Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere e dalla letteratura femminista, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne.
La prima definizione del concetto viene attribuita al documentario dal titolo Rape culture del 1975 in cui la regista Margaret Lazarus descrive come lo stupro sia rappresentato nel cinema, nella musica ed in altre forme di "intrattenimento". Patricia Donat e John D'Emilio, in uno scritto del 1992 apparso sul Journal of Social Issues, suggeriscono invece che il termine ha origine nel libro del 1975 di Susan Brownmiller come "cultura solidale con lo stupro". Le autrici di "Transforming a Rape Culture", testo pubblicato nel 1993, definiscono la cultura dello stupro come:
«un complesso di credenze che incoraggiano l'aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta. In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso. Una cultura dello stupro condona come "normale" il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia "un fatto della vita", inevitabile come la morte o le tasse. »
(Emilie Buchwald, Pamela Fletcher, Martha Roth; Transforming a Rape Culture, Minneapolis (1993), MN: Milkweed Editions.)
Si è parlato di "cultura dello stupro" nella mentalità occidentale perché si possono trovare diversi pensatori che hanno in qualche misura legittimato l'uso della forza nel corteggiamento. In queste testimonianze, si presume che la donna rifiuti qualunque approccio sessuale, anche se gradito, per difendere il proprio "onore".
Fra i Greci, Erodoto sostiene che il matrimonio forzato per rapimento è desiderato dalle donne e quindi è saggio non preoccuparsi del loro destino:
«Ora, il rapire donne è considerato azione da malfattori, ma il preoccuparsi di donne rapite è azione da dissennati, mentre da saggi è il non darsi delle rapite alcun pensiero, perché è chiaro che se non avessero voluto non sarebbero state rapite»
Fra i Latini Ovidio, nel suo trattato Ars amatoria, che ebbe enorme successo anche nei secoli successivi, afferma che la donna ama subire violenza: la frase "Grata est vis ista puellis" è all'origine dell'espressione latina Vis grata puellae, utilizzata ancora recentemente nella giurisprudenza sulla violenza sessuale.
Nel Medioevo, il genere letterario della "pastorella", diffuso nella letteratura provenzale e in quella italiana del "dolce stil novo", ritrae una pastora avvicinata da un cavaliere che la corteggia. Nel componimento, la pastora può accettare o rifiutare le offerte amorose del cavaliere; quest'ultimo può aver ragione dell'ingenuità della ragazza con l'inganno, come una falsa proposta di matrimonio, o con l'aggressione sessuale.
Anche in India, Mallanaga Vatsyayana scrivendo il Kama Sutra contempla fra le modalità di conquista di una donna (seppure fra le peggiori e relegate in fondo alla lista) quella di drogarla o rapirla e quindi violentarla. Tuttavia, Vatsyayana mette in guardia sul fatto che:
« una fanciulla goduta a forza da uno che non conosce il cuore delle giovani, diviene nervosa, irrequieta, malinconica, e d'un subito prende a odiare l'uomo che ha abusato di lei: e allora, visto che il suo amore non è compreso né ricambiato, eccola sprofondare nella mestizia o divenire misantropa, o poiché detesta il proprio uomo, cercarne altri. »
In altre culture, come in Kirghizistan, la donna non può esprimere il proprio assenso nemmeno ad una proposta di matrimonio, che infatti nella sua forma tradizionale avviene per rapimento. Ernest Abdyjaparov, regista kirghiso autore del film "Boz Salkyn" (2007), spiega:
« Oggigiorno, quando un ragazzo fa una proposta di matrimonio, la maggior parte delle volte la risposta della ragazza è no. Anche se vogliono dire sì. È la nostra mentalità. La risposta "no" significa che sei innocente, che sei pura. Con un "sì" tutti penseranno che sei alla disperata ricerca di un matrimonio »
All'interno di questo paradigma, gli atti di "blando" sessismo vengono comunemente usati per validare e razionalizzare pratiche normative misogine; ad esempio, si può dire che le barzellette sessiste promuovano la mancanza di rispetto per le donne e una contestuale mancanza di rispetto per il loro benessere, che in ultima analisi fanno sembrare accettabile il loro stupro e abuso. Esempi di comportamenti che tipizzano la cultura dello stupro comprendono la colpevolizzazione della vittima, la banalizzazione dello stupro carcerario, lo slut-shaming e l'oggettificazione sessuale.
La cultura dello stupro è stata descritta come dannosa per gli uomini oltre che per le donne. Alcuni scrittori come Jackson Katz e Don McPherson, hanno detto che è intrinsecamente collegata al ruolo di genere che limita l'auto-espressione degli uomini e causa loro danni psicologici. È stata collegata anche all'omofobia. Ad esempio, Andrea Dworkin, nel 1983 scrisse: «Se volete fare qualcosa contro l'omofobia, dovete fare qualcosa contro il fatto che gli uomini stuprano e che il sesso forzato non è incidentale alla sessualità maschile, ma è in pratica paradigmatico».
I Centri antiviolenza, i Telefoni donna, le Case delle donne, oltre ad aiutare e assistere le donne che hanno subito violenza, hanno organizzato sia in Italia che in tutto il mondo, molte manifestazioni e iniziative a partire dagli anni '70 per porre fine alla cultura dello stupro basato sul potere dell'uomo sulla donna.
La concettualizzazione della cultura dello stupro è stata criticata da diversi autori per diverse ragioni. Alcuni, come Christina Hoff Sommers, hanno tentato di confutare l'esistenza di tale cultura, sostenendo che lo stupro è sovrariportato e sovraenfatizzato. Altri, come Bell Hooks, hanno criticato il paradigma della cultura dello stupro sulla base del fatto che esso ignora la posizione dello stupro in una sovrastante "cultura della violenza". Questi critici dicono che isolare lo stupro e i suoi sostegni sociali da altre forme di violenza, rende meno efficaci gli sforzi per combatterlo e ignora o banalizza altre forme di violenza.
Una ricerca ISTAT attesta che ogni giorno in Italia sette donne in media subiscono una violenza sessuale. I dati si riferiscono ovviamente ai casi che vengono denunciati alle autorità; alcuni studi stabiliscono che questi rappresentano soltanto l’8% degli episodi effettivi di violenza sessuale. Il restante 92% delle vittime, dunque, decide per motivi diversi (vergogna o “copertura” del molestatore, soprattutto se all’interno del contesto familiare) di non denunciare la violenza subita alla polizia o ai carabinieri.
Dalla lettura dei dati riportati nella citata ricerca dell’ISTAT si scopre che solo nell’8,6% dei casi la violenza sessuale viene praticata in un luogo pubblico. Più spesso gli stupri avvengono nella propria abitazione (31,2%), in automobile (25,4%) o nella casa dell’aggressore (10%). Da tali dati si evince che nella stragrande maggioranza dei casi l’aggressore è una persona ben conosciuta dalla vittima, che può essere il marito o convivente (20,2% dei casi), un amico (23,8%), il fidanzato (17,4%), un conoscente (12,3%); solo il 3,5% dei violentatori non ha mai visto la sua vittima prima dello stupro.
Le motivazioni psicologiche che sono alla base delle azioni degli stupratori possono essere diverse, pur conducendo tutte a manifestazioni di violenza che possono avere esiti drammatici.
Nell’atto dello stupro, l’agente manifesta e scarica impulsivamente sensazioni di rabbia e frustrazione che possono avere origine da rapporti problematici con donne diverse da quelle della vittima effettiva (la madre, la moglie, la compagna). In questi casi, difficilmente lo stupratore prova un vero e proprio piacere sessuale compiendo lo stupro, ma riesce a liberare la rabbia repressa attraverso un atto di violenza la cui intensità può essere persino superiore al necessario.
I sentimenti di vulnerabilità e di impotenza dello stupratore vengono compensati da un atto di sottomissione della vittima, che viene messa in condizione di essere totalmente alla sua mercé, senza alcuna possibilità di ribellarsi. Al contrario di quanto accade nello stupro motivato da sentimenti di rabbia, in questi casi gli stupri sono perlopiù premeditati dall’aggressore.
Sia la rabbia che la dominazione vengono ”liberati” attraverso il piacere sessuale che prova l’aggressore nel brutalizzare, quasi sempre premeditatamente, la sua vittima.
L’aggressore, che in ogni caso cova uno dei sentimenti sopradescritti, agisce in conseguenza delle opportunità che gli vengono profilate, ad esempio durante una rapina o un furto.
Sia che egli abbia scelto la sua vittima e quindi premeditato l’atto di violenza, o che si trovi a compiere l’atto in una circostanza occasionale, lo stupratore farà sempre in modo che la vittima sia isolata e incapace di reagire o di attirare l’attenzione di altri su di sé.
Dopo aver individuato la sua vittima, egli cercherà di entrare in contatto con lei, conquistare la sua fiducia per poi agire “a sorpresa”, in situazioni di isolamento e di vulnerabilità che consenta di sopraffarla fisicamente.
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