domenica 7 gennaio 2018

LE DIVINITA'

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Dalle ricerche di Hermann Usener risulta che figure divine si possono formare mediante la combinazione sia di fenomeni naturali o della vita umana, sia dei loro operatori. Come il fulmine, che è qualche cosa di sacro per sé stesso, viene considerato come opera d'una potenza divina, quindi di una persona divina, finché questo dio del fulmine non viene assorbito da una divinità superiore, Zeus "il Fulminante". Lo stesso discorso vale per gli altri fenomeni naturali: dappertutto si sono creati questi "dei particolari" o "funzionali" o "momentanei", cui si attribuisce cioè un'attività singola e circoscritta e la cui esistenza si riconosce solo in quel determinato momento. Le forze operanti di quelle cose con le quali operava la magia, sono diventate forze personali, che l'uomo cerca di dirigere, rivolgendosi ad esse come a persone.


Ma non sempre gli esseri divini sono concepiti in questo modo. Si trovano infatti dappertutto alcune divinità, le quali posseggono bensì tutti i requisiti, ma la cui attività è limitata a una piccola regione, a un luogo determinato. Queste "divinità locali" si trovano soprattutto là dove gli uomini hanno assunto dimora stabile, mentre le popolazioni ancora nomadi sono legate piuttosto a divinità ancestrali o tribali. Così Jahvè secondo molti critici sarebbe stato in origine un dio tribale degl'Israeliti, e loro guida nelle peregrinazioni. Zeus dev'essere stato il dio di una stirpe; la sua sposa secondo i poemi omerici era indiscutibilmente una divinità locale argiva e molti santuari di Zeus mostrano che il dio tribale e il dio celeste si è fuso con divinità locali. La Grecia ha costituito un campo fecondo per lo sviluppo dei piccoli culti locali, le cui divinità hanno potuto subire la stessa sorte degli dei funzionali ed essere assorbite da divinità maggiori. Non diversamente in Egitto e in Babilonia: anche qui la molteplicità degli dei locali (per lo più di città) costituì l'ampio substrato della vita religiosa, dal quale si svolsero poi le figure divine maggiori e generali.


Il terreno su cui esso è cresciuto il politeismo è la concezione pluralistica dei fenomeni naturali e il frazionamento della società umana, poiché la raffigurazione d'una molteplicità di dei e di potenze è vitale solo in queste circostanze. Ma non è necessario che esista un politeismo cultuale. Spesso, e proprio negli stadi inferiori, il culto locale o sociale si rivolge di preferenza verso un dio, magari circondato dalla sua famiglia o dalla sua servitù (monolatria), mentre sussiste ancora l'idea dell'esistenza indubitabile di altre divinità accanto a quella invocata. Un vero pantheon, quale si trova nella piena fioritura del politeismo, è per lo più il risultato di una combinazione cosciente compiuta da sacerdoti, da dominatori, o anche - come il pantheon omerico - da poeti. 


Il panteismo è in realtà una via migliore del sincretismo per afferrare e rilevare l'infinitezza del divino. Caratteristica del panteismo è la rappresentazione del divino come Essere universale, come forza cosmica impersonale e spirituale. Questa concezione si manifestò molto presto nella filosofia greca, poiché i pitagorici parlavano di un Nus, di una Mente universale: pensiero rielaborato in senso più idealistico dai platonici, più materialistico dagli stoici. Ma la classica patria di questa concezione religiosa resta sempre l'India. Nella filosofia dei Brahmaa, delle Upani ad l'unità e l'universalità dell'essere furono espresse mediante il concetto del brahman. Il divino, che secondo la sua essenza viene chiamato atman o praa ("respiro") era concepito come astratto e impersonale nella maniera più rigorosa, come un essere non solo incorporeo, ma completamente privo di qualità, spoglio d'ogni particolarità: un essere del quale si poteva appena riconoscere l'esistenza, per non caricarlo di qualificazioni positive. La scuola del Vedanta mantenne questo concetto nella più nuda astrazione: scuole più recenti del Medioevo indiano (Ramanuja, sec. XII), al contrario, hanno attribuito all'Essere supremo la piena esistenza con tutte le qualità particolari, tra cui quelle materiali, anche le più basse, affinché nulla mancasse alla sua universalità. Questo oscillare fra le posizioni estreme è caratteristico del panteismo. Una certa instabilità è sempre propria di questa audace concezione unitaria. Il panteismo autentico si riconosce da ciò, che esso vuole fondere insieme, per quanto è possibile, le tre grandezze: Dio, natura, uomo; ma in questo processo una di esse tenderà sempre a prendere il sopravvento. Così l'unità tra Dio e la natura cade o nell'acosmismo o nel naturalismo, secondo che la natura venga riassorbita in Dio, o Dio nella natura. 



L'unità tra l'uomo e Dio è pure soggetta a cadere nell'assorbimento o dell'umano in Dio  o del divino nell'umano. Questa instabilità del pensiero panteistico rimane sempre un fermento che si direbbe indispensabile, come dimostra la storia delle speculazioni teologiche nel seno di religioni anche molto diverse tra loro.


Di monoteismo si può parlare soltanto dove si tratta non solo di unità, ma anche di una vera divinità. Perciò il vero monoteismo si dìstingue dalla nuda monolatria, che si può trovare anche in situazioni inferiori e limitate. Per la massa del popolo israelita al tempo dei Giudici era una cosa abbastanza naturale che i Moabiti avessero il loro Kemosh, com'essi avevano il loro Jahvè. Ma in seguito all'efficace azione dei Profeti essi giunsero a superare questa limitatezza di vedute e a riconoscere in Jahvè non già un dio tribale o locale, bensì l'autentico signore del mondo, che ha creato ogni cosa e che tutto governa secondo la sua volontà; che ha largito la sua legge, che infligge la punizione e concede la sua grazia, in quanto giudice di tutti i popoli, che alla fine egli raccoglierà sulla sua santa montagna quando stabilirà il suo regno divino in terra. Qui si presenta come fatto assolutamente distintivo il rapporto religioso, il completo abbandono alla fede nel Dio che dirige. Questo è appunto il carattere che distingue il monoteismo profetico da quello puramente ritualistico-sacerdotale, che ci appare in alcune grandi religioni. Come esempi di queste potremmo considerare i culti egiziani di Rie e di Osiride o la venerazione in apparenza esclusiva di un dio babilonese quale Sin, il potente dio locale della città di Ur. Nonostante la grande insistenza sulla sua potenza e il vasto dominio sulla natura che dà origine ai suoi predicati, questo dio resta pur sempre uno tra i molti, non il principio che produce ogni esistenza umana, ed è in realtà solo un esempio di una monolatria superlativa, che fa, di un essere potente, l'unico.


In maniera affatto diversa fu concepita la divinità cui il parsismo di Zarathustra sottopose il mondo: Ormazd o Ahura Mazdah ("il Signore della Saggezza"): considerato non solo come creatore e signore dell'universo, ma come un principio, come il reggitore morale del "Mondo della purezza" che governa il mondo secondo le leggi di questo e lo dirige verso una finale perfezione, dopo aver vinto il principio malvagio a lui avverso, il diabolico Ahriman. Anche questa concezione si può considerare come profetica; e la stessa cosa si può dire, in maniera anche più recisa, per l'Islam. Come religione derivata sostanzialmente dal giudaismo e dal cristianesimo, il messaggio di Maometto non ha le sue radici nel rituale e anche la sua teologia fin dall'inizio non fu concepita in maniera teoretica. L'idea base era quella dell'assoluta e onnipotente volontà di Allah, che si manifesta nel reggimento del mondo e nel dirigere i destini umani con assoluto arbitrio, al disopra di ogni motivo umano: unità e assolutezza che sarebbero state condannate a un totale irngidimento, se la mistica e la filosofia non avessero reso meno ristretto questo concetto della divinità.


Senza una certa cooperazione del pensiero filosofico difficilmente il monoteismo riesce a dare tutti i suoi frutti. L'unità può essere un concetto primitivo, non però l'universalità. All'universale, che costituisce la base necessaria di un monoteismo compiuto, non si giunge senza un allargamento e un approfondimento di visuali. La formazione del concetto di universalità presuppone da una parte una concezione della natura capace di abbracciare la molteplicità dei fenomeni, mentre d'altra parte sono necessarie anche esperienze umane, che dal frazionamento dei popoli facciano sorgere l'ideale, e anche la realtà, di un'unica umanità. Al realizzarsi della prima condizione ha senza dubbio contribuito l'osservazione del cielo - cioè delle prime leggi naturali constatabili - e questo già al tempo della formazione delle grandi religioni. In Babilonia, in Egitto, e specialmente in Cina, l'osservazione degli astri ha dato una grande spinta all'universalismo. Gli antichi filosofi greci hanno cercato un principio delle cose, ciascuno a suo modo; e sempre più ci si avvicina, in forma sia personale sia ideale, alla grande coscienza dell'unità, che è alla base così dell'idealismo di Platone come della filosofia naturale di Aristotele: dottrine che non furono senza influenza anche sulla teologia del cristianesimo. La quale usò bensì termini, come quelli di "padre", "Signore", "Dio", "divinità" che erano comuni alla filosofia antica e al paganesimo; ma diede loro un nuovo significato e un nuovo valore, strettamente monoteistico. E al monoteismo rigido, alieno da ogni forma d'immanentismo evoluzionista, quale troviamo nella Bibbia, essa tenne fede, pur affermando d'altra parte il dogma della Trinità: in quanto essa distinse nettamente le tre Persone o "ipostasi" divine e l'essenza di Dio: la divinitas, la divinità di Dio: nozione del divino ben più viva di quella del rigido Islam o del posteriore deismo razionalistico.


La divinità si può dunque definire come "l'Essere perfetto, spirituale, che abbraccia tutto ciò che esiste, la cui azione è alla base di tutto, la cui volontà è la legge della natura inanimata e la forma assoluta della morale, e che mediante il suo solo essere dà valore all'esistente". Da questo concetto di Dio si sono dedotte le ulteriori nozioni della divinità, in cui si dà il maggior peso o alla natura di Dio (unità, universalità, spiritualità, sublimità, assolutezza), o alla sua potenza (come creatore, reggitore dell'universo, giudice, redentore), o al valore e al carattere morale della divinità (purità, giustizia, perfezione e bontà), o alla santità di Dio e al suo amore: gl'ideali dell'Antico e del Nuovo Testamento, i due elementi fondamentali del concetto cristiano della personalità di Dio.


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