La battaglia di Legnano fu combattuta tra l'esercito imperiale di Federico Barbarossa e le truppe della Lega Lombarda il 29 maggio 1176 tra le località di Legnano e Borsano, nell'Altomilanese, nell'attuale Lombardia. Sebbene la presenza del nemico nei dintorni fosse già nota a entrambi gli schieramenti, questi si incontrarono improvvisamente senza avere il tempo di pianificare alcuna strategia.
Lo scontro fu cruciale nella lunga guerra intrapresa dal Sacro Romano Impero Germanico per tentare di affermare il suo potere sui comuni dell'Italia Settentrionale, che decisero di mettere da parte le reciproche rivalità alleandosi in un'unione militare guidata simbolicamente da papa Alessandro III, la Lega Lombarda.
La battaglia pose fine alla quinta e ultima discesa in Italia dell'imperatore Federico Barbarossa, che dopo la sconfitta cercò di risolvere la questione italiana tentando l'approccio diplomatico. Questo sfociò qualche anno più tardi nella pace di Costanza (25 giugno 1183), con la quale l'Imperatore riconobbe la Lega Lombarda dando concessioni amministrative, politiche e giudiziarie ai comuni e ponendo ufficialmente fine al suo tentativo di egemonizzare l'Italia Settentrionale.
Alla storica battaglia fa riferimento il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e Michele Novaro, che recita: « Dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano » in ricordo della vittoria delle popolazioni italiane su quelle straniere. Grazie a questo storico scontro, Legnano è l'unica città, oltre a Roma, a essere citata nell'inno nazionale italiano. A Legnano, per commemorare la battaglia, si svolge annualmente dal 1935, nell'ultima domenica di maggio, il Palio cittadino.
Lo scontro tra i comuni dell'Italia Settentrionale e il potere imperiale ebbe origine nella lotta per le investiture, ovvero in quel conflitto che coinvolse, tra l'XI e il XII secolo, il Papato, il Sacro Romano Impero e le rispettive fazioni, i cosiddetti "Guelfi e Ghibellini". A tratti fu uno scontro così aspro che diversi comuni del Norditalia giunsero ad allontanare i propri vescovi con l'accusa di simonia, visto che erano stati investiti del proprio ruolo dall'imperatore e non dal Papa.
Alla lotta delle investiture, come causa delle frizioni tra l'Impero ed i comuni del Norditalia, si aggiunse anche la crisi del feudalesimo, che fu cagionata tra l'altro dalla crescita economica delle città italiane e dal conseguente desiderio di affrancamento di queste municipalità dal potere imperiale. Inoltre, i territori italiani del Sacro Romano Impero erano notevolmente differenti da quelli germanici a livello sociale, economico e politico e mal tolleravano il potere imperiale, che era per di più detenuto da un'autorità di stirpe tedesca. In aggiunta, la nobiltà italiana dei territori dominati dall'Impero non era coinvolta nella politica di amministrazione dello Stato come quella teutonica. A causa degli attriti che inevitabilmente si crearono, tra l'XI e il XII secolo, le città dell'Italia Settentrionale conobbero una fase di fermento che portò alla nascita di nuova forma di autogoverno locale basata su un organo collegiale elettivo avente compiti amministrativi, giudiziari e di sicurezza, e che nominava a sua volta i consoli cittadini: il comune medioevale.
Tale mutamento istituzionale fu contemporaneo alla lotta per le investiture. Ciò non fu un caso: nei periodi in cui il vescovo, che aveva anche una forte influenza sulle questioni civili della città, era occupato nelle diatribe tra Impero e Papato, i cittadini furono stimolati, e per certi versi obbligati, a cercare una forma di autogoverno che li sganciasse dal potere ecclesiastico in grave difficoltà. I cittadini, che di conseguenza iniziarono ad autoamministrarsi, presero più consapevolezza degli affari pubblici del proprio comune e accettarono sempre meno l'antica struttura feudale, che prevedeva una gestione del governo molto più rigida e gerarchica. Il mutamento che portò a una gestione collegiale dell'amministrazione pubblica affondava le radici nella dominazione longobarda del Norditalia; questo popolo germanico era infatti avvezzo a dirimere le questioni più importanti, principalmente militari, tramite un'assemblea presieduta dal re e composta dai soldati più valorosi, il cosiddetto "gairethinx" o "arengo". I consoli medioevali rappresentavano le classi più potenti della città: sebbene la durata del loro mandato fosse di un solo un anno, e nonostante ci fosse un certo ricambio di persone nel ricoprire questa carica, l'amministrazione comunale si riduceva a tutti gli effetti ad una consorteria di poche famiglie che esercitavano il potere in modo oligarchico. Per i motivi accennati, l'evoluzione storica dei comuni dell'Italia Settentrionale portò pertanto a una situazione in cui le varie municipalità non si riconoscevano più nelle secolari e rigidamente gerarchiche istituzioni feudali, che apparivano ormai superate.
Inoltre, i predecessori di Federico Barbarossa, per varie vicissitudini, adottarono per un certo periodo un atteggiamento di indifferenza nei confronti delle questioni dell'Italia Settentrionale, badando più a costituire dei rapporti che prevedessero una supervisione della situazione italiana piuttosto che l'effettivo esercizio del potere. Come conseguenza, il potere imperiale non impedì le mire espansionistiche delle varie città sui territori circostanti e sulle altre municipalità, e quindi i comuni iniziarono a combattersi a vicenda per tentare di instaurare un'egemonia nella regione. Federico Barbarossa, invece, ripudiò la politica dei suoi predecessori tentando di ristabilire il potere imperiale sui comuni del Norditalia anche sulla scorta delle richieste di alcuni di questi ultimi, che chiesero a più riprese l'intervento imperiale per limitare il desiderio di supremazia di Milano, città che tentò a più riprese di predominare sulle altre: ad esempio, nel 1111 e nel 1127 conquistò, rispettivamente, Lodi e Como obbligando a un atteggiamento di passività Pavia, Cremona e Bergamo.
A peggiorare i rapporti tra l'Impero e i comuni si aggiunsero le angherie perpetrate da Federico Barbarossa nei confronti del contado milanese. Gli avvenimenti che cagionarono l'insofferenza delle popolazioni contro il potere imperiale furono principalmente due: per tentare di interrompere i rifornimenti a Milano durante una delle sue discese in Italia, nel 1160, l'imperatore devastò l'area a nord della città distruggendo i raccolti e gli alberi da frutta degli agricoltori. In particolare il Barbarossa, in quindici giorni, distrusse le campagne di Vertemate, Mediglia, Verano, Briosco, Legnano, Nerviano, Pogliano e Rho. Il secondo avvenimento fu invece legato ai provvedimenti presi da Federico Barbarossa dopo la resa di Milano (1162): il vicario dell'imperatore che amministrava il contado milanese dopo la sconfitta di Milano obbligò gli agricoltori della zona a versare un pesante tributo annuale di derrate alimentari all'imperatore, che rese la popolazione sempre più ostile nei confronti del potere imperiale.
Per tentare di pacificare l'Italia Settentrionale e di ristabilire il potere imperiale, Federico Barbarossa varcò le Alpi alla testa del suo esercito per cinque volte. La prima discesa, che iniziò nell'autunno del 1154 alla guida di soli 1.800 uomini, portò il sovrano ad assediare e conquistare le riottose Asti, Chieri e Tortona e ad attaccare alcuni castelli del contado milanese, ma non il capoluogo meneghino, dato che non possedeva forze sufficienti. Questa campagna proseguì con la convocazione della dieta di Roncaglia, con cui Federico ristabilì l'autorità imperiale annullando, tra l'altro, le conquiste fatte da Milano negli anni precedenti, soprattutto nei confronti di Como e Lodi. La prima parte di quel viaggio continuò lungo la Via Francigena e si concluse a Roma con l'incoronazione di Federico Barbarossa a sovrano del Sacro Romano Impero da parte di papa Adriano IV (18 giugno 1155). Durante il suo soggiorno a Roma, Federico, che era partito dal Nord con il solo titolo di re di Germania, fu duramente contestato dal popolo dell'Urbe; in risposta, l'imperatore reagì soffocando nel sangue la rivolta. In seguito a questo episodio, e alla campagna militare di Federico, i rapporti tra il Sacro Romano Impero e il Papato iniziarono quindi a incrinarsi. Durante il viaggio di ritorno in Germania, l'imperatore distrusse Spoleto, accusata di aver corrisposto il fodro, cioè le tasse da versare al sovrano, con valuta falsa. Già durante questa prima discesa, si avvertì la differenza tra Federico e i suoi predecessori. Il Barbarossa dimostrò infatti una forte avversione verso le autonomie comunali: la sua volontà era quella di ristabilire un potere effettivo sul Norditalia.
La seconda discesa, che iniziò nel giugno del 1158, fu originata dalla riottosità di Milano e dei comuni alleati ad accettare il potere imperiale. Questa lunga spedizione iniziò con l'attacco di Federico Barbarossa a Milano e ai suoi alleati del contado milanese: dopo aver sconfitto Brescia, che era una sodale di Milano, e aver liberato Lodi dal giogo milanese, il Barbarossa diresse l'attacco al capoluogo meneghino, che accettò di arrendersi (8 settembre 1158) per evitare un lungo e sanguinoso assedio. Milano perse nuovamente le conquiste fatte negli anni precedenti (Como, Pavia, il Seprio e la Brianza), ma non fu rasa al suolo. Federico Barbarossa, allora, convocò una seconda dieta a Roncaglia (autunno 1158) dove ribadì il dominio imperiale sui comuni del Nord Italia, con l'autorità del sovrano che s'imponeva su quella delle istituzioni locali, stabilendo, tra l'altro, che le regalie fossero interamente versate al sovrano. I proclami di questa seconda dieta di Roncaglia ebbero effetti dirompenti sui comuni italiani, che si ribellarono subito. Dopo aver ricevuto rinforzi dalla Germania e aver conquistato diverse municipalità riottose dell'Italia Settentrionale durante una campagna militare che durò qualche anno, il Barbarossa rivolse la sua attenzione nei confronti di Milano, che fu prima assediata nel 1162 e poi, dopo la sua resa (1º marzo), completamente distrutta. Sorte analoga toccò a diverse città alleate del capoluogo. Federico inasprì quindi la stretta del potere imperiale sulle città italiane, andando oltre le disposizioni decise durante la seconda dieta di Roncaglia: predispose una struttura burocratica gestita da funzionari che rispondevano direttamente all'imperatore in luogo delle autonomie comunali, che vennero praticamente soppresse, e insediò un podestà di nomina imperiale a capo delle città ribelli. Intanto moriva papa Adriano IV e il suo successore, Alessandro III, si dimostrò ben presto solidale con i comuni italiani e particolarmente ostile all'imperatore.
Nel 1163 la ribellione di alcune città dell'Italia nordorientale costrinse Federico Barbarossa a discendere per la terza volta in Italia in una campagna militare che si risolse però in un nulla di fatto, soprattutto nei confronti della Lega Veronese, che nel frattempo si era costituita tra alcune città della Marca di Verona. Con la Lombardia pacificata, Federico preferì infatti rinviare lo scontro con gli altri comuni dell'Italia Settentrionale a causa della scarsità numerica delle sue truppe e quindi, dopo aver verificato la situazione, tornò in Germania.
Alla fine del 1166 l'imperatore scese in Italia per la quarta volta alla testa di un poderoso esercito. Per evitare la Marca di Verona, dopo aver varcato la Alpi dal Brennero, invece di percorrere la consueta valle dell'Adige, il Barbarossa piegò verso la Val Camonica; il suo obiettivo non era però l'attacco ai riottosi comuni italiani, bensì il Papato. Federico parteggiava infatti per l'antipapa Pasquale III, che nel frattempo aveva scalzato dal Soglio di Pietro il pontefice legittimo, Alessandro III; quest'ultimo, nel 1165, dopo aver ottenuto il riconoscimento degli altri sovrani europei, era tornato a Roma, ma il Barbarossa, memore del ruolo che ebbero i suoi predecessori sulle nomine papali, decise di intervenire direttamente. Come prova di forza, e a scopo dimostrativo, Federico attaccò alcune città del Norditalia giungendo vittorioso a Roma, ma un'epidemia che si diffuse tra le file dell'esercito imperiale (forse di malaria) e che toccò anche lo stesso imperatore, lo costrinse a lasciare Roma, che nel frattempo si era arresa, e a tornare precipitosamente nel Norditalia in cerca di rinforzi (agosto 1167).
Qualche mese prima dell'epidemia che colpì l'esercito imperiale, i comuni dell'Italia Settentrionale si erano coalizzati nella Lega Lombarda, un'unione militare il cui nome in latino era Societas Lombardiae. Secondo la narrazione tradizionale i comuni suggellarono la loro alleanza il 7 aprile 1167 con il giuramento di Pontida; tale avvenimento è però messo in dubbio dagli storici per il suo mancato accenno nelle cronache contemporanee e a causa del fatto che la prima menzione del giuramento è tardiva, dato che compare in un documento del 1505. Il 1º dicembre 1167 la Lega Lombarda si ampliò notevolmente con l'adesione dei comuni della Lega Veronese. Giunto nel Norditalia, Federico decise di affrontare la Lega, ma trovandosi in una situazione di stallo che era causata da alcuni assedi falliti e dalla crescita costante del numero di città che aderivano all'alleanza militare comunale, decise di rinviare il confronto e di tornare in Germania (1168). Dopo la partenza dell'imperatore, il ruolo della Lega Lombarda si limitò alla risoluzione, diplomatica o militare, delle diatribe che periodicamente scoppiavano tra i comuni appartenenti all'alleanza.
Poco dopo il ritorno in Germania del Barbarossa, la Lega fondò una nuova città, Alessandria, chiamata così in onore di papa Alessandro III, che parteggiava per i comuni italiani tanto che la coalizione militare comunale era simbolicamente capeggiata dallo stesso pontefice. La fondazione di una nuova città senza il consenso dell'autorità imperiale fu un grave smacco a Federico Barbarossa, che decise di risolvere definitivamente la questione italiana.
Nel 1174 il Barbarossa, per tentare di risolvere la situazione una volta per tutte, scese in Italia per la quinta volta con un poderoso esercito di circa 10.000 uomini. Invece di varcare le Alpi dal consueto Brennero, presidiato dalla Lega, l'imperatore era passato dalla Savoia grazie al sostegno del conte Umberto III. Nella prima fase della campagna riuscì ad assoggettare facilmente alcune città dell'Italia nordoccidentale tentando senza fortuna di conquistare anche Alessandria (1174-1175). Dopo questo sfortunato assedio, con l'esercito stremato, Federico si recò a Pavia (aprile 1175), sua alleata e poco prima saccheggiata dalle armate comunali, per tentare di trovare un accordo con l'esercito della Lega, ma senza successo. Durante le trattative l'imperatore pensò, a un certo punto, che l'intesa fosse vicina e quindi licenziò la maggior parte del suo esercito; le trattative però fallirono nel maggio del 1175 e gli eserciti si prepararono nuovamente alla guerra.
Accortosi dell'errore compiuto, che si rivelerà poi decisivo, l'imperatore incontrò a Chiavenna, tra il gennaio ed il febbraio del 1176, il cugino Enrico il Leone e altri feudatari con l'obiettivo di chiedere rinforzi per la prosecuzione della sua campagna. Al diniego di Enrico, Federico si rivolse alla moglie Beatrice e ai vescovi di Colonia e Magdeburgo chiedendo truppe aggiuntive da spedire in Italia; dopo aver ricevuto l'appoggio di questi ultimi, si spostò a Bellinzona per attenderle. All'arrivo delle truppe, Federico si accorse però che il loro numero era di molto inferiore alle previsioni, essendo costituite solamente da un numero di cavalieri compreso, secondo le discordi fonti dell'epoca, tra le 1.000 e le 2.000 unità (quest'ultima, secondo la maggior parte degli storici, è l'entità più probabile).
Nonostante il numero insufficiente di rinforzi provenienti dalla Germania e da altri alleati italiani, l'imperatore decise di lasciare le vallate alpine riprendendo la marcia da Como a Pavia, entrambe sue alleate, in un territorio ostile ma caratterizzato dalla presenza di vaste zone ricoperte da una foresta impenetrabile che consentiva un viaggio relativamente sicuro. Il suo obiettivo era quello di riunirsi con il resto delle sue milizie e di scontrarsi con le truppe comunali nel Milanese oppure ad Alessandria; Federico Barbarossa era infatti certo che una marcia a tappe forzate verso Pavia avrebbe potuto impedire alle truppe comunali di intercettarlo. La Lega Lombarda, invece, decise di ingaggiare battaglia con l'esercito imperiale il prima possibile per impedire la riunificazione delle armate teutoniche; questo nonostante fosse ancora a ranghi ridotti (15.000 uomini), dato che non poteva contare su tutte le forze militari precettate nelle varie città facenti parte dell'alleanza (30.000 uomini), che stavano infatti ancora convergendo su Milano.
La Lega Lombarda era capeggiata dal cremonese Anselmo da Dovara e dal vicentino Ezzelino da Romano in rappresentanza delle due anime della coalizione, quella lombarda e quella veneta. Le operazioni militari delle truppe comunali, in questa occasione, vennero invece guidate dal milanese Guido da Landriano, già console del capoluogo meneghino, rettore della Lega Lombarda oltre che esperto cavaliere.
Nella notte tra il 28 ed il 29 maggio 1176, durante la discesa verso Pavia, Federico Barbarossa si trovava con le sue truppe presso il monastero delle benedettine di Cairate per una sosta che gli si rivelerà poi fatale, dato che causò un ritardo rispetto alle contemporanee mosse della Lega Lombarda. L'imperatore, probabilmente, passò la notte a Castelseprio nel maniero dei conti dell'omonimo contado, che erano acerrimi nemici di Milano. Il Barbarossa decise di fermarsi a Cairate per oltrepassare il fiume Olona, l'unica barriera naturale che lo separava dalla fedele Pavia, confidando di avere la possibilità di entrare nella zona controllata dalla città alleata dopo aver percorso i rimanenti 50 km in una giornata di cavallo.
Nel complesso, secondo la maggior parte degli storici, l'esercito imperiale accampato a Cairate era formato da 3.000 uomini (2.000 dei quali erano i rinforzi provenienti dalla Germania), la stragrande maggioranza del quale era costituito da cavalleria pesante, che era in grado, in caso di necessità, di combattere anche a piedi. Nonostante la disparità numerica, l'entità dell'esercito teutonico era di tutto rispetto, dato che era formato da militari di professione. L'esercito della Lega era invece principalmente costituito da privati cittadini che erano reclutati in caso di necessità; i cavalieri della Lega, dato l'elevato costo del destriero e dell'armatura, erano di estrazione sociale elevata, mentre i fanti erano perlopiù contadini e cittadini provenienti dalle basse classi sociali.
L'informazione riguardante il Barbarossa accampato a Cairate non giunse però ai capi della Lega Lombarda, i quali erano convinti che l'imperatore fosse distante, ancora a Bellinzona in attesa delle truppe di rinforzo. Per questo motivo il Carroccio, l'emblema dell'autonomia dei comuni appartenenti alla Lega Lombarda che trasportava la croce di Ariberto d'Intimiano, scortato da qualche centinaio di uomini della Lega fu trasferito da Milano a Legnano risalendo l'Olona e venne posizionato lungo una scarpata fiancheggiante il fiume, presumibilmente boscosa, per avere una difesa naturale almeno su un lato, quello tracciato dal corso d'acqua. In questo modo, il Barbarossa, che era atteso lungo il fiume proveniente da Castellanza, sarebbe stato obbligato ad assalire l'esercito comunale in una situazione di svantaggio, dovendo risalire tale avvallamento. Questa scelta si rivelò poi sbagliata: il Barbarossa arrivò infatti da Borsano, cioè dalla parte opposta, obbligando le truppe comunali a resistere intorno al Carroccio con la strada di fuga sbarrata dall'Olona.
Le truppe della Lega Lombarda presero possesso della zona compresa tra Legnano, Busto Arsizio e Borsano. La restante parte dell'esercito, che nel complesso era formato da circa 15.000 uomini (3.000 dei quali erano cavalieri, mentre 12.000 erano fanti), seguiva con ragguardevole distacco lungo la strada tra il capoluogo lombardo e Legnano. La scelta di collocare il Carroccio a Legnano non fu casuale. All'epoca il borgo rappresentava per chi proveniva da Nord l'accesso al contado milanese; tale varco doveva essere quindi chiuso e strenuamente difeso per prevenire l'attacco a Milano. Per tale motivo, a Legnano era presente una fortificazione alto medioevale, il castello dei Cotta, che fu realizzata all'epoca delle incursioni degli Ungari e che fu poi utilizzato durante la battaglia di Legnano come avamposto militare. In seguito, il castello dei Cotta fu sostituito, come baluardo difensivo di Legnano, dal castello Visconteo, che sorge più a sud lungo l'Olona.
Un secondo motivo che spiega il posizionamento del Carroccio a Legnano risiedeva nel fatto che il Legnanese fosse un territorio non ostile alle truppe della Lega Lombarda, dato che la popolazione della zona era ancora memore delle devastazioni operate da Federico Barbarossa qualche anno prima; queste genti avrebbero quindi fornito appoggio anche logistico alle truppe della Lega. Dal punto di vista strategico, a Legnano l'esercito comunale si trovava quindi in una posizione tale che avrebbe impedito all'imperatore entrambe le mosse più logiche: attaccare Milano oppure raggiungere Pavia.
Dopo aver passato la notte a Cairate, Federico Barbarossa riprese la marcia su Pavia dirigendosi verso il Ticino. Nel frattempo alcune avanguardie dell'esercito della Lega Lombarda di stanza a Legnano, formate da 700 cavalieri, si staccarono dal grosso dell'esercito e perlustrarono il territorio tra Borsano e Busto Arsizio. Secondo altre fonti, i cavalieri controllarono invece la zona tra Borsano e Legnano, oltre cioè gli odierni rioni legnanesi di Ponzella e Mazzafame.
A 3 miglia (circa 4,5 km) da Legnano, nei pressi di Cascina Brughetto, i 700 cavalieri comunali in avanscoperta incrociarono — appena fuori da un bosco — 300 cavalieri dell'esercito imperiale in perlustrazione, che rappresentavano però solo le avanguardie delle truppe di Federico. Essendo numericamente superiori, i cavalieri della Lega attaccarono la colonna imperiale riuscendo, perlomeno all'inizio, ad avere la meglio. Subito dopo i primi scontri, il Barbarossa sopraggiunse con il grosso dell'esercito e caricò le truppe comunali. Alcuni cronisti dell'epoca riportano che i consiglieri del Barbarossa avessero suggerito all'imperatore di temporeggiare per preparare una nuova strategia, ma il sovrano avrebbe rifiutato per approfittare della superiorità numerica e per non essere costretto a indietreggiare verso territori ostili; inoltre, una ritirata avrebbe intaccato il prestigio dell'imperatore. Le sorti della battaglia dunque si ribaltarono e le truppe imperiali costrinsero le prime file dell'esercito comunale a indietreggiare in preda alla confusione.
Il forte impatto subìto obbligò poi i cavalieri comunali a ritirarsi verso Milano, lasciando soli i soldati che erano a Legnano a difesa del Carroccio. Il Barbarossa decise quindi di attaccare quest'ultimo con la cavalleria, dato che esso era difeso solo dalla fanteria — secondo i canoni dell'epoca reputata nettamente inferiore alla cavalleria — e da un esiguo numero di milizie a cavallo.
A questo punto accadde un fatto eccezionale: a Legnano i fanti, con i pochi cavalieri rimasti, dopo essere stati attaccati dal Barbarossa, si sistemarono intorno al Carroccio (mantenendo però una certa distanza dal simbolo delle loro municipalità) tramite un nuovo sistema di difesa, lo schiltron, ovvero una disposizione militare simile alla falange macedone. I fanti comunali si organizzarono su alcune linee difensive lungo un semicerchio ampio 2-3 km, ognuna delle quali era formata da soldati protetti da scudi. Tra uno scudo e l'altro erano poi allungate le lance, con la prima fila di fanti che combatteva in ginocchio così da formare un coacervo di lance puntate contro il nemico. Durante il combattimento, che durò otto-nove ore dal mattino alle tre del pomeriggio e che fu caratterizzato da ripetute cariche inframmezzate da lunghe pause per far rifiatare e risistemare gli eserciti, le prime due linee infine cedettero, ma la terza resistette agli urti. Secondo altre fonti, le file che capitolarono furono invece quattro, con una quinta e ultima che respinse gli attacchi.
Nel frattempo le truppe comunali che stavano ripiegando verso Milano incontrarono il grosso dell'esercito della Lega Lombarda in movimento verso Legnano; l'esercito comunale, ora riunificato, dopo essersi riorganizzato si mosse verso Legnano e giunto nel punto dove si trovava il Carroccio attaccò sui fianchi e da tergo le truppe imperiali, che erano già stanche per i vani assalti al carro comunale. Con l'arrivo della cavalleria, anche i fanti intorno al carro comunale passarono alla controffensiva. Intuendo che il cuore della battaglia fosse ormai intorno al Carroccio, Federico Barbarossa, con l'audacia che gli era abituale, si gettò nel mezzo della mischia cercando di incoraggiare le sue truppe, senza però apprezzabile risultato. L'imperatore, nel fervore della battaglia, venne disarcionato dal suo cavallo ferito a morte e sparì alla vista dei combattenti; in aggiunta, il portastendardo dell'esercito imperiale fu ucciso trapassato da una lancia. Gli imperiali, attaccati su due lati, cominciarono quindi a scoraggiarsi e andarono incontro a una sconfitta totale.
La strategia degli imperiali di resistere fino a sera per poi, al termine dello scontro, ripiegare per rifiatare e riorganizzarsi non andò a buon fine. Essi tentarono di fuggire verso il Ticino passando da Dairago e Turbigo, ma furono inseguiti dalle truppe della Lega Lombarda per otto miglia. Le acque del fiume furono il teatro delle ultime fasi della battaglia, che si concluse con la cattura e l'uccisione di molti soldati dell'esercito imperiale e con il saccheggio del campo militare di Federico Barbarossa a Legnano. L'imperatore stesso incontrò difficoltà a sfuggire alla cattura e a raggiungere la fedele Pavia.
Dopo la battaglia i milanesi scrissero ai bolognesi, loro alleati nella Lega, una lettera dove affermavano, tra le altre cose, di avere in custodia, proprio a Milano, un cospicuo bottino in oro e argento, lo stendardo, lo scudo e la lancia imperiale e un gran numero di prigionieri, tra cui il conte Berthold I di Zähringen (uno dei principi dell'Impero), Filippo d'Alsazia (uno dei nipoti dell'imperatrice) e Gosvino di Heinsberg (il fratello dell'arcivescovo di Colonia).
Non si hanno dati precisi sulle perdite subìte dai due eserciti che si fronteggiarono nella battaglia di Legnano; dalle descrizioni in nostro possesso, si può però affermare che quelle imperiali furono pesanti, mentre le perdite ascrivibili all'esercito comunale furono abbastanza lievi. Secondo Guido Sutermeister, parte dei morti della battaglia di Legnano furono seppelliti intorno a una chiesetta medioevale, ora non più esistente, che si trovava nei pressi della chiesa di San Martino a Legnano.
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