mozzanica l'ampliamento dell'edificio gotico e la sua riqualificazione in senso rinascimentale per mezzo di un vocabolario decorativo che, se attinge da un lato al repertorio del classicismo quattrocentesco, tra Bramante e Mantegna, affonda dall'altro, e saldamente, le proprie radici nella secolare tradizione lombarda dell'ornato monumentale in terracotta.

L'edificio ha una struttura organizzata intorno ad un cortile rettangolare interno porticato su due lati consecutivi, con colonne dotate di capitelli ionici e chiuso sul fondo dallo scalone d'onore d'epoca settecentesca. La facciata su strada, tipicamente bramantesca e rinascimentale, si presenta a due ordini separati da un fregio scolpito in cotto. La fascia marcapiano è composta da elementi scultorei, realizzati con la tradizionale tecnica a stampo, ed è decorata con ghirlande e figure mitologiche (tritoni e naiadi si azzuffano vivacemente tra i flutti, alternandosi a tritoni che sostengono ghirlande fitomorfe mentre Nettuno e Proserpina reggono una corona d'encarpi). L'opera decorativa è attribuita ad Agostino de Fondulis, attivo anch'esso a Lodi nella realizzazione della Chiesa dell'Incoronata.
L'ordine inferiore della facciata è costituito da un alto basamento in cotto con cinque finestre a strombo e portale decentrato; l'ordine superiore presenta, disposte irregolarmente, una serie di finestre arcuate incorniciate con motivi archiacuti anch'essi in cotto.
L'ornato del fregio, che insieme al portale, costituisce l'elemento di maggior spicco, rielabora un motivo decorativo proveniente dal repertorio d'orbita mantegnesca ed utilizzato dal De Fondulis anche in altre occasioni.
Le cinque aperture a strombo del piano terra, e ancor più le finestre archiacute con ricche ghiere in cotto del piano superiore, appaiono distribuite in modo irregolare e scarsamente correlato tra loro e con il portale. Sullo spigolo dell'edificio è possibile vedere un grande stemma marmoreo.
Il portale in pietra d'Angera, decentrato nella parte sinistra della facciata e fiancheggiato da due colonne a candelabro ed è arricchito da elementi decorativi: bassorilievi floreali e da quattro medaglioni all'antica con ritratti di profili che confermano l'epoca della realizzazione e rimandano al ruolo che Lorenzo Mozzanica svolgeva;  le quattro medaglie sforzesche decorano l'ingresso, di cui le maggiori nei pennacchi dell'arco avrebbero all'interno i busti di Francesco Sforza e sua moglie Bianca Maria Visconti mentre le più piccole nell'entasi delle due colonne sarebbero di Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d'Aragona.
L'interno del piano superiore ospita numerosi affreschi.
Secondo la testimonianza dello storico Giovanni Agnelli il 29 luglio 1509  il re di Francia Francesco I alloggiò nel palazzo.



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domenica 31 maggio 2015

IL CASTELLO DI SONCINO

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Il Castello di Soncino è uno dei più tipici castelli lombardi dell'area del cremonese, eretto a partire dal X secolo ed avente un ruolo fondamentale nella difesa dell'area sino al Cinquecento
Le origini della rocca risalgono al X secolo quando venne realizzato un primo cerchio di mura attorno ad una primitiva struttura difensiva per contrastare la calata degli Ungheri. Nel Duecento il castello venne assediato diverse volte sia dai milanesi che dai bresciani alleati e altrettante volte ricostruito sino al 1283 quando il comune di Soncino deciderà la costruzione di una nuova rocca. Nel 1312 il castello viene occupato dai cremonesi e nel 1391 i milanesi lo utilizzano per la loro guerra contro i veneziani, il che portò dal 1426 a nuovi rafforzamenti sul cerchio esterno di mura.

Nel 1283 si trova menzionata una nuova Rocca, mentre nel 1312 il castello è occupato dai Cremonesi e nel 1391 i Milanesi ne faranno una testa di ponte contro i Veneziani la cui politica di espansione in terraferma avveniva ormai a danno del Ducato Milanese. Dopo la conquista di Brescia, avvenuta nel 1426, da parte della Serenissima le mura ed il castello vennero rinforzati intorno al 1427 per sostenere gli attacchi dei veneti. La pace di Lodi del 1454 sancì definitivamente i confini tra la Repubblica di Venezia ed il Ducato di Milano, assegnando a quest'ultimo anche Soncino. Nonostante ciò, Francesco Sforza fece rinforzare le mura ed il castello. Nel 1468 i Soncinesi avanzarono al Duca la richiesta di costruire una nuova rocca presso l'angolo di sud-ovest, in sostituzione della precedente. Francesco Sforza, ancora dubbioso della fedeltà degli abitanti, non accolse la proposta e si limitò a costruire un nuovo torrione. Galeazzo Maria Sforza nel 1469 inviò a Soncino gli architetti Serafino Gavazzi da Lodi ed il cremonese Bartolomeo Gadio, quest'ultimo autore anche del Castello Sforzesco di Milano, per approntare i progetti della nuova Rocca. I lavori però non ebbero inizio. Nel 1471 gli ingegneri ducali Benedetto Ferrini da Firenze e Danese Maineri, responsabile delle fortezze di Soncino e Romanengo, intrapresero delle opere di manutenzione dell'antica rocca, oltre alle mura, alle porte ed alla torre civica. Al Ferrini venne pure ordinato di stimare la spesa per la costruzione della rocca gadiana, ma i lavori non iniziarono che nel 1473 sotto la direzione del protomastro Bartolomeo Gadio il quale aveva richiesto la presenza del Maineri e del maestro da muro Giacomo De Lera, di Cremona, esponente della nota famiglia di architetti. I lavori verranno compiuti proprio dal De Lera. Lo stato di avanzamento dei lavori è testimoniato dalle due missive ducali del 1474 nelle quali è contenuta la richiesta di collocare un'insegna con l'impresa sforzesca sopra la porta della rocca. Insieme alla cerchia muraria la rocca costituiva un importante complesso fortificato, anche se non proprio all'avanguardia. Nonostante fosse stata interamente costruita dagli Sforza, la rocca risente degli influssi viscontei: il suo impianto quadrato con torri singolari sporgenti deriva dai castelli di pianura di Pandino, Pavia ed altri. La difesa si limita a potenziare alcuni elementi quali lo spessore dei muri, la maggiore altezza delle torri, la profondità del fossato, ecc. La torre circolare costituiva una novità, un elemento aggiornato che venne edificato però su un preesistente torrione circolare e non intenzionalmente. Anche il castello di Lodi presentava un'unica torre circolare, ancor'oggi visibile, innestata su impianto quadrato ed inserita nella cerchia muraria. Nel 1499 la rocca diverrà possedimento dei veneziani fino al 1509. In seguito passerà dai francesi nuovamente agli Sforza e nel 1535 al dominio Spagnolo. Nel 1536 Carlo V di Spagna elevò Soncino a Marchesato infeudandolo agli Stampa e da allora un lento declino interesserà la rocca: gli Stampa lo trasformeranno progressivamente in residenza, costruendo nuovi corpi di fabbrica addossati alle mura interne e trasformando le strutture esistenti, come la camera superiore della torre di sud-est che diverrà cappella. Nel XVI secolo pittori di fama quali Bernardino Gatti, decorarono alcune sale ottenute chiudendo gli spalti. Vincenzo Campi realizzò al pala d'altare della cappella con una perduta Deposizione di Cristo, mentre Uriele Gatti dipinse alcune sale al piano terreno. Purtroppo la decorazione è quasi completamente sparita e non ne rimangono che poche tracce. Nonostante alcuni tentativi di rafforzare le difese in occasioni d'interventi minacciosi, la rocca cadde in un progressivo abbandono, tanto da divenire magazzino di legname. Nel 1876 Massimiliano Stampa, ultimo marchese di Soncino, cedeva il complesso alla Municipalità per legato testamentario. Nel 1883 l'architetto Luca Beltrami venne incaricato di eseguire un rilievo e nel 1886 iniziò i lavori di restauro che comportò la demolizione di porticati ed altre strutture addossate agli spalti. Le merlature, i tetti delle torri vennero in gran parte ripristinati, mentre il ponte levatoio veniva sostituito da uno un muratura. I lavori terminarono nel 1895 con il restauro del rivellino. Situata in una piazza raccolta, si presenta con un rivellino un tempo chiuso da saracinesca. Al di sopra del portale vi è una finestrella con profonda strombatura dalla quale la sentinella poteva controllare la piazza d'armi. Oltrepassato il rivellino, si entra nella rocca vera e propria, preceduta da una piccola corte che fungeva da disimpegno per i movimenti delle truppe. Due scale addossate alle pareti interne conducono agli spalti, protetti da merlature poggianti su caditoie le quali venivano utilizzate per lanciare pietre e liquidi bollenti quali pece ed olio. Sul lato ovest del rivellino un tempo v'era un ponte levatoio che veniva, in caso di emergenza, calato sul ponte fortificato in modo da permettere l'evacuazione della rocca verso la campagna. L'accesso alla rocca era permesso da due ponti levatoi, uno pedonale ed uno carraio, per il passaggio di cavalli e carri. In caso di attacco e conquista del rivellino, la rocca poteva essere facilmente isolata. Varcato il secondo ingresso si giunge al cortile del castello. Al centro del cortile v'è una vera da pozzo, ricostruita nel XIX secolo, così come è stato messo in luce l'accesso ai sotterranei. La torre di nord-ovest, detta anche Torre del Castellano perché residenza del capitano della fortezza, ha anch'essa un ingresso alla quota del cortile, ma a differenza delle altre due quadrangolari, attraversate dal cammino di ronda posto alla quota degli spalti, presenta un passaggio interrotto da due passerelle levatoie in modo da consentire l'isolamento in caso di assedio. La torre diveniva così l'ultimo baluardo di difesa che poteva garantire la via di fuga degli assediati attraverso i sotterranei della torre ed un passaggio segreto posto sul lato ovest del fossato. Dal cortile, tramite un piccolo atrio con due porte che potevano essere saldamente chiuse dall'interno, si accede ad una stanza coperta da volta a botte. Sulla parete di fronte si apre una finestra, mentre sulla parete di sinistra possiamo ammirare un camino con cappa piramidale. Sulla destra si apre la scala che conduce ai sotterranei mentre vicino alla finestra, in un angolo, si trova un pozzo. Posta simmetricamente, all'ingresso si apre la porta della scala scavata nel muro perimetrale della torre, che conduce alla stanza superiore, anch'essa con volta a botte lunettata. La sala, un tempo decorata con affreschi, presenta un'ampia finestra con sedili in mattoni posti nell'ampio sguancio, era dotata di latrina ricavata nello spessore del muro. Lungo le pareti si trovano le uscite che conducono sugli spalti. Dall'atrio che conduce allo spalto occidentale, parte una scaletta che porta al piano della merlatura, ora coperto dal tetto. Ritornati al piano del cortile, è ora possibile scendere al pozzo interno. Si giunge ad una sorta di atrio che dà accesso alla prima sala sotterranea coperta da volta a botte ed illuminata da una finestrella, mentre un lato della stanza é interamente occupato da un rialzo a forma di bancone. Proseguendo, giungiamo ad un secondo andito che conduce al secondo sotterraneo, a destra, che poteva essere inondato in caso di necessità e che conduceva a due camminamenti, probabilmente vie di fuga. A sinistra si entra in una sala con volta a botte che conduceva, mediante la porta levatoia, al pontile a due arcate sul fossato e da qui ad un'uscita segreta. Mediante una scala sotterranea si risale alla corte centrale e raggiungiamo gli spalti tramite la scala addossata al lato est. Lo spalto orientale mette in comunicazione due torri quadrate, dotate di una stanza al piano terra coperte da volte e finestra strombata. Due porte portano rispettivamente al sotterraneo su due livelli ed al piano superiore aperto sugli spalti con due archi e volte a crociera. Da qui parte un'altra scaletta che conduce al livello degli spalti della torre sud - orientale, dove si possono notare ancora tracce di affreschi, utilizzata nella seconda metà del XVI secolo come cappella. Il più antico di questi affreschi raffigura una Madonna con il Bambino, probabilmente un ex-voto, della fine del XV secolo. Sotto uno strato d'intonaco è possibile ammirare un frammento d'affresco raffigurante il Leone di S. Marco, ricordo della breve dominazione veneziana. Sul terzo strato d'intonaco, risalente alla dominazione sforzesca, è possibile vedere un grande stemma sforzesco fiancheggiato da tizzoni accesi cui sono appese delle secchie, che dovevano illustrare il motto "Accendo e spengo", mentre ai lati, ripetuta controparte, possiamo ammirare l'altra impresa araldica raffigurante una mano nell'atto di sciogliere il cane alla catena legato all'albero. L'impresa araldica, che in seguito venne venduta agli Stampa, significava la libertà che fu portata al Ducato di Milano dagli Sforza. La volta è decorato con un motivo a pergolato, analogo a quello dipinto nella chiesa di S. Maria delle Grazie di Soncino. Il tema del pergolato non è infrequente nelle fortezze sforzesche: basti ricordare quello celebre che da il nome alla Sala delle Assi in Castello Sforzesco a Milano.

La Torre circolare è l'unica ad avere questa caratteristica forma e presenta al livello dei camminamenti una sala rotonda con calotta circolare al centro della quale si trova un pilastro a forma di cilindro che conduce sul tetto del baluardo, di forma conica e di molto sopraelevato rispetto alle altre torri, di modo che l'area potesse essere usata come torre d'avvistamento. Questa torre, eretta nel Cinquecento, presenta altresì molte tracce ad affresco di stemmi e di una crocifissione oggi in forte stato di degrado. La presenza di questo particolare affresco fa pensare che qui un tempo fosse posta la cappella che, a seguito delle trasformazioni volute dai marchesi Stampa, venne trasferita in un'altra torre. Al livello degli spalti la torre presenta un andamento cilindrico, ma verso l'interno presenta un angolo rientrante con le pareti allineate agli spalti stessi. All'incrocio di queste pareti si apre una porta che immette in una stanza rotonda coperta da calotta sferica e con due aperture a doppia strombatura che servivano per puntare le spingarde a difesa del lato sud e del ponte. Vicino alla porta vi è una scaletta con andamento elicoidale che conduce alla merlatura con ordine di piombatoi. Nel pilastro cilindrico posto al centro della stanza vi è una scaletta a chiocciola che conduce alla sommità del tetto conico della torre, una sorta di belfredo che assolveva alla funzione di torretta d'avvistamento. Questa dislocazione, al di sopra dei tetti, permetteva una visione più ampia del territorio circostante. La parte inferiore della torre è costituita da una stanza bassa coperta da volta ed appena illuminata da aperture poste a filo del terreno, probabilmente un magazzino di munizioni. Tra la volta ed il pavimento della stanza superiore vi è uno spessore di circa tre metri, il che fa supporre che vi esistesse una stanza intermedia. La tradizione la vuole identificata come la sala del tesoro, ma che però potrebbe essere, forse, una struttura di consolidamento del bastione della cinta muraria a sostegno della torre cilindrica. Anche durante i restauri ottocenteschi eseguiti da Luca Beltrami, non si è mai trovata l'apertura per questa stanza. A differenza delle altre torri, questa presenta una sola sala sotterranea, di forma circolare e coperta da volta. Tornati in cortile, ammiriamo il corpo di fabbrica addossato alla cortina muraria meridionale. L'edificio è un'aggiunta cinquecentesca tesa a trasformare la rocca in residenza signorile. Le pareti recano tracce di stemmi sforzeschi, mentre la parete occidentale presenta una nicchia ad arco entro cui è affrescata una Crocifissione, ormai sbiadita. Probabilmente questa era la parete di fondo della cappella e l'affresco doveva assolvere alla funzione di pala d'altare. In seguito alle trasformazioni subite dalla rocca nella metà del XVI secolo, la cappella venne demolita per far posto ai nuovi corpi di fabbrica destinati a residenza e fu in quell'occasione che il luogo sacro venne spostato sugli spalti della torre sud orientale.





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venerdì 29 maggio 2015

IL CASTELLO DI PANDINO

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Il castello venne fatto erigere dal signore di Milano Bernabò Visconti e dalla moglie Beatrice Regina Della Scala, intorno al 1355-1370 come residenza di campagna per la caccia, grande passione di Bernabò.

Intorno al 1355, il signore di Milano Bernabò Visconti, grande appassionato di caccia, scelse Pandino per farvi costruire un castello per poter comodamente  risiedere in questi luoghi  e dedicarsi alla sua attività prediletta; il territorio infatti, in quell’epoca era ancora ricco di boschi abitati e selvaggina. La costruzione ha la forma tipica dei castelli viscontei di pianura dell'epoca: pianta quadrata con quattro torri quadrate angolari, cortile interno con porticato ad archi acuti al piano terra e loggiato superiore con pilastrini quadrati. All'esterno sono visibili le numerose finestre, monofore al piano terra, in origine destinato alla servitù, bifore al piano superiore, riservato ai nobili. Il lato est del piano inferiore era originariamente aperto come una sorta di secondo porticato ed era adibito a salone per i banchetti estivi (attualmente, corsi e ricorsi storici, è utilizzata dalla mensa della scuola agraria).

Il castello al momento della realizzazione venne completamente affrescato persino nella zona delle stalle, ora utilizzate come biblioteca comunale. Le pitture del castello erano realizzate da svariate forme geometriche, tarsie a imitazione del marmo e alcune figure umane, variando vano per vano. Nelle forme geometriche vennero rappresentati gli stemmi araldici dei Visconti e Della Scala.

Alla morte di Beatrice Regina Della Scala sposò una Savoia ed in suo onore fece ridipingere gli stemmi scaligeri con lo stemma della casata Savoia.

Passato agli Sforza ed in seguito ad altre nobili famiglie, è attualmente di proprietà del Comune.
Grazie alla ricchezza dell'impianto originario e alla sua integrità, il castello di Pandino è sempre stato considerato come uno degli esempi più importanti dell'architettura fortificata viscontea trecentesca, in cui esigenze difensive e residenziali si sono perfettamente armonizzate. Costruito a nordest dell'abitato, all'interno dell'antica cerchia muraria fortificata, circondato da un profondo fossato prosciugato, ha uno schema architettonico semplice costituito da un quadrato di 66 m per lato, con quattro torri angolari sempre a base quadrata. Edificato totalmente in mattoni presenta una cornice marcapiano che divide in due la parete muraria, scandita a sua volta da monofore e bifore. Le torri sono invece tripartite, con una monofora al primo piano e una bifora negli altri due. I due ingressi sui lati sud e nord sono sottolineati dalla presenza dei rivellini che anche se hanno interrotto l'omogeneità delle facciate, sono stati ingentiliti con l'aggiunta dello stesso motivo decorativo di mattoni a scaletta che corre lungo tutta la restante parete muraria.
All'interno il cortile è caratterizzato da portici a sesto acuto, mentre al piano superiore da un loggiato con copertura a capriate. La destinazione originaria degli spazi non è nota, anche se non doveva essere molto differente da quella che è documentata per i secoli XVI e XVII, con al piano terra i servizi e ad oriente un ampio salone destinato ai banchetti. Si accedeva al piano superiore tramite una piccola scala in legno, oggi sostituita da quelle costruite nei torrioni.
Il castello, rara e preziosa testimonianza, conserva ancora quasi interamente le decorazioni che ne ornavano le pareti del portico, del loggiato e delle stanze, gli arconi delle finestre e i pilastri. In quasi tutte le stanze la decorazione segue uno sviluppo comune che prevede a partire dal pavimento uno zoccolo con specchiature marmoree riquadrate. Nella fascia superiore trova posto il motivo decorativo principale, che si sviluppa adattandosi ai particolari architettonici della stanza stessa. I motivi, a carattere fondamentalmente geometrico si succedono con diverse varianti e sono alternati a figure araldiche o vegetali.
Nella sala superiore dell'ala meridionale si conserva la testimonianza più integra di tutto l'apparato decorativo: sopra al consueto zoccolo marmoreo si sviluppa un finto loggiato con archi carenati ornati esternamente da fiori. Lo spazio tra un arco e l'altro è occupato da medaglioni con lo stemma dei Visconti e dei Della Scala; nella fascia superiore i motivi geometrici sono alternati a finte bifore.
Sulle superfici esterne del portico e del loggiato, pur se con delle varianti, si presentano gli stessi motivi che ornano le sale interne, mentre è più impegnativo fare delle ipotesi sulla decorazione esterna del castello perché scarse sono le tracce di colore riscontrate. Gli unici elementi figurativi si trovano sulle pareti del portico presso il salone dell'ala ovest e rappresentano San Cristoforo e Sant'Antonio abate. Il riquadro che contorna la figura è sormontato da una lunetta ogivale in cui è raffigurato a monocromo Cristo in pietà, affiancato da un angelo con i simboli della passione. Di fronte al salone sopra ogni pilastro del portico si intravede un tondo con un'immagine figurata. Solo due sono chiaramente distinguibili e rappresentano delle figure mostruose, composte dell'unione di un uomo e di un animale, intente a suonare uno strumento musicale. Se per i motivi decorativi di tipo geometrico parallelismi si possono riscontrare nella Rocca di Angera o nel castello di Legnano, questi ultimi soggetti sono particolarmente inconsueti.
A Pandino infatti, probabilmente per il tipo di soggetto rappresentato, pur se con delle diversità dovute al numero di frescanti presenti, e alle loro specifiche abilità, sono pochi i brani di particolare maestria, che potrebbero riferirsi ad un unico artista di buon livello che forse sovrintendeva a tutta la decorazione.

L'architettura dell'edificio risponde a quel tipo ideale di "palazzo fortificato" che i Visconti portarono a compiutezza di forme nella seconda metà del Trecento e che ha trovato qualche anno più tardi la sua più limpida e grandiosa affermazione nel castello di Pavia.
Delle quattro torri dell'organismo originario si sono conservate intatte solo quelle dell'ala orientale, mentre le corrispondenti due torri dell'ala occidentale vennero mozzate nell'Ottocento in quanto pericolanti. Del fossato circostante, interrato, restano attualmente solo i contorni. I corpi di fabbrica si presentano oggi privi di merlature, probabilmente demolite nel corso del Settecento quando il castello, decaduto al rango di edificio rurale, ebbe una nuova sistemazione delle coperture; le ricerche effettuate in questi anni da studiosi locali e dal Cavalieri ne hanno infatti accertato l'esistenza e hanno pure fatto luce sull'originaria disposizione delle falde del tetto, analoga a quella del castello di Pavia.
Ognuna delle quattro facciate è regolarmente scandita dalla presenza di sei monofore al piano terreno e da bifore al primo piano, mentre fasce di mattoni disposti a scaletta avvolgono, come festoni, le nude pareti dei corpi di fabbrica e delle torri.
Il cortile è circondato al piano terreno da un portico ad archi acuti di sei campate per lato e da un'aerea loggia soprastante, suddivisa in dodici campatelle per lato e spartita da snelli pilastrini che sostengono architravi in legno sui quali si appoggiano le falde del tetto. Sede del Comune e di uffici comunali, della biblioteca e del convitto della locale Scuola Casearia Professionale, lo stato di manutenzione del castello è buono per merito soprattutto dell'attenzione che l'Amministrazione comunale vi dedica ormai da un cinquantennio, con il costante obiettivo di un suo utilizzo sempre più orientato a valorizzare gli aspetti di storia, di cultura e di arte.
Nonostante le manomissioni sopra descritte il castello gode tuttora di una buona consistenza e costituisce una della maggiori e più apprezzabili architetture fortificate della Lombardia.

Adagiato nella bassa pianura lombarda, nel territorio compreso tra il corso dell'Adda e del Serio, il borgo di Pandino ha sempre ricoperto una posizione di rilievo. Per tradizione si riteneva che il castello fosse stato costruito a partire dal 1379, per volere di Regina della Scala moglie di Bernabò Visconti, che apprezzava notevolmente questi luoghi vicini alle terre venete di cui era originaria. Un'attenta rilettura dei documenti ha invece fatto anticipare la datazione di circa un ventennio, riconducendola agli anni compresi tra il 1354 (salita al potere di Bernabò), e il 1361, data del primo documento in cui si fa chiaro riferimento al castello. Nel 1385 Gian Galeazzo si impadronì del castello, che vendette dieci anni dopo al lucchese Niccolò de Diversis. Dopo aver recuperato il maniero i Visconti lo cedettero in feudo prima a Giorgio Benzone, signore di Crema (1414-1423), poi a Luigi Sanseverino (1434-1440). Nel 1469 il castello e i terreni circostanti furono concessi a Ludovico il Moro che irrobustì l'apparato difensivo con la costruzione dei rivellini. A partire dal 1479, essendo stati confiscati a Ludovico Maria Sforza tutti i beni, la fortezza fu nuovamente affidata ai Sanseverino, fino all'estinzione del ramo maschile della famiglia, per cui passò ai Landriani. Nel 1552 divenne di Pagano d'Adda e rimase a questo marchesato fino al 1862, quando fu completamente trasformato in azienda agricola, anche se era stato relegato a quest'uso già nel xviii secolo. Nel dopoguerra il corpo ovest fu acquistato dal Comune che ne intraprese i restauri negli anni '50, mentre le restanti ali rimasero, parcellizzate, a proprietari privati. Oggi vi hanno sede gli Uffici Comunali, il Convitto della Scuola casearia e la Biblioteca. L'esterno e il cortile sono visitabili tutti i giorni, mentre l'interno previo appuntamento.
Grazie alla ricchezza dell'impianto originario e alla sua integrità, il castello di Pandino è sempre stato considerato come uno degli esempi più importanti dell'architettura fortificata viscontea trecentesca, in cui esigenze difensive e residenziali si sono perfettamente armonizzate.

Il castello, uno dei più importanti e significativi esempi realizzati dalla dinastia viscontea, che pure fu una grande realizzatrice di architetture fortificate, fu fatto innalzare, secondo le approfondite ricerche storiche condotte da Giuliana Albini e Federico Cavalieri, da Regina della Scala, moglie di Bernabò Visconti, tra il 1354 e il 1361.
Nella seconda metà del Quattrocento gli Sforza, nel quadro di un esteso aggiornamento delle difese dello scacchiere dell'Adda, minacciato dalla presenza della Repubblica Veneta, rafforzarono le mura del borgo di Pandino e il castello stesso, al quale vennero addossati, in corrispondenza dei rispettivi ingressi, due torrioni muniti di apparato a sporgere e di ponti levatoi.
Dopo essere giunto nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento a uno stato di grave decadenza per trascuratezza di manutenzione e per utilizzi incompatibili, il castello è stato acquistato nel 1947 dall'Amministrazione comunale di Pandino, che ha poi dato subito avvio a importanti lavori di restauro, scongiurandone la rovina che sembrava imminente. Successivamente è stato dato corso al restauro dei pregevoli dipinti trecenteschi, basati sul motivo geometrico del quadrilobo entro il quale sono raffigurati, in posizioni alterne, a gloria dei due proprietari, gli stemmi dinastici del biscione visconteo e della scala, che adornano, come un grande tappeto, le facciate verso il cortile e le pareti di fondo dei portici e delle logge.



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sabato 23 maggio 2015

IL PALAZZO DEL BROLETTO A GALLARATE

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Il Palazzo del Broletto di Gallarate è stato edificato su un'area un tempo utilizzata per il convento di San Michele, gestito dagli Umiliati e poi utilizzato anche da altri ordini religiosi. Dopo la soppressione degli ordini religiosi, sotto al regime napoleonico, il convento perse la sua destinazione d'uso religioso per essere utilizzato per ospitare uffici pubblici. In seguito al crollo della torre (l'ex campanile della chiesa)il convento venne restaurato su direzione dell'architetto Leone Savoia.
Dell'antico convento si conservano ad oggi il cortile con il relativo porticato, coperto da interessanti volte a crociera. Le colonne sulle quali poggiano le volte sono in granito. Fino al 1929 il Palazzo del Broletto ospitò il municipio.
Dopo il trasferimento di gran parte degli uffici nel Palazzo Borghi, Palazzo del Broletto è stato interessato da numerosi ampliamenti, fino ad ospitare anche altri uffici. Il Palazzo del Broletto è riconosciuto dalla cittadinanza di Gallarate soprattutto per il valore civile che ha assunto nel tempo.



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sabato 28 marzo 2015

IL CASTELLO SCALIGERO

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Il castello di Sirmione (XIII secolo), dotato di torri e di mura merlate, fu base strategica per il controllo del lago.
Il famoso castello sirmionese è di epoca scaligera e la sua darsena - ancora in perfetto stato di conservazione - rappresenta un raro caso di fortificazione destinata ad uso portuale. Il mastio viene costruito nel XIII secolo ad opera, verosimilmente, di Mastino I della Scala.
Possente maniero completamente circondato dalle acque possiede un portico interno dove è allestito un lapidario romano e medievale; una scala del secondo recinto, cui si accede da un ponte levatoio, sale ai camminamenti sulle mura: di qui si ammira la suggestiva darsena, antico rifugio della flotta scaligera.

La costruzione della rocca ebbe inizio intorno alla metà del XIII secolo, probabilmente sui resti di una fortificazione romana. La sua realizzazione venne ordinata dal podestà di Verona Leonardino della Scala, meglio conosciuto come Mastino I della Scala. La funzione del castello era quella difensiva e di controllo portuale, poiché la città di Sirmione, trovandosi in una posizione di confine, era maggiormente esposta ad aggressioni.

Circa un secolo dopo sono stati aggiunti due cortili e una fortificazione indipendente, unita tramite barbacane a quella principale, per aumentare le difese della fortezza. Nel 1405 Sirmione passò sotto il controllo della Repubblica di Venezia durante la cui dominio iniziò un'opera di rafforzamento delle strutture difensive. Fu in questo periodo che venne realizzata la darsena oggi visibile, anche se si suppone che fosse già presente una darsena scaligera, probabilmente lignea. Sirmione mantenne il primato di postazione difensiva fino al XVI secolo, quando, per motivi politici, la fortezza di Peschiera del Garda venne modernizzata.

La prima parte del Castello, costruito sui resti di una fortificazione romana, il Mastio, il cortile principale, le tre torri angolari e i due ingressi con ponte levatoio, venne costruito verso la fine del XIII secolo (1277–1278) ad opera di Mastino I della Scala.
Il secolo dopo venne costruita la darsena e la recinzione del borgo, di cui rimangono una torre angolare nelle vicinanze della chiesa di S. Maria Maggiore e la porta merlata che si affaccia su piazza Flaminia.

Nel 1405 Sirmione passò sotto il dominio della Repubblica di Venezia mantenendo la funzione di controllo e di difesa del basso Garda.

Nel XVI secolo cominciò un lento ma inesorabile declino della rocca in concomitanza dell'aumentata  importanza assunto dalla vicina cittadella di Peschiera.

Il Castello rimase sede della guarnigione militare, fino alla caduta di Venezia nel 1797. poi caserma dei francesi e  degli austriaci, sino all'Unità d'Italia.

Entrati nel castello si accede al cortile principale,  rettangolare, circondato da alte mura e dalle torri angolari.

A sinistra nel cortile si erge la torre di avvistamento.

Osservando le possenti mura si osserva la tecnica costruttiva, dall'utilizzo dei mattoni, cotti nelle vicinanze, e la pietra proveniente dalla vicina collina di Cortine.

Il castello ebbe il massimo splendore verso la fine del 1300, pur essendo fortezza di estrema importanza non fu mai sede di corte.

Oltre all’ingresso dei sotterranei ci sono dei resti murari del Monasteriolo di S. Salvatore di epoca longobarda.

Un gran portale ad arco introduce ad un primo rivellino e ad un primo ponte levatoio, entrambi sono collegati da un corridoio che conduce al secondo ponte levatoio.

Ai lati del corridoio si aprono gli ingressi del cortile della darsena e del secondo cortile, dove una scala  di 146 gradini, conduce ad un lungo camminamento di ronda, fino ad una postazione di guardia.

La rocca non aveva funzione residenziale perciò gli unici elementi decorativi esistenti sono picche o pigne in pietra poste sui camminamenti.

Proseguendo si arriva all’interno della Torre Angolare che conduce ai camminamenti, con i tipici merli ghibellini a coda di rondine.

La darsena odierna è probabile sia quella costruita dalla Repubblica di Venezia, sul modello dell’Arsenale di Venezia. In sostituzione della vecchia darsena in legno.

Un portico interno custodisce un lapidario romano e medievale; una scala del secondo recinto, cui si accede da un ponte levatoio, sale ai camminamenti sulle mura da dove si ammira la suggestiva darsena, antico rifugio della flotta scaligera.

All'interno dell'ampio portico interno del castello è stato allestito un lapidario romano e medievale, oltre che una breve mostra in cui su alcuni pannelli sono riportate le informazioni più importanti sulla rocca. Si può accedere inoltre ai camminamenti di ronda delle mura e, tramite delle rampe di scale in legno restaurate recentemente, si può giungere fino in cima al mastio, la torre più alta della fortezza.

Come ogni castello che si rispetti, anche la Rocca di Sirmione ha il suo fantasma che si aggira tra le sale del castello nelle notti di tempesta.

Leggenda vuole che Ebengardo che viveva tranquillo nel castello con la sua sposa Arice, una notte  di pioggia e vento ospitò un cavaliere presentatosi come Elaberto, Marchese del Feltrino.

L'ospite, invaghitosi di Arice e deciso ad averla ad ogni costo, durante la notte, si introdusse nella stanza di lei per usarle violenza.

Le grida della donna svegliano Ebengardo che si precipita nella stanza di Arice, ma quando arriva nella stanza, la trova già morta uccisa dal pugnale del maligno Elaberto.

Dopo una violenta colluttazione Elaberto muore trafitto dal suo stesso pugnale, e Ebengardo, disperato per non aver protetto l'amata è condannato a rimanere tra i viventi sotto forma di fantasma per sempre separato da lei.

La leggenda vuole che ancora oggi, nelle notti di tempesta, si possa vedere l'anima di Ebengardo vagare per il castello alla ricerca di Arice.


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sabato 21 marzo 2015

LE VILLE DI COMO : VILLA PLINIANA

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La villa, edificata intorno alla celebre fonte, sorge lungo un'insenatura al confine orientale del Comune di Torno. La facciata è scandita da quattro ordini di finestre; quelle del piano nobile sono sormontate da timpani spezzati, quelle dell'ultimo piano da eleganti lesene quadrate.
Il piano nobile, con affaccio sul lago, è articolato in due corpi, con grandiosi saloni separati da una loggia dorica a tre arcate sostenute da colonne binate. Sul lato orientale di questa loggia trova posto una lapide con il testo latino della lettera di Plinio a Licinio, dove è descritta la celebre fonte; sul lato opposto un'altra lapide ne riporta la traduzione in italiano. I quattro timpani spezzati che sormontano le porte d'accesso alla loggia, contenevano in origine i busti di Carlo V, di Filippo II, dell'Anguissola e della sua terza moglie, Delia Spinola.
Al centro della loggia, nel mezzo di un'aiuola, si erge la statua di Nettuno col tridente affiancato da un delfino. Poco sopra il livello del lago si apre un lungo corridoio, illuminato e arieggiato da aperture quadrate senza vetri, da cui si accede agli scantinati dove si possono ancora osservare le strutture portanti del fabbricato le cui fondamenta poggiano direttamente sulla roccia; subito al di sotto di questo primo piano un'apertura ad arco consente lo sbocco delle acque che scaturiscono dalla fonte pliniana. Alle spalle della loggia, oltre la corte, la fonte intermittente si fa strada attraverso una nicchia in tufo che copre la parete a monte della villa; subito al di sopra si estende un verde pianoro cui si può comodamente accedere dai saloni. Da qui la strada si inerpica nel bosco dove sorge un piccolo eremo.
Dopo il trasferimento degli arredi a Masino, nel 1983, la villa è rimasta completamente vuota, ma le testimonianze fotografiche antecedenti a quella data ci mostrano di quale sfarzo e ricchezza fosse adorna. Nel primo salone del piano nobile uno splendido soffitto a cassettoni è tutto ciò che rimane dell'originale decorazione; lungo i bordi delle pareti una fascia dipinta con quattordici ritratti di foggia seicentesca ricorda i primi proprietari della villa mentre in fondo al salone è scomparsa ogni traccia dell'antico marmo di scuola canoviana raffigurante Giotto pastorello nell'atto di ritrarre una pecora. Qui era anche conservato il celebre piccolo stipo che Napoleone nel 1797, aveva regalato ai suoi ospiti, per ringraziarli della loro accoglienza; qui trovava posto il pianoforte su cui Rossini, in tre giorni, aveva composto la sua opera Tancredi.
Nel secondo salone le venature cromatiche blu del soffitto a cassettoni si accompagnano ad una fascia dipinta su cui spiccano sedici stucchi ovali raffiguranti scene mitologiche. Sui pavimenti a mosaico si possono ancora ammirare gli emblemi araldici delle antiche famiglie proprietarie.
Tutta l'area della villa è circondata da una fitta vegetazione di alberi secolari in mezzo ai quali, in primavera, occhieggiano i rododendri in fiore.
A breve distanza dal palazzo sorge la cappella i cui arredamenti sono oggi nella chiesa di S. Giovanni. All'interno sono ancora visibili quattro lapidi a ricordo dei defunti della famiglia Canarisi.

Nel cortile interno dell'edificio si trova una fonte intermittente di natura carsica, descritta da Plinio il Giovane in una lettera indirizzata a Lucio Licinio Sura. Un estratto della lettera recita:

« Ti ho portato in luogo di un piccolo dono dal mio paese natale un problema degno di codesta tua scienza profondissima. Nasce dalla montagna una sorgente, discende attraverso le rocce, si raccoglie in un piccolo vano atto a pranzavi, tagliato a mano dall'uomo. Dopo essersi un po' trattenuta cade nel lago Lario. Ha una strana natura: tre volte al giorno si innalza e si abbassa per determinati crescimenti e diminuzioni. Forse che una corrente d'aria più nascosta ora apre l'apertura e i canali della sorgente e ora li chiude »
La fonte fu visitata anche da Leonardo da Vinci pochi anni prima che venisse eretto il palazzo, descrivendo il fenomeno nel Codice Leicester.

La villa, tutt’ora disabitata e situata in un’insenatura boscosa del lago, appartiene dal 1983 alla Società Immobiliare Pliniana, che ne ha iniziato un lento lavoro di restauro storico. La sua destinazione è incerta: scartata l’idea di trasformarla in convento, si pensa di adibirla ad un centro studi o ad un centro benessere. Attualmente il complesso vive esclusivamente di ricordi culturali legati al periodo del Romanticismo e del Decadentismo europeo, non esclusa l’aura leggendaria dovuta a cinque secoli di storia e alla sua posizione geografica di difficile accesso.

Nel Medioevo gli abitanti di Torno insediarono nel sito originario alcuni mulini e impianti per la lavorazione della lana. Nel 1573 il conte Giovanni Anguissola - governatore di Como dopo aver capeggiato nel 1547 la congiura nella quale aveva trovato la morte Pier Luigi Farnese, duca di Parma e Piacenza - decise di costruirsi una villa-fortezza fuori città. La villa prese il nome da Plinio il Giovane, che descrisse per primo la fonte intermittente poi racchiusa nel cortile interno dell'edificio. Sorge direttamente sul lago, a ridosso della montagna e dominata da una cascata alta circa 80 metri. Attribuita all'architetto Giovanni Antonio Piotti, la costruzione venne terminata nel 1577. Gli eredi la vendettero nel 1590 a Pirro Visconti Borromeo, che la completò e fece terrazzare i terreni circostanti per adibirli alla coltivazione della vite e del castagno. Nel 1676 fu nuovamente venduta a Francesco Canarisi di Torno, che fece affrescare gli ambienti e vi aggiunse ritratti dei propri antenati e dei Plinii. Fu inoltre costruita una piccola cappella dedicata a San Francesco.

Agli inizi dell'Ottocento la Pliniana passò per diversi proprietari, finché nel 1840 fu acquistata dal principe Emilio Barbiano di Belgiojoso d'Este, che ideò un completo rifacimento delle decorazioni. Dopo una rocambolesca fuga da Parigi che suscitò uno scandalo a corte, tra il 1843 e il 1851 Emilio visse nella villa in compagnia della sua amante Anne-Marie Berthier, principessa di Wagram e moglie del duca di Plaisance. Così viene ricordato l'arrivo della coppia:

« La Pliniana aprì loro il suo alto cancello e lo scroscio della cascata coprì le esclamazioni di gioia della contessa colpita da tanta bellezza. Nel salone, Anna si trattenne muta per l’emozione davanti ad un piccolo stipo che Napoleone nel 1797 aveva regalato ai suoi ospiti per ringraziarli dell’accoglienza ricevuta. Bonaparte aveva persino pensato di acquistare la villa che gli pareva un luogo di riposo ideale. Anna guardò intenerita il pianoforte su cui Rossini in tre giorni aveva composto il suo Tancredi, e su un muro della loggia lesse la pagina di Plinio il Giovane concernente la sorgente intermittente. »
Dopo la morte di Emilio, il palazzo fu ancora utilizzato dalla moglie, la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, mentre in seguito fu ereditato dal genero, Ludovico Trotti Bentivoglio. Nel 1890 passò quindi ai Valperga di Masino, che dopo averne trasferiti gli arredi al castello di Masino lo cedettero nel 1983 alla Società Immobiliare Pliniana.

La villa ospitò numerosi personaggi tra monarchi, scienziati, musicisti, poeti e scrittori: Napoleone, Giuseppe II, Francesco I e la regina Margherita di Savoia, Alessandro Volta, Lazzaro Spallanzani, Franz Liszt, Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Giacomo Puccini, Stendhal, Shelley, George Gordon Byron, Ugo Foscolo, Berchet, Alessandro Manzoni e Antonio Fogazzaro, che vi si ispirò per il romanzo Malombra dal quale fu tratto l'omonimo film girato nella villa da Mario Soldati nel 1942.

Il corpo di fabbrica principale presenta la facciata a picco sul lago con quattro ordini di finestre, al piano nobile dotate di timpani spezzati e all'ultimo piano inquadrate da lesene identiche alle finestre di Palazzo Gallio.

Al centro del piano nobile si presenta una loggia a tre arcate sostenute da colonne binate. Sul lato rivolto verso la montagna, dietro una statua di Nettuno con tridente, la loggia si apre su un cortile dove sorge la fonte Pliniana.

Il piano nobile è collegato a quello superiore per mezzo di un'ampia scala elicoidale in arenaria rivestita in legno, coperta da una volta dipinta rappresentante un cielo stellato. Il piano superiore ospita camere da letto e servizi aggiunti in epoca recente.

Al di sotto del piano nobile si trova un primo piano inferiore, costituito da locali di servizio tra cui un'ampia cucina, la dispensa e ambienti destinati alla servitù. Ancora più in basso, ormai al livello del lago, un secondo piano inferiore è costituito da un lungo corridoio illuminato da aperture quadrate senza chiusura, dal quale si accede a varie cantine a volta. Al di sotto un'apertura consente il deflusso nel lago delle acque della fonte Pliniana.

Dopo molti anni di abbandono precedenti l'acquisto da parte dell'ultimo proprietario, sono oggi in corso di realizzazione le opere di restauro della villa e del suo complesso promosse dal gruppo PIR SpA e progettate dall'architetto Rosario Picciotto.

A causa del suo isolamento e del suo aspetto severo, la villa è nota ancora oggi per essere dimora di spettri, anche perché il primo proprietario Giovanni Anguissola morì a sua volta assassinato dopo aver ucciso il duca di Parma. Lo stesso romanzo Malombra, di chiaro gusto decadente, rivela l'interesse di Fogazzaro per le materie occulte.

L'episodio più famoso, che arrivò a tingersi di leggenda, è però legato alla storia d'amore tra Emilio Barbiano di Belgiojoso, il principe che aveva sposato Cristina Trivulzio, e la principessa Anne-Marie Berthier (figlia del maresciallo Berthier, principe di Wagram e capo di stato maggiore di Napoleone, e della duchessa di Birkenfeld), che alla Pliniana vissero otto anni di pressoché totale isolamento. Anne-Marie, che viveva a Parigi assieme al marito, creato duca di Plaisance da Bonaparte, fuggì d'improvviso dalla capitale francese assieme al Belgiojoso, abbandonando, oltre al coniuge, una bambina appena nata, e suscitando un grande scandalo. Così, tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, si dedicarono unicamente al piacere, in una villa dalle «sale folte di ombra, che sembran mute camere funerarie d'un castello di sovrani spariti», immersi in un paesaggio di «sepolcrali, alti cipressi», su «un ermo dirupo fra memorie immani d'agguati e di sangue». Di essi si narra:

« Di sera, sui rintocchi della mezzanotte, erano soliti avvolgersi nudi insieme in un lenzuolo per tuffarsi dall’alto della loggia nel lago, come per cercare un lenimento alle febbre d’amore che li univa. I paesani sulla sponda opposta credettero di vedere un fantasma e si spaventarono. La ripetizione quotidiana del fatto confermò la loro credenza. Corse voce che, ogni giorno a mezzanotte precisa, un fantasma - forse quello dell’Anguissola o quello della vittima del governatore, il duca di Piacenza - piombava a capofitto nel lago. »
La donna non si curava dello scandalo causato, e respinse i tentativi di farla tornare in Francia, mentre il principe, legato agli ambienti della cospirazione risorgimentale, declinò l'invito a tornare a occuparsi della patria. Un giorno, infine, Anne-Marie lo abbandonò mentre dormiva, per trasferirsi a Milano, dove acquisterà un palco alla Scala, riprendendo la vita mondana che già aveva caratterizzato gli anni precedenti la fuga col Belgiojoso. Questi, dal canto suo, rimase per alcuni anni recluso nella villa, finché, malato di sifilide, deciderà di trascorrere gli ultimi anni nel suo palazzo meneghino.



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