mercoledì 30 settembre 2015

LA FESTA DEI NONNI



La Festa dei nonni è una ricorrenza civile introdotta in Italia con la Legge 159 del 31 luglio 2005, quale momento per celebrare l'importanza del ruolo svolto dai nonni all'interno delle famiglie e della società in generale.

Viene festeggiata il 2 ottobre, data in cui la chiesa cattolica celebra gli Angeli custodi.

Il compito di promuovere iniziative di valorizzazione del ruolo dei nonni, in occasione di tale data, spetta per legge a Regioni, Province e Comuni.

La Festa dei Nonni è stata introdotta negli Stati Uniti nel 1978 durante la presidenza di Jimmy Carter su proposta di Marian McQuade, una casalinga del West Virginia, madre di quindici figli e nonna di quaranta nipoti. La McQuade iniziò a promuovere l’idea di una giornata nazionale dedicata ai nonni nel 1970, lavorando con gli anziani già dal 1956. Riteneva, infatti, obiettivo fondamentale per l’educazione delle giovani generazioni la relazione con i loro nonni, portatori di conoscenza ed esperienza.

Negli Stati Uniti la festa nazionale dei nonni viene celebrata ogni anno la prima domenica di settembre dopo il Labor Day.

Nel Regno Unito, introdotta nel 1990, dal 2008 viene celebrata la prima domenica di ottobre.

In Canada viene celebrata dal 1995 il 25 ottobre.

In Francia, i nonni e le nonne sono festeggiati ogni anno separatamente. La Festa della Nonna già dal 1987, la prima domenica di marzo. Dal 2008 è stata introdotta la Festa del Nonno la prima domenica di ottobre.

In Italia nasce per volontà di Franco Locatelli (Presidente dell'Unione Nazionale Florovivaisti - Unaflor), Arturo Croci, Wim Van Meeuwen e Walter Pironi del comitato ufficiale della Festa dei Nonni 1997.

Il fiore ufficiale della Festa dei Nonni è il Non-ti-scordar-di-me.

Secondo la tradizione, la denominazione di "non-ti-scordar-di-me" sarebbe legata a una leggenda germanica, secondo la quale Dio stava dando il nome alle piante quando una piantina, ancora senza nome, gridò: "Non ti scordar di me, Dio!" e Dio replicò: "Quello sarà il tuo nome!".

Secondo una più recente leggenda, il nome sarebbe invece legato a un avvenimento occorso lungo il Danubio, in Austria: due giovani stavano scambiandosi le promesse attraverso il simbolo di questo fiore, ma lui cadde nel fiume e le gridò tale frase come promessa di eterno amore.

La canzone della Festa dei Nonni "Tu sarai" è stata scritta e realizzata nel 2005 dal cantautore Walter Bassani nell'ambito del progetto di comunicazione sociale della FAI (Federazione Autotrasportatori Italiani). La sua prima versione venne interpretata da Peter Barcella. Il brano è diventato la colonna sonora del concorso scolastico nazionale di "OKAY" "Fiori e poesie per i Nonni" e successivamente la colonna sonora del corto cinematografico "Tu sarai" dell'Istituto comprensivo di Montefalcone (BN). Questo corto realizzato dai bambini sul tema della canzone ha vinto il primo premio ai concorsi internazionali " Festa del Cinema di Roma 2007 Sez."Corti Scuola K12", Festival del Cinema di Chianciano Terme 2008 Sez."Corti Scuola e Festival del Cinema di Telesia 2008 Sez."Corti Scuola", per il messaggio che unisce le generazioni. "Tu podràs" (la versione in lingua spagnola di "Tu sarai") è la sigla ufficiale della "Fiesta de los abuelos" in Spagna nell'ambito del progetto "Crecemos juntos". La versione in lingua tedesca di "Tu sarai" porta il titolo di "Tag für tag" ed è la canzone ufficiale della "Festa dei Nonni" del Sud Tirolo con l'omonimo videoclip girato nella Val Sarentino con i Nonni e i bambini del luogo. La versione inglese di "Tu sarai" porta il titolo di "Day by day", il brano è stato presentato negli "U.S.A. ad Orlando in occasione della Fiera mondiale delle piante e dei fiori e del giorno mondiale dell'ONU dedicato ai Nonni. Il messaggio della canzone "Tu sarai" è stato premiato con il "Garofano d'argento 2011". Il premio è stato assegnato all'autore della canzone della "Festa dei Nonni" Walter Bassani per il forte messaggio che unisce le generazioni. Suor Miriam Castelli ha presentato il messaggio di "Tu sarai" in tutto il mondo nella sua trasmissione "Cristianità" in onda su Rai International (ottobre 2011).

Il brano dal titolo "Ninna Nonna", scritto da Igor Nogarotto e Gregorio Michienzi, due autori astigiani (in arte I 2 Così), dal 2006 è stato riconosciuto in via informale come "Canzone Italiana dei Nonni"



Figure insostituibili capaci di risolvere mille problemi pratici ai genitori di oggi: i nonni non sono più soltanto quelle figure parentali affettuose che amano incondizionatamente i nostri bambini e tramandano storie e saggezza del passato. I nonni vanno a prendere i bimbi a scuola, li accudiscono se sono malati, li accompagnano a nuoto... svolgono quel lavoro che la carenza di strutture e la poca flessibilità lavorativa impedisce ai genitori di svolgere in prima persona.

La tradizione italiana di affidare i figli alle cure dei nonni è diventata una necessità per molte famiglie. Secondo una recente ricerca sono ben il 37% le famiglie con figli fino a 14 anni che si affidano giornalmente alle cure dei nonni, mentre in Europa il dato è molto più basso: il 15% in Germania e il 2% in Svezia. Ci sono poi quei genitori (il 45%) che fanno ricorso alla cura dei nonni-sitter una volta alla settimana (30% in Francia e 20% in Svezia).
Coltivare il rapporto nonni-nipoti è molto importante per i bambini, li fa sentire parte di una "famiglia allargata". Molto precocemente i piccoli apprendono le loro radici e sono affascinati dai racconti sull'infanzia dei genitori... esperienze che solo un nonno può tramandare. Il maggior tempo libero dei nonni già in pensione fa sì che i bambini possano fare esperienze uniche come coltivare un orto o fare la pasta fatta in casa.
Quello che lascia l'amaro in bocca è che questo rapporto non si instauri solo per il piacere di stare insieme, ma che i nonni debbano sopperire alla carenza di asili nido, ai costi di una baby sitter e alla mancanza di politiche adeguate a sostegno della flessibilità negli orari di lavoro.

Solo il 14% dei bambini tra zero e 2 anni è iscritto a un asilo nido pubblico. Un dato ancora troppo basso e che non può garantire alle mamme un rientro al lavoro sereno dopo la maternità. Infatti le donne che non lavorano più a distanza di due anni dal parto sono sempre più numerose: il 22,3% nel 2012 (contro il 18,4% nel 2005, dati Istat). Un incremento preoccupante, che vede ancor più fondamentale il ruolo dei nonni che si prendono cura dei bambini.
E anche in quelle famiglie dove si sceglie o si può far frequentare un asilo nido al proprio bambino, il ruolo dei nonni è fondamentale. Ad esempio durante le malattie stagionali, che sono quasi all'ordine del giorno nei primi anni di comunità e che comporterebbero continue assenze lavorative da parte dei genitori.

I nonni sono importanti anche per la cura della casa: una ricerca della Camera di Commercio di Milano ha quantificato in cinquanta miliardi di euro il risparmio delle famiglie che si affidano ai nonni anziché far ricorso a colf e baby sitter. Ancor prima di avere dei bambini, queste figure parentali sono fondamentali per le giovani coppie, con veri e propri aiuti economici.

Ma se oggi una gran parte delle mamme può affidarsi all'aiuto dei nonni, questo "welfare familiare" è destinato ad esaurirsi nel giro di poche generazioni, a causa dell'aumento dell'età pensionabile e l'età sempre più avanzata delle neomamme. Se oggi una mamma di 40 anni può contare sui propri genitori per la cura dei figli e della casa, lo stesso non potranno fare quei bambini arrivati all'età adulta. Perché le nonne delle prossime generazioni saranno sempre più anziane. Ma si spera che fino ad allora le politiche sociali per l'aiuto all'infanzia facciano grandi passi in avanti.




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lunedì 28 settembre 2015

BUON ONOMASTICO MICHAEL

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Gloriosissimo Principe della Milizia Celeste, Arcangelo San Michele, difendeteci in questa ardente battaglia contro tutte le potenze delle tenebre e la loro spirituale malizia.
Venite in soccorso degli uomini creati da Dio a sua immagine e somiglianza e riscattati a gran prezzo dalla tirannia del demonio.
Voi siete venerato dalla Santa Chiesa quale suo custode e patrono, ed a Voi il Signore ha affidato le anime che un giorno occuperanno le sedi celesti. Pregate, dunque, il Dio della pace a tenere schiacciato satana sotto i nostri piedi, affinché non possa continuare a tenere schiavi gli uomini e a danneggiare la Chiesa.
Presentate all’Altissimo, con le Vostre, le nostre preghiere, perché scendano presto su di noi le Sue Divine Misericordie e Voi possiate incatenare il dragone, il serpente antico satana ed incatenarlo negli abissi. Solo così non sedurrà più le anime.



L'origine di questo nome utilizzato in Germania e nei Paesi Anglosassoni è ebraica: ricorda infatti il grido dell'Arcangelo che ha scacciato gli angeli ribelli dal Paradiso. Le sue parole furono 'Michael?!', vale a dire 'Chi è come Dio?!' L'onomastico viene festeggiato in suo onore, cioè dell'Arcangelo Michele, il 29 settembre, giorno della consacrazione del Santuario Gargano effettuata, secondo la leggenda, personalmente da egli stesso.

Per significato ed etimologia, è affine ai nomi Misaele e Michea; la forma ceca e slovacca Michal coincide inoltre con la forma ebraica originale di Micol, ma i due nomi non sono correlati. Il nome inglese Mitchell, infine, è un derivato di Michele.

La figura dell'arcangelo, popolarissima, portò notevole fortuna al nome, che è assai diffuso nell'Europa occidentale sin dal Medioevo, e in Inghilterra dal XII secolo; è stato portato da numerosi sovrani, fra i quali nove imperatori bizantini e svariati re di Russia, Polonia, Romania e Portogallo.

L'onomastico viene festeggiato il 29 settembre in ricordo della consacrazione del santuario dedicato all'arcangelo Michele sul monte Gargano; effettuata secondo una pia leggenda, personalmente da San Michele Arcangelo. Patrono degli agenti di PS, armaioli, arrotini, bancari, commercianti, giudici, paracadutisti, pasticcieri, merciai, radiologi, radioterapisti, di Feletto (To), Caltanissetta, Caserta, Cuneo, Verduno, Argelato, Arisio e Arpaia.

In un’epoca in cui le forze del male hanno enorme libertà di azione, fuorviando e rapendo anime, la figura di San Michele assume un valore di prim’ordine. Il suo nome deriva dall’espressione «Mi-ka-El», che significa «chi è come Dio?» e poiché nessuno è come l’Onnipotente, l’Arcangelo combatte tutti coloro che si innalzano con superbia, sfidando l’Altissimo.  Nella Sacra Scrittura è citato cinque volte:  nel libro di Daniele, di Giuda, nell’Apocalisse e in tutti i brani biblici è considerato «capo supremo dell’esercito celeste», ovvero degli angeli in guerra contro il male.
Nella Tradizione Michele è l’antitesi di Lucifero, capo degli angeli che decisero di fare a meno di Dio e perciò precipitarono negli Inferi. Michele, generale degli angeli, è colui che difende la Fede, la Verità e la Chiesa. Dante (1265-1321) illustra mirabilmente la bellezza e la potenza di questo Principe celeste e la sua solerzia nel proteggere il genere umano dalle insidie di Satana. Nelle litanie dei Santi pregate in Purgatorio da coloro che in terra furono invidiosi, San Michele è il secondo nominato, dopo Maria Santissima, segno del suo grande potere di intercessione (Purgatorio XIII, 51).
Maria Vergine e l’Arcangelo Michele sono associati nel loro combattimento contro il demonio ed entrambi, iconograficamente parlando, hanno sotto i loro piedi, a seconda dei casi, il serpente, il drago, il diavolo in persona, che l’Arcangelo tiene incatenato e lo minaccia, pronto a trafiggerlo, con la sua spada. Il suo culto è molto diffuso sia in Oriente che in Occidente, ne danno testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri e anche monti a lui intitolati. In Europa, durante l’alto Medioevo, furono edificati in suo onore tre gioielli di devozione, di storia, di architettura ed arte: l’abbazia di Mont Saint-Michel in Normandia, La Sacra di San Michele sul Monte Pirchiriano, in Piemonte e il santuario del Monte Gargano in Puglia. Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel Sant’Angelo a Roma ed egli è protettore del popolo cristiano, come un tempo lo era dei pellegrini medievali contro le insidie che incontravano lungo la via.
Leone XIII (1810-1903), il 13 ottobre 1884, dopo aver terminato di celebrare la Santa Messa nella cappella vaticana, restò immobile una decina di minuti in stato di profondo turbamento. In seguito si precipitò nel suo studio. Fu allora che il Papa compose la preghiera a San Michele Arcangelo.



Successivamente racconterà il Pontefice di aver udito Gesù e Satana e di aver avuto una terrificante visione dell’Inferno: «ho visto la terra avvolta dalle tenebre e da un abisso, ho visto uscire legioni di demoni che si spargevano per il mondo per distruggere le opere della Chiesa ed attaccare la stessa Chiesa che ho visto ridotta allo stremo. Allora apparve San Michele e ricacciò gli spiriti malvagi nell’abisso. Poi ho visto San Michele Arcangelo intervenire non in quel momento, ma molto più tardi, quando le persone avessero moltiplicato le loro ferventi preghiere verso l’Arcangelo».
Dopo circa mezz’ora fece chiamare il Segretario della Sacra Congregazione dei Riti, ordinandogli di far stampare il foglio che aveva in mano e farlo pervenire a tutti i Vescovi della Chiesa: il manoscritto conteneva la preghiera che il Papa dispose di far recitare al termine della Santa Messa, la supplica a Maria Santissima e l’invocazione al Principe delle milizie celesti, per mezzo del quale si implora Dio affinché ricacci il Principe del mondo nell’Inferno. Tale supplica è caduta in disuso. Nessun Pontefice ha abrogato questa preghiera dopo il Santo Sacrificio e neppure il Novus Ordo la nega, anche se dagli anni Settanta si prese a non più recitarla, privando la Chiesa di una preziosa arma di difesa.

In altre scritture, il dragone è un angelo che aveva voluto farsi grande quanto Dio e che Dio fece scacciare, facendolo precipitare dall’alto verso il basso, insieme ai suoi angeli che lo seguivano.
Michele è stato sempre rappresentato e venerato come l’angelo-guerriero di Dio, rivestito di armatura dorata in perenne lotta contro il Demonio, che continua nel mondo a spargere il male e la ribellione contro Dio.
Egli è considerato allo stesso modo nella Chiesa di Cristo, che gli ha sempre riservato fin dai tempi antichissimi, un culto e devozione particolare, considerandolo sempre presente nella lotta che si combatte e si combatterà fino alla fine del mondo, contro le forze del male che operano nel genere umano. Dopo l’affermazione del cristianesimo, il culto per san Michele, che già nel mondo pagano equivaleva ad una divinità, ebbe in Oriente una diffusione enorme, ne sono testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri a lui dedicati; nel secolo IX solo a Costantinopoli, capitale del mondo bizantino, si contavano ben 15 fra santuari e monasteri; più altri 15 nei sobborghi.
Tutto l’Oriente era costellato da famosi santuari, a cui si recavano migliaia di pellegrini da ogni regione del vasto impero bizantino e come vi erano tanti luoghi di culto, così anche la sua celebrazione avveniva in tanti giorni diversi del calendario.
Perfino il grande fiume Nilo fu posto sotto la sua protezione, si pensi che la chiesa funeraria del Cremlino a Mosca in Russia, è dedicata a S. Michele. Per dirla in breve non c’è Stato orientale e nord africano, che non possegga oggetti, stele, documenti, edifici sacri, che testimoniano la grande venerazione per il santo condottiero degli angeli, che specie nei primi secoli della Chiesa, gli venne tributata.



La celebrazione religiosa era all’8 maggio, data praticata poi nella Sabina, nel Reatino, nel Ducato Romano e ovunque fosse estesa l’influenza della badia benedettina di Farfa, a cui i Longobardi di Spoleto, avevano donato quel santuario.
Ma il più celebre santuario italiano dedicato a S. Michele, è quello in Puglia sul Monte Gargano; esso ha una storia che inizia nel 490, quando era papa Gelasio I; la leggenda racconta che casualmente un certo Elvio Emanuele, signore del Monte Gargano (Foggia) aveva smarrito il più bel toro della sua mandria, ritrovandolo dentro una caverna inaccessibile.
Visto l’impossibilità di recuperarlo, decise di ucciderlo con una freccia del suo arco; ma la freccia inspiegabilmente invece di colpire il toro, girò su sé stessa colpendo il tiratore ad un occhio. Meravigliato e ferito, il signorotto si recò dal suo vescovo s. Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto (odierna Manfredonia) e raccontò il fatto prodigioso.
Il presule indisse tre giorni di preghiere e di penitenza; dopodiché s. Michele apparve all’ingresso della grotta e rivelò al vescovo: “Io sono l’arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini…Quel che sarà chiesto nella preghiera, sarà esaudito. Quindi dedica la grotta al culto cristiano”.
Ma il santo vescovo non diede seguito alla richiesta dell’arcangelo, perché sul monte persisteva il culto pagano; due anni dopo, nel 492 Siponto era assediata dalle orde del re barbaro Odoacre (434-493); ormai allo stremo, il vescovo e il popolo si riunirono in preghiera, durante una tregua, e qui riapparve l’arcangelo al vescovo s. Lorenzo, promettendo loro la vittoria, infatti durante la battaglia si alzò una tempesta di sabbia e grandine che si rovesciò sui barbari invasori, che spaventati fuggirono.
Tutta la città con il vescovo, salì sul monte in processione di ringraziamento; ma ancora una volta il vescovo non volle entrare nella grotta. Per questa sua esitazione che non si spiegava, s. Lorenzo Maiorano si recò a Roma dal papa Gelasio I (490-496), il quale gli ordinò di entrare nella grotta insieme ai vescovi della Puglia, dopo un digiuno di penitenza.
Recatosi i tre vescovi alla grotta per la dedicazione, riapparve loro per la terza volta l’arcangelo, annunziando che la cerimonia non era più necessaria, perché la consacrazione era già avvenuta con la sua presenza. La leggenda racconta che quando i vescovi entrarono nella grotta, trovarono un altare coperto da un panno rosso con sopra una croce di cristallo e impressa su un masso l’impronta di un piede infantile, che la tradizione popolare attribuisce a s. Michele.
Il vescovo san Lorenzo fece costruire all’ingresso della grotta, una chiesa dedicata a s. Michele e inaugurata il 29 settembre 493; la Sacra Grotta è invece rimasta sempre come un luogo di culto mai consacrato da vescovi e nei secoli divenne celebre con il titolo di “Celeste Basilica”.
Attorno alla chiesa e alla grotta è cresciuta nel tempo la cittadina di Monte Sant’Angelo nel Gargano. I Longobardi che avevano fondato nel secolo VI il Ducato di Benevento, vinsero i feroci nemici delle coste italiane, i saraceni, proprio nei pressi di Siponto, l’8 maggio 663, avendo attribuito la vittoria alla protezione celeste di s. Michele, essi presero a diffondere come prima accennato, il culto per l’arcangelo in tutta Italia, erigendogli chiese, effigiandolo su stendardi e monete e instaurando la festa dell’8 maggio dappertutto.



Intanto la Sacra Grotta diventò per tutti i secoli successivi, una delle mete più frequentate dai pellegrini cristiani, diventando insieme a Gerusalemme, Roma, Loreto e S. Giacomo di Compostella, i poli sacri dall’Alto Medioevo in poi.
Sul Gargano giunsero in pellegrinaggio papi, sovrani, futuri santi. Sul portale dell’atrio superiore della basilica, che non è possibile descrivere qui, vi è un’iscrizione latina che ammonisce: “che questo è un luogo impressionante. Qui è la casa di Dio e la porta del Cielo”.
Il santuario e la Sacra Grotta sono pieni di opere d’arte, di devozione e di voto, che testimoniano lo scorrere millenario dei pellegrini e su tutto campeggia nell’oscurità la statua in marmo bianco di S. Michele, opera del Sansovino, datata 1507.
L’arcangelo è comparso lungo i secoli altre volte, sia pure non come sul Gargano, che rimane il centro del suo culto, ed il popolo cristiano lo celebra ovunque con sagre, fiere, processioni, pellegrinaggi e non c’è Paese europeo che non abbia un’abbazia, chiesa, cattedrale, ecc. che lo ricordi alla venerazione dei fedeli.
Apparendo ad una devota portoghese Antonia de Astonac, l’arcangelo promise la sua continua assistenza, sia in vita che in purgatorio e inoltre l’accompagnamento alla S. Comunione da parte di un angelo di ciascuno dei nove cori celesti, se avessero recitato prima della Messa la corona angelica che gli rivelò.
I cori sono: Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù, Principati, Arcangeli ed Angeli. La sua festa liturgica principale in Occidente è iscritta nel Martirologio Romano al 29 settembre e nella riforma del calendario liturgico del 1970, è accomunato agli altri due arcangeli più conosciuti, Gabriele e Raffaele nello stesso giorno, mentre l’altro arcangelo a volte nominato nei testi apocrifi, Uriele, non gode di un culto proprio.
Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel S. Angelo a Roma, che come è noto era diventata una fortezza in difesa del Pontefice; protettore del popolo cristiano, così come un tempo lo era dei pellegrini medievali, che lo invocavano nei santuari ed oratori a lui dedicati, disseminati lungo le strade che conducevano alle mete dei pellegrinaggi, per avere protezione contro le malattie, lo scoraggiamento e le imboscate dei banditi.
Per quanto riguarda la sua raffigurazione nell’arte in generale, è delle più vaste; ogni scuola pittorica in Oriente e in Occidente, lo ha quasi sempre raffigurato armato in atto di combattere il demonio.
Sul Monte Athos nel convento di Dionisio del 1547, i tre principale arcangeli sono così raffigurati, Raffaele in abito ecclesiastico, Michele da guerriero e Gabriele in pacifica posa e rappresentano i poteri religioso, militare e civile.





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BORGORATTO MORMOROLO



Borgoratto Mormorolo è un comune situato tra le colline dell'Oltrepò Pavese, nella valle del torrente Ghiaia di Borgoratto, ramo sorgentifero del Coppa.

Borgoratto Mormorolo riflette nel proprio nome due antiche e distinte realtà insediative: quella del borgo, localizzato nell’attuale area del municipio, e quello di Mormorola, nome che dal XIII secolo designa la pieve, erede della ben più antica azienda agricola bobbiese di Memoriola. Dall'epoca longobarda il territorio era compreso nei possedimenti dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio.

Per quanto concerne l’origine del toponimo, Borgoratto potrebbe alludere al suo scosceso territorio (ratto = ripido) o meglio derivare da burgulus che designerebbe nuclei abitativi e piccoli borghi. Attualmente fanno parte del comune di Borgoratto Mormorolo le frazioni di Inveriaghi, Femminico, Zebedo, Braglia, Ca’ Bernocchi, Ca’ Facchini, Gabbione, Boiolo e Illibardi, abitati la cui origine risale  almeno in parte all’epoca tardo antica e altomedioevale. I toponimi di Zebedo e Illibardi sembrano essere di origine germanica: il primo, citato nel diploma con cui Federico I nel 1164 concedeva alla città di Pavia il dominio sull'Oltrepò, indica un originario insediamento di Gepidi (V-VI secolo); il secondo è  ricordato come  castello nel X secolo.

Dall’ epoca longobarda  il territorio fu sottoposto ai monaci del potente monastero di Bobbio fondato dall’irlandese Colombano  agli inizi del secolo VII  grazie alla donazione di terre del sovrano Agilulfo. In questo periodo l’area rappresentava la via di collegamento appennica tra la capitale del regno, Pavia, e la  costa tirrenica, toccando  numerosi  centri della Liguria interna. Nel breve memorationis dell’abate Wala (833-835 circa) viene citata Memoriola (Borgoratto Mormorolo) tra i principali nuclei fondiari appartenenti ai dominii bobbiesi che erano al tempo organizzati in curtes. In un altro scritto, le Adbreviationes (862 e 883),  Memoriola viene indicata come una realtà di eccellenza sul piano quantitativo per la coltivazione della vite e del grano. Tra la dozzina di curtes e la quarantina di domuscultae bobbiesi in Oltrepò, essa doveva infatti occupare un ruolo tutt’altro che secondario: da sola produceva 200 anfore di vino, la più alta quantità rispetto alle altre corti e un quarto circa dell’intera produzione delle corti monastiche oltrepadane.

Nel 1359 l’Oltrepò cadde insieme a Pavia sotto la dominazione dei Visconti di Milano, cui seguirono gli Sforza. Sotto gli Sforza l’Oltrepò era governato da un Capitano con sede a Casteggio. Agli antichi signori locali cui vennero confermati i possedimenti, se ne affiancarono di nuovi nominati dai duchi di Milano. Nel 1499 l’Oltrepò divenne parte del Principato di Pavia. Tra la metà del XV secolo e il XVIII l’intero territorio oltrepadano venne diviso in grandi feudi dotati di larga autonomia. Borgoratto ricadde sotto la giurisdizione di Fortunago che era dotato di uno statuto speciale e di vari privilegi e pertanto condivise il destino di questo castello passando dai Dal Verme ai Riario (XV secolo), ai Botta che costituirono il Marchesato di Fortunago, passato nel 1546 ai Malaspina.

Insieme allo stato di Milano l’Oltrepò passò nel 1535 alla Spagna e nel 1713 all’Austria. Con il trattato di Worms tra gli austriaci e i Savoia il territorio oltrepadano fu separato dal Principato di Pavia e venne unito al Piemonte. Sotto i Savoia l’Oltrepò conobbe uno straordinario periodo di fioritura e venne diviso in due provincie, Voghera e Bobbio. In epoca napoleonica l’area venne riunita prima nel dipartimento di Marengo e poi in quello di Genova appartenenti all’impero Francese. Nel 1814 con il ritorno dei Sabaudi l’Oltrepò tornò alla divisione nelle due province di Voghera e Bobbio che permase fino all’unità d’Italia. Borgoratto divenne un comune separato da Fortunago nel XVIII secolo, dapprima con il nome di Valle di Borgoratto, poi Borgoratto e nel 1863 come Borgoratto Mormorolo.

La Chiesa Parrocchiale di Borgoratto Mormorolo corrisponde alla pieve medievale di Mormorola su cui si sviluppò l’azienda agricola del monastero longobardo di San Colombano a Bobbio. Nel corso dei secoli l ’edificio è stato soggetto a rifacimenti ed ampliamenti che ne hanno alterato i caratteri originari anche se ha ancora alcuni elementi che indicano la sua origine romanica. Completamente restaurata nel Novecento, presenta infatti un portale ricostruito in stile romanico e ha mantenuto i capitelli che appartenevano alla costruzione del XII secolo. Sul lato del campanile esposto a nord è murata la piccola testa in marmo bianco di una statua romana. La Chiesa è a una sola navata e all’interno si possono ammirare gli affreschi risalenti al 1920 del pittore Rodolfo Gambini di Alessandria. Vi è conservata una statua lignea secentesca e nella parete meridionale della moderna parrocchia si possono osservare alcuni piccoli frammenti murati appartenenti all’antica chiesa romanica preesistente.




LEGGI ANCHE : http://asiamicky.blogspot.it/2015/09/loltrepo-pavese.html




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MONTALTO PAVESE



Montalto Pavese è un comune della provincia di Pavia. Per la sua posizione dominante le prime colline sopra Casteggio, il bel castello con il giardino all'italiana e per la sua produzione di vino, è chiamata la "regina dell'Oltrepò Pavese".

Le prime notizie su Montalto risalgono al X secolo, allorché vi aveva estesi beni il monastero pavese di Santa Maria delle Cacce. Nel 1164 passò con l'Oltrepò sotto il dominio di Pavia, che l'infeudò alla famiglia Belcredi. La podesteria o squadra di Montalto, soggetta ai Belcredi (che nominavano il Podestà, prerogativa che nelle altre squadre spettava alla città di Pavia), comprendeva anche Oliva Gessi, Mornico Losana, Torricella Verzate, Lirio e Montù Berchielli (nel comune di Rocca de' Giorgi); tra le ville del feudo sono citate anche le attuali frazioni Finigeto e Villa Illibardi.

Sotto gli Sforza, nel 1477, Montalto è infeudato come contea agli Strozzi di Mantova (ramo della nobile famiglia fiorentina), sotto i quali comunque i Belcredi rimangono la famiglia più ricca e mantengono la proprietà del castello. Nel 1617 il feudo è venduto ai Taverna, conti di Landriano, ma nel 1658 i Belcredi lo riacquistano, mantenendolo fino alla fine del feudalesimo nel 1797. Il feudo è nel frattempo elevato a Marchesato.

Nel XIX secolo Montalto è sede di mandamento nella provincia di Voghera (dal 1859 circondario di Voghera nella provincia di Pavia). Con l'unità d'Italia riceve il nuovo nome di Montalto Pavese. Nel 1939, soppresso il comune di Montù Berchielli, parte di esso, compresa la ex sede comunale Cà del Fosso, è aggregata a Montalto.

Meta di numerosi turisti e appassionati di aeromodellismo è la località Belvedere, sita sulla cresta di una collina e soggetta a forti venti, a causa della sua posizione: a separazione della strettissima Valle Scuropasso e della Valle del Ghiaie. I forti movimenti d'aria rendono divertente il volo di aeromodelli, deltaplani e parapendii. Il paese è inoltre conosciuto per il suo "Maniero" (Castello) che, data la quota a cui è posto, e data la sua posizione, dominante la valle del torrente Verzate, è visibile da gran parte della Lombardia, anche da lunghe distanze.

I lavori per erigere il Castello iniziano nell’anno 1593, come riportato in un’epigrafe posta all’ingresso, e seguitano nei secoli successivi sino agli anni delle conquiste napoleoniche. Viene eretto un imponente e vasto palazzo signorile sulle fondamenta di un’antica costruzione del V secolo. Tra le tracce della fortificazione passata, demolita durante la dominazione spagnola, spicca la grande torre quadrata, priva di merlature e quasi certamente il mastio dell’antico castello.
La torre caratterizza il profilo dell’edificio che si individua già da lontano, anche a causa della posizione dominante. Pur costruito sui resti della casaforte, l’edificio viene declassato dai siti militari e ingentilito: anche il marchese Giuseppe Belcredi abbellisce il suo maniero per ricevervi illustri ospiti, tra cui Alessandro Volta, per i quali faceva mettere in scena degli spettacoli teatrali. Nella seconda metà del XVIII secolo, il castello viene abbandonato e all’inizio del ‘900 viene acquistato dai Balduino che lo ristrutturano in stile settecentesco. Oltre a saloni riccamente arredati, nel piazzale interno su cui affacciano quattro torrioni, vi è anche una cappella con due campanili. Due giardini circondano il maniero: uno all’italiana, geometrico e regolare, e l’altro all’inglese, ombreggiato da boschetti.

Il Museo Contadino, sito in località Villa Illibardi, nasce nel 1981 grazie alle donazioni degli abitanti del paese. Il Museo è sorto con lo scopo di salvare dalla rovina e dalla dimenticanza oggetti e utensili espressione della civiltà rurale per riscoprire e valorizzare la cultura contadina. Il percorso interno è stato pensato suddividendo il materiale a disposizione, in due sezioni: il ciclo legato alla coltura del grano e all’allevamento, e quello legato alla viticoltura e alla produzione del vino.


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Perchè Siamo AGGRESSIVI?

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L'aggressività è un fenomeno complesso, che rientra nelle problematiche legate al manifestarsi della violenza negli esseri umani. Le dinamiche psichiche e biologiche che conducono ai conflitti violenti tra le persone, il loro legame con gli istinti primari sono questioni che da due secoli psicologi e altri studiosi analizzano e che solo recentemente si stanno chiarendo.
Nell'etologia in generale (e nell'etologia umana in particolare) col termine aggressività s'intende l'impulso istintuale ad aggredire animali di altre specie o della propria al fine di attentare alla loro esistenza, per cibarsene nel caso di specie predatorie carnivore, o comunque di provocare loro lesioni o danni diffusi. In altri termini, l'aggressività è letta dagli etologi come funzionale alla soddisfazione degli obiettivi primari: mangiare e copulare. Si ha aggressività per difendere un territorio, per proteggere i propri piccoli, per organizzare la scala sociale gerarchica all'interno di un gruppo nelle specie sociali. Konrad Lorenz ha studiato l'aggressività all'interno del comportamento animale, pubblicandone un primo saggio nel 1966 con il titolo Il cosiddetto male.

In psicologia ed in altre scienze sociali e comportamentali, con il termine aggressività ci si riferisce all'inclinazione a manifestare comportamenti che hanno lo scopo di causare danno o dolore ad altri da sé. L'aggressione in ambito umano può attuarsi sia sul piano fisico che verbale, ed una certa azione viene considerata aggressiva anche se non riesce nelle sue intenzioni di danneggiamento. Al contrario, un comportamento che causa solo accidentalmente un danno non è da considerarsi aggressione.

L'aggressività è stato un argomento sempre trattato dalle scienze sociali (psicologia, sociologia, antropologia) ed infatti esistono varie teorie. Per alcuni studiosi l'aggressività dipende da fattori innati, cioè sostengono che si nasce con l'istinto di aggredire, per gli ambientalisti, invece, l'aggressività è un fattore acquisito.

La frustrazione è una condizione psicologica di sofferenza che nasce dalla impossibilità di soddisfare un'esigenza fondamentale di natura psicologica o fisica a causa di un ostacolo esterno. Grazie ad alcuni esperimenti di Leonard Berkowitz si dimostra che non solo la frustrazione può rendere aggressivi ma anche la presenza di indizi aggressivi. L'esperimento di Berkowitz, infatti, mette in evidenza che la causa dei comportamenti aggressivi, oltre alla frustrazione, è anche il modo in cui viene interpretata una situazione; se sono presenti armi, ad esempio, si è portati a credere che la situazione è pericolosa, pertanto frustrati o no si reagisce in modo aggressivo.



La scuola dell'apprendimento di pensiero si basa sulla teoria per cui si diventa aggressivi quando si hanno dei modelli aggressivi nell'ambito familiare o a scuola o tra gli amici; è quindi un fattore acquisito. La psicologia sociale afferma che in un gruppo di amici esiste la mentalità di gruppo, ovvero tutti compiono delle azioni perdendo la propria obbiettività, quindi se nel gruppo si aggredisce e se gli altri aggrediscono, noi componenti di quel gruppo siamo portati a fare altrettanto.

Per la sociologia l'aggressività è un fattore ambientale, conseguenza di contesti sociali negativi che spesso portano a comportamenti collettivi che si hanno quando migliaia di persone agiscono allo stesso modo, facendo la stessa cosa (ad esempio negli stadi).

Gli antropologi partono dal presupposto che l'aggressività è una predisposizione del genere umano che si manifesta nei diversi popoli in modo diverso. Il popolo eschimese, ad esempio, ha una forma di aggressività passiva, ovvero il quiquq, che si ha quando una persona viene ignorata o presa in giro e quindi isolata dal gruppo pensando che quella persona provochi del male a tutti. Per l'antropologia, quindi, l'aggressività è innata, è un comportamento che si ha dalla nascita.

Quanto all'origine dell'aggressività e dell'eventuale parentela dell'uomo con gli animali sotto questo riguardo, si possono distinguere grosso modo due gruppi principali di teorie con una gamma di posizioni intermedie. Per il primo l'aggressività è un istinto che l'uomo ha in comune con gli animali; per il secondo, invece, è qualcosa di specificamente umano, tanto più se si considera l'aggressività intraspecifica (cioè all'interno della specie), che presso gli animali, tranne rare eccezioni, non ha carattere distruttivo, mentre fra gli uomini non si ferma neppure dinanzi all'omicidio, alla strage, al genocidio. Secondo i sostenitori di quest'ultima concezione, l'origine dell'aggressività degli uomini è da ricercare nella lunga storia della loro evoluzione come specie. Al primo gruppo di teorie si sogliono ascrivere anche, sempre in via di generalizzazione e accantonando perciò una serie di distinzioni secondarie, la teoria delle pulsioni di Freud e la concezione esposta da Lorenz nell'opera "Il cosiddetto male" (ampliata con il titolo L'aggressività, 1963).

Alcuni studiosi affermano che l’aggressività è solo un tipo di comportamento influenzato dalle norme e dalle regole di ogni cultura. In quest’ottica la violenza dei gruppi giovanili va calata nel contesto di regole e norme che essi considerano appropriate al comportamento. Le ricerche hanno dimostrato che, ad esempio, i membri di una banda commettono atti aggressivi quando questi sono visti come “la cosa giusta da fare” in una data situazione.

Secondo la teoria dell’apprendimento sociale, il comportamento viene appreso attraverso l’osservazione, l’imitazione, le ricompense e le punizioni che riceviamo, mettendo in luce la parte appresa del comportamento aggressivo. In tal senso i mass-media, in particolare la televisione, sono una fonte di modelli per i bambini. Se ad esempio un bambino vede l’eroe di un cartone o di un telefilm che picchia e uccide una banda di persone che lo minacciano, poi potrà valutare di usare quel copione come guida per il proprio comportamento nelle situazioni in cui gli pare appropriato.

La valutazione su ciò che è giusto o meno fare dipende anche dall’educazione e dalle spiegazioni che i genitori danno ai figli riguardo a determinate scene di violenza. Rimanendo sempre nell’ambito della famiglia, in genere i bambini fisicamente aggressivi hanno avuto genitori fisicamente punitivi che hanno impartito loro la disciplina mediante un modello aggressivo, con urla, schiaffi e percosse. Questi genitori hanno spesso avuto a loro volta genitori fisicamente punitivi. Tale comportamento punitivo può giungere fino al maltrattamento e, sebbene la maggior parte dei bambini maltrattati non sviluppi comportamenti criminali o non si trasformi in un genitore che maltratta i propri figli, il 30% finisce per adottare comportamenti violenti.

Anche l’eredità genetica influenza la sensibilità del sistema neurale alle sollecitazione aggressive. Il nostro temperamento, ossia il nostro livello di intensità e di reattività emotive, ci viene in parte donato alla nascita ed è influenzato dalla reattività del nostro sistema nervoso. Il temperamento di un individuo osservato durante l’infanzia di solito perdura anche in età adulta. Un bambino non aggressivo a 8 anni sarà molto probabilmente anche a 50 anni un uomo non aggressivo.



L’aggressività può anche essere stimolata dall’ambiente (caldo, rumore, sovraffollamento e inquinamento). Il fattore climatico più irritante è il caldo e le persone possono diventare più nervose quando il tempo è afoso. La correlazione tra temperatura e aggressività non costituisce una prova.

La presenza di alcuni composti chimici nel sangue può essere un altro fattore che influenza la sensibilità neurale alla stimolazione aggressiva. Molte ricerche indicano che il consumo di alcol scatena l’aggressività quando gli individui vengono provocati. L’alcol incrementa l’aggressività riducendo l’autoconsapevolezza delle persone e la loro capacità di valutare le conseguenze; infatti esso funziona da disinibitore, in altre parole riduce le nostre inibizioni sociali. Pertanto, sotto l’influsso dell’alcol, emergono con più forza le tendenze primarie di una persona, per cui chi è portato a mostrare affetto diventerà più espansivo e chi tende alla violenza diventerà aggressivo. Analogamente, dopo l’ingestione di alcol, le persone che sono soggette alla pressione sociale verso l’aggressività o che sono frustrate o provocate, avvertono minori restrizioni o inibizioni a commettere atti violenti.

Altri ricercatori sostengono che la frustrazione, cioè qualsiasi cosa che impedisca di raggiungere uno scopo, evoca uno stato di istigazione ad agire in maniera aggressiva e che l’aggressività è sempre preceduta da un qualche tipo di frustrazione. Non è detto che l’energia aggressiva esploda direttamente contro ciò che l’ha originata. Secondo il meccanismo della dislocazione, si impara a inibire le ritorsioni dirette, soprattutto quando altri potrebbero disapprovarci o punirci, e a trasferire l’ostilità dislocandola su bersagli più sicuri.

D’altra parte quando una persona cova ira o rancore a causa di una precedente provocazione, persino un’offesa insignificante può innescare un’azione dirompente eccessiva. Questo fenomeno di aggressività dislocata aiuta a comprendere perché una persona precedentemente provocata e ancora in preda all’ira, una volta alla guida della sua auto, potrebbe rispondere a gesti o a comportamenti lievemente offensivi di altri guidatori con vere e proprie reazioni di rabbia intensa e con gesti sconsiderati oppure compiere atti violenti in seguito a lievi critiche da parte del coniuge.



C’è una condizione chiamata Disturbo Esplosivo Intermittente (DEI o IED in inglese) che è considerata una vera e propria malattia psichiatrica. Questa condizione si caratterizza per gli episodi violenti saltuari, ma ricorrenti, dovuti all’incapacità di resistere agli impulsi aggressivi. Questi eventi sono oggetto di gravi azioni aggressive nei confronti di altre persone e che possono includere minacce verbali o fisiche, nonché il colpire o ferire. In queste situazioni spesso l’ira trova sfogo anche contro oggetti e proprietà.

Per comprendere meglio cosa possa esserci dietro a questi episodi di esplosione d’ira incontrollata, i ricercatori del Dipartimento di Psichiatria e Behavioral Neuroscience presso l’Università di Chicago hanno condotto uno studio coinvolgendo 197 volontari, e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista JAMA Psychiatry.
L’idea dei ricercatori era quella di documentare se e quanto vi fosse un rapporto diretto tra i marcatori dell’infiammazione e le ricorrenti, problematiche, aggressività impulsive nelle persone con diagnosi di DEI, in confronto alle persone con una buona salute mentale o coloro con altri disturbi psichiatrici.

«Questi due marcatori offrono una coerente correlazione con l’aggressività e l’impulsività, ma non con altri problemi psichiatrici – ha spiegato l’autore senior dello studio, dott. Emil Coccaro – Non sappiamo ancora se sia l’infiammazione a scatenare l’aggressività o se siano i sentimenti aggressivi a scatenare l’infiammazione, ma questa è una potente indicazione che le due situazioni sono biologicamente collegate, e che è una combinazione dannosa».

I ricercatori ricordano che il DEI è un disturbo in grado di sconvolgere la vita di chi ne soffre e di chi sta accanto a loro, come famigliari, amici e colleghi. Le persone con DEI reagiscono in modo eccessivo a situazioni stressanti, spesso con ira incontrollabile e rabbia.
All’inizio è difficile discernere da ciò che è un episodio isolato, dovuto magari proprio a un momento di elevato stress, e ciò che invece è indizio di un problema di salute mentale sottostante. Ma, questo genere di problema «ha invece basi genetiche e biomediche – sottolinea Coccaro – Questa è una grave condizione di salute mentale che può e deve essere trattata».

Il DEI poi non si limita a influire in negativo sulla qualità della vita sociale di chi ne è interessato, ma può predisporre le persone ad altre malattie mentali, comprese la depressione, l’ansia, la dipendenza dall’alcol o la tossicodipendenza. A livello fisico, si è evidenziato in uno studio del 2010, vi à anche un aumentato rischio per malattie coronariche, ipertensione, ictus, diabete, artrite, ulcere, mal di testa e dolore cronico.

In questo studio, Coccaro e colleghi si sono focalizzati sui livelli ematici di due biomarcatori dell’infiammazione: la proteina C-reattiva (CRP) e l’interleuchina-6 (IL-6), ciascuna delle quali è stata associata a comportamenti aggressivi impulsivi sia nell’uomo che in modelli animali.
I ricercatori hanno misurato i livelli di CRP e IL6 in 197 soggetti volontari fisicamente sani, di cui 69 con diagnosi di DEI; 61 con disturbi psichiatrici diversi e 67 con nessun disturbo psichiatrico.

I risultati delle analisi hanno mostrato che i livelli di CRP e IL-6 erano in media superiori nei soggetti con DEI, rispetto ai soggetti con diversi problemi psichiatrici o normali. Per esempio, i livelli medi di CRP erano il doppio in coloro affetti da DEI in confronto con i volontari mentalmente sani. Entrambi i marcatori sono stati infine trovati particolarmente elevati nei soggetti che hanno avuto le più abbondanti storie di comportamenti aggressivi.
Dai risultati i ricercatori deducono che un intervento sull’infiammazione possa dunque avere effetti anche sulle reazioni aggressive dei soggetti a rischio e che «i farmaci che riducono l’infiammazione possono anche ridurre l’aggressione». Il suggerimento è pertanto quello di provare a trattare i soggetti con DEI o a rischio di svilupparlo con farmaci antinfiammatori, anche semplici come l’Aspirina, per contrastare questo tipo di disturbo.




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MATRIMONI MISTI



Nel panorama di un’Italia che cambia rapidamente e che sta diventando giorno dopo giorno sempre più multietnica, multiculturale e multireligiosa, un aspetto che sta assumendo un carattere sempre più significativo è quello dei matrimoni misti.
Nel 2013 ne sono stati celebrati o, comunque, si sono formate 18.273 famiglie con due partner di religione diversa. In Europa nello stesso anno una unione su 12 è stata mista, con Svizzera e Lettonia a guidare la classifica e la Romania a chiuderla in coda, tenendo conto che, tuttavia, i rumeni contraggono matrimoni con partner di altra religione o denominazione cristiana fuori della loro patria.
Quando si tratta questo argomento, sono necessarie precisazioni di termini, in quanto la parola “misti” comprende una notevole varietà di possibilità. A fronte di matrimoni fra partner di etnie e culture diverse, sta crescendo sempre più il numero di unioni fra persone di credo diversi. La questione è di quelle che, nonostante i freni e i deterrenti spesso suggeriti o anche imposti, sono continuate a crescere e a interrogare la società italiana per le sue implicazioni sociali e giuridiche, oltre che i diversi ambiti religiosi. Si tratta, in effetti, di trovare adattamenti funzionali ed efficaci sia a livello sociale e amministrativo, ma anche nell’ambito religioso.
Infatti, il matrimonio misto è da sempre una delle chiavi di integrazione sociale, etnica e culturale. È, con tutta probabilità, la conseguenza immediata più normale di incontri di popoli e persone di etnie, culture e religioni diverse. Ma è anche un efficace deterrente contro la xenofobia. Negli anni Cinquanta, il matrimonio misto che faceva guardare con sospetto certe coppie era quello fra gli italiani del Nord e quelli del Sud.
Come, tuttavia, fanno notare molti, i rischi aumentano quando le unioni avvengono fra culture e religioni diverse. Il vecchio adagio – moglie e buoi dei Paesi tuoi – diventa un cavallo di battaglia di coloro che, per esperienza vissuta, ritrosia alla novità e radicamento nella propria cultura e fede, guardano con sospetto alla possibilità dell’incontro di due fedi religiose sotto lo stesso tetto.



Riccardo di Segni, rabbino capo della comunità di Roma, ha sottolineato senza mezzi termini come la famiglia resti il punto di trasmissione della tradizione, culturale e religiosa dell’ebraismo, e ammettere la possibilità di un matrimonio con un partner di altra fede, soprattutto se questo è la madre, significhi instaurare un meccanismo che può portare, nel giro di alcune generazioni, all’annacquarsi, prima, e, in tempi più lunghi, alla sparizione della tradizione ebraica.
Dello stesso parere è anche Maria Angela Falà, rappresentante dell'Unione Buddista Italiana, e, sebbene in maniera diversa, pure Swamini Hansananda Ghiri, in rappresentanza dell’induismo, ha insistito sulla complessità del fenomeno dei matrimoni misti che, in India, presenta una varietà di esempi e di declinazioni.
Mons. Serrano evidenzia come in merito a queste unioni sussistono aspetti giuridici, canonici e pastorali che andrebbero maggiormente armonizzati nel rispetto della confessione religiosa dell’altro coniuge.
L’aspetto che emerge dai è l'importanza di una maggiore apertura da parte di tutte le realtà religiose ad affrontare un aspetto destinato a diventare sempre più comune e per il quale è necessario, anche all’interno delle diverse strutture religiose, avere persone preparate ad affrontare positivamente le questioni che possono emergere.

L’espressione “matrimonio misto” si applica soltanto ai matrimoni tra cristiani di confessione diversa – cattolici con ortodossi o protestanti -, cioè, tra battezzati; il matrimonio tra persone di diversa fede si chiama “matrimonio con disparità di culto”. Per i matrimoni misti, serve una dispensa dell’autorità ecclesiastica. Sono molto diffusi, in molti Paesi. In Germania le famiglie composte da cattolici e luterani sono la metà della popolazione. Queste unioni non presentano particolari difficoltà, perché gli sposi fanno entrambi riferimento a Cristo. Tuttavia, non è banale amare qualcuno che non condivide la stessa confessione religiosa, può avere conseguenze sulla partecipazione attiva alla vita della fede, e dunque, il cristiano che voglia partecipare attivamente deve porsi il problema se il coniuge non possa ostacolare la pratica religiosa. La fede cattolica collega il matrimonio ad un mistero più grande, di unione tra Cristo sposo e la Chiesa sposa. Per i cattolici, il matrimonio è un sacramento, il settimo, e dunque, non è solo un segno della volontà di unione tra i due coniugi, ma è il segno efficace dell’unione di Cristo con la Chiesa e del battezzato con Cristo. Il matrimonio, per la Chiesa cattolica, è non soltanto l’unione tra un uomo e una donna, ma un mistero ecclesiale. Quando si sposa una persona di fede diversa, bisogna considerare preventivamente determinate questioni: per la pratica del culto, quali saranno i modi familiari di vivere la fede cristiana, per esempio, attraverso la preghiera comune; la confessione nella quale i bambini saranno battezzati ed educati, tema, questo, di vita matrimoniale molto importante, che non può essere lasciato nell’indeciso, da rinviare alla vita familiare dopo le nozze. Per avere l’autorizzazione al matrimonio dell’autorità ecclesiastica, occorre l’impegno dei coniugi a battezzare i figli ed educarli nella fede cattolica. C’è, poi, un altro problema, legato alla concezione del matrimonio come sacramento soltanto per i cattolici, non per i protestanti. Quest’ultimi, dunque, non credono nell’indissolubilità del matrimonio, proprio perché non credono che esso sia anche un mistero di unione degli sposi con Cristo, pertanto, ammettono il divorzio e le seconde nozze. Per i cattolici, invece, nel matrimonio, Cristo stringe un’alleanza con gli sposi per sua natura irrevocabile, che dura, quindi, fino alla morte di uno dei due coniugi. Sono questioni rilevanti, che richiedono una pastorale dedicata.



Gli sposi con disparità di culto sono le unioni tra un coniuge cristiano con un non cristiano. È impossibile analizzare in dettaglio i problemi specifici relativi alle unioni, per esempio, con un induista, un buddista, uno scintoista. Sono, però, tantissimi e, spesso, insuperabili, indagati e compresi in studi e ricerche a cura delle Conferenze episcopali dei Paesi in cui si riscontra maggiormente il fenomeno oppure delle istituzioni accademiche (come l’Istituto pontificio di studi su Matrimonio e Famiglia “Giovanni Paolo II”). Più diffusi sono, invece, in Europa, in Africa, in Medio Oriente e in alcuni Paesi dell’Asia, come Indonesia, Malesia e India, i matrimoni tra credenti delle religioni monoteiste, soprattutto tra cattolici e musulmani. È richiesta una dispensa espressa di impedimento affinché il matrimonio sia valido. Per essere concessa, questa autorizzazione presuppone un accordo tra le parti sui fini e sulle proprietà essenziali del matrimonio. La parte cattolica porta a conoscenza dell’altra il proprio impegno a mantenere e vivere la propria fede, battezzare i figli ed educarli nella Chiesa cattolica. Dunque, si vede fin dall’inizio la difficoltà specifica delle unioni islamo-cristiane. La tradizione islamica esige che i figli dei musulmani siano educati nella religione del padre musulmano. In certi paesi, in cui vige la legge islamica, il matrimonio tra cristiani e musulmani è addirittura vietato. Ci sono esperienze positive di matrimoni islamo-cristiani in certi Paesi in cui c’è stata una lunga coabitazione delle due religioni, come in Libano. Tuttavia, perlopiù i problemi sorgono nel tempo, dopo anni di vita coniugale, come conflitto che riguarda l’educazione dei figli, la concezione della donna o semplicemente la differenza di fervore religioso dei due coniugi verso la propria fede.Il rischio, per i cattolici, può essere allora il prevalere dell’indifferentismo religioso, per il il coniuge cristiano si accontenta di rispettare il coniuge musulmano, rinunciando a dare testimonianza visibile della propria fede in Gesù Cristo.

La presenza in Italia di persone appartenenti ad altri popoli, ad altre etnie e ad altre religioni comporta un problema di convivenza e di condivisione di un territorio, oltre che di interazione di usi, di costumi e di culture differenti. Una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, n. 14960, secondo cui non si può accettare il principio di “relativismo culturale” quando viene usato per giustificare condotte violente e contrarie ai principi basilari del rispetto e della collaborazione morale e materiale nell’interesse della famiglia. In particolare, è stato respinto il ricorso di un cittadino marocchino condannato per aver imposto rapporti sessuali alla moglie, già incinta, oltre a far mancare mezzi di sussistenza giornaliera al figlio. L’uomo si è difeso sostenendo che tali condotte costituiscono, nel suo Stato di provenienza, una facoltà, a suo dire, cioè, la sua legge gli consentirebbe un tale comportamento. Secondo i Giudici di legittimità non è concepibile la scomposizione dell’ordinamento in tanti istituti e leggi per quante sono le etnie, è pertanto doveroso condannare comportamenti contrari al nostro ordinamento. Anche il Tribunale di Roma si è pronunciato in merito ad un procedimento di separazione e ha richiamato la sentenza penale di condanna, secondo cui nella famiglia vigeva “un sistema di vita familiare improntato dal coniuge, secondo mentalità e costume, a una metodica di violenza e sopraffazione e all’autoritarismo più assoluto, sia nei confronti della moglie, trattata alla stregua di una proprietà (anche sessualmente), in spregio alla sua personalità ed autonomia, che nei riguardi del figlio, chiamato a rispondere alle pressanti aspettative (anche religiose) del padre e trattato con estrema durezza o noncuranza”. Si tratta di comportamenti che vanno censurati e puniti, che non trovano alcuna giustificazione in appartenenze religiose e che oggi più che mai vanno denunciati e condannati. La presenza di forti flussi di persone provenienti da paesi e culture diversi ci porta ad un’ ulteriore riflessione sulla celebrazione dei matrimoni misti, che talora comportano situazioni di rischio per donne e bambini, costretti nelle maglie di un agire ispirato a culture assai diverse che non possono trovare ingresso nel nostro sistema familiare.



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domenica 27 settembre 2015

TOSSICODIPENDENZA E INVALIDITA'

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La tossicodipendenza da ora mai oltre 10 anni è considerata malattia da OMS e come tale tabellata nell'invalidità civile.
Patologia cronica recidivante questo è stata definita .

Ci sono voluti quattro anni di carte bollate, denunce e ricorsi, perizie. Alla fine, l' ha spuntata: il pretore di Varese ha riconosciuto ad A. C., 47 anni, aiuto regista che fu il braccio destro di un famoso regista il diritto ad una regolare pensione per invalidità con i relativi arretrati calcolati a partire dal 1978. Il motivo: C., che è stato a lungo tossicodipendente, non è in grado di lavorare. Pensione di invalidità per droga, gli enti previdenziali costretti a farsi carico delle vittime dell' eroina? "Non è il caso di generalizzare, sostiene il magistrato che ha firmato il provvedimento,  perchè nel caso da me trattato il ricorrente è un uomo di 47 anni, tossicomane fin dal 1968, affetto da una psicopatia di base su cui ha trovato facile esca la tossicodipendenza che ha aggravato il suo stato mentale. In altre parole, la tossicodipendenza è stato un elemento marginale nel giudizio di invalidità, parificabile ad alcolismo o ad altre affezioni accessorie ad uno stato di alterazione mentale". Proprio l' elemento droga, tuttavia, pare sia stato quello che ha fatto affermare ai periti d' ufficio l' inabilità al lavoro dell' aiuto regista, e sulla tossicodipendenza avevano calcato gli stessi legali di A. C., nel corso della lunga battaglia condotta contro l' Enpals, l' istituto previdenziale dei lavoratori dello spettacolo. Inevitabile, dunque, che la sentenza emessa dal pretore varesino susciti discussioni e forse polemiche. A. C., nonostante fosse già malfermo di salute, fino al 1968 aveva potuto svolgere normalmente il suo lavoro, come disegnatore meccanico in un primo tempo, nel cinema più tardi. Poi, anche per reazione ai forti dolori provocati dalla malattia - soffriva di coliche renali - aveva cominciato a consumare sostanze stupefacenti. Per anni, l' aiuto regista ha fatto dentro e fuori da ospedali e centri di disintossicazione. Il suo stato di salute, a quel punto, secondo la perizia medico-legale, era però compromesso e le sue capacità lavorative conseguentemente ridotte del 75 per cento. Di qui, la dichiarazione di invalidità. L' ente previdenziale si è opposto al provvedimento, affermando che "non erano emerse invalidità tali da ridurre nei limiti di legge le capacità di guadagno" dell' aiuto regista.




Le conseguenze devastanti sul piano fisico e sociale della tossicodipendenza sono comprovate dalla presenza, nel 33% dei casi, di invalidità civile, riconosciuta, nella maggioranza dei pazienti, per cause fisiche, nonché dalla grande frequenza di problemi penali per reati connessi alla tossicodipendenza.

La dipendenza da sostanze si sta trasformando in patologia multifattoriale e cronica: è quanto emerge da un'indagine su 1200 persone dipendenti da sostanze, effettuata dal Dipartimento Dipendenze della ASL TO2.

"Nella fase della vita in cui l'individuo potrebbe esprimere la propria capacità lavorativa e avere piena autonomia - spiega il Dipartimento Dipendenze -, la condizione di dipendenza si somma alla fragilità sociale e alla compresenza di altra patologia, soprattutto psichiatrica (67%), infettivologica (46%), neurologica (33,9%)".

"Superato il rischio di mortalità precoce per overdose - aggiunge - avanza l'invalidità sociale: un paziente su 5, anche in condizione 'drug free', deve fare i conti con i danni correlati all'assunzione di sostanze e si ritrova, nella fascia d'età che dovrebbe essere di massima produttività, a dover assorbire grandi risorse assistenziali". Spesso alla tossicodipendenza si associa una patologia sanitaria, reddito insufficiente, mancanza di un'abitazione adeguata e assenza della rete familiare: si parla in questo caso di paziente multiproblematico.

"Nella maggioranza dei casi è maschio, di età compresa tra i 31 e i 50 anni, con licenza media inferiore", spiega Enrico De Vivo, responsabile Area Ricerca del Dipartimento Dipendenze 1. (Fonte Ansa)“





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Alcool E Spese Sociali



Ogni anno le bevande alcoliche uccidono in Europa 115.000 persone e costano alla società 125 miliardi di euro, pari all’1,3% del PIL europeo.
Un rapporto di 400 pagine, che analizza l’impatto sociale, sanitario ed economico dell’alcol in Europa, è stato presentato a Bruxelles dalla Commissione Europea.

Nel rapporto vengono evidenziate le basi sulle quali la Commissione Europea fonderà la sua prima strategia sull’alcol, attesa per la fine di quest’anno.
Dal rapporto diffuso emerge chiaramente che l’Europa risulta il continente dove il consumo di bevande alcoliche è il più alto al mondo e che gli stili ed i livelli di consumo dei vari paesi che la costituiscono sono molto più vicini di quanto sia comunemente creduto.

L’alcol è responsabile per il 7,4% di tutte le malattie e morti premature e rappresenta uno dei maggiori problemi sanitari in Europa: il suo consumo causa circa 60 differenti tipi di patologie e situazioni a rischio, compresi incidenti e ferite, problemi mentali e comportamentali, cancro, malattie cardiache e ictus.
L’alcol è una causa importante di danni a persone terze, inclusi circa 60.000 bambini nati sottopeso, fino a 9 milioni di bambini che vivono in famiglie che sono sconvolte dall’alcol, 10.000 morti innocenti di alcol passivo sulle strade, e oltre 2.000 omicidi ogni anno.



I costi sociali di questo flagello in Europa sono stimati a 125 miliardi di euro ogni anno, equivalenti a 650 euro ogni famiglia, limitandosi a considerare le malattie, gli incidenti, le ferite, i crimini e la perdita di produttività.
Peter Anderson, co-autore del Rapporto, ha dichiarato che quello che rende l’intervento veramente urgente è che noi sappiamo cos’è che può funzionare nel ridurre questo pedaggio: quello di cui c’è bisogno è la volontà di fare finalmente qualcosa.

Derek Rutherford, segretario di Eurocare, ha dichiarato che il consumo di alcol pone un fardello davvero pesante sui cittadini europei: se si trattasse di qualunque altra sostanza, ci sarebbero già pressioni parlamentari e ministeriali per entrare in azione; e pensare che sono i bambini quelli che pagano il prezzo più alto... Si parla tanto di fumo passivo e non si fa nulla sull’alcol passivo: certo che un’azione in questo campo richiede coraggio politico, perchè non si tratta solo di contrastare un piacere, per quanto sentito, ma di sfidare poderosi interessi economici; il prezzo delle bevande alcoliche è il fattore-chiave da aggredire, ma si potrebbe cominciare con il controllo della pubblicità e la proibizione delle sponsorizzazioni, che sono le strategie di marketing più insidiose dell’industria delle bevande alcoliche.

Dall'Italia Ennio Palmesino, presidente dell'Associazione italiana dei club degli alcolisti in trattamento (AICAT), ha dichiarato che questo rapporto aiuterà a fare chiarezza in un paese, come il nostro, dove l’allarme sociale è al minimo, nonostante le morti e le invalidità causate dalle bevande alcoliche, e dove invece si continua ad esaltare la cultura del vino e delle altre bevande alcoliche come se fosse un comportamento adulto, responsabile e persino alla moda; contrariamente a quanto l’industria delle bevande alcoliche ha cercato di far credere finora, le sole campagne di educazione non bastano a ridurre il danno causato dal bere: il rapporto mostra che dobbiamo fare interventi molto più incisivi, se vogliamo veramente ridurre il pedaggio pesantissimo che oggi paghiamo a questa sostanza.

L’ubriacatura, condizione che fa spesso ridere – giovani e meno giovani – e che prende maggiormente le sembianze di un divertimento, di una situazione “da sballo” piuttosto che di uno stato di intossicazione acuta, come in realtà è, di una condizione patologica a cui va incontro l’organismo, con gravi conseguenze. Sarebbe come se facessero ridere, sorridere o permettere di schernire coloro che si ammalano di influenza, di polmonite, di un’infezione o di un’intossicazione per aver mangiato funghi velenosi o cibo avariato. Certo, perché di questo si tratta: l’intossicazione acuta da alcol – la sbornia, la ciucca – altro non è che una patologia acuta che si manifesta nei modi più diversi, andando ad interferire e danneggiando tutti gli organi, i sistemi e gli apparati dell’organismo umano.

L’etanolo, contenuto in tutte le bevande alcoliche (birra, vino, aperitivi, superalcolici) viene assorbito rapidamente dall’organismo, entrando nel circolo sanguigno. Due sono gli organi bersaglio maggiormente interessati dalla sua presenza: il cervello ed il fegato. Gli effetti sul sistema nervoso sono quelli maggiormente visibili, ovvero i sintomi dell’intossicazione acuta. Ciascun individuo risponde diversamente ed in modo spesso ripetibile nel tempo in seguito all’assunzione di alcol. Da qui le note espressioni “aver la ciucca triste”, “aver la ciucca allegra” o ancora “aver la ciucca violenta”.  L’alcol provoca generalmente disinibizione, permettendo l’emergere di comportamenti non manifesti in sua assenza; in altri casi è principalmente induttore del sonno.

Per tale ragione l’alcol, al pari delle droghe, viene spesso utilizzato con significato “autoterapeutico”, vale a dire alla stregua di un farmaco che permette di provare quelle emozioni e veder realizzati i comportamenti “disinibiti” a cui la persona aspira ma che non riesce a manifestare nella quotidianità; stessa ragione per cui molti diventano consumatori problematici o alcolisti. Nella sua interazione con il sistema nervoso centrale, l’alcol agisce bloccando, accelerando o modulando il sistema dei neurotrasmettitori, sostanze prodotte dai neuroni con la funzione di trasmettere i segnali biochimici che permettono il corretto espletamento delle funzioni cerebrali (pensiero logico, capacità di parlare, di ricevere informazioni, di memorizzarle, di rievocare la memoria, stato di allerta di fronte al pericolo, coordinazione dei movimenti, tempi di reazione, emozioni e sentimenti).

Tale squilibrio avviene sì durante l’intossicazione acuta (da cui le espressioni “alluvionato”, “impetroliato” e tutte quelle che evocano l’idea di galleggiamento del cervello in un liquido tossico), ma lo scompenso permane per molto più tempo: segnali di ciò sono i postumi della sbornia del giorno dopo (malessere diffuso, mal di testa, nausea, sensibilità alla luce e ai suoni, dissenteria, perdita dell’appetito, tremore, debolezza, insonnia, ecc.) definiti tecnicamente sintomi di hangover. Lo squilibrio a livello cerebrale continua molto più a lungo di quanto i sintomi – ed il loro cessare – ci permettano di immaginare. Infatti, soprattutto nei giovani, la plasticità neuronale, ovvero la versatilità del cervello e la capacità vicariante dei suoi circuiti, permette di compensare gli effetti visibili prodotti dagli squilibri biochimici.

Ripetute assunzioni di alcol nel tempo, oltre a indurre dipendenza, danneggiano progressivamente questa funzione riparativa, tanto durante i post-sbornia, quanto nella quotidianità, compromettendo permanentemente le funzioni cognitive cerebrali e pertanto la qualità di vita, fino a determinare disturbi psichici (stati di malessere, ansia e depressione), sindromi neurologiche o gravi patologie degenerative (demenza). Ciò avviene per il danno diretto provocato dall’alcol alle cellule nervose che vengono bruciate e che, non potendo riprodursi, vanno incontro alla morte con progressiva riduzione della massa cerebrale.



I danni dell’alcol a livello del fegato sono determinati dall’attivazione dei suoi enzimi necessari per degradare una sostanza tossica – l’alcol, per l’appunto – e i suoi derivati, quali l’acetaldeide libera contenuta in qualsiasi bevanda alcolica e quella prodotta dal metabolismo per trasformazione dell’alcol stesso.

L’acetaldeide è un composto fortemente cancerogeno, degradato solo in parte a livello epatico dall’enzima aldeide deidrogenasi, enzima rapidamente saturabile. La parte di acetaldeide non degradata in acetato (sempre presente quando si assume alcol) essendo tossica per l’organismo, determina danni sia in modo diretto che indiretto, attivando una serie di reazioni a catena su tutti gli organi e gli apparati. Essa, infatti, è in grado di danneggiare i tessuti, le proteine cellulari, il DNA, attraverso la produzione di radicali liberi, notoriamente tossici ed induttori di trasformazioni in senso neoplastico (tumori).

La degradazione dell’alcol attraverso il fegato sottopone quest’organo a un’importante azione tossica che produce danno alle cellule epatiche fino a farle ammalare (steatosi epatica, epatopatie acute o croniche) o addirittura provocandone la morte (cirrosi epatica).

Ulteriori danni dell’assunzione di alcol sono quelli derivanti dallo squilibrio degli elettroliti, aggravato  dalla sudorazione indotta dall’alcol e in caso di vomito, nonché lo stato di ipoglicemia provocato dalle reazioni di ossidazione dell’etanolo e dell’acetaldeide.

Ogni anno in Italia sono tra 20.000 e 30.000 le morti causate dall’alcol, quattro volte più degli incidenti stradali, e l’alcol rappresenta la prima causa di morte tra i giovani fino all’età di 24 anni. In Europa i decessi dovuti all’alcol nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni si attestano intorno al 15-25% ed è responsabile per il 7,4% di tutte le malattie e le morti premature (dagli incidenti stradali e sul lavoro, alle patologie alcol correlate). I costi sociali dovuti ai danni prodotti dall’alcol sono pari al 3,5% del PIL italiano.

Tuttavia, l’allarme sociale è al minimo, nonostante le morti e le invalidità causate dalle bevande contenenti alcol; per quanto impopolare, specialmente in un paese forte produttore di vino e con una lunga tradizione enologica, è necessario – oltre che corretto – che i giovani apprendano queste informazioni per poi poter fare liberamente, ma con consapevolezza dei rischi, le proprie scelte.

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venerdì 25 settembre 2015

LE BESTEMMIE



Il verbo blaspheméo significa nella lingua greca insultare, calunniare, bestemmiare: esso infatti e composto da due verbi che significano danneggiare e dire (blapto-phemí). Nel greco profano lo si usava sia nel senso proprio di bestemmia, cioè ingiuria o falsità nei confronti di una divinità, come anche nei confronti delle persone con il senso di calunniare, insultare. Con questi significati il verbo e i sostantivi da esso derivati sono usati anche nella bibbia greca detta dei LXX e nel nuovo testamento. In italiano bestemmiare ha un uso molto più ristretto che nella lingua greca tanto che la traduzione di questo verbo deve servirsi di molte altre parole per renderne il significato.

Nel vocabolario del nuovo testamento il verbo blaspheméo lo si usa in assoluto parlando della vera e propria bestemmia contro Dio e i suoi attributi, ma si usa anche per indicare un atteggiamento che mette in questione le prerogative di Dio.

Gli scribi e i farisei diranno «costui bestemmia» quando Gesù affermerà di rimettere i peccati (Marco 2,7) e uno dei motivi della condanna di Gesù sarà appunto la bestemmia perché Gesù si dichiara giudice escatologico (Marco 14,64). E' bestemmiare anche l'affermare che Gesù non è il messia (Marco 15,29), «Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava...»  Luca 23,39, ed è bestemmia l'abbandono della fede (1 Tim. 1,20). E così bestemmiano gli avversari di Paolo (Rom. 3,8) che lo accusano di essere lui stesso un bestemmiatore.

In ultima analisi secondo il nuovo testamento la bestemmia si rivolge sì contro Dio, ma soprattutto contro il suo Cristo negandone la funzione salvifica. In questo senso va inteso anche l'insulto del "malfattore" appeso con Gesù alla croce.

C'è poi una affermazione sulla bocca di Gesù, che per certi versi è misteriosa, ed è il passo, comune ai vangeli sinottici, con cui egli dichiara imperdonabile la bestemmia contro lo Spirito Santo (Mc 3,28-30). Secondo i più Gesù vuole affermare che chi rifiuta il suo dono di salvezza non potrà essere forzato a riceverlo e renderà così impotente l'azione dello Spirito Santo.

Presso i popoli primitivi esisteva la convinzione che la parola possedesse una forza magica, cioè che fosse in grado di rendere magico l'oggetto interessato, di modificarlo. La funzione antica della bestemmia, così come dell'invettiva e della calunnia vanno compresi alla luce di tale mentalità.

Negli scritti greci profani possono essere indicate come bestemmie le false presentazioni della divinità, per esempio le forme antropomorfe, come pure il dubbio circa la potenza della divinità.

Nel diritto romano la bestemmia non era considerata un reato. Il brocardo "deorum iniuriae diis curae" (delle ingiurie agli dei si occupino gli dei) esprimeva il carattere laico dello stato. Infatti lo stato romano fu sempre caratterizzato dalla presenza di diverse religioni. Solo quando nel 313 il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero la bestemmia fu considerata un grave delitto, da punire con la morte o altre incisive sanzioni penali. Col Codice Giustinianeo del 534 la bestemmia fu sanzionata con la pena di morte.



Nell'Antico Testamento greco il termine blasphemeo dice sempre riferimento, diretto o indiretto, contro la maestà divina, e, con poche eccezioni, indica sempre l'ingiuria a Dio dei popoli nemici di Israele. Alcuni esempi:

Nel paragone con il re di Assur, JHWH è privato di ogni potere, è "reso inferiore", cioè insultato (2 Re).
Quando Israele viene assalito è JHWH che viene bestemmiato (Tobia, 2 Mac).
Quando Edom si felicita della rovina di Israele, insolentisce contro JHWH (Ez).
Dato che per i pagani il Dio d'Israele non è fonte di speranza, essi sono in genere indicati come bestemmiatori di Dio (cf. Dn Versione dei Settanta).

L'espressione di Levitico:

« Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare. »
si interpreta nel senso che anche solo menzionare il nome di JHWH è una bestemmia, perché tale nome non deve essere assolutamente pronunciato (Es). Viene comminata la morte non soltanto agli israeliti che bestemmino, ma anche ai pagani (2 Re, 2 Mac, ecc.)

L'affermazione di Giobbe: La collera non ti trasporti alla bestemmia, l'abbondanza dell'espiazione non ti faccia fuorviare, è interpretata da mons. Gianfranco Ravasi nel senso che "anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un'istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall'impotenza che l'uomo avverte per sé".
Il giudaismo conserva in genere la valenza dei testi esaminati della Versione dei Settanta.

I termini legati alla radice di blasfemia compaiono nel Nuovo Testamento 56 volte, di cui 34 nella forma di verbo, senza che ci sia alcun libro nel quale tali voci siano più attestate che in altri. Si tratta sempre di un uso religioso, cioè in riferimento diretto o indiretto a Dio (eccetto Gd): bestemmie contro Dio sono parole o atteggiamenti che offendono la gloria e la santità di Dio.

I significati riscontrati sono i seguenti:

Bestemmia come mancanza contro la maestà di Dio. Può essere contro Dio stesso (At, Ap) o contro il suo nome (Rm, 1Tim, Ap, dove il nome è parafrasi di Dio stesso), come contro la parola di Dio (Tt) o contro gli angeli di Dio (2Pt). Lo stesso Gesù, quando rivendica alla sua parola e alle sue azioni un'autorità messianica e si attribuisce diritti e poteri (per esempio, quello di rimettere i peccati, Lc, Mt), appare agli occhi dei giudei come un bestemmiatore di Dio (Mc, Gv). La sua condanna a morte è basata tra l'altro sulla bestemmia di Dio (Mc e par., Mt). Anche nel tardo giudaismo tale delitto comporta la morte.
Bestemmia come negazione della messianicità di Gesù, a cui consegue l'ingiuria e la derisione (Mc e par., Lc); chi lede la dignità dell'inviato, Gesù, con la bestemmia, pecca contro Dio stesso.
Bestemmia come ingiuria rivolta verso i discepoli di Gesù: la chiesa di Cristo e i suoi membri che testimoniano il Cristo con la loro vita sono oggetto delle ingiurie che avevano colpito il loro Signore (1 Pt, Ap). Allo stesso modo Paolo deve a sua volta patire le persecuzioni che aveva prima consumato contro i cristiani (At, 1 Tim). Bestemmiare la chiesa che porta il nome di Cristo costituisce derisione del Cristo e indirettamente bestemmia contro Dio.
La condotta cattiva dei discepoli può essere occasione di bestemmia contro Dio o contro la sua parola (1 Tim, Tt). La vocazione dei discepoli è quella di contribuire alla glorificazione del Padre (Mt). In questa linea vanno compresi anche i cataloghi dei vizi in cui si trova sempre la condanna della bestemmia (Ef, Col, 1 Tim; 2 Tim). La bestemmia è presentata quale caratteristica specifica dei pagani e dei cristiani apostati.



Giuda parla di una bestemmia contro esseri gloriosi. L'espressione, non chiara, si riferirebbe a propagatori di false dottrine dalla vita libertina, che con la loro immoralità contravvenivano a determinate esigenze rituali e ascetiche delle potenze angeliche, bestemmiando così questi esseri gloriosi.

Il peccato della bestemmia può essere perdonato (Mc, Mt), ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non può essere perdonata (Mc). Tale loghion, di carattere per noi enigmatico, viene interpretato comunemente nel senso che, tra coloro che recano ingiuria allo Spirito Santo vi sono alcuni che, pur riconoscendo l'azione dello Spirito di Dio nell'attività di Gesù, possono (e in questo consiste la bestemmia) scambiare la fede in Dio con la fede nel diavolo; il loghion mette in guardia, con profonda serietà, dal quest'estrema e quasi inimmaginabile possibilità demoniaca dell'uomo di dichiarare guerra a Dio, non in debolezza e in dubbio, ma dopo essere stato sopraffatto dallo Spirito Santo, sapendo quindi con precisione a chi dichiara guerra. Questo bestemmiatore diventa pienamente consapevole nell'incontro con Dio. "Perciò colui che bestemmia lo Spirito impreca non più un Dio Lontano del quale si è fatta un'idea ridicola, ma un Dio che gli ha manifestato la sua opera di grazia convalidata dal segno della rivelazione. Per cui dovrebbe rivolgersi a lui con un atteggiamento di riconoscenza, non di bestemmia".

Al contrario di alcune religioni - fra cui l'Ebraismo - il Corano esorta i suoi fedeli a nominare spesso il nome di Dio (che, in base a una semplice lettura del testo sacro dell'Islam, è Allah, ma anche al-Rahman, ossia "Il misericordioso").

Dunque, nella normale parlata araba e di altre lingue di Paesi di cultura islamica, si usano numerose espressioni e interiezioni che impiegano il termine Allah o i sinonimi relativi all'Essere Supremo: "Se Dio vuole", "Dio mi perdoni", "Mi rifugio in Dio", "Dio ne sa di più" o il noto takbir (Allahu Akbar ) o il semplice Ya Allah! (Oh Dio!).

Accostare il nome di Dio o del profeta Maometto a sostantivi o aggettivi insultanti oppure osceni costituisce nondimeno uno dei principali peccati, sanzionati con la massima durezza dalla giurisprudenza islamica, come avvenne ad esempio, per bestemmie rivolte al profeta dell'Islam, con un folto gruppo di oltranzisti cristiani mozarabi a Cordova (i cosiddetti "Martiri di Cordova") che, all'epoca dell'Emirato dell'omayyade Abd al-Raman II (822-852), si recavano nella moschea principale per rivolgere insulti a Maometto.
Anche più di recente tale grave fattispecie giuridico-religiosa è stata ipotizzata per quanto riguarda la nota opera letteraria di Salman Rushdie "I versi satanici", anche se il reato contestato dai mullah sciiti iranici e dall'Ayatollah Khomeini fu piuttosto quello di apostasia, in punta di principio sciaraitico sanzionabile parimenti con la pena di morte.



La bestemmia ingiuriosa e triviale, in quanto offensiva del sentimento religioso dei rispettivi fedeli, è punita nelle legislazioni penali vigenti in molti paesi sia teocratici che laici; in questi ultimi, i termini della legge sono stati estesi per tener conto delle sensibilità religiose delle popolazioni immigrate da altri paesi.

In alcuni paesi la bestemmia non è un crimine. Per esempio, negli Stati Uniti d'America essere perseguiti per questo crimine violerebbe la Costituzione secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza nel caso Joseph Burstyn, Inc contro Wilson. Nel Regno Unito, precisamente in Inghilterra e Galles i reati di blasfemia sono stati aboliti nel 2008. In Europa, il Consiglio d'Europa ha raccomandato che i paesi membri adottino leggi a favore della libertà d'espressione. Nei paesi in cui è in vigore la shari'a ed in altri paesi (come ad esempio il Pakistan), la blasfemia è un reato punibile con la pena di morte.

In luogo del reato di blasfemia, o in aggiunta ad esso, alcuni paesi vietano l'incitazione all'odio su base religiosa, il vilipendio della religione o gli "insulti religiosi". Queste reati si configurano con la citazione in giudizio effettuata da chi si senta offeso nei confronti della propria sensibilità religiosa.

Come tutte le imprecazioni, anche non di natura sacrilega (es. porca miseria, porca puttana), le bestemmie italiane più diffuse accostano l'epiteto porco al nome da profanare: i più tipici esempi sono infatti i nominativi della divinità e della Madonna associati prima o dopo l'elemento lessicale offensivo (spesso tale elemento coincide con il termine riferito al suino, porco o maiale). Essi sono testimoniati anche dalla letteratura contemporanea, in questa forma (Ammaniti, 2004, p. 46) o in alcune varianti (Iddio invece di Dio, Manganelli, 1975, p. 125; mapporco, Scòzzari, 1996, p. 29). Anche Pasolini, nelle opere ispirate alla vita di borgata, riproduce queste bestemmie, ma censurandole in porco d... e porca m...

L'epiteto porco non è però l'unico. Fra le altre bestemmie si ricordano l'uso di termini come bestia, boia, serpente, e cane, quest'ultima specialmente in Italia settentrionale; nella forma dialettale can è il tipico intercalare veneto. Sempre in Veneto sono molto usati "mas-ciò", "lazaròn" e "luamàro" (rispettivamente maiale, lazzarone e letamaio). In Piemonte frequentemente l'epiteto usato è "faus" (falso). Inoltre, tra gli altri epiteti offensivi si nomina "mannaggia" associato prima del nome della divinità (utilizzato specialmente per Cristo e per la Madonna), e "puttana" se la bestemmia è rivolta alla Madonna.



Frequente è il mascheramento del nome venerato in vocaboli assonanti, a volte dotati di significato ("Maremma" per "Madonna"; "zio", oppure "diesel", "due", "duo", "Diaz", "disco", "Dionisio", "Diogene", "Diomede" per "Dio"; "Christian", "Cristoforo", "cristallo", "Cristopher", "cribbio" per "Cristo"), a volte privi di senso ("diu", "dao", "tio", "dino", "dinci", "dindio" ("tacchino" in veneto), "dindo", "disse", "diona", "diose", "madosca", "cristianamento"), e "ostrega" al posto di "ostia".

Fenomeno inverso è la sostituzione dell'epiteto offensivo: essa può tradire l'intento blasfemo (es. "porlo" per "porco", "bo" per "boia") o tradursi in un'espressione ancora forte ma non più ingiuriosa. È il caso dell'eufemismo "perdio", registrato come lemma autonomo dai dizionari, e dei suoi derivati ancora più blandi ("perdinci", "perdiana").

Su questa scia si pongono espressioni che sostituiscono l'epiteto offensivo con sostantivi e aggettivi privi del tradizionale senso di impurità (es. "campanaro", "povero", "cantante", "Carlo"; nell'area modenese e reggiana, però, si nomina un "cantero" che può riferirsi al pitale), quando non, apparentemente, benevoli ("caro", "bono", "bello", "santo", "benedetto", "beato"). Tra gli eufemismi si nomina anche l'associazione tra "Dio" e "Cristo".

Inoltre, vi sono altre espressioni usate per mascherare l'intera bestemmia, utilizzando parole inventate o non, che si basano sulla somiglianza fonetica ("Marcoddio", "Bioparco", il veneto "Orcodì" - dove "dì" sta per "giorno"- ecc.).

L'insegnamento morale della Chiesa cattolica applica il secondo comandamento Non pronunciare il nome di Dio invano alle bestemmie, anzi, vede nella bestemmia un gesto ancora più grave di quello stigmatizzato dal secondo comandamento.

L'imperatore Giustiniano giudicava i bestemmiatori meritevoli di morte più di qualsiasi altro delinquente e Filippo II li faceva affogare con una grossa pietra al collo. Luigi IX faceva forare la lingua dei bestemmiatori con un ferro rovente e diceva che egli stesso si sarebbe sottoposto a tale supplizio pur di eliminare la bestemmia dal suo regno.

Alcuni uomini e padri della Chiesa, autorevoli per la santità della vita nonché per l'alto insegnamento lasciato in eredità alla Chiesa come sant'Agostino d'Ippona, san Girolamo, san Tommaso d'Aquino, san Bernardo da Chiaravalle, san Bernardino da Siena fin dall'antichità hanno ritenuto la bestemmia come il peccato più grave tra tutti i peccati mortali.

Nelle religioni patriarcali, come quelle abramitiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), il corpo e l'istinto naturale animale a livello popolare sono spesso percepiti fortemente negativi e triviali; perciò una tipica bestemmia per queste religioni è l'identificazione con animali quali i suini, oppure ancora come escrementi.

Poiché la bestemmia, nella storia, è stata spesso contrastata da legislazioni mirate a sopprimerne la diffusione, non ne è particolarmente frequente l'uso in letteratura dove, nei rari casi in cui se ne trovano accenni, è spesso censurata o variamente mascherata. L'esempio più eminente è quello dell'opera in francese di Rabelais, scritta a cavallo tra Medioevo e Rinascimento. Come analizzato dal critico russo Mikhail Bakhtin, l'uso sistematico della bestemmia e del corpo grottesco, nel contesto carnevalesco, ha il significato di una gioiosa celebrazione della vittoria della vita.



Nel nostro ordinamento pronunciare bestemmia è stato, per lungo tempo, un reato penale. Sulle ragioni di questa collocazione particolarmente “severa” è difficile esprimersi in modo univoco, ma si può certamente rilevare che la risalente compenetrazione tra tavola valoriale e principi del cattolicesimo potrebbe aver ragionevolmente influito sul Legislatore del tempo.
Oggi, con l’avvento di una penetrante tendenza alla secolarizzazione, il disvalore sociale della bestemmia si è considerevolmente ridotto. L’esperienza comparatistica restituisce risultati disuniformi: nonostante la bestemmia sia considerata un comportamentto antigiuridico in una significativa parte della comunità internazionale, molti ordinamenti prediligono una più ampia estensione del diritto di espressione (si pensi agli Stati Uniti d’America ). Il Legislatore ha, nell’ambito di un progressivo fenomeno di deflazione del sistema penale, parzialmente eroso la precedente disciplina, riallocando la condotta della “bestemmia” tra gli illeciti amministrativi. L’illecito amministrativo (ad esempio la c.d. “multa per eccesso di velocità”), pur condividendo alcuni profili strutturali con il reato penale (in particolare i principi di personalità, legalità, tassatività, capacità), se ne discosta significativamente per il ridotto disvalore giuridico e per la relativa inferiore entità della pena.
Attualmente l’art. 724 del Codice Penale prevede, per chiunque pronunci bestemmia, la sanzione amministrativa nella misura massima di euro 309. Il precetto ha subito un intervento erosivo della Consulta che, con una pronuncia del 1995, ha espunto il riferimento al credo cattolico come “religione dello Stato”, sulla scorta della modifica dei Patti bilaterali tra Repubblica Italiana e Chiesa Cattolica noti come “Lateranensi”. Quanto al soggetto attivo, l’illecito può essere commesso da chiunque (si trattava in passato di un “reato proprio”) ed, in riferimento al bene giuridico oggetto di tutela, può pacificamente ritenersi che esso si identifichi col sentimento religioso e con la libertà di professione del credo. La norma richiede, ai fini della configurabilità dell’illecito, che la condotta sia tenuta “pubblicamente” e quindi in luoghi accessibili ad altri soggetti. Molto discussa è la possibilità di ritenere la sanzione applicabile nel caso in cui la bestemmia si concretizzi per il tramite di mezzi telematici di comunicazione. La giurisprudenza consolidata considera i “social network” luoghi pubblici. Il tema è tornato agli onori della cronaca a seguito di un generalizzato malcontento dei credenti per il proliferare di siti web e pagine sui social network caratterizzate da contenuti oltraggiosi per il cattolicesimo e, più in generale, per l’altrui sentimento religioso. Nello specifico caso delle pagine sui social network, si era spesso profilato il più grave reato di “Istigazione a disobbedire alle leggi”, condotta penalmente sanzionata all’art. 415 del Codice Penale con la reclusione da sei mesi a cinque anni. In alcuni siti e pagine web si è manifestata la preoccupante tendenza degli utenti alla realizzazione e condivisione di testi, immagini ed altri file multimediali a contenuto spregiativo nei confronti del sentimento religioso. Assunto che la bestemmia costituisce illecito amministrativo, la condotta del soggetto che, personalmente o telematicamente, istighi o induca altri all’atto di bestemmiare rientra infatti nel perimetro della fattispecie citata del 415 C.P..
L’oggetto della bestemmia era indicato genericamente, nel testo censurato dalla Consulta, in “simboli” e “persone” venerate dalla religione. Nel testo originario si considerava bestemmia, quindi, non solo l’invettiva verbale rivolta alla divinità, ma segnatamente l’oltraggio a simboli del culto (si pensi alla croce) o a soggetti destinatari di venerazione. Eppure, la giurisprudenza di merito ha disatteso le aspettative più rigoriste: il vilipendio alla Vergine è stato infatti in più casi escluso dall’area di punibilità della norma. Tra i tanti, una richiesta di archiviazione in tal senso è stata in passafo accolta dal Tribunale di Bologna, aderendo alla prospettazione che, non trattandosi di divinità in senso stretto, la Madonna non goda delle stesse garanzie di tutela. Nonostante l’intervento erosivo della Corte Costituzionale abbia espunto il riferimento alla “religione dello stato”, de facto la norma è rivolta alla tutela specifica (ed unica) del credo cristiano cattolico.
Già nel 1988 con la storica sentenza n. 925 la Corte Costituzionale aveva denunciato il periglioso vuoto di tutela in relazione alle altre religioni. Allo stato dell’arte, la norma si limita a sanzionare gli abusi ai danni del sentimento religioso cattolico, marginalizzando gli altri credi e mancando di apprestare garanzie uniformi. Il monito della Consulta è passato inascoltato, dato che ad oggi non si sono registrati interventi estensivi della tutela anche alle altre religioni, creando una concreta disparità di trattamento tra i soggetti dell’ordinamento in relazione al loro credo, (mal)giustificabile esclusivamente per ragioni storiche e tradizionali.
I possibili sviluppi de jure condendo si collocano essenzialmente lungo due possibili direttrici: l’abrogazione in toto dell’illecito amministrativo (sull’esempio del Regno Unito, che nel 2008 ha espunto la fattispecie dall’ordinamento) per decomprimere il sofferente diritto di espressione, oppure la riforma della struttura dell’illecito, al fine di apprestare una tutela uniforme ed indifferenziata.

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