giovedì 30 aprile 2015

LA CHIESA DI SANTO STEFANO A LEGGIUNO

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Dell'antica chiesa plebana della pieve di Leggiuno, già menzionata in documenti del IX secolo, non rimane che il campanile comunque trasformato e rialzato; la costruzione della chiesa attuale risale al XVII secolo ed è stata terminata nel XIX secolo.
Configurazione strutturale: Torre quadrata con cella campanaria terminante con cuspide poligonale. Il campanile è addossato al lato settentrionale della chiesa.
Epoca di costruzione: XI secolo
Il campanile presenta aspetto massiccio ed è completamente intonacato. Al di sotto della cella campanaria e della pesante ricopertura, conserva il suo aspetto romanico scandito da tre specchiature, l'ultima occupata dall'orologio, e dalla successione di aperture: feritoie e strette monofore. Sul lato orientale nell'ultima specchiatura, occupata negli altri lati dai quadranti dell'orologio, è visibile una bifora con colonnina su capitello a stampella in tufo.

Il patrono era santo Stefano a cui è ancora oggi dedicata la chiesa prepositurale di Leggiuno.

La prima attestazione dell'esistenza della pieve di Leggiuno risale alla fine del XIII secolo quando essa ci viene riportata nelle cronache di Goffredo da Bussero, anche se si ha ragione di credere che il collegio canonicale fosse stato costituito molto prima attorno al XI-XII secolo, dato che nel XIV già comprendeva dieci membri. Seppur molto piccola, la pieve assicurava il controllo milanese sull'intera costa del Verbano, escludendovi la comasca pieve di Valcuvia.

Col Rinascimento la pieve assunse anche una funzione amministrativa civile come ripartizione locale della Provincia del Ducato di Milano. La stabilità dell'area della pieve di Leggiuno non aveva apportato nei secoli sostanziali cambiamenti alla ricchezza della pieve ed al suo clero che, ancora all'epoca di San Carlo Borromeo, era rimasto invariato a 10 membri, di cui nove canonici e il prevosto, oltre ad una cappellania prepositurale. Il 19 gennaio 1610, entro i confini della pieve, venne reretta a parrocchia la chiesa di Arolo il che segnò inesorabilmente l'inizio della decadenza del sistema plebano dell'area, peggiorato dal fatto che alla pieve a Leggiuno si affiancò un vicariato come previsto dal Concilio di Trento.

Dal punto di vista civile, la pieve amministrativa fu oggetto di un esperimento riformatore di stampo illuminista da parte dell'Imperatore Giuseppe II, che nel 1786 la incluse nella neocostituita Provincia di Varese, ripartizione cancellata però dopo soli cinque anni dal fratello Leopoldo II, imperatore ben più conservatore. La pieve fu poi soppressa nel 1797 in seguito all'invasione di Napoleone e alla conseguente introduzione di nuovi e più moderni distretti.

La pieve religiosa sopravvisse invece a fatica nei secoli successivi, surclassata sempre più da altre istituzioni religiose che prendevano sempre più piede e dal predominio di Varese, sino a venire soppressa con i decreti del sinodo Colombo nel 1972. Oggi il suo territorio ricade sotto il decanato di Besozzo e comprende 8 parrocchie sotto il prevosto Luigi Milani, su un'area di 15 km² e una popolazione di 3.940 abitanti nel 1972.




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LA CHIESA DEI SS. PRIMO E FELICIANO A LEGGIUNO

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La chiesa, originariamente dedicata a San Siro, venne eretta nel IX secolo dal franco Eremberto, vassallo regio che svolgeva delicati incarichi di controllo militare sulle vie di comunicazione lungo il Lago Maggiore. L'edificio mutò dedicazione nel settembre 846 quando vi vennero traslate le reliquie dei due santi donate a Eremberto da papa Sergio II a seguito di un pellegrinaggio a Roma. La costruzione altomedioevale venne dotata in seguito di campanile e sottoposta a profonde modifiche nel XV secolo che le diedero l'attuale configurazione gotica.

Nella chiesa, in origine dedicata al vescovo pavese san Siro,  sono custodite dall’anno 846 d.C. le reliquie dei due santi soldati, martiri sotto Diocleziano,  che furono donate da papa Sergio II al dignitario regio, come attesta un documento dell’epoca.
L’edificio   ha una caratteristica singolare: costituisce infatti un piccolo museo di lapidi, sia all’interno che all’esterno. Infatti  per la  sua balaustra furono  riutilizzate le pareti marmoree di un sarcofago romano finemente intagliato  (II secolo d. C.) di provenienza orientale, tre segmenti di marmo bianco con decorazioni a colonne ed arcate e un’iscrizione in splendide lettere in capitale quadrata: riporta il nome del committente, Caius Iulius Grattianus. Il suo utilizzo come balaustra è documentato almeno dal 1569. Invece   ai lati della porta d’ingresso vennero poste due colonne romane con eleganti  capitelli corinzi. Ancora memorie dell’antichità si possono ammirare nello spiazzo antistante la chiesa, ritrovate nei dintorni del paese e qui collocate dopo la metà dell’800: si tratta di due grandi  are romane (ai lati del portale ) e altri frammenti appoggiati alle strutture architettoniche. Sulla facciata della chiesa a sinistra  si trova poi una pietra di colore giallognolo, in due pezzi, ritrovata durante gli scavi effettuati sotto l’altare  nel 1920: si tratta della lastra tombale del fondatore della chiesa stressa,  Eremberto, databile alla fine del IX secolo. Sul muretto a destra della facciata sta una seconda epigrafe alto medievale, sempre della stessa epoca,  recentemente reinterpretata da uno studioso di origine leggiunese, il professor Marco Petoletti.
La facciata, a capanna, presenta un portale gotico sovrastato da un rosone, in cotto, aperto probabilmente nel secolo XVII, quando si costruì la sacrestia sul lato sud della chiesetta.

L’edificio presenta un’ unica navata a forma di rettangolo irregolare, divisa in due campate. Due sono le  pareti affrescate in discrete condizioni, risalenti a periodi diversi. La parete sud del presbiterio conserva ancora un  dipinto datato 1488 – opera di Joannes Bernardinus de Laveno- che rappresenta nella parte superiore una bella Natività, con una città turrita sullo sfondo e nella fascia inferiore tre santi, in tre scomparti ornati da finte tappezzerie: S. Primo, S.Siro  e S.Feliciano. Si possono distinguere anche alcuni stemmi nobiliari.
L’abside invece è affrescata con un trittico, realizzato nel 1633 a mo’ di pala d’altare su committenza della famiglia Luini. Raffigura la Madonna con Bambino tra i santi Primo e Feliciano, ai lati dei quali, in due finte  nicchie, stanno  san Carlo Borromee e san Giovanni Battista. L’opera,  attribuita alla scuola del Morazzone,  fu  in parte rovinata da maldestri ritocchi ottocenteschi.
Sulla parete settentrionale, a sinistra entrando,  si vede una Madonnina con Bambino, affrescata, dalle origini incerte (si ipotizza una mano quattrocentesca o secentesca). In ogni caso  presenta nella parte inferiore un rifacimento grossolano.
La decorazione più antica si trova sulla medesima parete, verso l’altare, ed è  una croce “di consacrazione”  risalirebbe ad epoca romanica, come le tracce di intonaco bianco lucido e la banda grigio scuro che contorna il rosone sopra l’ingresso.
Sia i costoloni delle volte (costruita probabilmente in un secondo tempo rispetto alla chiesa, che in origine doveva avere una capriata a vista in legno) che le lesene rivelano ugualmente un colore grigio scuro, che accostato al bianco dell’intonaco sono tipici  della  decorazione romanica.
Importantissima la lapide  murata a destra dell’altare, nella parete absidale,  che commemora la traslazione delle reliquie dei martiri Primo e Feliciano da Roma a Leggiuno nell’anno 846 per opera di Eremberto.
 
L’alta e robusta torre di pietre  a vista  che affianca la chiesa è caratterizzata da  feritoie irregolari  che si aprono sui lati (due sul lato della facciata) e quattro strette bifore su ciascun lato della cella campanaria. Fu aggiunta in un secondo tempo, intorno al secolo XI.

Nel 1920 si effettuò un consolidamento e un restauro generale della chiesa, ad opera dell’architetto Ferdinando Reggiori, con il pieno sostegno del prevosto don Antonio Masciocchi. Scoperchiato il pavimento, si trovarono quattro tombe scavate tra il muro frontale e un muro trasversale sotterraneo; sotto il mastodontico altare del tempo, accostato alla parete dell’abside, fu poi  scoperta un’urna contenente  le reliquie dei martiri Primo e Feliciano, come già si presumeva dallo studio degli antichi documenti. L’altare fu rifatto ex novo, di dimensioni ridotte, lasciando a vista la colonnina che metteva in contatto il reliquiario con la mensa dell’altare stesso.

Fondamentale importanza, naturalmente, rivestono le iscrizioni antiche e medievali custodite in S. Primo con la loro testimonianza. Due ponderose are romane campeggiano ai lati della facciata; altri frammenti, di più dubbia identificazione, sono appoggiati alle strutture architettoniche. Ma le due are adesso menzionate sono per così dire elementi estranei, perché a metà dell’Ottocento si trovavano presso la chiesa prepositurale di S. Stefano. Cesia Ortensia eresse la prima, sulla sinistra, per il proprio carissimo marito Lucio Virio Viniciano; l’altra, sulla destra, ornata sui lati da raffinati vasi con racemi di vite, fu dedicata da Lucio Virio Viniciano alla memoria del suo eccellente padre Lucio Virio Frontino, pontefice della Colonia Elia Augusta, nome assegnato a Milano dall’imperatore Elio Adriano dal 130 dopo Cristo.

Un’iscrizione del IX secolo permette di illustrare la storia di questo antico edificio: è attualmente sulla parte di fondo a destra e ha avuto l’onore di numerose edizioni a stampa. Eccone il testo originale, seguito da una traduzione in lingua italiana:

Hic s(an)c(t)i Primi martyris corpus / venerandum in Christo humatu(m) quiescit, / quod D(e)o dignus Sergius papa iunior / Eremberto inlustri viro concessit / ab urbe Roma cum hymnis ac laudibus sp(irit)alibusq(ue) canticis dum esset translatum. / Quem inter s(an)c(t)os eius sp(iritu)s teneat primatum in multis virtutibus et signis est declaratum. / Reconditum est corpus beati Primi martyris / cum reliquis s(an)c(t)i Feliciani anno incarnationis / D(omi)ni n(ost)ri Iesu Christi DCCCmoVIto k(a)l(endis) aug(usti) indic(tione) VIIII, ordinante dom(no) / Angilb(er)to archiep(iscop)o anno XXIII; passio s(an)c(t)or(um) V id(us) iun(ii).

Qui riposa sepolto nel nome di Cristo il venerabile corpo di san Primo martire, che papa Sergio II, degno di Dio, concesse a Eremberto, uomo illustre, affinché fosse traslato dalla città di Roma con inni e lodi e cantici spirituali. Quale primato il suo spirito detenga tra i santi è manifestato in molte virtù e segni. Il corpo del beato Primo martire con le reliquie di san Feliciano fu deposto nell’anno dell’incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo 806 il primo giorno di agosto, nella nona indizione, su ordine dell’arcivescovo Angilberto nell’anno ventitreesimo del suo episcopato. La passione dei santi (si celebra) il 9 giugno.

La scrittura è una bella capitale e presenta una notevole armonia, soprattutto nelle prime cinque righe. Si impone subito una precisazione d’ordine temporale; gli studiosi che si sono occupati del monumento hanno più volte rilevato come la data incisa sulla pietra, 806, si debba considerare un errore del lapicida per 846, come è confermato dagli altri elementi cronologici: l’indizione e l’anno di pontificato di Angilberto II, arcivescovo di Milano, che cominciò a guidare la chiesa ambrosiana nell’824. Per di più un documento risalente al settembre 846 certifica questa datazione. Il testo di questa epigrafe, pur essendo in prosa, è ravvivato da vere e proprie rime bisillabiche: translatum, primatum, declaratum. Piuttosto evidente un ricordo dalla Bibbia. Cum hymnis ac laudibus spiritalibusque canticis riprende quanto si legge in san Paolo, Eph 5, 19: «intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore»; quasi la stessa espressione è anche in Col 3, 16: «La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapiènza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali». Più nascosto, ma altrettanto affascinante, è un riferimento all’antichità pagana. L’espressione Deo dignus, qui riservata a papa Sergio, affonda le proprie origini nella poesia di Virgilio; Evandro, civilizzatore del Lazio, così si rivolge a Enea nel libro VIII dell’Eneide: «Osa spregiare le ricchezze, ospite, e renditi degno del dio» (vv. 364- 365: Aude hospes contemnere opes et te quoque dignum finge deo). Filtra poi nella poesia posteriore, anche cristiana.

Il grande protagonista dell’iscrizione è Eremberto. Un documento del 22 settembre 846, salvato solamente da trascrizioni tarde – è infatti perduto l’originale – informa che, mentre regnavano Lotario imperatore e il figlio Ludovico re d’Italia, Eremberto, vasso regio, legava molti beni alla chiesa di S. Siro, vescovo di Pavia, da lui fondata a Leggiuno, dov’era proprietario di terre: questo edificio religioso, a seguito della traslazione delle preziose reliquie, fu poi indicato col titolo dei ss. Primo e Feliciano. Nell’antica carta dell’846 Eremberto ricorda di aver edificato de propriis rebus meis, cioè a sue spese, la chiesa di S. Siro. In seguito si recò a Roma; lì con il consenso del santo padre Sergio II prese le reliquie dei venerati martiri Primo e Feliciano e le portò a Leggiuno, dove dispose che fossero custodite. In rimedio dei peccati commessi da lui, dal padre Ermenulfo e dal diletto fratello Ermenfredo donò alla predetta chiesa una serie di beni terrieri che si trovavano nella zona. Questo documento, ove per la prima volta si accenna alla pieve di S. Stefano a Leggiuno, è sottoscritto oltre che da Eremberto dai suoi quattro figli:Ermenulfo, Appo, Ermenefredo chierico ed Eremberto iunior.

La testimonianza incrociata delle iscrizioni di S. Primo e di alcuni documenti permette di fornire qualche altra notizia su Eremberto e la sua famiglia. Nel 1920, in occasione dei restauro della chiesa ad opera di Ferdinando Reggiori, tra il materiale che costituiva il massiccio altare del Seicento, smembrato per far posto all’attuale struttura di forme più sobrie, fu trovata una pietra di colore giallognolo, in stato frammentario e spezzata in due: era la lastra tombale di Eremberto che evidentemente desiderò venire sepolto nella chiesa da lui beneficiata nell’846. Questa preziosa epigrafe fu quindi murata, non proprio adeguatamente, sulla facciata della chiesa a sinistra, dove ancor oggi si trova. Il testo, prosastico, è vergato in capitale. Per questa seconda iscrizione una corretta valutazione della scrittura è in parte ostacolata dal precario stato di conservazione; comunque la tecnica di esecuzione appare meno raffinata rispetto a quella dell’epigrafe all’interno della chiesa. Propongo un’edizione e una traduzione della parte meglio leggibile:

H(oc) i(n) s(epulcro) d(epositus) e(st) Erember(tus). Vixit in praesenti saeculo annis quinquaginta. Deposito (su)o ergastul(o cor)poreo immor(ta)le‹m› suscepit vita‹m›. Obiit autem xiii k(a)l(endas) aug(usti) indiction(e) pri(ma). Pro cuius anima…

In questo sepolcro è stato deposto Erernberto; visse in questo mondo cinquant’anni. Abbandonata la prigione corporea entrò nella vita immortale. Morì dunque tredici giorni prima delle calende di agosto (20 luglio), nella prima indizione. Per la sua anima.

Questa lastra tombale attesta che Eremberto lasciò questo mondo all’età di 50 anni, 13 giorni prima delle calende di agosto, ovvero il 20 luglio, di un anno indicato soltanto ricorrendo alla datazione per indictionem: i calcoli e le prove documentarie, tra cui assume rilievo assoluto un documento di Ermenulfo, figlio di Eremberto, datato 14 agosto 865, da cui si ricava che il padre era allora già defunto, consentono di concludere che il nostro vasso regio morì il 20 luglio 853, e di conseguenza nacque nell’803. Dunque nell’846 all’età di 43 anni fu promotore della solenne traslazione.

Qualche notizia si può allegare su un figlio di Eremberto, Ermenulfo, personaggio di primo rango incardinato nelle gerarchie franche ai tempi di Ludovico II. Nel già menzionato documento del 14 agosto 865, conservato nell’Archivio di Stato a Parma, il conte Ermenulfo si rivolge all’imperatrice Angilberga; ricorda di aver chiesto alla sovrana di intercedere presso Ludovico II al fine di ottenere i beni legati al monastero di Massino. A questa condizione promette di cedere ad Angilberga le sue proprietà, eccetto cinquanta servi e i beni mobili, con riserva di usufrutto vita natural durante per sé e la moglie Teuta. Ermenulfo fu quindi in stretti rapporti con un’altra prestigiosa istituzione del Lago Maggiore, Massino, sopra Lesa, che effettivamente finì tra le pertinenze di Angilberga almeno dall’anno 877. Nel così detto Chronicon Casauriense, che illustra le vicende del monastero benedettino di S. Clemente a Casauria in Abruzzo, oggetto della munificenza di Ludovico II che lo fondò nell’873, si ricorda sotto l’anno 866 come il serenissimo imperatore inviasse a Roma il conte Ermenulfo, suo familiare, con una grande quantità di denaro; costui versò 800 libbre d’argento al console romano Pietro, figlio di Carlo, in cambio di alcune proprietà site a Roma, compresa una cappella in onore di san Biagio, e sul lago di Bracciano. Un documento del 5 aprile 868 conferma la notizia. Un Ermenulfo compare con la qualifica di missus, ovvero di legato imperiale, in un atto non datato, ma posteriore al 24 gennaio 835: si tratta di un elenco delle cose e delle famiglie della corte di Limonta sul lago di Como riservate a S. Ambrogio di Milano. Nulla osta a identificare il familiare di Ludovico II, impegnato per conto del sovrano a Roma, e il protagonista di quest’ultima carta con il figlio di Eremberto.

Una terza epigrafe altomedievale conservata presso S. Primo è oggi all’esterno della chiesa fissata su un muretto a destra. In precedenza la pietra si trovava all’interno della chiesa e costituiva la mensa dell’altare allestito nel XVII secolo sopra le reliquie dei martiri. Questa «mastodontica struttura», per usare le parole di Ferdinando Reggiori, fu smantellata nel 1920, quando si procedette al restauro dell’edificio. Il testo, in distici elegiaci, è allo stato attuale frammentario:

(t)umulum precibus memi(nisc)e sep(ul)tum / hic mole sub ista iacet / m lector bonis cumul(av)it opimis /  v(e)nia‹m› cum pietate roga(t).

Su base paleografica penso che quest’iscrizione vada cronologicamente collocata nel IX secolo, forse nella seconda metà. La scrittura è una buona capitale. Nel 1861 il coadiutore di Leggiuno, Giovanni Gatti, in seguito parroco di Mombello, si interessò della tavola e ne trascrisse quanto poteva leggere. Della scoperta fu informato chi allora costituiva a Milano un’autorità vivente di archeologia cristiana, monsignor Luigi Biraghi. In una lettera del 17 giugno 1861  Biraghi comunicava una proposta di supplemento per le parti mancanti. Infatti la lastra, probabilmente in occasione della fabbricazione dell’altare secentesco, fu tagliata per far fronte alle nuove esigenze e una parte andò irrimediabilmente perduta. La ricostruzione ipotetica del Biraghi è stata universalmente accettata:

Qui venis ad tumulum precibus meminisce sepultum. / Devotus Volric mole sub ista iacet. / Ecclesiam lector bonis cumulavit opimis. Peccatis veniam cum pietate rogat.

Tu che giungi a questa tomba, ricordati con preghiere di chi qui è sepolto. Il devoto Volric giace sotto questa pietra. Egli, che fu lector, colmò la chiesa di abbondanti beni. Chiede perdono e pietà per i peccati.

Quest’iscrizione altro non sarebbe che l’epitaffio di un lector, cioè di un ecclesiastico chiamato Volric, di origine longobarda, che donò in abbondanza beni alla chiesa. Bisogna però dissolvere questo fantasma leggiunese: alla magniloquente e affascinante figura del misterioso Volric, dietro il cui velame evocativo sembrano celarsi i segreti di un riposto passato, è necessario e giusto sostituire il più prosastico, ma veritiero avverbio di luogo hic, ‘qui’. Il nome del defunto a cui l’epigrafe era riferita è invece perduto per sempre a seguito della frattura della lastra tombale: si può in via ipotetica avanzare la candidatura di un membro della schiatta di Eremberto. Inoltre credo che il sostantivo lector non si riferisca alla carica ecclesiastica ricoperta dal defunto, ma vada interpretato come appello al lettore-viandante affinché, commosso, si soffermi sulle parole incise e magari pronunci una preghiera di intercessione.



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SANGIANO

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Sangiano è un paesino situato ad una ventina di chilometri da Varese. Dal monte che lo sovrasta è possibile godere di uno spettacolare panorama che spazia sul bacino centrale del Lago Maggiore. La storia del suo nome è narrata in una curiosa leggenda legata al mitico cavaliere Giano da Cannero.

Ecco come la fantasia dei nostri antenati ha cercato d’interpretare alcuni punti oscuri che tradizionalmente riguardano Sangiano: l’origine del toponimo, l’antica presenza di un castello, la grande parete rocciosa sul monte Picuz.

Sulla rupe che ai bordi del Lago Maggiore sovrasta Laveno, esisteva anticamente una rocca. Si narra che il maniero fosse abitato da una bellissima castellana, presso la quale si recavano a rendere omaggio con la loro scorta i cavalieri dei dintorni. Una turpe atmosfera di mistero avvolgeva però la rocca da quando la popolazione si accorse che i cavalieri colà recatisi non facevano più ritorno alle loro terre. Dicerie e ipotesi si erano moltiplicate a dismisura, fino alla convinzione che la bella castellana fosse in realtà un’infernale sacerdotessa usa a eliminare i visitatori dopo aver consumato, con il cavaliere più giovane e aitante, una notte di piacere. Costui,
si diceva, veniva sacrificato durante una messa nera e gli altri finivano rinchiusi nelle segrete.
Le voci giunsero fino a Giano, un valoroso cavaliere dall’animo cristallino e dotato di un profondo senso di giustizia che abitava nell’isolotto di Cannero, il quale prestò particolare attenzione alla faccenda. Venuto a conoscenza di una ennesima visita da parte di alcuni cavalieri del Lago Maggiore, si appostò nei dintorni della rocca maledetta con il suo fedele scudiero Guglielmo. La prima notte giunsero alle loro orecchie risate e rumori di gaudente baldoria, le quali facevano pensare a un allegro convivio senza preoccupazioni di sorta. Ma la sera successiva, durante la
quale brillava in cielo una splendida luna piena, dalle finestre del castello fuoriuscirono urla soffocate e grida strazianti.
Giano e Guglielmo ebbero in tal modo la conferma che fra quelle mura doveva accadere qualcosa di veramente torbido, sì da far loro decidere un intervento. Cominciarono a indagare nei dintorni e scoprirono che un cunicolo conduceva il castello di Leggiuno con la rocca maledetta. Giano collocò allora un centinaio dei suoi uomini lungo il passaggio sotterraneo e dette loro le istruzioni, poi salì da solo lungo la tortuosa strada che portava al maniero. Venne accolto dagli armigeri, nei confronti dei quali egli si mostrò di grande gentilezza, dicendo di esser venuto a render visita alla
bella castellana. Lo fecero accomodare e poi lo presentarono alla perfida ma stupenda donna con la quale s’intrattenne in una fastosa cena. E il cavaliere dovette esercitare una grande forza su se stesso per non cadere vittima del potere ammaliante di quella donna, specie durante la notte che trascorse con lei.
La mattina successiva fu per Giano un risveglio poco piacevole: due guardie lo immobilizzarono e lo legarono per prepararlo al rito che quella stessa sera lo avrebbe visto immolato a Satana. Ma all’orario convenuto i fedeli soldati di Giano fecero irruzione nel palazzo e uccisero tutte le guardie appiccando il fuoco in ogni stanza. Soltanto la castellana riuscì a sfuggire rifugiandosi in una soffitta, ma quando Giano e i suoi arrivarono a snidarla ella preferì gettarsi nelle fiamme piuttosto che arrendersi. Forse era il predestinato ritorno al suo elemento naturale.
I prigionieri vennero liberati e la maledizione della rupe smise finalmente di mietere vittime.
In onore al coraggioso cavaliere, che la leggenda ha voluto santo, il paese sorto ai piedi della rocca prese il nome di Sangiano. Sul monte si può ancor oggi vedere un largo crepaccio, ormai nido di gufi, dove furono le fondamenta del castello in cui si consumavano gli orrendi sacrifici umani.

La comunità di Sanzano, appartenente alla pieve di Leggiuno, fu nominata per la prima volta negli Statuti delle strade ed acque del Contado di Milano del 1346 fra le località tassate per la manutenzione della strada di Rho. Nel 1491 il duca di Milano Gian Galeazzo Sforza infeudò Sangiano, con i vicini centri di Leggiuno, Bosco e Mombello, al suo prefetto di caccia Francesco Cremona. Il feudo passò poi ai Trivulzio, quindi di nuovo ai Cremona detti Favagrossa. Infine, nel 1643, fu acquistato dai Besozzi del ramo di Bardello, che lo mantennero con il titolo di conti fino al 1811.

Nel censimento del 1770 il comune contava 218 abitanti, ripartiti in 38 famiglie, e risultava diviso in tre nuclei insediativi denominati "cantoni". È documentata, all'epoca, la presenza di una casa di frati Agostiniani Scalzi. Il territorio era interamente occupato da una fitta rete di poderi sia “in monte” che a valle, coltivati a vite, gelsi e cereali o usati come pascolo. In seguito alla formazione del Regno Lombardo-Veneto, nel 1816, il paese entrò a far parte della provincia di Como, distretto XVI di Gavirate. All'Unità d’Italia, nel 1861, gli abitanti erano saliti a 478.

Tra Ottocento e Novecento, periodo contraddistinto da un ragguardevole incremento demografico, si poté assistere all'espansione e all'abbellimento dell'antico abitato, con l'apertura di nuove vie e la costruzione di moderni edifici: il palazzo del municipio, l'asilo infantile e numerose ville. Una di queste, Villa Fantoni, è da alcuni decenni patrimonio pubblico, grazie al lascito dell'ultima e compianta proprietaria, la benefattrice Maria Enrichetta Fantoni. Con il suo bel parco ospita feste, mostre e manifestazioni. Nei mesi estivi molti sangianesi, soprattutto muratori, andavano all'estero in cerca di lavoro: nell'estate del 1914 erano ben 250 i sangianesi sparsi per l'Europa e 6 quelli residenti in America. In patria le industrie locali stavano ormai soppiantando le attività agricole e su 900 abitanti si contavano circa 200 fra operai e operaie.

Un grande sindaco e benefattore fu, nel lontano passato, Giuseppe Besozzi (1822-1901), alla cui memoria sono oggi dedicate le Scuole elementari e la via principale del paese. Fra le famiglie "storiche" di Sangiano, oltre ai Fantoni e ai Besozzi, si ricordano nelle loro varie ramificazioni, i Bizzozzero, i Cerutti, i De Ambrosis, i Luvini, i Masciocchi, gli Ossola e i Reggiori.

Il 19 novembre 1906 il cardinale Andrea Carlo Ferrari eresse Sangiano in parrocchia autonoma, smembrandola da quella di Leggiuno. Nel suo territorio sono situati tre luoghi di culto: la parrocchiale, dedicata a S. Andrea Apostolo, l'oratorio della Madonna del Rosario e, sul monte Sangiano (nel comune di Caravate), la chiesetta di S. Clemente. Dal 1º giugno 2008 le parrocchie di Arolo, Leggiuno e Sangiano sono unite nella comunità pastorale dei Ss. Primo e Feliciano.

Il toponimo dovrebbe indicare l’antica presenza sul territorio di una chiesa intitolata a san Giovanni; non a caso nei documenti più antichi il paese viene menzionato come Sangiuan, Scanzan o Sanzano, dai quali col passare del tempo si sarebbe giunti a “Sangiano”. Le fonti storiche non fanno diretto riferimento al culto di questo santo, ma parlano di una chiesa e un altare siti nel vicino territorio di Leggiuno, oltre a un battistero presso San Clemente (monte Picuz), visibile almeno fino al XVI secolo. A questa teoria se ne aggiunge un’altra formulata dall’Olivieri (Dizionario di Toponomastica lombarda), che vede nel toponimo un derivato dell’appellativo "sencia" o "singia" (dal Latino cingula), da intendersi come traslato geomorfologico per designare “striscia sottile di terreno”.

Approntato dall'amministrazione comunale nei primi anni Sessanta, lo stemma ricorda nel monte il monte Picuz; nella croce le chiese romaniche dei santi Clemente e Andrea; nel covone di spighe la tradizionale vocazione agricola del paese.

Il gonfalone è descritto come segue:

Drappo troncato di giallo e di rosso caricato dell’arma sopra descritta ed ornato di ricchi fregi d’argento.

L' Oratorio della Madonna del Rosario, già di S. Andrea fu menzionato per la prima volta nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, alla fine del XIII secolo, fra gli edifici religiosi della pieve di Leggiuno. Era presente in esso un altare dedicato a san Giacomo di Zebedeo. La chiesetta attuale è frutto di parecchie modifiche avvenute nei secoli successivi. Di particolare interesse gli affreschi dell'abside, risalenti alla fine del Cinquecento.
La Chiesa parrocchiale di Sant'Andrea Apostolo costruita fra il 1903 e il 1904 su progetto dell'architetto Antonio Casati in stile romanico lombardo, precedette di poco la nascita della parrocchia di Sangiano, avvenuta nel 1906. Fu consacrata dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster durante la visita pastorale del 1934. Maestoso l'interno, suddiviso in tre navate. Nel catino absidale si conserva un pregevole organo "Mascioni" a trasmissione pneumatica risalente al 1915, restaurato dalla stessa Casa organaria nel 2009.

Casa Fantoni. (Via Puccini). Presente nel catasto teresiano del XVIII secolo, è senz'altro molto più antica e conserva un interessante frammento di affresco votivo con la Vergine Maria fra santi datato 1614.

Gli antichi lavatoi nel centro abitato: lavatoio a pianta rettangolare in muratura, formato da due vasche rettangolari in lastroni di granito cementati (0,9 m × 1,05 m - 3,3 m × 1,8 m). Via Puccini, alle pendici del monte Sangiano: a pianta rettangolare con sei colonne in mattoni, costituito da un'unica vasca rettangolare (2,97 m × 5, 87 m).
Il monte Sangiano (532 m.) è classificato come SIC (sito d'importanza comunitaria). Con il suo caratteristico "Picuz" (sperone di roccia), offre una vista spettacolare sul Lago Maggiore e i laghi varesini, oltre alla possibilità di svolgere escursioni lungo i numerosi e caratteristici sentieri immersi nella natura. Di particolare rilievo è la presenza, anche se ormai fortemente ridotta, dei "prati magri": aree naturalistiche ricche di numerose specie animali e vegetali.



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LE FRAZIONI DI LEGGIUNO : CELLINA

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Cellina, grafia moderna dell'antico nome di Celina, è una frazione del comune di Leggiuno, di cui costituisce la proiezione del centro storico sul Verbano.

Il territorio è dominato da due colline: Motta Cipollina e monte di Ballarate. La prima la divide ad occidente dal lago Maggiore, mentre l'altra la separa dall'abitato di Ballarate. Sul culmine di quest'ultima si trovano le rovine di una torre di guardia di un castello longobardo. Al suo interno vi si trova la chiesa dedicata a San Rocco, patrono del paese, oggi sconsacrata e la Chiesa dedicata a Santa Maria Stella Maris, edificata negli anni '50 del secolo scorso.

Celina, località della pieve di Leggiuno citata negli statuti delle strade e delle acque del contado di Milano, era tra le comunità che contribuivano alla manutenzione della strada di Rho (Compartizione delle fagie 1346).

Nei registri dell’estimo del ducato di Milano del 1558 e nei successivi aggiornamenti del XVIII secolo Celina risultava ancora compreso nella medesima pieve (Estimo di Carlo V, Ducato di Milano, cart. 26).

Nel 1751 il comune risultava infeudato al conte Renato Borromeo e pagava di censo ogni anno 17 lire e 17 soldi. Il giudice feudale, all’epoca Antonio Bosso di S. Andrea, risiedeva in Laveno e percepiva un salario annuo di 9 lire e 4 soldi: al suo ufficio si portavano gli atti penali e civili.

Il console era nominato ogni mese: era suo compito convocare i “capi di casa” col suono della campana davanti al cancelliere. L’assemblea assumeva le decisioni con la maggioranza dei 2/3. In occasione delle assemblee, se necessario, si nominava un procuratore che si occupasse di particolari affari. Il cancelliere, retribuito con 8 lire annue, risiedeva a Celina e a lui erano affidate le poche scritture, in quanto non esisteva archivio. La comunità non aveva procuratori né agenti a Milano. Le anime collettabili e non collettabili erano in tutto 125 (Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart. 3035, vol. D XVI, Como, pieve di Leggiuno, fasc. 3).

Nel compartimento territoriale del 1757 Celina risultava compreso nella pieve di Leggiuno (editto 10 giugno 1757). Il comune entrò nel 1786 a far parte della provincia di Gallarate, poi di Varese, con le altre località della pieve di Leggiuno, a seguito del compartimento territoriale della Lombardia austriaca, che divise il territorio lombardo in otto province (editto 26 settembre 1786 c). Inserita nella provincia di Milano sin dalla fine del 1787, la pieve di Leggiuno, unita a una porzione della pieve di Brebbia, faceva parte nel 1791 del distretto XXXVII, con sede della cancelleria del censo a Gavirate (Compartimento Lombardia, 1791).

A seguito della legge 26 marzo 1798 di organizzazione del dipartimento del Verbano (legge 6 germinale anno VI b) il comune di Celina venne inserito nel distretto di Cuvio. Soppresso il dipartimento del Verbano (legge 15 fruttidoro anno VI c), con la successiva legge 26 settembre 1798 di ripartizione territoriale dei dipartimenti d’Olona, Alto Po, Serio e Mincio (legge 5 vendemmiale anno VII), Celina entrò a far parte del distretto di Laveno del dipartimento dell’Olona. Nel compartimento territoriale del 1801 il comune fu collocato nel distretto II di Varese del dipartimento del Lario (legge 23 fiorile anno IX). Nel 1805, un ulteriore compartimento territoriale inserì Celina nel cantone IV di Gavirate del distretto II, Varese, del dipartimento del Lario. Il comune, di III classe, aveva 194 abitanti (decreto 8 giugno 1805 a).

A seguito dell’aggregazione dei comuni del dipartimento del Lario (decreto 4 novembre 1809 b), in accordo con il piano previsto già nel 1807 e parzialmente rivisto nel biennio successivo (Progetto di concentrazione 1807, Lario), Celina figurava, con 188 abitanti, comune aggregato al comune denominativo di Leggiuno, nel cantone II di Gavirate del distretto II di Varese; con il successivo compartimento territoriale del dipartimento del Lario, Celina compariva tra gli aggregati di Leggiuno, sempre nel cantone II di Gavirate del distretto II di Varese (decreto 30 luglio 1812).

Con l’attivazione dei comuni della provincia di Como, in base alla compartimentazione territoriale del regno lombardo-veneto (notificazione 12 febbraio 1816), il comune di Celina fu inserito nel distretto XVI di Gavirate.

Celina, comune con convocato, fu confermato nel distretto XVI di Gavirate in forza del successivo compartimento territoriale delle province lombarde (notificazione 1 luglio 1844).

Nel 1853 (notificazione 23 giugno 1853), Celina, comune con convocato generale e con una popolazione di 284 abitanti, fu inserito nel distretto XIX di Gavirate.

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Celina con 309 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento VII di Gavirate, circondario I di Varese, provincia di Como. Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 324 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867).

Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Varese della provincia di Como. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Nel 1927 il comune venne aggregato alla provincia di Varese. Nel 1927 il comune di Celina venne aggregato al nuovo comune di Leggiuno – Sangiano (R.D. 1° dicembre 1927, n. 2344).

La parrocchia di Maria Stella Maris, con provvedimento arcivescovile in data 1 aprile 1948, Cellina, in considerazione della distanza che la separava dalla chiesa parrocchiale di Leggiuno, era stata eretta in cura d’anime indipendente ed unita aeque principaliter alla parrocchia di San Carlo e di San Pietro martire di Arolo. Nel 1957 venne revocato il provvedimento del 1948. La parrocchia di Maria Stella Maris fu eretta con decreto 9 dicembre 1957 dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini, con territorio smembrato dalla parrocchia prepositurale di Santo Stefano di Leggiuno (decreto 9 dicembre 1957) (RDMi 1957). La nuova parrocchia rimase inserita nella pieve e vicariato foraneo di Leggiuno, nella regione II della diocesi, fino alla revisione della struttura territoriale della diocesi, attuata tra il 1971 e il 1972 (decreto 11 marzo 1971, RDMi 1971; Sinodo Colombo 1972, cost. 326), quando fu attribuita al nuovo vicariato foraneo e poi decanato di Besozzo, nella zona pastorale II di Varese. Con decreto 4 luglio 1986 del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, fu stabilita l’unione della parrocchia Maria Stella Maris in Cellina alla parrocchia di Santo Stefano di Leggiuno.



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FRAZIONI DI LEGGIUNO : BALLARATE

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Ballarate è una frazione d'entroterra del comune di Leggiuno, situata alle spalle di Arolo.

Ballarate, località della pieve di Leggiuno citata come Ballarà negli statuti delle strade e delle acque del contado di Milano, era tra le comunità che contribuivano alla manutenzione della strada di Rho (Compartizione delle fagie 1346).

Nei registri dell’estimo del ducato di Milano del 1558 e nei successivi aggiornamenti del XVIII secolo Ballarate risultava ancora compreso nella medesima pieve (Estimo di Carlo V, Ducato di Milano, cart. 26).

Nella relazione di Ambrosio Oppizzone sulle terre dello stato di Milano, nella pieve di Leggiuno appare la comunità di “Balerano con Ghirà” che si può riportare alla forma Ballarate con Chirate (Oppizzone 1634).

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Ballarate con 239 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento VII di Gavirate, circondario II di Varese, provincia di Como. Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 232 abitanti (Censimento 1861). Sino al 1863 il comune mantenne la denominazione di Bosco e dal 1863 al 1879 il comune assunse la denominazione di Bosco di Gavirate (R.D. 15 marzo 1863, n. 1.211). Dal 1879 il comune assunse la denominazione di Ballarate (R.D. 9 gennaio 1879, n. 4712).

In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867).

Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Varese della provincia di Como. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Nel 1927 il comune di Ballarate venne aggregato alla provincia di Varese. Nel 1927 il comune di Ballarate venne aggregato al nuovo comune di Leggiuno – Sangiano (R.D. 1° dicembre 1927, n. 2344).




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LE FRAZIONI DI LEGGIUNO : AROLO

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Arolo è la più meridionale delle frazioni costiere del comune di Leggiuno, situata sulle rive del Lago Maggiore. La frazione è situata in un'armonico e tranquillo borgo rivierasco, circondato da ridenti colline. Da visitare il piccolo e grazioso centro storico, e la chiesa intitolata ai Santi Carlo e Pietro Martire, con all'interno un importante organo antico. È presente anche una spiaggia attrezzata e riqualificata che vede la presenza di numerosi turisti nella stagione estiva. Molta praticata in questa frazione è anche la pesca sul lago. Degna di nota la scalinata in sassi.

Nei registri dell’estimo del ducato di Milano del 1558 e nei successivi aggiornamenti del XVII e del XVIII secolo Arolo risultava ancora compreso nella medesima pieve (Estimo di Carlo V, Ducato di Milano, cart. 26).

La giunta del censimento nel settembre del 1730 dispose l’unione di Arolo e Cellina, ma nel compartimento territoriale del 1757 i due comuni risultavano ancora separati.

Secondo le risposte ai 45 quesiti del 1751 il comune risultava infeudato per tre quarti al conte Renato Borromeo Arese e per un quarto al conte Giulio Visconti e pagava circa 21 lire di censo ogni anno, per 3 bienni al conte Borromeo e per 1 biennio al Visconti.

Il giudice feudale risiedeva a Laveno ed era nel biennio interessato Antonio Bossi di S. Andrea, col salario di 9 lire e 4 soldi. Nel detto ufficio si esaminavano gli atti criminali e civili e si amministrava la giustizia. Arolo non aveva comuni aggregati e non chiedeva di essere aggregato ad altro comune.

I consigli generali e particolari o per la vigilanza sulla giustizia dei riparti si facevano mediante convocazione dei “capi di casa” da parte del console del mese al tocco della campana, davanti al cancelliere e ad uno degli estimati. Le deliberazioni si adottavano coi tre quarti dei voti dei “capi di casa”. Se necessario si costituiva un procuratore speciale.

Il cancelliere risiedeva a Cellina ed era pagato 8 lire all’anno; lo stesso cancelliere curava le poche scritture esistenti, non essendovi archivio né stanza pubblica per la conservazione delle scritture.

Il comune non aveva procuratori né agenti a Milano. Le anime collettabili e non collettabili erano 110 (Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart. 3035, vol. D XVI, Como, pieve di Leggiuno, fasc. 1).

Nel compartimento territoriale del 1757 Arolo risultava compreso nella pieve di Leggiuno (editto 10 giugno 1757). Il comune di Arolo entrò nel 1786 a far parte della provincia di Gallarate, poi di Varese, con le altre località della pieve di Leggiuno, a seguito del compartimento territoriale della Lombardia austriaca, che divise il territorio lombardo in otto province (editto 26 settembre 1786 c). Inserita nella provincia di Milano sin dalla fine del 1787, la pieve di Leggiuno faceva parte nel 1791 del distretto XXXVII, con sede della cancelleria del censo a Gavirate (Compartimento Lombardia, 1791).

A seguito della legge 26 marzo 1798 sull’organizzazione amministrativa del territorio (legge 6 germinale anno VI b), il comune di Arolo venne inserito nel distretto di Cuvio del dipartimento del Verbano.

Soppresso il dipartimento del Verbano (legge 15 fruttidoro anno VI c), con la successiva legge 26 settembre 1798 di ripartizione territoriale dei dipartimenti d’Olona, Alto Po, Serio e Mincio (legge 5 vendemmiale anno VII), Arolo entrò a far parte del distretto XV di Laveno del dipartimento dell’Olona.

Il comune, in forza della legge 13 maggio 1801 di ripartizione territoriale della repubblica Cisalpina (legge 23 fiorile anno IX), venne poi incluso nel dipartimento del Lario, distretto II, di Varese.

Con l’attivazione del compartimento territoriale del regno d’Italia (decreto 8 giugno 1805) Arolo fu compreso nel distretto II di Varese, cantone IV di Gavirate, del dipartimento del Lario; comune di III classe, contava 194 abitanti.

A seguito dell’aggregazione dei comuni del dipartimento del Lario (decreto 4 novembre 1809), in accordo con il piano previsto già nel 1807 e parzialmente rivisto nel biennio successivo (Progetto di concentrazione 1807, Lario), Arolo figurava, con 180 abitanti, comune aggregato al comune denominativo di Leggiuno, nel cantone II di Gavirate del distretto II di Varese; con il successivo compartimento territoriale del dipartimento del Lario, Arolo compariva tra gli aggregati di Leggiuno, sempre nel cantone II di Gavirate del distretto II di Varese (decreto 30 luglio 1812).

Con l’attivazione dei comuni della provincia di Como, in base alla compartimentazione territoriale del regno lombardo-veneto (notificazione 12 febbraio 1816), il comune di Arolo fu inserito nel distretto XVI di Gavirate.

Arolo, comune con convocato, fu confermato nel distretto XVI di Gavirate in forza del successivo compartimento territoriale delle province lombarde (notificazione 1 luglio 1844).

Nel 1853 (notificazione 23 giugno 1853), Arolo, comune con convocato generale e con una popolazione di 260 abitanti, fu inserito nel distretto XIX di Gavirate.

In seguito all’unione temporanea delle province lombarde al regno di Sardegna, in base al compartimento territoriale stabilito con la legge 23 ottobre 1859, il comune di Arolo con 285 abitanti, retto da un consiglio di quindici membri e da una giunta di due membri, fu incluso nel mandamento VII di Gavirate, circondario II di Varese, provincia di Como. Alla costituzione nel 1861 del Regno d’Italia, il comune aveva una popolazione residente di 298 abitanti (Censimento 1861). In base alla legge sull’ordinamento comunale del 1865 il comune veniva amministrato da un sindaco, da una giunta e da un consiglio. Nel 1867 il comune risultava incluso nello stesso mandamento, circondario e provincia (Circoscrizione amministrativa 1867).
Nel 1924 il comune risultava incluso nel circondario di Varese della provincia di Como. In seguito alla riforma dell’ordinamento comunale disposta nel 1926 il comune veniva amministrato da un podestà. Nel 1927 il comune venne aggregato alla provincia di Varese. Nel 1927 il comune di Arolo venne aggregato al nuovo comune di Leggiuno – Sangiano (R.D. 1° dicembre 1927, n. 2344).

La chiesa dei Ss.Pietro e Carlo fu eretta il 19 gennaio 1606 (Scritture Pieve di Leggiuno, 1463-1636, q. 4). Tra XVII e XVIII secolo, la parrocchia dei Santi Pietro martire e Carlo di Arolo è costantemente ricordata negli atti delle visite pastorali compiute dagli arcivescovi di Milano e dai delegati arcivescovili nella pieve di Leggiuno.

Nel 1748, durante la visita pastorale dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli, il clero nella parrocchia di San Pietro martire e San Carlo era costituito dal parroco, da altri due sacerdoti residenti e da un chierico; per il popolo, che assommava a 154 anime complessive, di cui 81 comunicati, era istituita la scuola della dottrina cristiana; nella parrocchiale era costituita la confraternita del Santissimo Sacramento, eretta canonicamente nel 1679, unita alla società della Beata Maria Vergine del Santissimo Rosario, istituita a sua volta il 30 settembre 1620 con approvazione della curia arcivescovile.

Verso la fine del XVIII secolo, secondo la nota specifica delle esenzioni prediali a favore delle parrocchie dello stato di Milano, la parrocchia dei Santi Pietro e Carlo di Arolo possedeva fondi per 295.2 pertiche; il numero delle anime, conteggiato tra la Pasqua del 1779 e quella del 1780, era di 164 (Nota parrocchie Stato di Milano, 1781). Nella coeva tabella delle parrocchie della città e diocesi di Milano, la rendita netta della parrocchia di Arolo assommava a lire 255.15.4; la nomina del titolare del beneficio parrocchiale spettava all’ordinario.

Nel 1896, all’epoca della prima visita pastorale dell’arcivescovo Andrea Carlo Ferrari nella pieve e vicariato di Leggiuno, il reddito netto del beneficio parrocchiale assommava a lire 807.83; il clero era costituito dal parroco. I parrocchiani erano 450, compresi gli abitanti delle frazioni Casa al Muro, Bighione, Cavallo; nel territorio parrocchiale esisteva l’oratorio di San Pietro martire; nella chiesa parrocchiale era eretta la confraternita del Santissimo Sacramento, che risultava fondata nel 1832. La parrocchia era di nomina arcivescovile.

Nel XIX e XX secolo, la parrocchia dei Santi Carlo e Pietro martire è sempre stata inserita nella pieve e vicariato foraneo di Leggiuno, nella regione II, fino alla revisione della struttura territoriale della diocesi, attuata tra il 1971 e il 1972 (decreto 11 marzo 1971, RDMi 1971; Sinodo Colombo 1972, cost. 326), quando fu attribuita al nuovo vicariato foraneo e poi decanato di Besozzo, nella zona pastorale II di Varese.

La società della Beata Maria Vergine del Santissimo Rosario, istituita il 30 settembre 1620 con approvazione della curia arcivescovile, fu censita nel 1748, durante la visita pastorale dell’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli nella pieve di Leggiuno, quando era unita alla società del Santissimo Sacramento.




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L' EREMO DI SANTA CATERINA DEL SASSO A LEGGIUNO

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A picco sul Lago Maggiore, presso Leggiuno, si staglia etereo l'Eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro.

La tradizione racconta che Alberto Besozzi, ricco mercante del posto, venne travolto da un violento nubifragio mentre attraversava il Lago con la sua barca. Chiese aiuto a Santa Caterina e si risvegliò su una roccia sporgente sull'acqua. Per ringraziarla, della scampata morte, nel 1200 d.c., le dedicò una cappella, proprio su quello spuntone di roccia che lo aveva accolto durante la tempesta e, in quel luogo mistico, decise di diventare eremita.

Il complesso monastico sorse intorno al XIV secolo, con la costruzione delle due chiese dedicate a San Nicolao e Santa Maria Nova. Il complesso venne inizialmente retto per un breve periodo dai Domenicani, ai quali succedettero dal 1314 al 1645 i frati dell'Ordine di Sant'Ambrogio ad Nemus. A partire dal 1670 vi si sarebbero insediati i Carmelitani di Mantova, che avrebbero mantenuto il monastero per un secolo, fino alla soppressione (avvenuta nel 1770). Dal 1914 è considerato monumento nazionale. Il complesso passò di proprietà dal Beneficio parrocchiale di Leggiuno all'Amministrazione provinciale di Varese il 4 giugno 1970. Da quella data iniziarono consistenti restauri ed opere di consolidamento e stabilizzazione che salvarono il santuario e lo riportarono a riaprire negli anni ottanta. Dal 1986 al 1996 ospitò una comunità di Domenicani, mentre attualmente è retto da alcuni Oblati benedettini.

La facciata della chiesa si presenta oggi con un porticato rinascimentale con quattro archi a tutto sesto, in cui sono conservati i resti di un ciclo di affreschi attribuito ad uno dei figli di Bernardino Luini; sulla sinistra invece, a strapiombo sul lago, si erge il campanile risalente al XIV secolo.

Di particolare interesse anche il sacello, che costituisce il nucleo più antico del complesso, risalendo al 1195. Si presenta su un livello inferiore rispetto alle restanti parti della chiesa, riprendendo le dimensioni del sepolcro di Santa Caterina sul Sinai. Al di sopra della finestra, sulla parete esterna, sono affrescate alcune immagini della traslazione del corpo della santa - da parte degli angeli - al Monte Sinai; altri affreschi (risalenti al XVI secolo) raffigurano le sue nozze, poste fra Sant'Ambrogio, San Gregorio Magno e Sant'Agostino. All'interno della volta è affrescata una raggiera con lo Spirito Santo sotto forma di colomba, circondato da angeli: qui sono conservate dal 1535 le reliquie del beato Alberto Besozzi, il quale è infine raffigurato in preghiera in un affresco del 1892, realizzato nel sottarco.

La torre campanaria alta una quindicina di metri, risale al XIV secolo, originariamente come campanile della chiesa di San Nicolao, con cui era direttamente collegato attraverso una porta oggi murata. A partire dal XVI secolo, con la costruzione dell'attuale edificio sacro unico, l'ingresso venne collocato nel portico rinascimentale. La cella campanaria presenta un'apertura per lato, ad eccezione di quello esposto a nord, in cui è stata murata; la presenza di un sostegno centrale dell'architrave conferisce loro l'aspetto di bifore.

La chiesa attuale si sviluppa su cinque precedenti ambienti, in origine separati: quattro corrispondono oggi ad altrettante cappelle, mentre il quinto non è altro che il sacello dove sono poste le spoglie del beato Alberto Besozzi. Fra le numerose opere di pregio presenti si citano una Crocifissione con cinque santi, una Crocifissione con due santi, un frammento di un affresco con la Crocifissione, la testa di san Giovanni Evangelista ed alcuni soldati romani; sull'altare maggiore si segnalano una pala con lo Sposalizio mistico di santa Caterina d'Alessandria, un Cristo in Pietà, ed una Santa Caterina sepolta dagli angeli; le volte presentano invece un affresco ritraente un Cristo benedicente in mandorla, circondato dai simboli dei quattro evangelisti (1438). Si citano infine le pregevoli vetrate istoriate, un organo napoletano opera di Domenico Antonio Rossi (1783) ed una statua policroma della Vergine col Bambino, risalente al XVII secolo.



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LE CITTA' DEL LAGO MAGGIORE : LEGGIUNO

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Località turistica posta sulle rive del Lago Maggiore, confina a nord con Laveno-Mombello, a est con Sangiano e Caravate, a sud-est con Besozzo, a sud con Monvalle, ad ovest e a sud-ovest col Lago Maggiore e quindi con il Piemonte e la Provincia del Verbano-Cusio-Ossola. Sulla sponda del Lago Maggiore si trova l'Eremo di Santa Caterina del Sasso, simbolo della città e dello stemma comunale leggiunese.

L’origine del nome “Leggiuno” è senza dubbio molto antica ed altrettanto controversa; Una prima ipotesi, peraltro attualmente considerata poco affidabile, lo fa risalire al latino “Legio-una” (da cui Legiunum) riferendosi allo stanziamento di una legione di Giulio Cesare. Secondo un’altra ipotesi il toponimo è composto dal gallico ”dunum” (fortezza) e da un nome personale (forse “Laegus” o “Lugh Lugus” una divinità panceltica) L’ipotesi più verosimile lo fa derivare dal celtico “Leze” (ai piedi) e da “dunum” (colle-fortezza). Cioè “ai piedi del colle” forse Mirasole. La presenza di estesi ghiacciai rese difficoltosa, se non impossibile, la presenza dell’uomo nel periodo preistorico. Le uniche tracce di vita nella zona , riconducibili peraltro a piccole comunità riparetesi in grotte, sono state rinvenute ad Angera. Nel 1864 vennero rinvenute nella Torbiera di Mombello, sul confine con Leggiuno, resti di palafitte (poste su duplice ordine di pali di pioppo), frammenti di vasi, armi, utensili e residui di pasti (conservati nei Musei Civici di Varese) ascrivibili al Neolitico inferiore e all’Eneolitico. Verso la fine dell’800, durante l’abbattimento di un grosso castagno in località Marzaro, affiorò una tomba quadrangolare formata da pietre sovrapposte. Ulteriori scavi misero in luce altre tombe con vasellame in terracotta. Queste sepolture risalgono all’età del Ferro. Nel 1969, presso la località “le Rupi” ad Arolo, furono portati alla luce alcuni resti riferibili all’età del Bronzo finale ed ai primi periodi della cultura di Golasecca. Tra i resti vi erano un bracciale, uno spillone e un torques di bronzo, una punta di giavellotto e una lancia. I ritrovamenti testimonierebbero che l’area fu interessata dalla presenza di una necropoli databile tra il 2200 ed il 2000 a.C. Intorno al 1947-1950, in una piccola grotta (lunga circa 23 m) a qualche centinaio di metri a sud del santuario di S. Caterina del Sasso denominata Bus di Curnaà furono ritrovati cocci ceramici di età Gallo-Romana ed ossa di piccoli animali. Dopo la seconda guerra punica il territorio varesino venne occupato dalle legioni romane. Tra le testimonianze di tale epoca citiamo due cippi funerari della famiglia Viniciana, una lapide della dea Diana ed una al dio Sole. Altre lapidi testimoniano la presenza anche della famiglia Viria. Alcune di questi resti sono ammirabili sul sagrato della attuale chiesa romanica dei SS. Primo e Feliciano che è stata presumibilmente edificata, e in un primo tempo dedicata a S. Siro, in un’area sacrale pagana. Non sono rimaste tracce dell’epoca delle dominazioni barbariche se si esclude una tomba rettangolare, scavata in roccia dolomitica rinvenuta sul Monte Piaggio ad Arolo. Un documento dell’anno 846 riporta la notizia che Eremberto, vassallo dell’imperatore Lotario, fece traslare nella chiesa di S.Siro le reliquie dei SS. Primo e Feliciano donategli da papa Sergio II. Dopo il regno di Berengario I, Leggiuno divenne un comune indipendente e, in seguito, anche sede di una corte e di una pretura feudale. La peste del 1554 e del 1630 inflisse una duro colpo al benessere del borgo. Solo nel XIX secolo Leggiuno tornerà ad essere un centro importante contando nel 1861, 704 abitanti e, nel 1867, 764. Nel XX secolo il comune di Leggiuno si è esteso inglobando anche gli ex comuni di Arolo, Ballarate e Cellina. Per alcuni decenni di tale secolo è stato anche unito con quello di Sangiano. La prima visita pastorale di Carlo Borromeo alla pieve di Leggiuno, nel 1574, é documentatata da atti notarili, rogati dal notario di curia che accompagnava l'arcivescovo e conservati presso l'Archivio Storico Diocesano di Milano. Coloriti particolari della visita a Mombello sono noti attraverso una memoria contenuta nel "Libro de' legati ad pias causas" della Parrocchia di Mombello. Mercoledì 14 Luglio  Borromeo compiva la sua visita pastorale secondo il metodo descritto dal Possevino, ripreso da Giussano e da Roger Mols illustrato quale modello di validità perenne per le visite diocesane odierne. L'arcivescovo celebrava la messa nella parrocchiale di S. Stefano, distribuiva la comunione, visitava il ss. Sacramento, il battistero, i sacri olli, amministrava la cresima, teneva il sermone consueto delle visite. Oltre all'altare maggiore, la parrocchiale, a tre navate, aveva nelle navate laterali gli altari di S. Caterina e di s. Maria Maddalena. Nel rimanente della mattinata il cardinale dava pubblica udienza agli "huomini" della comunità, trattando dei legati, dei beni della chiesa, delle elemosine, delle usurpazioni dei benefici, con a fianco il notaio che registrava le risposte, alla presenza di Matteo Caccia, preposito di Leggiuno e titolare della parrocchiale di Mombello. Il 15 Luglio, giovedì, probabilmente nella mattinata, l'arcivescovo visitava, a Cellina, S. Giorgio (chiesa semidistrutta, chiericato vacante in quel momento, mentre i beni risultavano usurpati) e S. Andrea (diroccata, che verrà poi rasa al suolo per sua disposizione). Ad Arolo le condizioni erano migliori: la chiesa di S. Pietro Martire, situata in riva al Verbano, era dotata di beni e la messa vi era celebrata dai frati di S. Caterina in virtù di legati. In seguito il cardinal Federico Borromeo erigerà Arolo in parrocchiale autonoma, smembrandola da Leggiuno, ed una nuova chiesa, dedicata poi a S. carlo, sostituirà per le funzioni sacre l'antico oratorio di S. Pietro Martire. L'arcivescovo passava poi da Ghirate, (dove una chiesa dedicata ai SS. Gervasio e Protasio, in mezzo ai prati, un tempo dotata di beni, ed in cui non si celebravano più messe) e, andando verso Sangiano, visitava S. Maria in Bassa, distante dalla prepositurale di Leggiuno un quarto di miglio, con attorno il cimitero: in essa si celebravano "ex devotione populi" le messe nei giorni festivi. Ritornato verso Leggiuno, nello stesso giovedì, l'arcivescovo visitava la chiesa dei SS. Primo e Feliciano, risalente al periodo carolingio, costruita in onore di s. Siro dal vasso Eremberto e dotata di beni da quell'illustre personaggio. La cappellania nel XIV secolo era giuspatronato dei "de Besutio". Sotto la datazione "die jovis xvj julii" (in realtà 15) era visitata la chiesa di S. Agata, "sita in vinea domini Bernardi de Besutio", e quindi la chiesa di S. Ambrogio, attigua alla prepositurale di S. Stefano, con un altare dove si officinava la messa una volta alla settimana. L'arcivescovo rimase a Leggiuno dal giovedì alla domenica, visitando anche la chiesa di S. Margherita "antigua et fere diruta" (attaccata alla quale vi era una cascina di massari): in essa si celebrava una messa settimanale. La sera del 18, domenica, il cardinale partiva per Besozzo, il 19 era ad Ispra, il 20 a Comabbio. Carlo Borromeo ritornava a visitare la pieve di Leggiuno nel Luglio 1581, ma già nel novembre 1578 vi era inviato un visitatore delegato, il solerte Bernardino Tarugi. Il 12 Luglio l'arcivescovo era a Leggiuno, in visita alla collegiata prepositurale, a S. Primo ed a S. Clemente in Monte.

Leggiuno era un tempo a capo dell'omonima pieve. Fa parte della diocesi di Milano, zona II di Varese, decanato di Besozzo, e comprende nel suo territorio 2 parrocchie: Parrocchia di Leggiuno (6 chiese) e di Arolo (una chiesa). Esse, con la vicina parrocchia di Sangiano, formano l'unità pastorale di Leggiuno-Arolo-Sangiano. In questa zona è presente l'Eremo di Santa Caterina del Sasso, costruito su una roccia che si affaccia direttamente sul lago. Particolarmente suggestive sono la Sala dell'antico Refettorio dei frati, le cappelle medievali del Beato Alberto Besozzi, di Santa Maria Nova, di Santa Caterina e di San Nicolao, anticamenti luoghi distinti tra loro e poi unificati a fine Cinquecento in un'unica bella chiesa.

Un'altra chiesa da visitare è la chiesa dei Santi Primo e Feliciano costruita su un preesistente edificio di culto pagano.

Nel comune è presente anche la chiesa di San Pietro e S. Carlo, parrocchiale di Arolo, edificata nel 1500; qui è riposto un organo della metà dell'Ottocento, costruito da Fortunato Ossola di Groppello. Nel centro di Leggiuno è presente inoltre la Chiesa Parrocchiale di Santo Stefano, patrono del paese, adeguatamente ristrutturata e ampliata nel XIX secolo (compreso il campanile, eretto in precedenza su quello romanico).

Altre chiese:
Chiesa di Santa Maria Stella Maris, edificata negli anni cinquanta;
Chiesa di Santa Maria Assunta, costruita alla fine degli anni trenta;
Chiesa del Cuore Immacolato di Maria, degli anni cinquanta.

Il comune è ricco di boschi e sentieri boschivi. Questi sono tutti pedalabili per l'80% circa. Infatti vengono organizzate dalla Pro Loco del Comune gare ciclistiche di mountain bike anche in ambito regionale. Leggiuno è anche uno dei pochi comuni in Lombardia ad aver aderito al progetto di Greenpeace Città amiche delle foreste.

Leggiuno è attraversato dal "Sentiero del Verbano" (Sesto Calende - Laveno-Mombello) che costituisce la prima realizzazione del progetto Vie Verdi dei Laghi. Questo sentiero è identificato con la sigla VB su tutta la segnaletica verticale. Inoltre, è attraversato dall'Anello di Santa Caterina, nella fascia costiera compresa tra Laveno-Mombello e Monvalle, interessando quello che si può considerare il gioiello storico-architettonico della provincia di Varese: l'Eremo di Santa Caterina del Sasso.




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I SANTI PATRONI DI LAVENO : FILIPPO E GIACOMO



In quel tempo, disse Gesù a Tommaso: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». 
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». 
Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre. E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò». 

 Gv 14, 6-14


Gli apostoli Filippo e Giacomo “Minore” sono festeggiati lo stesso giorno perché le loro reliquie furono deposte insieme nella Chiesa dei Dodici Apostoli a Roma.

Filippo è conosciuto principalmente attraverso i Vangeli e gli Atti degli Apostoli.
Filippo, come Pietro e Andrea, era originario di Bethsaida, sulle sponde del lago di Tiberiade; fu tra i primi a seguire Gesù  quando questi passò dal suo paese. Gesù disse una parola “Seguimi”. Filippo lo seguì portandosi dietro anche Natanaele al quale egli aveva detto: "Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret". (cfr. Gv 1,43-48).
Più tardi, Filippo fu testimone dei miracoli del Maestro, come quello della moltiplicazione dei pani, quando, sulla montagna, Gesù venne circondato da una folla tale che...dice Filippo: "Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo". (cfr. Gv 6,5-7).
Ma l'insegnamento più grande del Maestro, Filippo lo provocò con una sua domanda, dopo l'ultima Cena, quando :« Gli disse Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre... " » (cfr. Gv 14,8-31)
Parole inaudite, frasi che danno le vertigini e che i discepoli comprenderanno pienamente solo quando lo Spirito Santo scenderà su di loro, nel giorno della Pentecoste. Parole che Filippo si porterà dentro nella sua missione (cfr. At 8,5-40).
La tradizione più comune afferma che Filippo morì crocifisso a Geropoli all’età di 87 anni.
Filippo è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella evangelica (commemorazione liturgica il 3 maggio), dalla Chiesa anglicana (1° maggio), dalla Chiesa ortodossa (14 novembre), dalla Chiesa armena (17 novembre), dalla Chiesa copta (18 novembre).

Giacomo,a differenza di Filippo, non ha quasi parte alcuna nei Vangeli; egli era, pare, figlio d'Alfeo, e forse cugino di Gesù. Viene detto “Minore” per distinguerlo da Giacomo “Maggiore”, fratello di Giovanni Evangelista e figlio di Zebedeo. La sua parte principale ha inizio dopo l'Ascensione di Gesù e dopo la Pentecoste ed è narrata negli Atti degli Apostoli. In effetti, nella prima Chiesa, Giacomo “Minore” godette d'una particolare autorità.
Quando S. Pietro venne miracolosamente liberato dalle catene, nella prigione del Re Erode, corse a darne notizia, per primo all'Apostolo Giacomo.
S. Paolo, dopo la conversione, tornando a Gerusalemme, si diresse subito alla casa di Giacomo, per ricevere istruzioni. E dopo il suo ultimo viaggio in missione, lo stesso Paolo farà la sua precisa relazione proprio nella casa di Giacomo, dove gli altri Apostoli si sono radunati.
Anche gli Ebrei avevano grande ammirazione per la figura di questo Galileo, primo vescovo cristiano di Gerusalemme. Qui fondò una comunità di cristiani, operando sempre numerose conversioni.
Eppure anch'egli cadde vittima della persecuzione o meglio di una specie di sommossa, durante la quale Giacomo venne portato su un punto elevato del Tempio, perché rinnegasse la sua fede in Gesù, dinanzi al popolo.
Alla leale e animosa risposta dell'Apostolo, molti, anche tra gli ebrei, resero Gloria al Signore ma i Farisei, esasperati, fecero precipitare Giacomo dall'alto del Tempio.
Era l'anno 62, e anche fra gli Ebrei, i più saggi e giusti si dolsero di quella uccisione voluta da pochi facinorosi ed eseguita da una folla eccitata.
Giacomo lasciò a monumento sempiterno la Lettera Cattolica nella quale è celebre il suo detto: “la fede senza le opere è morta”.

Significato dei nomi :
Filippo : "che ama i cavalli" (greco)
Giacomo : "che segue Dio" (ebraico).




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mercoledì 29 aprile 2015

LA CHIESA DEI SANTI FILIPPO E GIACOMO A LAVENO

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Chiamata "Chiesa Vecchia" sorge sul luogo di una cappella degli inizi del 300. La navata centrale è del 600, quella laterale e la facciata dell'800. Bello il campanile in stile romanico lombardo. Ai lati del portale le statue dei Santi patroni.

Le prime testimonianze dell’esistenza della Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo di Laveno risalgono al 1315. La sua posizione centrale rispetto all’abitato ha fatto sì che la chiesa venisse utilizzata per battesimi e altri sacramenti, nonostante non fosse la parrocchia principale.

La struttura originaria dell’edificio era piuttosto semplice, composta da una sola navata; nel 1832 venne aggiunta una navata laterale conferendo alla chiesa una pianta asimmetrica, che oggi si presenta con due navate in stile neoclassico.

All’interno la chiesa conserva una statua lignea del Seicento dedicata alla “Madonna del Transito” e una serie di affreschi presenti sulla volta realizzati nel 1907.  Di grande pregio è l’organo, realizzato nel 1825 dal varesino Eugenio Biroldi, utilizzato per ben tre anni consecutivi in occasione della manifestazione musicale “Settimane musicali di Stresa e del Lago Maggiore”.

All’esterno è presente un campanile a punta “alla lombarda”, dotato di una cella campanaria in stile neo-romanico e di una cuspide conica. Secondo recenti lavori di restauro, è stato costruito in diversi stadi: nel 1898 il campanile è stato rialzato e misura all’attuale circa trenta metri.

I santi Filippo e Giacomo sono i patroni del paese e la Festa Patronale ha luogo il 3 maggio.



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LA CHIESA DI SANTA MARIA IN CA' DESERTA A LAVENO



Sorge su un antico luogo di culto, testimoniato fin dal 1081. Anticamente era la chiesa parrocchiale.

Una prima testimonianza scritta del 1081 afferma che la chiesa venne donata in quell’anno al monastero di Cluny. Prima del XV secolo viene eretta a parrocchia ed è luogo di sepoltura di salme, fino al XVII secolo quando il titolo parrocchiale venne conferito alla Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo. Successivamente all’editto napoleonico di Saint Cloud del 1796 riacquisì la sua funzione cimiteriale, unica funzione esclusiva ad oggi. Nel corso del XIX secolo l’occupazione austriaca (1848-’59) la adibì a polveriera.

L’attuale facciata è frutto di una ricostruzione del 1756, in occasione della quale venne però mantenuta la facciata originaria del 1600, come si evince dagli elementi tuttora presenti: ai lati dell’ingresso vi sono due lunette affrescate, una del Seicento raffigurante S. Giovanni Evangelista a destra e una a sinistra che si presume appartenere all’antica e originaria chiesa romanica, date le caratteristiche tipiche del periodo tra il Trecento e il Quattrocento. Sempre all’esterno, sul sagrato antistante la chiesa, vi sono le edicole della Via Crucis contenenti formelle in ceramica realizzate dall’artista Oreste Quattrini nel 1990.

All’interno l’altare maggiore ligneo di epoca barocca conserva la statua dell’Assunta, alla quale la chiesa è dedicata, mentre gli altari laterali sono dedicati a S. Giovanni Battista e al Ss. Crocifisso.



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L' OSSARIO DELLA TORRE A LAVENO

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Francesco Pullé acquistò il Colle di Castello di Laveno con l'intento di dare onorata sepoltura ai resti dispersi dei soldati, garibaldini e austriaci, che persero la vita il 30 maggio 1859 durante il tentativo di presa dei forti da parte dei Cacciatori delle Alpi. «Sacrificando a tal fine ogni altro genere di coltura, il prof. Pullé dispose che vi si sostituisse una piantagione di conifere ed altre essenze boschive: 36.000 di numero, per le quali furono preparate altrettante buche, fosse e vivai. Per tal modo il terreno, a distanza di un metro e mezzo in tutti i sensi, veniva crivellato e perlustrato». Fece erigere inoltre al centro del forte austriaco una torre commemorativa e poco distante un monumento ossario dove furono raccolti i resti rinvenuti durante i lavori di ricerca. Il monumento fu sostituito con una nuova tomba in occasione del primo centenario del fatto d'armi di Laveno. Sulla torre, per molti anni sede di un museo di cimeli garibaldini, fece apporre due lapidi commemorative .

Sul monte Castello, da cui si potevano controllare il Sempione e le valli del Gottardo, importante via di transito da e per la Svizzera, i resti di un’antica fortezza diventarono un fortino accessibile da una strada ripida e sorvegliatissima: il Forte Castello.
I militari ricostruirono anche parte della cinta muraria usando solo sassi e rocce.
Presso la torre, un ossario testimonia le battaglie che i Cacciatori delle Alpi guidati da Garibaldi sostennero, nel 1859, contro gli Austriaci.

Il Forte Castello era collegato mediante telegrafo al fortino di Cerro che, a pianta circolare, era formato da due casermette sovrapposte e da un terrazzo connessi da una scala elicoidale: oggi è una residenza privata di gran pregio.

Del Forte Nord non è rimasto nulla, ma nel 1854 poteva ospitare fino a 25 soldati. Unito alla caserma da una strada carrabile, dominava i rami del lago. La struttura era tutta in mattoni, con un rivestimento esterno in pietra grezza. La sua denominazione originale Blockhaus (costruzione a blocchi) testimonia l’assemblaggio di figure geometriche della sua architettura: uno spazio semicircolare, uno rettangolare e uno rettangolare combinato.

Nell’arsenale, infine, proprio di fronte alla rada di Laveno, stanziava la flotta austriaca. Si trattava di un caseggiato a un solo piano suddiviso in sei locali, tra cui un magazzino, un laboratorio, una cucina-dormitorio e un ufficio.



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