La compagine partigiana del colonnello Croce, prevalentemente costituita da soldati sorpresi dall’armistizio e da numerosi prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento dopo l’8 settembre, risulta assai composita per formazione culturale, per appartenenza politica (vi sono comunisti, socialisti, democristiani, monarchici ed anche un anarchico), per estrazione sociale, per convinzioni religiose, eppure il comune traguardo elimina ogni differenza. La diversità è motivo di unione e non di divisione perché dalla diversità questi ragazzi sanno estrapolare incentivi di crescita.
La militanza nell’esercito che aggrega questi uomini è confermata nella dicitura del nome “Esercito italiano – Gruppo 5 Giornate” a voler sottolineare (manca significativamente nella dicitura Regio Esercito) che nel disfacimento generale delle forze armate italiane conseguente all’armistizio, parte di questo esercito ha saputo e voluto schierarsi contro imposizioni e oppressioni per ricostituire una nazione garante delle libertà e dei diritti dei cittadini.
Parte dai milanesi la decisione di scegliere il nome di Gruppo Cinque Giornate. E’ chiaro il richiamo alle Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo 1848) nel corso delle quali intellettuali e popolo scacciarono gli austriaci. Questo legame dei milanesi con quel glorioso episodio del marzo 1848 è molto forte e sentito. Lo dimostra un fatto accaduto nel capoluogo lombardo subito dopo la proclamazione dell’armistizio. Il 9 settembre 1943 si costituisce a Milano la Guardia nazionale che raccoglie l’adesione di operai, impiegati, studenti, soldati sbandati, per difendere la città dai tedeschi e dai fascisti. “Facciamo di tutto – sostenevano i più decisi tra cui l’azionista Poldo Gasparotto che verrà trucidato dai tedeschi a Fossoli il 22 giugno 1944 – per impedire che i tedeschi occupino la città senza colpo ferire” E l’appello si concludeva con questa frase: “la Milano delle Cinque Giornate insorga, si salvi l’onore della città”. E’ molto significativo questo rapporto tra Risorgimento e Resistenza che si è voluto stabilire con la denominazione di Gruppo Cinque Giornate. La Resistenza chiamata non a caso, Secondo Risorgimento ha uno stretto legame con il Risorgimento, nelle dichiarazioni programmatiche, negli stessi nomi delle formazioni partigiane, nello spirito che animava i militari italiani che si opposero al nazifascismo. E il richiamo all’eredità risorgimentale fu componente importante della piattaforma ideale della Resistenza.
Essa quindi va strettamente collegata al Risorgimento, non soltanto perché bisognava insorgere per risorgere, come era proclamato nel motto di Giustizia e Libertà, ma perché essa, come Secondo Risorgimento, ha consentito di riunificare l’Italia. Dopo essere stata per 20 mesi tagliata in due, il 25 aprile 1945 l'Italia si riunifica, nella libertà e nell'indipendenza. Se ciò non fosse accaduto, la nostra nazione sarebbe scomparsa dalla scena della storia, su cui si era finalmente affacciata come moderno Stato unitario nel 1861, con il compimento del moto risorgimentale.
Il partigiano Giorgio Bocca che ci ha lasciato il 25 dicembre scorso,osserva: “Che cos’è l’Unità d’Italia ? Quelli della mia generazione lo hanno capito nel settembre 1943 quando Badoglio chiese l’armistizio agli alleati anglo-americani. Mai l’Italia si era trovata in condizioni così disastrose: al Nord i tedeschi di Hitler pronti a disarmare il nostro esercito, le nostre armate di occupazione della Francia meridionale e della Jugoslavia che scendevano in rotta dalle Alpi, il re e la sua corte in fuga a Brindisi, milioni di soldati deportati nei lager tedeschi, le province del Sud affamate, quelle del Nord nelle mani del peggior fascismo. Eppure mai come in quelle ore amare e disperate la sopravvivenza dell’Italia come nazione unita ci pareva indiscutibile.
Tutto era incerto, tutto disfatto e in rovina: eppure l’idea che fosse finita l’Italia come una nazione unita era assurda ai nostri occhi.”
Anche gli uomini del gruppo Cinque Giornate sentono fortemente questi valori. Quando il colonnello Croce, nell’imminenza dell’attacco dei nazifascisti fa schierare i suoi ragazzi sul piazzale del Forte e invita chi vuole ad andarsene, ha una risposta immediata dai suoi uomini che intonano tutti insieme l’Inno di Mameli.
E quando, dopo la ritirata, il Gruppo Cinque Giornate raggiunge il confine svizzero, nella località Ponte Tresa, il colonnello Croce giunto a metà ponte invita i suoi uomini a rivolgersi verso la patria che stanno lasciando, per l’ultimo saluto.
Il monte San Martino accoglie tra le sue selve i primi popoli migratori offrendo loro rifugio e la possibilità di praticare attività legate al mondo agricolo-pastorale e attrae verso la sua sommità, luogo ideale per la meditazione e per il culto, con la magnificenza delle prospettive e l’incanto di sconosciute atmosfere, le generazioni che da allora si sono susseguite nel tempo.
Il modo di vivere e di operare delle sue genti non subisce grosse modificazioni nei secoli pur essendo questo comprensorio partecipe delle vicissitudini storiche italiane e pur condividendo le sorti politiche ed economiche toccate alla Valcuvia.
Il primo intervento significativo, attuato in questo ambito territoriale dall’attività umana, risulta essere l’edificazione negli anni 1915-1918 di fortificazioni militari e di un sistema viario facenti parte della linea difensiva, attualmente nota come Linea Cadorna, costruita a ridosso del confine svizzero per timore di una invasione della Lombardia da parte degli eserciti austro–germanici attraverso la neutrale Svizzera. Il Genio Militare, con l’impiego di manovalanza militare e civile, costruisce due osservatori, uno sotto l’Oratorio di San Martino e l’altro per artiglieria tra la vetta e la sella di Vallalta, una caserma, una batteria in caverna unitamente ad un labirinto di trincee e camminamenti in località Vallalta. Venendo meno, con il tempo, l’interesse militare, le fortificazioni vengono abbandonate, salvo utilizzarle di quando in quando per le esercitazioni dell’esercito.
La caserma, invece viene destinata ad altri usi: dapprima diventa una locanda e poi una casa di soggiorno estivo dell’Istituto Sordomute Povere di Milano.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo l’8 settembre 1943, nelle fortificazioni del San Martino si costituì una delle prime formazioni partigiane lombarde agli ordini del Ten. Col. Carlo Croce.
Il percorso della formazione “Cinque Giornate “ iniziò l’8 settembre 1943 a Portovaltravaglia. I fatti accaduti in quei giorni nel Presidio, di cui si avevano frammentarie notizie, sono stati rievocati dal tenente Germano Bodo, aiutante maggiore del col. Carlo Croce in una memoria, stesa nel 1968, che avrebbe dovuto completare la testimonianza del Capitano Enrico Campodonico pubblicata nel 1949 e riproposta a cura della Provincia di Varese nel 1980.
La notizia dell’armistizio giunse nel Presidio, collocato nella requisita Vetreria Lucchini, la sera dell’8 settembre attraverso alcuni ufficiali che avevano avuto modo di ascoltare, in un albergo di Portovaltravaglia via radio, il comunicato. Lo sconcerto fu grande allorché si constatò che nessun comando superiore si era premurato di trasmetterlo telefonicamente alle varie caserme. Il ten.col Croce, ufficiale di complemento dei Bersaglieri, comandante di due battaglioni di reclute dell’aviazione da addestrare alla difesa dei campi di aviazione e di una trentina di soldati del 7° Reggimento Fanteria, si rese immediatamente conto che il proclama di Badoglio avrebbe avuto come conseguenza l’immediata occupazione tedesca del territorio italiano. L’arrivo dei tedeschi riportò alla mente del Col.Croce la drammatica esperienza vissuta in Russia dove, avendo conosciuto l’ efferatezza nazista-tremo di sdegno per quel che vedo e quel che sento- maturò la determinazione di schierarsi contro un nemico che definiva un barbaro ignobile.
La sua prima decisione fu quella di presidiare, con i soldati, tutte le vie di accesso alla zona di Portovaltravaglia e di prendere contatti con i reparti militari dislocati a Luino e Laveno. La riunione del 9 settembre al Comando di Varese si concluse con nulla di fatto. Il Presidio non disponeva né di armi né di munizioni, per cui bisognava venirne in possesso il più presto possibile. Da Varese riuscì ad ottenere 10.000 colpi sciolti per fucile e si procurò alcune armi e qualche automezzo attraverso le requisizioni effettuate ai militari di passaggio che stavano fuggendo in Svizzera. Fino al 10 settembre sera i soldati rimasero compatti con il loro comandante poi, a causa delle sollecitazioni esterne, della visione di sbandati in fuga verso la Confederazione, delle pressioni dei parenti arrivati dalle più disparate destinazioni, iniziarono a disertare. L’impossibilità di affrontare un nemico che si sapeva agguerrito e ben armato indusse il colonnello a prendere una decisione: trasferirsi sui monti di Dumenza per poter da dominare il sottostante territorio e, in caso di estremo pericolo, per avere la possibilità di sconfinare in Svizzera.
Non potendo contare sul trasporto con battello, attraverso il lago, di uomini e mezzi, Croce decise di partire a piedi senza darne preavviso al Comando di Varese che, venutone casualmente a conoscenza dopo un contatto telefonico con il Presidio, ordinò l’immediato rientro, pena severe sanzioni. Questo imprevisto causò il totale disorientamento dei soldati ed i reparti incominciarono a sfaldarsi. La notte tra l’11 e il 12 settembre un battaglione di bersaglieri ciclisti, in fuga verso il confine, abbandonò nei pressi del Presidio tutto ciò che aveva in dotazione: biciclette, moschetti e nove mitragliatrici Breda.
La mattina del 12 Croce, con un centinaio di uomini e con tutto il materiale che riuscì a trasportare, si trasferì a Roggiano e si acquartierò nelle postazioni militari costruite durante la Prima Guerra Mondiale in prossimità di Cascina Fiorini. In questo luogo si fermò per circa una settimana, nell’attesa di trovare una posizione idonea e difendibile. Incursioni nelle caserme abbandonate di Luino e Laveno consentirono un buon rifornimento di armi, munizioni e viveri che, caricati su autocarri militari e automezzi civili, furono trasferiti, il 19 settembre, a Vallalta di San Martino in Villa S.Giuseppe, ex Caserma “Luigi Cadorna”, residenza estiva dell’Istituto Sordomute di Milano messa a disposizione degli undici militari rimasti: ten. col. Carlo Croce, ten.Germano Bodo, sottoten. Franco Rana, sottoten. Dino Cappellaro e sette soldati.
Il primo impegno fu dotarsi di un nome e di un motto: <<Esercito Italiano-Gruppo Militare “Cinque Giornate” Monte San Martino di Vallata Varese >> con “Non si è posto fango sul nostro volto.” Nei giorni successivi si apportarono miglioramenti alla caserma, si rese impraticabile, con la realizzazione di un fossato e di uno sbarramento, l’imbocco della strada per Mesenzana, si ripristinarono le postazioni in caverna, si realizzarono nuove postazioni all’aperto per mitragliatrici e si avviarono tutte quelle attività richieste per la costituzione di una formazione militare nonché operazioni volte al recupero di materiale bellico e soprattutto di viveri. Il gruppo divenne ogni giorno più numeroso per il continuo affluire di militari italiani e di soldati dei comandi alleati fuggiti dai campi di prigionia fino a raggiungere, ad ottobre, la consistenza di 150 unità. A questo punto fu necessario suddividere il gruppo in tre compagnie di circa 50 uomini ciascuna agli ordini di un ufficiale: il ten. Carlo Hauss per la Compagnia Comando da situarsi presso il “Forte”, il ten. Giorgio Wabre per la Prima Compagnia nelle gallerie basse e il capitano Enrico Campodonico per la Seconda Compagnia nella Villa S.Giuseppe. Furono, inoltre, nominati aiutante maggiore del colonnello Croce il ten.Germano Bodo e cappellano della formazione don Mario Limonta.Gli uomini del San Martino furono validamente sostenuti dai membri del Comitato Nazionale di Liberazione di Varese che condivisero con loro non solo le idealità, ma anche la concreta volontà di combattere l’occupante e l’oppressore e le loro ideologie. Il sogno di tutti era fare dell’Italia un paese libero e democratico, degno di rispetto e di considerazione. Tra loro ricordiamo Antonio De Bortoli, Silvio Bracchetti, Luigi Ronza, Giacinto De Grandi. Importante si rivelò anche la collaborazione di buona parte del clero locale e della popolazione dei paesi adiacenti al San Martino.
L’azione partigiana che sembrava, inizialmente, non suscitare nei tedeschi eccessive preoccupazioni, indusse i nazifascisti ad avviare da subito una capillare rete di spionaggio che esplicò la propria azione di controllo attraverso sedicenti partigiani che si presentavano al colonnello Giustizia, nome di battaglia del col. Croce, per essere annessi al gruppo e che, dopo qualche giorno, sparivano o anche attraverso le persone che abitavano nei luoghi di frequentazione partigiana, disposte a collaborare per condivisione dell’ideologia o, più spesso, per un riscontro economico. Ai primi di novembre i comandi tedeschi dimostrarono di possedere precise informazioni circa i componenti del gruppo, le loro abitudini, la provenienza dei rifornimenti, la dotazione di armi, l’ubicazione delle fortificazioni e gli appostamenti delle sentinelle. Non furono le azioni militari a Mesenzana e al Casone, tra Cassano Valcuvia e Rancio, non autorizzate dal col. Croce che causarono morti e feriti tra i tedeschi, a scatenare la repressione nazifascista, ma il timore che l’avvicinarsi dell’inverno e l’ ingrossarsi delle fila partigiane avrebbero potuto costituire un serio pericolo, soprattutto in vista dell’arrivo degli eserciti anglo-americani.
La consapevolezza che lo scontro col nemico sarebbe stato oramai inevitabile rese il colonnello Croce ancor più determinato nel rifiutare i suggerimenti del C.N.L di Varese di abbandono delle posizioni ritenute poco difendibili e il patteggiamento con gli emissari fascisti, messaggeri di proposte di resa. Una sola fu la sua risposta: <<Deporremo le armi solo quando i tedeschi avranno lasciato l’Italia e l’Italia sarà liberata dal fascismo>>.
I tedeschi, che dal 16 settembre presidiavano con la Guardia di Frontiera e con reparti delle SS il territorio dalla sponda orientale del Lago Maggiore allo Stelvio, con il compito di arrestare i soldati fuggiaschi e ostacolare la formazione di bande ribelli, andarono consolidando nel Varesotto la loro presenza con l’arrivo, il primo novembre, di una compagnia di Polizia di montagna. Il 4 e l’11 novembre parteciparono alle riunioni con il Prefetto di Varese per preparare il progetto di lotta contro i partigiani del San Martino.
Il 13 Novembre i giornali svizzeri comunicarono che, attraverso la radio tedesca, era stato diramato lo stato di assedio in tutta la Lombardia e che gli esercizi pubblici, ad eccezione dei ristoranti, sarebbero rimasti chiusi fino al 21 novembre. Furono sospese anche le pubblicazioni dei giornali. Con l’insediamento a Rancio Valcuvia il 14 novembre 1943 del comando tedesco del 15° Reggimento di Polizia agli ordini del ten. col. Von Braunschweig e l’arrivo di uomini della Guardia di Frontiera, di pattuglie di artiglieri, della Milizia fascista e dei Carabinieri, si diede inizio alla feroce repressione partigiana che ebbe il suo epilogo nella battaglia del 15 novembre. Nei paesi posti alle pendici della montagna furono rastrellati, il 14 novembre, tutti gli uomini dai 15 ai 65 anni e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese. A Rancio i tedeschi concentrarono un numero considerevole di uomini, considerati partigiani o collaboratori dei partigiani, che subiranno durissimi interrogatori unitamente a sevizie e torture. La raccapricciante testimonianza delle tre donne, Augusta Lazzarini, Redegonda Lazzarini Boldrini, Anna Vagliani, rastrellate all’alpe di San Michele e costrette a ripulire i locali delle torture, fece comprendere quanto tremenda e bestiale fu la ferocia nazista. Tutte le persone rastrellate vennero, poi, liberate nelle giornate del 17 e 18 novembre.
A gruppi mobili dei partigiani Croce affidò il compito di disturbare l’arrivo delle pattuglie nemiche e alla compagine di 10 uomini, agli ordini del ten. Alfio Manciagli, appostata sulla vetta al San Martino, di rallentare l’avanzata delle formazioni nemiche provenienti da Arcumeggia e dirette verso le postazioni di Vallalta. Gli uomini della Seconda Compagnia posizionarono le loro armi attorno alla ex caserma in direzione della strada Duno–San Martino, quelli della Compagnia Comando a difesa del “Forte” e dell’accesso da San Michele e quelli della Prima Compagnia a protezione della strada per Mesenzana. L’aviazione tedesca, con un fitto bombardamento, attuò un’incisiva azione distruttiva, rendendo la battaglia ancor più drammatica. A mezzogiorno le forze nemiche, dopo aver soverchiato i partigiani della vetta e averne fatti prigionieri sei, attaccò il resto della formazione partigiana con ogni tipo di armamento. Gli uomini della Seconda Compagnia, a corto di munizioni, furono costretti ad asserragliarsi nel Forte.
Parecchi ragazzi della Prima Compagnia, terrorizzati dalla ferocia della lotta, abbandonarono le loro postazioni in cerca di una via di fuga. Alcuni furono catturati dai tedeschi e fucilati, con tutti gli altri partigiani fatti prigionieri nel corso della battaglia, il giorno successivo, dopo interrogatori e sevizie di ogni genere.L’arrivo dell’oscurità costrinse i tedeschi a sospendere ogni azione, permettendo così ai partigiani di ricompattarsi e di organizzare la fuga verso la Svizzera che essi raggiunsero all’alba del 16 novembre.
I tedeschi, prima di partire per altre destinazioni, rasero al suolo l’ex caserma danneggiata dai bombardamenti e, per ragioni inspiegabili, la chiesetta di S.Martino
Un certo numero di partigiani, tra cui anche il col. Carlo Croce, nei mesi successivi rientrò in Italia per continuare a prendere parte alla lotta di liberazione Alcuni, però, in seguito a delazioni, furono arrestati e deportati nei campi di sterminio. Il col. Croce, dopo un primo tentativo fallito, rientrò in Italia clandestinamente il 13 luglio 1944. Intercettato all’Alpe del Painale, nelle vicinanze di Sondrio, fu catturato dalla Milizia Confinaria. Durante il breve scontro a fuoco il colonnello riportò gravi ferite ad un braccio che gli fu amputato all’ospedale di Sondrio. Trasferito all’ospedale di Bergamo, presso il comando tedesco, morì il 24 luglio per le torture subite durante gli interrogatori effettuati dalle SS tedesche.
La battaglia del San Martino che viene ricordata da tutti gli storici come uno dei primi esempi di lotta partigiana, resta un episodio di grande significato morale e ideale di cui farne memoria.
Scomparsi gli ultimi testimoni della “Linea Cadorna” che quasi un secolo or sono contribuirono a fortificare queste zone di frontiera con la Svizzera, rarefatti ormai anche i protagonisti di quella che fu una delle prime battaglie partigiane in Italia, è proprio ai cittadini di domani che va affidato il compito di conservare le memorie scolpite su questo monte unitamente al ricco patrimonio ambientale.
La Provincia di Varese, proprio per far conoscere ai giovani il territorio in cui vivono attraverso la storia, le risorse e le potenzialità, di concerto con la Comunità Montana della Valcuvia ha organizzato nel corso dell’anno gite guidate sul San Martino per i ragazzi delle scuole elementari, medie e superiori.
L’8 settembre 1943 il Col. Croce si trova a Porto Valtravaglia, sul lago Maggiore, al comando di due battaglioni di reclute dell’aviazione delle classi 1923-1924.
A tali reclute viene impartito l’addestramento al combattimento di fanteria essendo tali allievi, a corso ultimato, destinati alla difesa a terra dei campi di aviazione.
Si tratta di un migliaio di reclute con i loro ufficiali, tutti di prima nomina. L’addestramento è affidato ad ufficiali e sottufficiali dell’8° fanteria al comando, come è stato accennato, del tenente colonnello Croce, ufficiale di complemento dei bersaglieri.
Si tratta in totale di oltre 1.000 uomini tra avieri e fanti e 35 ufficiali, tutti subalterni ad eccezione, naturalmente, del Col. Croce. Io, come sottotenente dell’8° fanteria, ero stato nominato ufficiale di vettovagliamento.
La dichiarazione della firma dell’armistizio sorprende il Col.Croce alla mensa ufficiali. Egli si stava già innervosendo per il gran numero di ufficiali in ritardo - cosa che non poteva soffrire, né tollerare- quando entrano due di essi con la notizia del proclama del maresciallo Badoglio.
Per quanto tutti si aspettassero, visto l’andamento della guerra in generale e sul territorio italiano in particolare, qualche decisione ad alto livello, la dichiarazione di Badoglio ci emoziona.
Poiché la versione del testo di tale dichiarazione non è chiara, il Colonnello Croce manda alcuni di noi a prendere notizie ad un albergo al centro del paese.
Alla mensa ufficiali, infatti, posta in un alberghetto di Porto Valtravaglia, a pochi passi dall’accantonamento dei soldati, non c’è neppure un apparecchio radio, cosa che oggi appare incredibile.
La notizia della resa è vera; la radio ripete continuamente, ad intervalli, il comunicato di Badoglio.
Due cose sono chiare: non siamo più alleati dei tedeschi e, se veniamo attaccati, possiamo e dobbiamo resistere.
Il Col. Croce non perde tempo perché non ha dubbi sulle conseguenze dell’armistizio.
Al rapporto ufficiali, convocato immediatamente, espone le sue idee: i tedeschi, passato il primo periodo di smarrimento, ammesso che siano veramente sorpresi dell’atteggiamento del governo italiano, procederanno all’occupazione di tutto il paese e al disarmo dei militari.
Può darsi che gli alleati, negli accordi presi alla firma dell’armistizio, procedano a sbarchi nell’Italia Centrale o in Liguria, obbligando i tedeschi a ritirarsi verso la pianura padana o, addirittura, verso le Alpi.
Comunque in attesa di ordini che, purtroppo, non verranno mai, il Colonnello Croce, decide di mettere in stato di difesa tutta la zona di Porto Valtravaglia.
I soldati erano già stati consegnati nell’accantonamento.
Si formano su tutte le provenienze e su tutte le strade per Porto Valtravaglia dei posti di blocco: le strade vengono sbarrate con ostacoli mobili e presidiate da soldati.
Purtroppo i nostri 1.000 fucilieri non hanno munizioni; gli ufficiali dell’aviazione sono senza pistole e non abbiamo, inutile dirlo, armi di reparto.
Il 9 settembre il Colonnello vuole ampliare i dispositivi di difesa e collegarsi con i reparti militari dei centri vicini. Vengono stabiliti collegamenti con Laveno dove esiste un nucleo antiparacadutisti di una quarantina di bersaglieri, comandati da un tenente, con Luino dove esiste, oltre ad uffici militari, un grosso distaccamento della Guardia di Finanza. Nessuno è in grado di darci munizioni.
Alla sera il Col. Croce è stato convocato a Varese dove vi è il comando territoriale di zona. Lo accompagniamo in macchina con ufficiali e soldati di scorta.
Il Col. Bagna, comandante la zona di Varese, ha riunito tutti i comandanti dei reparti a lui dipendenti. Ricordo a memoria i bersaglieri di Boccaglio, un battaglione del Savoia Cavalleria e gli addetti agli stabilimenti ed ai magazzini militari della zona di Belgirate.
Il Col. Bagna non ha ricevuto alcuna istruzione e non ha idee né piani particolari; in attesa ci raccomanda di non lasciare, senza suo ordine, gli accantonamenti nei quali ci troviamo.
I Comandanti intervenuti insistono per avere delle istruzioni più complete o di essere autorizzati a decidere individualmente in relazione alle situazioni che si possono presentare ed in casi di emergenza.
Il Col. Croce fa presente di avere più di mille uomini senza munizioni e senza armi di reparto.
Il Col. Bagna ribadisce il suo ordine di non prendere iniziative di nessun genere, di restare nei posti assegnati e, per quanto riguarda le munizioni, ci informa di essere in attesa di una spedizione da parte della Guardia di Frontiera di Como.
Spera che tali munizioni siano a Varese il giorno dopo e ci invita ad andare a prelevarle.
Il 10 SETTEMBRE il Col. Croce perfeziona ulteriormente il dispositivo di sicurezza intorno a Porto Valtravaglia anche perché le voci di arrivo di militari si fanno più insistenti. Si ha conferma che i tedeschi disarmano i nostri reparti e li fanno prigionieri.
Poiché ci troviamo sulla direttiva d’entrata nella Svizzera, cominciano ad arrivare i primi sbandati, spesso con macchine dell’esercito. I nostri posti di blocco li disarmano e li avviano all’accantonamento; poi, man mano che i gruppi si fanno più numerosi, ci accontentiamo di disarmarli.
Nella mattinata vado a Varese con un camion, requisito a due soldati, per il ritiro delle munizioni. Lungo la strada incrocio i gruppi di militari sbandati diretti in Svizzera.
La popolazione civile è tutta fuori nelle strade per assistere tali militari e tutti hanno una grande voglia di piangere.
A Varese le solite formalità burocratiche: il “buono” mi viene concesso al comando di zona (posto alla periferia di Varese- Casbeno) per cui arrivo al Distretto Militare di Varese, al centro città, mentre l’ufficiale addetto ai magazzini è andato a casa.
L’ufficiale, in parole, “segue ancora l’orario estivo”. Non lo rivedo che a pomeriggio inoltrato; mi vista il “buono” e mi fa dare 10.000 colpi per fucili. I colpi sono sciolti, quindi, i nostri soldati dovranno caricare le armi introducendo una cartuccia alla volta.
Nonostante la mia insistenza non riesco a farmi dare due fucili mitragliatori giacenti in magazzino che ci sarebbero utili, ma non ho tempo di tornare a Casbeno al comando di zona per avere un altro “buono” prima che l’ufficiale cessi il suo orario, in tempo per trovare ancora in servizio l’ufficiale in magazzino.
Ritorno a Porto Valtravaglia con le munizioni.
A Porto Valtravaglia nella giornata del 10 settembre sono affluiti soldati sbandati da tutte le parti della Lombardia ed alcuni anche da altre regioni. Sono diretti in Svizzera dove vengono disarmati ed internati.
C’è attorno a noi una pesante atmosfera di disfatta e di vero e proprio panico.
A sera arriva da Brescia una colonna di automezzi frigoriferi con militari, comandati da un colonnello.
Sino al 10 settembre sera i soldati e gli ufficiali del Col. Croce sono rimasti compatti con il loro comandante, ma è evidente che se non si decide di fare qualcosa , cominceremo ad avere anche noi dei casi di diserzione.
Ad aumentare la confusione sono arrivati parenti, mamme dei militari con vestiti borghesi, che fanno di tutto per mettersi in contatto con i nostri soldati e convincerli a fuggire.
Il Col. Croce raduna nuovamente gli ufficiali a rapporto. Da Varese non arrivano istruzioni e le notizie in merito all’avvicinarsi dei tedeschi si fanno più precise, più insistenti, più pressanti.
Nonostante l’arrivo dei 10.000 colpi, è evidente non saremmo in grado di fermare una puntata dei tedeschi contro Porto Valtravaglia né potremmo pensare di resistere negli accantonamenti che sono dislocati in modo indifendibile sulla riva del lago, sotto il livello stradale: si tratta infatti di una vetreria inattiva per mancanza di combustibile. Bisogna quindi cambiare dislocazione e il Col. Croce pensa di portarsi sopra i monti a nord di Luino- Maccagno.
Tale località in territorio italiano entra profondamente nel territorio svizzero per cui forma come un triangolo con il vertice rivolto in basso: uno dei cateti è dato dal lago Maggiore, la base del triangolo e l’altro cateto confinano con la Svizzera. Noi, portando i nostri due battaglioni in tale zona, ci troveremmo in posizione dominante rispetto agli eventuali attaccanti e dovremmo difendere solo l’ingresso verso Luino largo pochi chilometri. In caso di necessità potremmo sempre sconfinare in Svizzera.
Si tratta ora di decidere se avvertire subito il Comando di Varese o se avvertirlo ad operazione conclusa.
Il Col. Croce, d’accordo con l’altro Colonnello, quello arrivato da Brescia, decide di agire e poi di riferire.
Nelle prime ore dell'11 settembre lo spostamento dei nostri soldati e dei mezzi di trasporto ha inizio che è ancora notte. Purtroppo l’unico battello ancora in funzione sul lago Maggiore, che il Colonnello ha mandato a requisire, non si è ancora visto.Per non perdere tempo il Col. Croce dà ordine che le compagnie si mettano in moto a piedi verso Luino.
Io resto con un gruppo all’accantonamento per caricare sugli automezzi- frigoriferi le razioni di viveri che il Col.Croce ha previsto per 1.000 uomini per 90 giorni, circa 100.000 razioni.
Mentre i primi reparti sono certamente arrivati a Luino e noi rimasti agli accantonamenti stiamo per terminare il carico degli ultimi automezzi, arriva una chiamata telefonica per il nostro colonnello.
L’ufficiale di picchetto, ingenuamente, informa Varese del trasferimento in corso.
Il Comandante della zona di Varese, Col. Bagna, dà immediatamente ordine di raggiungere il Col. Croce e di informarlo che se non fosse tornato subito con tutti i suoi uomini a Porto Valtravaglia “lo avrebbe mandato sotto processo”.
Il mio collega è un giovane ufficiale di prima nomina in servizio permanente effettivo e non vuole ascoltare il mio consiglio di lasciare passare un po’ di tempo dal “famoso contrordine” prima di avvertire il Col. Croce.
Nel pomeriggio il Col. Croce dà ordine di tornare ed è, come era prevedibile, uno sfacelo. Sotto l’incalzare di sempre maggiori ondate di fuggiaschi e per il disorientamento provocato dal cambio di programma, i nostri reparti cominciano a sfaldarsi e, nonostante la nostra fermezza e le nostre minacce, riusciamo a riportare agli accantonamenti poco più della metà degli effettivi.
Il Col. Croce fa numerosi tentativi di parlare con il Comandante di Varese ma senza risultati: sembrano scomparsi tutti.
Verso sera ad aumentare la nostra confusione arriva a Porto Valtravaglia un battaglione di bersaglieri ciclisti o almeno quello che restava del battaglione, alcune centinaia di uomini e pochi ufficiali.
Nella notte fra l’11 e il 12 settembre i bersaglieri scompaiono tutti, compresi gli ufficiali, lasciandoci centinaia di biciclette e di moschetti e nove mitragliatrici Breda, tre ancora imballate, con le munizioni.
Anche il Comandante degli automezzi di Brescia ci abbandona e si ritira con i suoi uomini ed i mezzi di trasporto verso Cuveglio, lungo la strada Luino-Cittiglio dove verrà attaccato dai tedeschi alla fine di settembre. Dopo un’accesa discussione. il Col. Croce riesce a farsi lasciare due automezzi-frigoriferi.
Il 12 settembre non abbiamo dormito tutta la notte e ci siamo prodigati per impedire lo sfaldamento completo dei nostri reparti. Purtroppo se ne sono andati anche molti ufficiali. Altri restano a Porto Valtravaglia, ma si sono già messi in borghese.
Giunge la notizia della liberazione di Mussolini, ma non giunge, purtroppo, nessuna notizia degli sbarchi degli alleati dopo quello di Salerno.
Il Col.Croce prevede che le cose andranno ancora per le lunghe e decide nuovamente di lasciare Porto Valtravaglia.
Non abbiamo più abbastanza uomini per andare a Luino e ci spostiamo, quindi, a Roggiano, un paese a mezza montagna. Siamo ridotti di numero, circa 100 tra ufficiali , sottufficiali e soldati con pochi automezzi. Ci fermiamo a Roggiano per circa una settimana e siamo ricoverati in alcune rimesse militari costruite durante la guerra 1915-1918.
Durante la notte ci avvertono a Roggiano che un automezzo tedesco ha fatto la sua apparizione a Porto Valtravaglia. Si è fermato alla periferia vicino al nostro vecchio alloggiamento. Scendiamo da Roggiano con un autocarro, ma dei tedeschi non vi è alcuna traccia: evidentemente se ne sono già andati.
Durante la settimana passata a Roggiano le nostre fila si assottigliano sempre più. Molti ci lasciano ed alcuni è chiaro che restano solo perché siamo in grado di garantire loro un pasto caldo ogni giorno, ma altrettanto evidente che in caso di necessità non ci sarebbero di alcun aiuto.
Il Col.Croce cerca, con diversi sopraluoghi, di trovare una nuova posizione che sia almeno difendibile e il 18 settembre, alfine riesce a trovarla.
La mattina del 19 settembre partiamo alle prime luci dell’alba e nessuno conosce la destinazione. Siamo tutti sugli autocarri e su alcuni automezzi civili: abbiamo caricato le mitragliatrici dei bersaglieri, un centinaio di fucili, tutte le munizioni, le bombe a mano che siamo riusciti a procurarci nelle caserme abbandonate di Luino e Laveno e viveri sino al massimo della capacità di portata degli automezzi disponibili.
Il percorso per raggiungere la nuova destinazione è abbastanza breve, ma l’ultima parte è difficoltosa trattandosi di una vecchia strada militare della prima guerra militare, tutta in salita, che a causa del lunghi anni di disuso, in molti punti è completamente franata. Per sera arriviamo a destinazione sul Monte S. Martino. E’ un monte che sovrasta la Valcuvia ed al suo culmine supera di poco i 1.000 metri.
Durante la prima guerra mondiale il Monte S. Martino venne predisposto per far fronte ad un’ eventuale irruzione tedesca attraverso la vicina Svizzera.
A Vallalta di S. Martino, 100 metri sotto la vetta, vi sono delle postazioni in caverne per pezzi grossi di artiglieria: sono 4 grandi caverne per i pezzi collegati tra di loro, sempre in galleria, con i depositi per le munizioni ed i viveri e con altre caverne minori per il comando e per i servizi.
A pochi metri dall’ingresso delle postazioni per artiglieria, vi è quello di postazioni per mitraglieri e fucilieri.
Tali postazioni, in cascata, dominano tutta la vallata verso i paesi di Mesenzana a sinistra, Cassano al centro e Duno sulla destra. Sono 13 postazioni alle quali si accede con una galleria centrale comune. Tutti i collegamenti possono quindi avvenire al coperto.
Alle spalle di Vallalta vi è l’osservatorio per artiglieria ed un altro osservatorio è sul culmine del Monte S.Martino, vicino ad una chiesetta.
All’ingresso di Vallalta vi è una casermetta che può contenere un centinaio di militari. E’ una vera fortezza anche se un po’ malandata, ma è riattabile.
Dopo una settimana trascorsa a Roggiano in una posizione precarissima e praticamente in promiscuità con la popolazione civile, con i villeggianti e gli sfollati, ci sentiamo finalmente tranquilli anche se siamo ridotti ad una trentina.
La posizione come ho accennato, è fortissima. La strada proveniente da Mesenzana è in cattive condizioni e noi contribuiamo a renderla impraticabile scavando un fossato e costruendo uno sbarramento; l’altra proveniente da Duno non è che una mulattiera ed è percorribile solo con automobili di piccola cilindrata.
I giorni che seguono il 19 vedono la nostra sistemazione nella casermetta e, purtroppo, la scomparsa di tutti gli incerti.
Restiamo in 11: il Col. Croce, io, il sottotenente Rana degli ufficiali di aviazione, il sottotenente di fanteria Cappellaro, unitosi a noi a Porto Valtravaglia dove si trovava in licenza e 7 soldati, tra i quali mio fratello Gianni sbandatosi a Rivoli Torinese, dove si trovava per il servizio di leva.
Per alcuni giorni siamo demoralizzati, poi cominciano gli arrivi di nuovi militari ed anche qualche ritorno.
Si può cominciare a pensare da un lato al ripristino di tutte le caverne delle postazioni suddette e dall’altro all’inizio di azioni nelle zone circostanti per procurarci armi, munizioni, esplosivi, benzina, automezzi, viveri, scarpe, etc.
L’abbandono da parte dei comandanti, la fuga del re e del governo oramai sono digeriti e siamo decisi a continuare.
D’accordo con il colonnello cominciamo con il pensare ad un nuovo nome per il nostro reparto e poiché siamo in prevalenza milanesi lo denominiamo: ESERCITO ITALIANO (non più regio), GRUPPO MILITARE “CINQUE GIORNATE”.
Queste pagine di storia vissuta aggiungono una tessera significativa a quel grande mosaico già definito nei suoi tratti principali, ma ancora forse incompleto in alcuni altri suoi particolari, che è stata la coraggiosa ed eroica vicenda della formazione “Cinque Giornate” del San Martino, un fatto storico così importante da tenere viva e ardente, per sessant’anni, nelle popolazioni del varesotto e del milanese, la fiamma del ricordo.
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