lunedì 30 novembre 2015

BAGNARIA

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Bagnaria è un comune situato nell'Oltrepò Pavese, in valle Staffora, in una zona di bassa montagna.

Bagnaria fece parte del marchesato dei Malaspina fin dall'investitura imperiale del 1164; passò al ramo dello Spino Fiorito e, nell'ulteriore divisione della famiglia nei tre rami di Varzi, Godiasco e Pizzocorno, toccò a quest'ultimo. Esso fu bruscamente troncato nel 1413 con l'assassinio di tutti i membri nel castello di Olivola in Lunigiana: nella dispersione dei loro beni, Bagnaria fu acquistata dai nobili Busseti di Tortona, e quando i feudi di valle Staffora, ormai sottomessi dai duchi di Milano, furono aggregati alle province del ducato, Bagnaria non toccò a Pavia ma a Tortona. E del Tortonese fece sempre parte fino all'inizio del XIX secolo.

Nel 1485 il feudo di Bagnaria passò ai Fieschi di Genova, e dopo la loro ribellione fu confiscato e dato ai principi Doria. Questi riuscirono a far riconoscere questo feudo come imperiale o esente: questo significa che si trovava in una condizione ancor più privilegiata rispetto alle giurisdizioni separate dell'Oltrepò, godendo della totale autonomia giudiziaria e fiscale, in pratica era uno staterello indipendente. Tra l'altro, mentre negli altri feudi c'era il diritto d'appello alla magistratura di Stato contro i giudizi dei giudici feudali, qui il diritto di appello era al tribunale del Principe Doria.

Il feudo imperiale fu abolito con l'arrivo di Napoleone; nel 1801 Bagnaria fu staccata dal Tortonese e unita al Bobbiese nella provincia di Bobbio, con cui entrò poi (1859) nella provincia di Pavia. Il vecchio nome era Bagnara, solo nel 1863 prese il nome attuale. Nel 1929 venne aggregato al comune di Varzi, ma nel 1946 riacquistò l'autonomia comunale.

La scoperta del Castelliere del Guardamonte o Monte Vallassa che poggia su una zona fossilifera di notevole interesse, risale al 1951. Furono alcuni cacciatori che nello scavare attorno ad una tana dove aveva trovato rifugio una volpe, rinvennero frammenti di vasellame in argilla. Da scavi sistematici, anche se ad oggi ancora limitati, condotti dal Prof. F. Lo Porto della Sovraintendenza alle Antichità del Piemonte, si arrivò alla scoperta di abbondante materiale archeologico. I ritrovamenti più antichi si fanno risalire alla prima età del ferro. L'importanza archeologica del Monte Vallassa era stata per così dire preannunciata nel 1915 quando casualmente fu rinvenuta una dramma padana databile nel primo quarto del II Sec. a. C. Per conio e peso la moneta era molto simile ad un altro pezzo appartenente al tesoretto di Biandrate. Si ritiene che moltissimo materiale, che potrebbe rivelarci interessanti notizie sulla vita di quelle antiche popolazioni, sia ancora da riportare alla luce, ma di norma li troviamo su alture di non facile accesso. A questi luoghi già difficilmente raggiungibili per le caratteristiche geografiche del terreno, venivano aggiunte dalla Comunità che li abitava, opere di difesa con la costruzione di muri a secco e fossati intelligentemente disposti. Ritrovamenti di questo tipo si sono riscontrati in Puglia e Venezia Giulia. La scelta della posizione e la tecnica costruttiva, hanno indotto a riconoscere in questo tipo di insediamenti una civiltà detta “Civiltà dei Castricoli” dove per Castricoli si intende gli abitanti dei Castellieri. Di questo tipo di civiltà ben poco si conosce. Possiamo comunque distinguere due fasi successive, sia dai ritrovamenti di utensili e ceramiche che dai riti funebri all'epoca in uso. Nella fase più antica veniva infatti praticata l'inumazione con il corpo del defunto rannichiato in tombe a cassetta, mentre nella fase a noi più vicina prevalse la cremazione, pratica questa che ci induce a pensare ad una influenza culturale di origine centro-europea. Seppure in presenza di indagini limitate, possiamo tranquillamente affermare che Guardamonte sia stato abitato per un lungo periodo di tempo, dal neolitico sino al tardo impero, ipotesi questa che lo stesso Prof. Lo Porto non esclude sebbene non comprovata. La lunga permanenza dell'uomo in questo luogo è testimoniata dai ritrovamenti di fittili e altro materiale la cui origini si fa risalire ad epoche assai diverse e con altrettante datazioni. Tra i reperti più interessanti si citano: frecce in diverse fasi di lavorazione, un'ascia in pietra verde, una punta di freccia, la punta di uno stiletto di selce chiara, un brunitoio litico, un bordo di vaso, una piccola terracotta zoomorfa frammentata, frammenti di argille in pasta vitrea blu e rubino di tipo gallico. Tra i ritrovamenti, va citato pure un frammento di parietale sinistro di giovane donna che attualmente si trova presso l'istituto di antropologia dell'Università di Pisa. Sul luogo sono state rinvenute inoltre notevoli quantità di ossa di animali e ciò rappresenta un'altra testimonianza della lunga permanenza dell'uomo in questo luogo, tra le ossa rinvenute, pare certo che un frammento di dente di notevole dimensione sia da attribuirsi all'Uro e ciò non deve stupire considerato che questo antico progenitore dei bovini domestici si è estinto solo in epoca relativamente recente. In epoche a noi più vicine sono comunque certe le influenze romaniche testimoniate dal ritrovamento di una statuetta in bronzo del sec. V a.C. e da altre importanti tracce lasciate su tutta la zona. Si suppone che la comunità locale sia stata influenzata anche dalla cultura Etrusca, considerazione che fa seguito alla scoperta di frammenti di ceramiche che si presumono Etrusche per il caratteristico colore scuro, dovuto ad un processo di fumigazione in uso presso quelle popolazioni. L'individuazione dell'insediamento all'epoca operato dall'uomo ed il suo lungo permanere, in un luogo oggi considerato “scomodo”, non deve comunque stupire, ciò rientrava nella logica dei tempi. Guardamonte rappresentò per i suoi abitanti un luogo ove ci si poteva facilmente difendere dai pericoli; sia questi, rappresentati da altri uomini o da animali e nello stesso tempo, per la sua collocazione geografica, un ideale punto strategico di osservazione. Dall'alto delle sue rocce, si poteva avere il controllo di quei fondo valle che dovevano poi nel tempo prendere il nome di Valle Staffora e Val Curone. Il problema della difesa da pericoli esterni è stato senza dubbio una della maggiori preoccupazioni della Comunità che viveva a Guardamonte. L'impianto urbanistico dell'insediamento ne è la più evidente testimonianza. L'abitato sorgeva nel versante che degrada verso le frazioni di S. Ponzo e Mutti ed a difesa dell'abitato furono sapientemente costruite una lunga serie di muri a secco, di cui rimangono ancora oggi tracce nei boschi. Dal lato sud-est le rocce a picco sui sottostanti boschi alle spalle della frazione di Coriola, rappresentavano una ideale difesa naturale. Nella roccia che proteggeva il lato sud-est risulta essere stato scavato dall'uomo un camminamento che non doveva essere solo a scopo difensivo e che conduce ad una caverna il cui accesso è ora ostruito. La caverna di cui non si conosce l'utilizzo, si può ipotizzare che fosse adibita a magazzeno viveri o a rifugio estremo in caso di gravi pericoli o per entrambe le cose. Con il mutare dei tempi, nel corso di un processo lento ma continuo, vennero meno i motivi per i quali vivere sul Monte Vallassa rappresentava una condizione necessaria per la sopravvivenza della popolazione. “L'uomo di Guardamonte” con il passare dei secoli mutò le sue abitudini e con esse la stessa organizzazione sociale; da cacciatore divenne prima pastore e poi per ultimo agricoltore e quindi si resero necessarie terre fertili pianeggianti e facilmente accessibili. Gradualmente, la popolazione di Guardamonte, abbandonò probabilmente quell'insediamento per trasferirsi nel fondo valle, dove ora sorge la frazione di Torretta, che offriva migliori condizioni di vita.

Notevole è il centro storico di Bagnaria, e le altre attrattive artistiche sono : il Santuario, il medievale borgo caratterizzato da case in pietra; da non perdere la romanica chiesa parrocchiale dedicata a San Bartolomeo, dove è possibile ammirare una pregevole balaustra e l' altare maggiore decorato con marmi di vario colore; notevoli sono anche gli affreschi originali che si trovano all'interno di questa chiesa.

Un lungo e stretto ponte sul Torrente Staffora collega la frazione Cà de Galeotti con la SS 461 Voghera-Varzi. L'abitato si distende sul lato sinistro del torrente Staffora e si articola in diverse località: Casa Berletta (mt. 371), Casa Meitina o Possione (mt. 346), la Corte (mt. 339), Casa Galeotti Inferiore (mt 363), il Bosco (mt. 375), le Cascine (mt 370), Casa Galeotti Superiore (mt.406). Il nucleo abitativo originario e più antico è senza dubbio costituito da Casa Galeotti Superiore, un gruppo di case ora disabitate, la maggior parte ormai in rovina e dove la tradizione collocava una piccola Cappella campestre (Gesiora), travolta da un movimento franoso nel profondo Rio Scabiassa i cui resti sono ancora visibili. In ordine all'origine del nome, due sono le possibili ipotesi. La prima appartiene alla tradizione; è vox populi che, il nome alla frazione sia stato attribuito a seguito della presenza in questa località di un galeotto fuggito dalle prigioni di Gremiasco e le rovine, ormai quasi totalmente scomparse di una costruzione in muratura nei boschi, costituirebbero la prova di quanto rimane della sua abitazione. Non è da escludere però anche l'ipotesi di una derivazione dal nome proprio Galeotius o Galeatius che si ritrova con una certa frequenza in diversi documenti alla fine del medioevo. Secondo il censimento del 1616, a Cà de Galeotti (superiore) risiedevano 2 famiglie, quella di Cristofino de Galeotti e di suo nipote Francesco, per complessive 8 anime, alla Possione una sola famiglia di 7 anime, quella di Agostino Tamborino, a Cà di Berletta 2 famiglie e 6 anime, quelle di Catherina e Agnesina, entrambe vedove, è citata pure Cà di Ruffino dove viveva una famiglia composta da 4 anime. I residenti sono stati sempre particolarmente legati alla piccola chiesa dedicata a S. Antonio da Padova. Non esistono documenti da cui si possa definire esattamente il periodo in cui è stata costruita la chiesa. Presso l'archivio parrocchiale è conservato un antico registro che risale ai primi anni del 1700 (anno 1720) su cui veniva annotata la contabilità dell'Oratorio. Ne consegue pertanto che la costruzione della chiesa deve farsi risalire ad un'epoca precedente a tale data. L'interno dell'Oratorio non presenta decorazioni di particolare pregio, sulle due pareti laterali sono raffigurati, sul lato destro la Madonna della Guardia, mentre sul lato sinistro S. Antonio Abate. All'interno della chiesa è conservata la statua di S. Antonio da Padova che in occasione della festa patronale viene portata in processione in località Casa Duca. Il primo progetto di un ponte sul torrente risale al 2.5.1949 allorché viene affidata al geom. Luigi Tevini la progettazione di una "ponticella" dalla portata di 60 q.li "... tenuto conto che la frazione conta circa 200 anime e che la popolazione è disponibile ad autotassarsi sino alla concorrenza di L. 1.000.000." Il ponte sarà però costruito successivamente. Nel 1954 la ditta Mazza di S. Giuletta ne costruisce una prima parte che si interrompe a metà del torrente perché con il ponte era stata prevista la realizzazione di una vasta opera di bonifica e recupero del greto del torrente per uso agricolo. Successivamente abbandonata l'idea della bonifica, si procedette al prolungamento del manufatto, così come oggi appare.

La frazione Casa Massone sorge in prossimità della strada Statale Voghera-Varzi e prende il nome dal Rio Massone o dei Massoni che scorre accanto all'abitato. La frazione non è citata nel censimento del 1616. A valle del ponte sul Rio Massone dal lato del Torrente Staffora sino a pochi decenni addietro erano ancora ben visibili le rovine dell'osteria di Ca' de Bullo una costruzione erosa da successive esondazioni del torrente Staffora. Nella parte più alta dell'abitato è collocata una piccola Cappelletta dedicata alla Madonna delle Grazie, oggetto di festeggiamenti il giorno 14 agosto.
L'osteria di proprietà di Alvi Giovanni ha cessato l'attività nel 1885, anno in cui una rovinosa piena del torrente Staffora travolse gran parte del fabbricato.

Frazione Coriola è una frazione dalle origini antichissime il cui nome deriverebbe dal romano Corius e i primi insediamenti risalirebbero all'epoca romana. Sorge sulla strada intervalliva che collega Bagnaria a S. Sebastiano, per gran parte dell'anno totalmente disabitata, rivive solo nel periodo estivo grazie all'afflusso di alcune famiglie che nell'ultimo decennio hanno acquistato le antiche case e i rustici adiacenti, ristrutturandoli talvolta con attenzione nel rispetto dell'ambiente circostante. Nel 1616 a Coriola risiedeva una sola famiglia, quella di Giovanni de Franza con la moglie e 11 figli. Poco sopra Coriola, dove ora finiscono i campi coltivati e inizia il bosco, abitava Antonino da Montariollo con la moglie Caterina e i loro 6 figli. Della casa di Montariollo non vi è più nessuna traccia anche se sino all'inizio del secolo si dice che esistevano ancora evidenti segni dell'abitazione. Di particolare interesse è l'Oratorio dedicato alla Madonna di Caravaggio citato per la prima volta nel corso della visita pastorale di Mons. Giulio Resta Vescovo di Tortona il 15 ottobre 1709. "Oratorio al titolo della Madonna di Caravaggio posto nella Villa di Corniola soggetto alla Parrocchiale, ove si celebra per divozione, stè ha gli suoi necessari ornamenti, lodando la pietà del Popolo, e della Priora". L'Oratorio nel tempo ha subìto vari interventi peraltro ben visibili che ne hanno modificato l'originaria struttura, sulla base delle testimonianze raccolte dagli abitanti più anziani, già all'inizio di questo secolo però l'edificio era così come oggi appare. Recentemente sono stati effettuati lavori di restauro e consolidamento ultimati nel 1995. Il 26 maggio ricorre la festa patronale, che vede anche la partecipazione degli abitanti della frazione Moglia.

Frazione Livelli è un centro abitato dalle origini medioevali, già sottoposto al dominio della famiglia Malaspina di Oramala, successivamente come Bagnaria divenne feudo affrancato dei Principi Doria di Genova. Il nome Livelli deriva da "livello", contratto agrario medioevale che consisteva nella concessione gratuita o semigratuita di un fondo rustico per un determinato periodo di tempo, normalmente 19 0 29 anni. Il luogo anticamente soggetto a "livello" ne ha preso poi il nome. La ridente frazione sorge ai piedi del monte Sgarala e protetta da un alto dirupo, gode di un clima particolarmente favorevole, tanto che è possibile vedere nella parte alta del paese anche alcune piante di ulivo. In passato (anno 1952) la località, grazie alle sue particolari e favorevoli condizioni climatiche, era stata individuata da una società privata quale sede per la costruzione di una Casa di cura per il trattamento di malattie dell'apparato respiratorio. L'iniziativa successivamente fu abbandonata a causa della graduale diminuzione delle malattie polmonari caratterizzatesi proprio negli anni cinquanta. Le prime notizie scritte risalgono all'anno 1595, anno in cui viene istituita la Parrocchia, separandola da quella di Bagnaria (Sinodo Gambara). Solo di recente con D.P.R. n. 81 dell'11 giugno 1980 sono stati riconosciuti gli effetti civili del Decreto dell'Ordinario Diocesano di Tortona (Vescovo) dell'1 settembre 1978 con cui è stata disposta l'unione "aeque principaliter" delle Parrocchie dei SS Pietro e Paolo di Livelli con quella si S. Bartolomeo di Bagnaria. In passato era il paese che registrava il maggior numero di abitanti, e non senza stupore apprendiamo che nel 1665 contava 27 fuochi (famiglie) e 130 anime (persone) e ancor più nel 1782 contava 138 anime. Negli ultimi decenni, il paese, per la sua collocazione geografica decentrata rispetto all'asse stradale Voghera-Varzi ha fatto registrare un forte flusso migratorio a favore di altre località (Ponte Crenna, Varzi, Voghera ecc.). La chiesa, intitolata ai SS Pietro e Paolo è stata in tempi successivi modificata e ampliata e non conserva particolari pregi artistici. All'interno, posto sul lato sinistro, si conserva una pala d'altare di notevoli dimensioni (270x150) e pregevole fattura datato 1759 ad opera di G. Paolo Muratore, pittore minore vogherese, vissuto nel XVII secolo. La tela ad olio, nonostante il tempo risulta ancora in buono stato di conservazione e raffigura S. Carlo Borromeo e S. Francesco in adorazione della Madonna. Il campanile poggia sul basamento di una antica torre campanaria ancora visibile. Un tempo, sottoposti alla giurisdizione della Parrocchia di Livelli gli oratori, campestri di S. Rocco, Madonna della Neve e della Beata Vergine del Soccorso. S. Rocco - Il piccolo oratorio, all'interno del quale è collocata una piccola statua del Santo, si trova a quota 489 mt. lontano dal paese, a metà strada tra Livelli e Casa Massone. Nel tempo, l'edificio ha subito evidenti trasformazioni, da ultimo un piccolo porticato antistante l'oratorio stesso. Non si conoscono notizie in ordine alla sua origine, di certo molto antiche. Il piccolo Oratorio è citato già nel 1569 in occasione della visita Pastorale alla chiesa di Bagnaria, allora sottoposta alla Pieve di S. Ponzo, di Mons. Gambara, Vescovo di Tortona. San Rocco dalla Francia sarebbe venuto in Italia dove morì di peste, curando gli appestati nel 1327 all'età di 32 anni. Dal XV secolo è invocato come protettore contro la peste ed è uno dei Santi più presenti nella cultura popolare. Per tornare ad una possibile ipotesi in ordine all'erezione dell'Oratorio, ricordiamo che attorno all'anno 1420 (molto più che non nel 1629/30 di Manzoniana memoria) la peste colpì con particolare virulenza la Valle Staffora. Nei territori montani aveva raggiunto una tale diffusione che Voghera, nel 1421 pose alle porte della città, ufficiali di sanità con il compito di impedire anche con la forza l'ingresso alla gente proveniente dalla Valle Staffora. Dall'insieme delle notizie sopra richiamate è possibile ipotizzare quindi che il piccolo Oratorio campestre, sia stato costruito in onore del Santo in un periodo non lontano da quella terribile pestilenza che aveva dimezzato la popolazione della Valle Staffora. Madonna della Neve - l'oratorio sorge a quota 495 mt. all'inizio del paese ed è citato per la prima volta in occasione della visita pastorale di Mons. Peyretti del 1787. L'edificio in origine era di dimensioni molto più ridotte, successivamente ha subito varie trasformazioni i cui segni sono ancora evidenti. Presso l'oratorio, un tempo si festeggiava, in aprile, la ricorrenza di S. Giorgio e il 5 agosto la festa della Madonna a cui la chiesetta è intitolata. L'Oratorio dedicato alla Madonna delle Nevi, allude alla posizione particolarmente soleggiata dove poggia la costruzione e dove la neve si scioglie molto prima che in ogni altro luogo circostante. Il Goggi cita l'esistenza nella Parrocchia di Livelli, di un Oratorio campestre dedicato alla Beata Vergine del Soccorso (anno 1645). Dell'antico Oratorio oggi purtroppo, non esistano più tracce e nessuno tra gli abitanti ricorda di averne mai sentito parlare.

Moglia sorge sulla strada intervalliva Bagnaria-S. Sebastiano, è citato già nel censimento del 1616 e all'epoca cinque erano i fuochi (famiglie) per complessive 38 anime. Il toponimo è particolarmente interessante in quanto Moglia nella generalità dei casi deriva dalla voce lombarda "moia" che sta per maceratoio di lino, canepa o giunchi. Al riguardo va anche detto che il cognome Moglia nel 1616, all'epoca del primo censimento, non era attribuito a nessuno dei residenti, fatto peraltro frequente ma bensì alla frazione. Questo è uno dei tipici casi in cui gli abitanti hanno preso il cognome della località in cui risiedevano. Solo all'inizio del 1700 Moglia (talvolta con alcune storpiature) è diventato cognome. Tornando all' origine toponomastica del nome, ipotizzare la presenza di un maceratoio in località Moglia, sembrerebbe oggi alquanto improbabile, considerata la difficoltà di reperire la necessaria quantità di acqua, ciò non toglie però che poteva trattarsi di una struttura di modestissime dimensioni con annesso locale per la lavorazione della materia prima. Al riguardo il Bertacchi nella "Monografia di Bobbio" del 1859 cita l'esistenza nel comune di Bagnaria di un filatoio senza precisarne l'esatta ubicazione. Della presenza del filatoio, neppure le persone più anziane di Bagnaria ricordano di averne mai sentito parlare. Ora seppur con qualche legittima riserva appare molto più probabile ipotizzare la presenza del filatoio citato dal Bertacchi in località Canavò, (etimologicamente luogo dove si lavora o vende la canepa) che si trova alle spalle del capoluogo.

Frazione Mutti sorge sul lato sinistro del torrente Staffora a circa 1.500 mt. dal capoluogo. Storicamente le prime notizie della frazione risalgono ai primi anni del 1600. Un documento conservato presso l'archivio parrocchiale datato 1616 diligentemente riporta il censimento della popolazione ivi abitante che risulta costituita da n. 6 fuochi (famiglie) e da n. 29 abitanti. Quello del 1616 risulta essere il primo censimento effettuato e la frazione all'epoca è quella con il maggior numero di abitanti, dopo Livelli ed è chiamata Motti da cui Mutti a seguito di successive trascrizioni. Il documento più antico di cui si ha notizia che fa riferimento alla frazione, risale però a qualche anno prima e precisamente al 1605. Si tratta di un decesso: "alli 27 dil mese di marzo fu sepulto: Jacomino figliolo di Giovanni e Barbara da Motti quale era di essa di anni in circa 3". Particolare curioso che caratterizza la frazione è rappresentato dalla linea di confine con il Comune di Ponte Nizza che "taglia" l'abitato in due parti creando situazioni di evidente disagio ai residenti che in taluni casi, devono fare riferimento alle due amministrazioni comunali per il disbrigo di pratiche burocratiche.

Ponte Crenna è la frazione che ha registrato lo sviluppo edilizio più intenso e articolato del territorio comunale. Costituita da pochissime case all'inizio del secolo, negli ultimi decenni, numerosi sono stati gli insediamenti di famiglie provenienti da Sagliano e Livelli, ed ora è la frazione che conta il maggior numero di abitanti. Non mancano insediamenti commerciali e artigianali così come importanti servizi essenziali come bar, trattorie, supermercato, chiesa e sino a pochi anni addietro la scuola elementare. Già dagli anni sessanta è presente la "Varzi Frutta" una industria che opera nel settore della surgelazione. La Chiesa sorge ai piedi della strada che sale a Livelli. Progettata nel 1946, l'opera è stata realizzata, su un terreno donato da Giuseppe Celasco di Casanova Staffora, a spese della popolazione e un contributo Governativo di L. 300.000. Il 20 maggio 1951, con una solenne cerimonia è stata aperta al pubblico. Dall'aspetto semplice ed essenziale, all'interno è conservata la statua della Madonna Pellegrina donata alla popolazione da mons. Francesco Gugliada. La statua, prima di essere definitivamente collocata nella chiesa, nel 1946 fu esposta in numerose Parrocchie della montagna pavese. Di fronte alla Chiesa sorge l'edificio scolastico, costruito per volontà e con le forze degli stessi frazionisti, i cui lavori ebbero inizio nel 1951. Nel 1991 l'Ispettorato Provinciale all'Istruzione ha disposto la chiusura della scuola (pluriclasse) a causa dell'esiguo numero di scolari.

Frazione Spizzirò collocata al confine con il Comune di Ponte Nizza la frazione è costituita da un gruppo di case sparse che sorgono a lato del Rio Spizzirò da cui prende il nome. Comunemente la località è conosciuta anche con il nome di "Cascina Rossa" per la presenza di una tenuta agricola da sempre tinteggiata di rosso di proprietà della famiglia Corsi.

Frazione Torretta sorge in prossimità del capoluogo, a poche centinaia di metri dal torrente Staffora, su un vasto piano attraversato dall'omonimo Rio Torretta. Il toponimo richiama la presenza di resti di presunti fortilizi, dei quali però non se ne conosce l'esistenza. Nella frazione, sorgeva una Cappella privata di proprietà della Casa Balbi Beleni successivamente sconsacrata, ora adibita a casa di abitazione. In mancanza di precisi riferimenti è possibile ipotizzare che accanto alla cappella, di cui si è fatto cenno, esistesse un campanile o comunque una seppur modesta torre campanaria (torretta) che ha dato il nome alla frazione. Il Goggi fa risalire l'origine della frazione ad epoca romana, ma è un'ipotesi che non sembra condivisibile. Dal censimento della popolazione del 1616 la Torretta contava due fuochi (famiglie) e 4 anime. Già negli anni trenta, come risulta dalla documentazione in possesso della Sovrantendenza archeologica della Lombardia, risultano essere state rinvenute nei pressi dell'abitato alcune tombe di epoca romana e ancora di recente il 18.7.1987 una tomba apparentemente attribuibile al periodo medioevale.



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domenica 29 novembre 2015

SANT'ANDREA


Andrea  fu un apostolo di Gesù Cristo, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.

Andrea era il fratello di Pietro apostolo (Mc 1:16). Quasi sicuramente il suo nome, come altri nomi tramandati in greco, non era il nome originario di questo apostolo in quanto, nella tradizione ebraica o giudaica, il nome Andrea compare solo a partire dal II-III secolo.

Il Nuovo Testamento afferma che Andrea era figlio di Giona (Mt 16:17) o Giovanni (Gv 1:42); e che era nato a Betsaida sulle rive del Lago omonimo in Galilea (Gv 1:44). Assieme al fratello Pietro esercitava il mestiere di pescatore e la tradizione vuole che Gesù stesso lo avesse chiamato ad essere suo discepolo invitandolo ad essere per lui "pescatore di uomini", tradotto anche come "pescatore di anime". Agli inizi della vita pubblica di Gesù, occupavano la stessa casa a Cafarnao (Mc 1:21-29).

Il Vangelo secondo Giovanni riporta che Andrea era stato in precedenza discepolo di Giovanni il Battista, che gli indicò Gesù come «agnello di Dio» (Gv 1:35-40). Andrea fu il primo a riconoscere in Gesù il Messia e lo fece conoscere al fratello (Gv 1:41). Presto entrambi i fratelli divennero discepoli di Cristo. In un'occasione successiva, prima della definitiva vocazione all'apostolato, essi erano definiti come grandi amici e lasciarono tutto per seguire Gesù (Lc 5:11; Mt 4:19-20; Mc 1:17-18).

Nei vangeli Andrea è indicato essere presente in molte importanti occasioni come uno dei discepoli più vicini a Gesù (Mc 13:3; Gv 6:8, 12:22), ma negli Atti degli Apostoli si trova solo una menzione marginale della sua figura (At 1:13).

Eusebio di Cesarea ricorda nelle sue "Origini" che Andrea aveva viaggiato in Asia Minore ed in Scizia, lungo il Mar Nero come del resto anche sul Volga e sul Kiev. Il ricercatore George Alexandrou, ha scritto che Sant'Andrea ha passato 20 anni nei territori dei Daco-Romani, vissuto in una caverna nei pressi del villaggio Ion Corvin, oggi in Romania. Per questo egli è divenuto santo patrono della Romania e della Russia. Secondo la tradizione, egli fu il fondatore della sede episcopale di Bisanzio (Costantinopoli), dal momento che l'unico vescovato dell'area asiatica che era già stato fondato era quello di Eraclea. Nel 38, su questa sede gli succedette Stachys. La diocesi si svilupperà successivamente nel Patriarcato di Costantinopoli. Andrea è riconosciuto come santo patrono della sede episcopale.

Andrea è stato martirizzato per crocifissione a Patrasso (Patrae) in Acaia (Grecia). Dai primi testi apocrifi, come ad esempio gli Atti di Andrea citati da Gregorio di Tours, si sa che Andrea venne legato e non inchiodato su una croce latina (simile a quella dove Cristo era stato crocifisso), ma la tradizione vuole che Andrea sia stato crocifisso su una croce detta Croce decussata (a forma di 'X') e comunemente conosciuta con il nome di "Croce di Sant'Andrea"; questa venne adottata per sua personale scelta, dal momento che egli non avrebbe mai osato eguagliare il Maestro nel martirio. Quest'iconografia di sant'Andrea appare ad ogni modo solo attorno al X secolo, ma non divenne comune sino al XVII secolo. Proprio per il suo martirio, sant'Andrea è divenuto anche il patrono di Patrasso.

Gli scritti apocrifi che compongono gli Atti di Andrea, menzionati da Eusebio di Cesarea, Epifanio di Salamina e da altri, è compreso in un gruppo disparato di Atti degli apostoli che vengono tradizionalmente attribuiti a Lucio Carino. Questi atti risalgono al III secolo e, assieme al Vangelo di Andrea, appaiono tra i libri rigettati dalla chiesa nel Decretum Gelasianum di papa Gelasio I.

La serie completa degli Atti venne edita e pubblicata da Konstantin von Tischendorf nel suo Acta Apostolorum apocrypha (Lipsia, 1821), che si occupò di riordinarli per la prima volta in modo ordinato e filologicamente corretto. Un'altra versione è presente nella Passio Andreae, pubblicata da Max Bonnet (Supplementum II Codicis apocryphi, Parigi, 1895).

La festa di Sant'Andrea è ricordata il 30 novembre nelle Chiese d'Oriente e d'Occidente ed è festa nazionale in Scozia.

Dopo il martirio di sant'Andrea, secondo la tradizione, le sue reliquie vennero spostate da Patrasso a Costantinopoli. Leggende locali dicono che le reliquie vennero vendute dai romani. Sofronio Eusebio Girolamo scrisse che le reliquie di Andrea vennero portate da Patrasso a Costantinopoli per ordine dell'imperatore romano Costanzo II nel 357. Qui rimasero sino al 1208 quando le reliquie vennero portate ad Amalfi, in Italia, dal cardinale Pietro Capuano, nativo di Amalfi. Nel XV secolo, la testa di sant'Andrea fu portata a Roma, dove venne posta in una teca in uno dei quattro pilastri principali della basilica di San Pietro. Nel settembre del 1964, come gesto di apertura verso la Chiesa ortodossa greca, papa Paolo VI consegnò un dito e parte della testa alla chiesa di Patrasso. Il Duomo di Amalfi, dedicato appunto a sant'Andrea (come del resto la città stessa), contiene una tomba nella sua cripta che continua a contenere alcune altre reliquie dell'apostolo.

Nel sesto secolo la reliquia di una mano e di un braccio di sant'Andrea fu donata a Venanzio vescovo di Luni dal papa Gregorio Magno, suo grande amico. È tradizione che in tale tempo, e con l'occasione del dono, sia stata costruita in Sarzana la chiesa di Sant'Andrea, che divenne la dimora della reliquia. Da quel giorno l'apostolo divenne il patrono della città. Tali reliquie si conservano al presente nella Cattedrale di Sarzana; essa era stata portata da Costantinopoli a Roma da un certo Andrea, maggiordomo dell'imperatore Maurizio Tiberio.



La testa del santo venne donata, insieme ad altre reliquie (un mignolo e alcune piccole parti della croce), da Tommaso Paleologo, despota della Morea spodestato dai Turchi, a papa Pio II nel 1461, in cambio dell'impegno per una crociata che avrebbe dovuto riprendere Costantinopoli. Il papa accettò il dono promettendo di restituire le reliquie quando la Grecia fosse stata liberata e ne inviò la mandibola custodita nell'antico reliquiario a Pienza. Per decisione di papa Paolo VI nel 1964 le reliquie conservate a Roma vennero inviate nuovamente a Patrasso all'interno dell'antico reliquiario bizantino, fino ad allora custodito nella cattedrale pientina; in cambio il Papa donò alla cattedrale di Pienza il busto-reliquiario della testa commissionato da Pio II a Simone di Giovanni Ghini per la basilica di San Pietro in Vaticano. Le reliquie rese sono a tutt'oggi custodite nella chiesa di sant'Andrea a Patrasso in una speciale urna e vengono mostrate ai fedeli in occasione della festa del 30 novembre.

La chiesa madre di San Nicola in Gesualdo (AV) conserva un presunto osso del santo. La reliquia fu donata da Eleonora Gesualdo, badessa del celebre monastero del Goleto, quando, verso la fine del Cinquecento, si trasferì a Gesualdo presso il fratello principe Carlo.

Altre reliquie attribuite a sant'Andrea sono dislocate in punti fondamentali della sua venerazione: nel Duomo di Sant'Andrea di Amalfi, nella cattedrale di Santa Maria a Edimburgo (Scozia), nella chiesa di Sant'Andrea e Sant'Alberto a Varsavia (Polonia).

Nel 2007 una reliquia del santo è stata consegnata dal vescovo di Amalfi al patriarca ecumenico Bartolomeo affinché fosse conservata nella cattedrale di San Giorgio in Costantinopoli (sede del patriarcato).

Alla metà del X secolo, Andrea divenne santo patrono della Scozia. Molte leggende volevano che le reliquie di sant'Andrea fossero state traslate con poteri soprannaturali da Costantinopoli al luogo attualmente denominato "Sant'Andrea" (in pitico, Muckross; in gaelico, Cill Rìmhinn).

Due antichi manoscritti scozzesi ricordano che le reliquie di sant'Andrea vennero portate da Regolo al re dei Piti, Óengus I Mac Fergusa (729–761). L'unico Regolo conosciuto dagli storici (detto anche Riagail o Rule), il cui nome è tutt'oggi ricordato dalla torre di san Rule, fu un monaco irlandese espulso dall'Irlanda con san Colombano; la sua vita, ad ogni modo, sarebbe da collocarsi tra il 573 ed il 600. Vi sono buone ragioni per credere che le reliquie facessero originariamente parte della collezione del vescovo Acca di Hexham e che vennero da quest'ultimo portate ai Piti da Hexham (c. 732), dove venne fondata una sede episcopale, non come avrebbe voluto la tradizione a Galloway, ma sul luogo detto di Sant'Andrea. La connessione fatta con Regolo, ad ogni modo, è dovuta con tutta probabilità al desiderio di datare la fondazione della chiesa di Sant'Andrea in tempi più remoti possibili e quindi più vicini al martirio del Santo.

Un'altra leggenda vuole che nel tardo VIII secolo, durante una delle battaglie contro gli inglesi, il re Ungo (lo stesso Óengus I Mac Fergusa menzionato sopra oppure Óengus II dei Piti (820 – 834)) vide una nuvola incrociata a salterio, e disse ad alta voce ai propri compagni di osservare il fenomeno, indicativo di una protezione di sant'Andrea, e che, se avessero vinto per questa grazia, lo avrebbero eletto quale loro santo patrono. Ad ogni modo, si ha ragione di ritenere che sant'Andrea fosse già venerato in Scozia prima di questa data.

Le connessioni di Andrea con la Scozia sono probabilmente da attribuirsi anche al Sinodo di Whitby, dove la Chiesa celtica guidata da san Colombano sancì che, a giudicare dalle scritture, il fratello minore di Pietro aveva dovuto avere un ruolo addirittura superiore a tutti gli apostoli. Nel 1320 la Dichiarazione di Arbroath definì sant'Andrea come "il primo ad essere divenuto Apostolo".

Numerose chiese parrocchiali di Scozia e congregazioni della Chiesa cristiana del paese sono dedicate a Sant'Andrea. La Chiesa nazionale del popolo scozzese a Roma è la chiesa di Sant'Andrea degli Scozzesi.

Nella bandiera della Scozia (quindi anche in quella del Regno Unito e nello stemma della Nuova Scozia) e in diverse altre figura la croce di sant'Andrea. Compariva anche sulla bandiera dei confederati degli Stati Uniti d'America, anche se il fondatore, William Porcher Miles, riteneva di aver cambiato l'insegna da una croce classica ad una decussata per motivi araldici e non religiosi.

La tradizione romena vuole che sant'Andrea (chiamato Sfântul Apostol Andrei) sia stato uno dei primi a portare il Cristianesimo nella Scizia Minore, l'attuale Dobrugia, al popolo locale dei Daci (antenati dei romeni). Già presso i Padri della Chiesa, infatti, sant'Andrea viene citato come pellegrino in questa regione. Tre sono i toponimi e numerose antiche tradizioni sono riconducibili a sant'Andrea, molte delle quali possono conservare un substrato pre-cristiano. Esiste anche una caverna dove si ritiene che egli abbia alloggiato. La misteriosa tradizione che vuole che egli fosse solito battezzare nel villaggio di Copuzu è anche collegata da molti etnologi con il fenomeno delle campagne di cristianizzazione legate agli apostoli.

Il primo Cristianesimo in Ucraina, ricorda che l'apostolo Andrea avrebbe viaggiato nel sud dell'Ucraina, lungo il Mar Nero. La leggenda vuole che egli abbia anche percorso il fiume Dnieper e abbia raggiunto la località che in seguito sarebbe divenuta Kiev, dove venne eretta una croce sul sito dove abitualmente Andrea risiedeva, profetizzando la nascita della città all'insegna del Cristianesimo.

Le prime notizie relative alla piccola cappella di Luqa dedicata a sant'Andrea risalgono al 1497. La visita pastorale del delegato pontificio Pietro Dusina afferma che questa cappella conteneva tre altari, uno dei quali era dedicato a Sant'Andrea. La pala d'altare, raffigurante Maria coi Santi Andrea e Paolo venne dipinta dal pittore maltese Filippo Dingli. A quel tempo, molti pescatori vivevano a Luqa, e questa potrebbe essere una delle ragioni per cui Sant'Andrea venne scelto come Santo Patrono della città. La locale statua di Sant'Andrea venne scolpita nel legno da Giuseppe Scolaro nel 1779. Questa opera subì molti restauri, primo tra tutti quello risalente al 1913 ad opera del rinomato artista maltese Abraham Gatt. Il Martirio di Sant'Andrea, presente sull'altare principale della chiesa, venne dipinto da Mattia Preti nel 1687.

A Gesualdo (AV) la festa di Sant'Andrea ricorre ogni 30 novembre con l'accensione di falò, detti "vambalèrie", per le strade cittadine e le zone rurali. Tale tradizione nacque nell'Ottocento, a seguito dell'abbattimento del tiglio collocato nella piazza principale della cittadina (oggi Piazza Umberto I), il cui legno fu in parte bruciato e in parte utilizzato per la realizzazione della statua del santo, ancora oggi conservata nella cappella della Chiesa Madre di San Nicola insieme a una reliquia dell'apostolo.

Ad Amalfi (SA) la festa di S.Andrea ricorre più volte all'anno. La prima è il 28 gennaio, festa della reliquia; la seconda la domenica di Pasqua e il lunedì di Pasquetta; la terza il 7 e l'8 maggio, traslazione delle reliquie (detta "S.Andrea a'quaglia"). Le più particolari sono quella del 26 e 27 giugno, miracolo di S.Andrea e quella del 29 e 30 novembre, festa patronale. La vigilia della festa di giugno la mattina si tiene l'esposizione della statua, seguita dalla sfilata della banda e dalle S.Messe. A sera in cripta, a conclusione del triduo, si tengono i Vespri e la celebrazione della Manna. La sera del 27 giugno parte una processione per le vie del paese, seguita dalle marce sinfoniche e dallo spettacolo pirotecnico a mare. Alle cinque di mattina del 30 novembre, accompagnata da fuochi pirotecnici e campane, la banda sfila. Verso mezzogiorno, la processione parte per un percorso più breve rispetto a quello di giugno. La giornata è chiusa da fuochi pirotecnici.

Andrea deriva dal nome greco Andreas e dalla parola greca andros che significa "uomo, maschio, virile". Il termine andros (radice di altre parole italiane come androgino o androide) è l'equivalente del latino vir da cui deriva proprio l'aggettivo "virile". E' un nome molto antico, già in uso presso gli antichi greci grazie ai quali si diffuse in Palestina e Egitto; venne utilizzato anche dai primi cristiani, in venerazione di Sant'Andrea apostolo. Il nome è ancora oggi molto popolare in Italia (è stabilmente nella Top 5 dei nomi più usati per neonati dal 2004) e risulta il più diffuso al mondo nelle sue varianti sia al maschile che al femminile (in inglese, tedesco, olandese, spagnolo e nei paesi scandinavi il nome Andrea è esclusivamente femminile, ma esistono varianti maschili). In Italia l'utilizzo è quasi unicamente maschile anche se recentemente si registrano alcune bambine di nome Andrea dopo che per anni era stato addirittura vietato dalla legge.

Va notato che le forme ungheresi Andor ed Endre possono avere anche un'altra origine, norvegese in entrambi i casi, e il finlandese Antero coincide con Antero, un altro nome italiano di origine greca.

Mentre in diverse lingue (come l'inglese, il ceco, il tedesco e lo spagnolo) la grafia Andrea è la forma femminile del nome, all'interno della cultura italiana contemporanea Andrea ha valenza prevalentemente maschile. Tuttavia in epoca tardomedievale in Italia, almeno nell'area toscana, il nome era sostanzialmente ambigenere: un'analisi dei battezzati fiorentini fra il 1450 e il 1500 ha rivelato un cospicuo numero di donne con questo nome. La tendenza ad attribuirlo alle femmine è ritornata sul finire del XX secolo, non tanto per ragioni storiche quanto sotto l'influsso delle culture straniere (si pensi agli ormai piuttosto comuni Daniel e Christopher) e il suo uso ha raggiunto livelli degni di nota, anche se non alti come nelle epoche passate (nel 2013 in Italia hanno ricevuto questo nome 281 bambine, pari allo 0,12% del totale), ma rimane nel complesso raro ed eccezionale; di fatto in italiano Andrea è usato quasi solo al maschile, mentre per il femminile storicamente si è ripiegato di solito su Andreina.

Sulla questione si è acceso un dibattito anche a livello legale: la legge italiana (nel D.P.R. n. 396 del 2000) stabilisce che il nome deve accordarsi al sesso del nascituro; Andrea dunque, che in italiano è consolidatamente maschile, verrebbe così precluso alle neonate, a meno che non fosse usato come secondo nome (va detto che l'ufficiale dello stato civile sarebbe comunque obbligato a formare l'atto di nascita secondo la volontà del genitore, anche in contravvenzione a tale normativa, potendo però decidere di segnalarlo al Procuratore della Repubblica, che eventualmente costringerebbe alla rettifica).

Si sono avuti casi giudiziari dove è stata imposta la rettifica del nome in concordanza con questa legge (come nel dicembre 2011 presso il tribunale civile di Mantova), ma nel novembre 2012 la Corte di cassazione ha accolto la protesta di una coppia di genitori di Pistoia contro la decisione con la quale la Corte di Appello di Firenze, il 3 agosto 2010, aveva disposto la rettifica del nome Andrea che avevano dato alla loro figlia: in tale occasione, la Corte di Cassazione rilevò che, dato il contesto multiculturale che si è venuto a creare in Italia, attribuire il nome Andrea ad una bambina, seguendo una moda forestiera, non è ridicolo o vergognoso, né crea ambiguità riguardo al genere della persona.

A livello di curiosità, si può notare che Andrea è uno dei pochi nomi italiani maschili che finiscono per -a a godere di ampia diffusione, assieme a Luca, Mattia e Nicola; ne esistono poi molti altri meno comuni, come Elia, Enea e Tobia.

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martedì 24 novembre 2015

CASEI GEROLA

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Casei Gerola è un comune situato nella pianura dell'Oltrepò Pavese, al confine con la provincia di Alessandria, sul torrente Curone a pochi chilometri dalla sua confluenza nel Po.

Casei, già Caselle, sorge all'estremità occidentale della campagna centuriata facente capo alla colonia romana di Placentia, e precisamente di un nucleo di campagna intensamente coltivata attorno alla città di Iria (Voghera). Alla fine dell'epoca antica le terre erano passate allo Stato, giacché nel 712 il re Liutprando ne fece dono al monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia (ed è questa la prima citazione di Casei). Tra le carte di questo monastero il nome di Casei comparirà ancora per secoli (almeno fino al XIII).

Berengario I nell'885 dono Casei ed il territorio con Cassano Spinola all'Abbazia di San Colombano di Bobbio, donazione confermata ancora dai re Guido e Lamperto ed in parte da Berengario II che successivamente nel 951 assegnerà la Curtem cum Castro di Casei all'Abbazia di San Salvatore di Pavia.

Nel 1164 Casei è nominato tra le terre che Federico I assegnò a Pavia, e che costituiscono il nucleo dell'Oltrepò Pavese. Sotto Pavia, Casei fu sede di podesteria o squadra. Sembra che già nel 1197 essa venisse infeudata agli Isimbardi di Pavia; passò poi sotto il dominio dei Beccaria, cui la tolsero i Visconti, per darla dapprima a Francesco Bussone da Carmagnola, conte di Castelnuovo Scrivia e poi, passato questi ai Veneziani, a un altro noto condottiero, Guido Torelli di Ferrara (1431). Il feudo di Casei, che comprendeva anche Cornale, rimase ai Torelli fino all'abolizione del feudalesimo (1797). Nel 1561 avevano ottenuto il titolo di Marchesi di Casei e Cornale. Nell'ambito del marchesato era compreso anche il centro di Campeggi, o Comun Campeggi, che corrisponde all'attuale cascina Campeggia; noto fin dal XII secolo, ebbe autonomia comunale ma nel XVII secolo risultava già aggregato a Casei. Analoga sorte toccò a Cagnano (attualmente Cascina Cagnano), pure noto dal medioevo.

Non meno importante era un tempo l'attuale frazione Gerola. Esso sorgeva in origine più a nordovest, presso l'attuale confluenza della Scrivia nel Po. Sviluppatosi in prossimità di una vasta isola del Po (Insula Guazzatoria), fu a lungo sede di un vasto comune comprendente anche Mezzana Bigli, sorto in origine sull'isola, insieme a Guazzora che apparteneva al feudo di Gerola. Passato come Casei a Pavia nel 1164, e anch'esso sede di podesteria, fu infeudato ai Corti di Guazzora e successivamente ai Bigli di Milano. Questa signoria durò sino all'abolizione del feudalesimo.

Successivamente cominciò il declino di Gerola: nel 1800, avendo Napoleone deciso di far corrispondere i confini politici al corso del Po, Mezzana Bigli, che si trova a nord del fiume, fu diviso da Gerola, il cui comune fu ridotto a tre moncherini isolati tra loro; successivamente lo spostamento verso sud del corso del fiume rese inabitabile anche ciò che restava, per cui gli abitanti di Gerola costruirono un nuovo centro, detto Gerola Nuova, sul sito attuale, in un territorio che apparteneva a Casei. Cosicché, nel 1835, cedettero ciò che restava del loro comune ai casellesi, e si fusero con essi nel nuovo comune di Casei Gerola.

Santo Patrono di Casei Gerola è San Fortunato le cui spoglie sono custodite nell'Insigne Collegiata San Giovanni Battista.

In data 12.04.1999 la Giunta Regionale ha riconosciuto come Parco Locale d'Interesse Sovracomunale - PLIS - la zona umida presente nel Comune di Casei Gerola. Tale area, oggetto in passato di attività estrattiva da parte delle industrie laterizie locali, ha un'estensione di circa 65 Ha ed è ubicata sulla coltre alluvionale che ricopre i sedimenti marini in riva destra del fiume Po.

Il livello dell'acqua presente nei diversi corpi idrici varia in funzione degli apporti delle falde superficiali e questo fatto condiziona la presenza della vegetazione costituita, soprattutto, da salici bianchi, pioppi neri, pioppi bianchi e saliconi. Si tratta comunque sempre di stadi arborei giovanili, in quanto la natura artificiale dei bacini e il loro continuo rimaneggiamento dovuto agli eventi succedutisi negli anni (piani cave, accorpamenti, recuperi vari) ha impedito la crescita della vegetazione ma, nello stesso tempo, ha anche impedito l'interrimento degli specchi d'acqua, mantenendo negli anni l'aspetto di zona umida aperta, almeno in buona parte dell’area.

L'avifauna acquatica è senz'altro l'elemento più interessante. Le indagini svolte da alcuni ornitologi locali, dell’Associazione “Amici del Parco le Folaghe”, in collaborazione con il Dipartimento di Biologia Animale dell'Università degli Studi di Pavia, hanno infatti accertato la nidificazione delle seguenti specie di uccelli: Tuffetto, Tarabusino, Airone cenerino, Airone rosso, Germano reale, Marzaiola, Mestolone, Moriglione, Gallinella d'acqua, Folaga, Cavaliere d'Italia, Corriere piccolo, Pavoncella, Sterna comune, Fraticello, Mignattino piombato, Cannareccione, Pendolino.

Oltre alle specie legate all'ambiente acquatico sono naturalmente presenti anche quelle di bosco e di campagnia, per un totale di 66 specie nidificanti attualmente, tra cui si segnala un nutrito gruppo di rapaci notturni e diurni:Gufo Comune, Civetta, Barbagianni, Allocco, Albanella minore, Lodolaio, Gheppio e Sparviere,quest'ultimo di recente colonizzazione.

Assolutamente degna di rilievo è poi la lista delle osservazioni (check-list) con oltre 260 specie di uccelli segnalati, un numero altissimo per una zona umida interna di così piccole dimensioni.

Particolarmente significativa e costante è la presenza delle Folaghe, per tale motivo si è deciso di denominare il parco con il nome di tale uccello.

Nell'area si riproducono con successo anche 7 specie di anfibi (Rana verde, Raganella, Rana dalmatina, Rospo smeraldino, Rospo comune, Tritone comune, Tritone punteggiato) mentre scarsi sono i rettili con solo 5 specie (Ramarro occidentale, Lucertola muraiola, Biacco, Saettone, Natrice dal collare) e una esotica (Testuggine palustre dalle orecchie rosse).

Tra i mammiferi di maggior dimensioni sono comuni la Lepre e la Volpe, mentre scarse e difficili da osservare sono Faina, Donnola e Tasso. Poco si sa sui piccoli roditori, gli insettivori ed i pipistrelli, per i quali le ricerche sono ancora in corso.

E' stato approvato da parte dell'Amministrazione comunale, il Piano Particolareggiato del Parco che prevede la realizzazione di interventi atti a rendere maggiormente fruibile un'area di così grande interesse.

L’Associazione “Amici del Parco le Folaghe” collabora con l’Amministrazione comunale (Ente Gestore) per la realizzazione di numerose attività tra cui l’educazione ambientale, la ricerca e la scientifica, la manutenzione ordinaria, le visite guidate, ecc.


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lunedì 23 novembre 2015

CORNALE E BASTIDA

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Cornale e Bastida è un comune istituito il 4 febbraio 2014 dalla fusione dei comuni di Bastida de' Dossi e Cornale, in seguito a un referendum consultivo avvenuto il 1º dicembre 2013.

Cornale apparteneva al feudo di Casei, di cui seguì sempre le sorti, passando dai Beccaria ai Torelli di Ferrara, che furono nominati nel 1456 Marchesi di Casei e Cornale.
Nel XVIII secolo il comune era noto con il nome di Cornale con Torello, essendo Torello una grossa frazione posta più a ovest, sul Curone, di fronte a Bastida de' Dossi. Essa scomparve all'inizio del secolo successivo, quando anche Bastida de' Dossi fu abbandonata e ricostruita più a sud. Anche Cornale sorgeva allora un poco più a nord, più o meno all'estremità settentrionale del paese attuale. Il paese fu a poco a poco ricostruito, diviso in più nuclei su diverse strade, che solo lentamente si sono fusi in un unico centro, con pianta piuttosto dispersa.
Il territorio dell'attuale Bastida de' Dossi dipendeva nell'alto medioevo dalla Corte regia di Corana, donata nel X secolo dall'imperatrice Adelaide al monastero di San Salvatore di Pavia. A questa corte faceva capo la più piccola corte di Blundi, da cui a sua volta dipendeva il castello di Gazzo, che attorno al XIV secolo prese il nome di Loco Dossorum dal nome dei suoi signori, probabilmente subfeudatari del monastero del Salvatore. Essi sono anche ricordati dalla cascina Ca de' Dossi di Corana. Nei pressi si trovava anche il Porto Dossorum, che serviva per il transito sul Po, e a difesa di questo passo dal 1452 appare anche Bastida Dossorum.
Bastida rimase sempre legata a Corana del Comune, e con essa fu infeudata dal monastero del Salvatore ai Bottigella di Pavia (salvo un'interruzione tra il 1450 e il 1468), fino alla loro estinzione nel 1690, dopo di che Bastida rimase sotto la diretta giurisdizione del monastero fino all'abolizione del feudalesimo (1797). Dal 1802 al 1814, in epoca napoleonica, il comune fu soppresso e unito a Silvano Pietra.
La collocazione geografica di Bastida fino ad allora era diversa da oggi, trovandosi alquanto più a nord, sempre alla destra del Curone. All'inizio del XIX secolo il Po si spostò temporaneamente più a sud, e ciò costrinse gli abitanti a ricostruire il paese nella posizione attuale più sicura.



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MENCONICO

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Menconico è un comune situato nella zona di montagna dell'Oltrepò Pavese denominata valle Staffora, in particolare nella valle del torrente Aronchio, affluente della Staffora, ai piedi del monte Penice.

Menconìco ed il suo territorio fu abitato nella preistoria, poi passò nei possedimenti dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio, fondata da San Colombano nel 614.
Dopo la caduta dei Longobardi a opera di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero costituì i Feudi Imperiali, all'interno della Marca Obertenga, con lo scopo di mantenere un passaggio sicuro verso il mare, assegnò Menconico, con molti dei territori limitrofi, alla famiglia dei Malaspina.
Quindi fece parte del Marchesato dei Malaspina fin dalla sua istituzione nel 1164, e nelle divisioni tra i rami della famiglia (di cui la prima, nel 1221, fu siglata nella casa dei marchesi proprio a Menconico), toccò al ramo dello Spino Fiorito e, tra i rami da esso generati, a quello dei Malaspina di Varzi. Questi ultimi si divisero a loro volta in tre rami, di cui uno ebbe il dominio del cosiddetto Terziere di Menconico.
Questo ramo si estinse dopo tre sole generazioni, all'inizio del XIV secolo; nonostante le proteste degli altri Malaspina, il feudo fu incamerato dal duca di Milano, e ne furono investiti gli Sforza di Santa Fiora, che in tal modo misero piede in questa zona: essi erano destinati a divenire feudatari di gran parte dell'alta valle Staffora (fino al 1797).
Fece poi parte sotto i Savoia della Provincia di Bobbio inserita in Liguria sotto il dipartimento di Genova.
Comunque Menconico mantenne il suo territorio determinato dalle divisioni tra i Malaspina, che corrisponde quasi esattamente all'attuale comune. Nel 1859 entra a far parte della provincia di Pavia e quindi della Lombardia come circondario di Bobbio fino al 1923.
Solo nel 1929 la frazione Bersanino passò al costituendo comune di Santa Margherita di Staffora.

La chiesa parrocchiale di San Giorgio, parrocchia eretta nel X secolo, sorta sui resti di un antico edificio fondato dai monaci di Bobbio, l'attuale edificio venne consacrato l'8 luglio del 1565. La parrocchia, con il titolo di arcipretura, dipende dal vicariato di Bobbio, Alta Val Trebbia, Aveto e Oltre Penice della Diocesi di Piacenza-Bobbio.
Dalla parrocchia di Menconico dipende l'Oratorio dell'Immacolata Concezione di Varsaia

Il Comune di Menconico è composto da una ventina di frazioni. Si tratta di una zona molto mossa, intersecata da parecchie vallette, più o meno ripide, i cui fossi portano le acque al torrente Aronchio, che drena praticamente tutti il territorio comunale.

Il territorio comunale si innalza progressivamente, partendo da circa 460 m s.l.m., lungo l'Aronchio e a mano a mano che si discosta dalle sue sponde. Canova, il centro più basso del comune, si situa a 540 m, mentre è Varsaia il centro più elevato, a 909 m. Le altitudini massime si toccano però a Cima di Valle Scura (1229 m), Monte Scaparina (1157 m), oltre che al Penice con i suoi 1460 m.
Il paesaggio è caratterizzato da boschi di querce fino ai 600 m oltre i quali regna il castagneto che lascia il posto ai boschi di conifere (pini, abeti) oltre gli 800 m. Campi a seminativi e a foraggere, punteggiati a varie piante da frutto e da salici, circondati dal prevalente querceto e castagneto, si succedono e si interpongono a vigneti e frutteti.

Più a monte si diradano le colture legnose: ai seminativi e alle foraggere subentrano poco alla volta i prati-pascoli e soprattutto i boschi di aghifoglie in particolare nella lunga striscia che va dal monte Alpe fino a Pregola e a Brallo di Pregola.

La popolazione è impiegata nell'agricoltura, nel bosco e soprattutto nell'allevamento, a cui si lega la produzione del cosiddetto "formaggio che salta o che brucia" dal sapore piccante.


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ROMAGNESE

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Romagnese  è un comune situato nella zona di montagna dell'Oltrepò Pavese, alla testata della val Tidone, non lontano dal passo del Penice. Nel 2012 viene nominato gioiello d'Italia.

Romagnese il cui territorio fu abitato nella preistoria, passa poi nei possedimenti dell'Abbazia di San Colombano di Bobbio, fondata da San Colombano nel 614, e poi feudo del vescovo della stessa città, che ne mantenne sempre l'alta signoria.

Dopo la caduta dei Longobardi a opera di Carlo Magno, il Sacro Romano Impero costituì i Feudi Imperiali, all'interno della Marca Obertenga, con lo scopo di mantenere un passaggio sicuro verso il mare, assegnò Romagnese, con molti dei territori limitrofi, alla famiglia dei Malaspina, con l'arrivo dei Visconti passò alla famiglia Dal Verme assieme alla Contea di Bobbio e Voghera, Pianello Val Tidone, Castel San Giovanni e la Valsassina.

Il feudo effettivo, tuttavia, nel 1383 fu acquistato dal condottiero Jacopo Dal Verme, capitano generale del duca di Milano. Il feudo rimase sempre a questa famiglia, costituendo una dipendenza immediata della Contea di Bobbio (dei Dal Verme dal 1436, anch'essa sotto l'alta signoria del Vescovo). Nella divisione della famiglia nelle due linee di Piacenza e Voghera, restò alla prima, mentre i vicini Zavattarello Trebecco e Ruino passavano alla seconda (l'unica tuttora fiorente). Il feudo di Romagnese, che fu sempre un unico comune fin da quando (invero piuttosto tardi) anche qui venne introdotto l'istituto comunale, cessò nel 1797 con l'abolizione generale del feudalesimo.

Unito con il Bobbiese al Regno di Sardegna nel 1743, in base al Trattato di Worms, entrò a far parte poi della Provincia di Bobbio. Nel 1801 il territorio è annesso alla Francia napoleonica fino al 1814. Nel 1848 come parte della provincia di Bobbio passò dalla Liguria al Piemonte, nel 1859 entrò a far parte nel circondario di Bobbio della provincia di Pavia e quindi della Lombardia, nel 1923, smembrato il circondario di Bobbio, passò alla provincia di Piacenza e quindi all'Emilia-Romagna, per poi ritornare nel 1925 alla provincia di Pavia e alla Lombardia.

Il Giardino Alpino di Pietra Corva è ubicato sul versante orografico destro della Val Tidone, a 950 m di altitudine, sulle pendici del Monte Pietra di Corvo, suggestivo e dirupato affioramento di scura roccia vulcanica che si erge sino a 1070 m.
Tra conifere e faggi, si snoda un dedalo di piccoli sentieri tra aiuole e roccere, percorrendo i quali si possono ammirare innumerevoli piante che trovano dimora negli anfratti e nelle nicchie delle rocce.
Sotto il profilo didattico educativo, il Giardino Alpino di Pietra Corva si presta a diventare meta ottimale per gruppi con interessi naturalistici. La bellezza del luogo, l’impatto estetico, la ricchezza di forme e di colori lo rendono meta consigliabile per escursioni e gite; il visitatore potrà pertanto unire al piacere di una passeggiata nel verde dei boschi la possibilità di osservare piante rare o provenienti da luoghi lontani.

Sorto nell'alto medioevo, nel 1383 il feudo di Romagnese fu acquistato dal condottiero Jacopo Dal Verme, la cui famiglia, tra il XIV e il XV secolo, eresse il castello che da loro prende il nome sopra il precedente. Oggi sede del municipio, nella torre ospita anche il Museo dell'arte rurale e degli strumenti agricoli.

L'attuale chiesa parrocchiale di San Lorenzo Martire risale alla fine del XVI secolo e trovò ultimazione in pieno Barocco. E' ricca di marmi caratterizzati da elegante sobrietà. Di pregio è l'altare in legno e notevoli sono alcune tele raffiguranti il Martirio di San Lorenzo.

Il territorio di Romagnese è disseminato di oratori ed edifici religiosi. Sono stati edificati in gran parte tra Ottocento e Novecento, ad eccezione di quello di Nostra Signora di Loreto, in località Totenenzo, che è anteriore al secolo XI.

In base alla tradizione che affonda le radici nella leggenda, l'antico borgo di Romagnese (Castrum Romaniense) avrebbe avuto origine da un accampamento di legionari romani, in fuga dopo la sconfitta nella battaglia del fiume Trebbia ad opera delle truppe di Annibale nella seconda guerra punica (218 a.C.).
Romagnese non è ignoto alla storia piacentina e pavese per via delle sue aggregazioni feudali. Vassalli di Romagnese furono a lungo i Landi, piacentini, per investitura ecclesiastica del Vescovado di Bobbio ed imperiale da parte di Lodovico di Baviera, nel 1327.
Il territorio fu poi dominato dai casati degli Eustachi, dei Bentivoglio, dei Riaro e dei Sanseverino.
Successivamente, nel 1383 il castello, il borgo e il territorio della Valle di Romagnese furono concessi in feudo da Gian Galeazzo Visconti al celebre condottiero Jacopo Dal Verme in premio delle sue benemerenze e delle imprese militari determinanti per l'espansione viscontea in Oltrepò, in aggiunta ai feudi di Rocca d'Olgisio (1378) e Val di Pecorara (1380).
In data ancora incerta, ma fra il 1395 ed il 1409 e prima che morte lo raggiungesse, il conte Jacopo Dal Verme promulgò gli “Statuti del Comune di Romagnesio”, un originale codice di leggi civili e penali severissime che garantì benefiche ripercussioni sulla vita sociale ed economica di Romagnese.
Il piccolo feudo Dal Verme seguì le fortune politiche della Signoria Viscontea, ingrandendosi con i territori di Zavattarello e Lazzarello fino a raggiungere la sua massima estensione con le concessioni fatte da Filippo Maria Visconti, Signore di Milano, delle città di Bobbio e delle terre di Voghera e di Castel San Giovanni, sottratte all'autorità e competenze dei Comuni di Piacenza, Tortona e Pavia.

La galina grisa o galëina grisa è il nome che si dà alla questua legata ai riti del calendimaggio in alta val Tidone, a cavallo delle province di Pavia e Piacenza. Nel paese e nelle frazioni di Romagnese, che è l'unico che ha conservato un ciclo pasquale nel territorio delle Quattro province, si svolge la sera del Sabato Santo, fondendo significati sacri e profani e prende il curioso nome di galina grisa dalla strofa di apertura del canto rituale.

Le celebrazioni pasquali iniziano il Giovedì Santo con una processione che segue un anonimo penitente incappucciato che porta una croce di legno; partendo dalla parrocchia si snoda fino all'oratorio di Casa Picchi.
Il Venerdì Santo si accendono falò in vari punti della vallata in concomitanza con la processione che porta il Cristo morto.
La sera di sabato vi è la questua, che si svolge con le modalità del cantamaggio itinerante, per il canto augurale e la raccolta delle uova.


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venerdì 20 novembre 2015

VISITARE VIGEVANO



Il comune è il simbolo del Rinascimento lombardo, centro ideale per chi ama la natura e l'arte, da scoprire e visitare. La città di Leonardo Da Vinci ma anche la patria del tacco a spillo che fu inventato proprio in questa cittadina a due passi da Milano.

La possibilità, inoltre, di immergersi nei tesori naturali e nella ricca biodiversità del territorio del Parco naturale del Ticino. La città si trova, infatti, nel territorio del più antico Parco Regionale d'Italia, vero “tempio” della flora e della fauna locali, meta ricercata da chi desidera stare a contatto con la natura.

Il Parco è visitato ogni anno da più di 800 mila persone, attirate dalla facilità di accesso e, soprattutto, dalla possibilità di trascorrere qualche ora in mezzo alla natura a pochi chilometri da Milano. Per favorire e diversificare la fruizione dell’area, nel corso degli anni sono state realizzate diverse infrastrutture e una rete di percorsi riservati al transito ciclo-pedonale e più di 50 itinerari, 800 chilometri in totale, per il trekking e il mountain biking, mostre, musei e osservatori naturali.

La cattedrale di Sant'Ambrogio, consacrata il 24 aprile 1612, fu iniziata da Francesco II Sforza nel 1532, su progetto di Antonio da Lonate dopo aver demolito in gran parte quella precedente (della quale fu salvata la parte absidale) risalente alla seconda metà del Trecento, ma edificata su fondamenta ben più antiche. Sono presenti infatti documenti del 963 e del 967 che parlano della basilica di Sant'Ambrogio in Vigevano e pertanto le origini della chiesa primitiva affondano a prima dell'anno mille. Del precedente edificio si conservano alcuni frammenti degli archetti decorativi del cornicione di stile gotico-lombardo, appartenenti all'antica basilica. Francesco II morì poco dopo aver intrapreso la costruzione della cattedrale.

Venuta meno la munificenza del duca, essa poté avere compimento con le offerte dei fedeli, del Comune e dei vescovi, giungendo al tetto nel 1553 e venendo ultimata solo nel 1606 allo stato rustico, sotto la guida del vescovo Giorgio Odescalchi, per poi essere definitivamente terminata alla fine del seicento, allorché fu compiuta la grandiosa facciata barocca ideata dal grande poligrafo Juan Caramuel y Lobkowitz, che fu vescovo della città dal 1673 al 1682. Poiché gli assi del duomo e della piazza Ducale sono differenti (la piazza era infatti scenografico ingresso al castello, e non alla cattedrale), il Caramuel, fece erigere la nuova facciata in forma concava e fece eliminare l'originale rampa d'accesso al castello, completando il porticato sotto la torre del Bramante. L'espediente architettonico rendeva simmetrico il duomo rispetto alla piazza e mutava la "funzione politica" di quest'ultima: da "ingresso" del castello (potere civile) ad "anticamera nobile" del duomo (potere ecclesiastico). Il campanile sfrutta come base una torre trecentesca (probabilmente l'antica torre civica) su cui è stato realizzato un primo sopralzo nel 1450, e un secondo nel 1818 con la costruzione dell'attuale cella campanaria sormontata da merli. Nel 1716 venne completata la cupola con la copertura in rame e nel 1753 venne terminata la sacrestia capitolare.

Durante tutto l'Ottocento si susseguirono numerosi lavori di restauro tra cui la costruzione dell'altare maggiore (1828-1830), a opera di Alessandro Sanquirico, e la decorazione del grandioso e luminoso interno a tre navate a opera di Francesco Gonin, Mauro Conconi, Vitale Sala, Cesare Ferrari e del pittore vigevanese Giovan Battista Garberini.

La seconda cappella della navata sinistra, dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, oltre a un pregevole altare seicentesco ospita il Polittico Biffignandi', di Bernardo Ferrari, mentre nella cappella di San Carlo o del santissimo Sacramento sono conservate altre due opere recentemente restaurate del pittore vigevanese: il Trittico Gusberti e un San Tommaso di Canterbury tra le sante Elena ed Agata. Nelle altre cappelle laterali si conservano interessanti dipinti del '500 lombardo opera di Cesare Magni e Ferdinando Gatti (detto il Soiaro).

Di grande interesse è anche l'organo a canne che si trova in presbiterio, nella cantoria di destra, costruito nel 1782 dai Serassi di Bergamo e recentemente restaurato.
Il duomo di Vigevano è anche divenuto famoso per il tesoro della cattedrale, che in parte risale alle donazioni elargite al capitolo da Francesco II Sforza. Oltre a notevoli calici, pissidi e paramentali, esso conserva anche manoscritti di grande valore miniati da Giovan Giacomo Decio, un pastorale vescovile in avorio di narvalo e "La Pace", una preziosa suppellettile in argento dorato di scuola lombarda. Nella seconda sezione del museo sono conservati una serie di arazzi fiamminghi di Bruxelles (1520) e Auderaarde (seconda metà del XVII secolo) con raffigurazioni sacre e profane, e due pregevoli stendardi cinquecenteschi delle antiche confraternite di Santa Maria del Popolo e dell'Annunziata. Nel tesoro della cattedrale è conservato inoltre un prezioso paramentale ricamato con fili d'oro, utilizzato dal papa per incoronare Napoleone Bonaparte re d'Italia nel duomo di Milano nel 1805.

La chiesa di San Pietro Martire fu eretta nel 1445 con l'annesso convento dei frati domenicani come attestato dalla bolla pontificia conservata presso l'archivio storico di Vigevano, venne consacrata nel 1480. In puro stile gotico lombardo con campanile a base ottagonale, si presenta a croce latina imperfetta con pilastri polistili, terminante con coro poligonale alto con sottostante cripta il cui accesso è dato da due ingressi ai lati del presbiterio rialzato. Nella cripta è conservato il corpo del beato Matteo Carreri, patrono di Vigevano, che visse e morì (1470) nell'attiguo convento.
Nel 1645, durante l'assedio francese alla Rocca Nuova, il campanile viene demolito a metà, in senso verticale, per essere poi ricomposto pochi anni dopo. La facciata, divisa in tre parti corrispondenti alle navate e sormontata nella parte centrale da tre pinnacoli, ha un portale gotico ad anelli racchiuso da una cornice in cotto con un bassorilievo collocato nel 1969. Sul fianco sinistro una scalinata porta all'ingresso secondario posto in testa al transetto, mentre in corrispondenza della navata si trova la traccia di un portale, oggi murato, simile a quello di facciata che, secondo la tradizione locale, era riservato alla corte sforzesca. Fino alla fine dell'Ottocento lungo il lato sinistro si trovava un terrapieno che collegava il livello della piazza antistante con l'ingresso laterale.
Nel 1840 un intervento di costruzione delle false volte, in stile neogotico, ha determinato la modifica dell'aspetto interno. Le volte, realizzate staccate dall'originale tetto a capriate a vista, hanno di fatto nascosto gli affreschi del 1447-50 posti nella parte alta dell'arcone del transetto. Tali affreschi, situati oggi nell'intercapedine tra le volte e il tetto, raffigurano al centro il busto di san Domenico di Guzman, a sinistra un paesaggio con un castello e una chiesa e a destra vari militari con lance e bandiere tra cui un cartiglio con la scritta “britanii”; gli affreschi rappresenterebbero un ex voto fatto dai vigevanesi per la minaccia di scorreria di mercenari allo sbando dopo la dissoluzione del ducato visconteo il cui passaggio venne impedito dalla piena eccezionale del Ticino.

La Chiesa di San Francesco fu edificata fuori dalle mura cittadine nel 1379, un anno dopo la costruzione del convento dei Frati Minori. Era più piccola, orientata diversamente e occupava lo spazio dell'attuale transetto. Ampliata nel 1447, subì una radicale trasformazione con la totale ricostruzione e il cambio di asse tra il 1465 e il 1470. Nel 1475 viene terminato il campanile la cui costruzione era iniziata nel 1448. Nel 1836 furono rifatte le cappelle. Nel 1847, per ampliare la via S. Francesco, venne demolita la cappella dell'Immacolata Concezione, edificata nel 1494 su disegno di Donato Bramante. Tra il 1847 e il 1856 subì un "restauro" che trasformò l'interno in stile neogotico, con la realizzazione delle volte in sostituzione delle capriate a vista e il rialzo del tetto, conseguente al sopralzo di un metro del pavimento che fu portato a livello strada. Tra il 1891 e il 1903, ad opera dell'architetto Moretti, fu ripristinato il disegno gotico lombardo della facciata con il rialzo di alcuni metri, per allinearsi al tetto sopralzato con gli interventi ottocenteschi; inoltre vennero eliminati i piccoli ingressi ai lati del portale di facciata realizzati nel corso del Settecento, allungate le due finestre gotiche e completata la cornice del finestrone tondo rifatto più grande di quello quattrocentesco. A completamento della facciata furono rifatti i pinnacoli. Nel 1931 anche i lati vengono restaurati, riportando all'antica forma la facciata del transetto. Sulla via S. Francesco, dopo il portale del lato destro, si trova un ossario di fattura barocca chiamato "chiesetta dei morti".

La Chiesa di San Giorgio in Strata è situata in via Cairoli, oggi stretta tra le case adiacenti, di origine antica (citata in un documento del 1090), l’edificio fu ricostruito per volere della famiglia Colli nella metà del XV secolo; attualmente si presenta con facciata romanica a capanna di linee molto semplici. l’interno, a pianta rettangolare e navata unica, termina con l’abside semicircolare, coperto da una volta a catino.
Sulla parete destra è conservato un affresco quattrocentesco, raffigurante S. Giorgio che uccide il drago.
L’aspetto attuale è frutto di un delicato lavoro di restauro avvenuto nel corso del ‘900.

Piazza Ducale è una vasta piazza in stile rinascimentale. La sua costruzione iniziò nel 1492 per volere di Ludovico il Moro come anticamera del castello ormai trasformato in palazzo ducale, e fu ultimata nel 1494.

Lunga 134 metri e larga 48, è edificata su tre lati (il quarto è occupato dalla Chiesa Cattedrale di Sant'Ambrogio) con edifici omogenei con facciata e portici uniformi a contorno di un forum che ricalca il modello romano descritto da Vitruvio.

In origine la zona era caratterizzata da una larga strada contornata dagli edifici in gran parte porticati, tra cui quello del Comune, frutto dell’espansione trecentesca sviluppatasi a nord del promontorio fortificato dell’antico borgo scomparso con le trasformazioni viscontee e sforzesche che hanno portato alla realizzazione dell'attuale "castello". Al borgo e al primitivo castello annesso, situati in posizione sopraelevata, si accedeva per mezzo di una rampa o forse di una scalinata posta in corrispondenza dell'attuale torre che funge da ingresso al castello.

La nuova piazza venne realizzata sotto la direzione dell'ingegnere ducale Ambrogio da Corte con la demolizione delle case situate verso la scarpata su cui sorge il castello e il riuso degli edifici a nord e ad ovest, allineandoli con il rifacimento delle facciate. La realizzazione sforzesca aveva il lato sud interrotto, in corrispondenza con la torre, da un’ampia rampa di collegamento tra la piazza e il castello; il lato ovest si prolungava fino alla scarpata del castello (alcune arcate con le colonne originali si trovano inserite nel caffè Commercio) ed era diviso in due parti unite da un arco trionfale posto all’imbocco della via del Popolo, mentre sul lato nord, in corrispondenza dell'aggancio con quello ovest, proprio di fronte alla rampa, si apriva un arco trionfale a tre fornici corrispondente all'imbocco di via Giorgio Silva. Le facciate si presentavano totalmente decorate con affreschi.
La forma attuale è frutto dell’intervento del 1680, realizzato dal vescovo Juan Caramuel y Lobkowitz, in cui viene demolita la rampa e costruito uno scalone inserito nel completamento del tratto mancante del lato sud, parte del lato ovest (verso il castello) viene inglobato nel corpo sud. L’assetto della piazza viene definitivamente modificato dal Caramuel con la costruzione della nuova facciata della cattedrale: una facciata concava, addossata alla chiesa come una quinta teatrale, che abbraccia e accoglie il recinto della piazza ribaltando il rapporto sforzesco piazza-castello trasformandolo in piazza-chiesa.
In epoca sconosciuta, forse nella metà del XVIII secolo, si sostituiscono gli archi trionfali, completando il ritmo delle arcate, con nuove colonne di materiale e fattura diversa da quelle quattrocentesche. Nella prima metà del Settecento gli occupanti austriaci collocano una statua di San Giovanni Nepomuceno, che ancora oggi caratterizza il lato occidentale della piazza.
La pavimentazione con ciottoli e lastre di serizzo risale alla metà dell’Ottocento, quando viene sostituita anche la pavimentazione dei portici, originariamente in mattoni a spina di pesce, con quella attuale. Nel 1911, a opera dell'architetto Moretti, viene realizzato il disegno con ciottoli bianchi e inseriti i lampioni. Tra il 1905 e il 1910 viene realizzato un ampio restauro che riporta alla luce i lacerti degli affreschi sforzeschi, nascosti dalle pitture settecentesche, a opera del pittore vigevanese Casimiro Ottone, che integra i lacerti con una nuova decorazione pittorica in stile rinascimentale; durante i lavori si rifanno i tetti con la realizzazione degli eclettici camini e vengono installati i lampioni attuali. In occasione del 500° della sua costruzione, tra il 1992 e il 1996, viene eseguita la ripittura della decorazione di inizio secolo e il restauro di ciò che resta degli affreschi sforzeschi originari.
Attualmente la piazza è meta di incontro e ritrovo, certamente la preferita dei vigevanesi, e il principale punto di riferimento per i turisti. Accoglie negozi di vario tipo e anche la fermata del trenino turistico della città.

Palazzo Sanseverino, situato ad ovest del centro storico, in fondo al corso della Repubblica che si diparte dall'ingresso neo gotico del castello. Il complesso si presenta fortemente alterato nelle facciate esterne, tanto che non se ne riconoscono le origini rinascimentali e si fatica a coglierne l'aspetto monumentale conservato invece nel cortile interno caratterizzato sul lato nord da un ampio porticato ed un loggiato aereo sorretto da mensole in granito sugli altri lati. In origine gli accessi erano due, uno verso la campagna ad ovest e un altro verso la città ad est, mentre l'attuale ingresso era occupato da uno scalone; un ulteriore passaggio posto sul lato nord conduceva al giardino dove si trovava una scuderia. Costruito nel 1492 sotto la direzione di Sebastiano Altavilla di Alba come abitazione di Galeazzo Sanseverino comandante la guarnigione sforzesca e sposo di una figlia naturale di Ludovico il Moro, nel 1496 viene trasformato dal Moro in fortezza, con la costruzione di una cinta muraria con quattro torri tonde ed un fossato a circuito del palazzo e del suo giardino, che viene quindi chiamata "Rocca Nuova" in contrapposizione alla rocca edificata da Luchino Visconti, situata ad est dell'abitato che viene così denominata "Rocca Vecchia".
All'inizio del Cinquecento, sotto il marchesato di Giangiacomo Trivulzio, si rinforzano gli accessi con la costruzione dei rivellini. Nel 1535, poco prima della sua morte, il Duca Francesco II Sforza fa costruire il porticato con il piano sovrastante e decorare i prospetti sulla corte. Nel 1543, per volontà di Alfonso D'Avalos viene realizzato un terrapieno di difesa esterna che comporta la demolizione di 42 case, soprattutto verso il castello. Nel 1646, dopo la conquista francese dell'anno prima, la rocca viene presa dagli spagnoli che ne demoliscono le strutture difensive. Si salva dalla distruzione il palazzo e parte della muratura edificata da Ludovico il Moro sul lato ovest, di tale muratura ne rimane un ampio tratto con l'originale accesso verso la campagna. Nel 1655 Giovanna Eustachia della Santa Croce riceve in dono dal Re di Spagna il palazzo e le macerie delle fortificazione, che vengono vendute, quindi trasforma l'edificio in un monastero dedicato a S. Chiara con la costruzione di una chiesa addossata al lato sud e consacrata nel 1680, sul sito dell'attuale strada. Nel 1805 il monastero viene soppresso quindi il palazzo viene lottizzato e acquistato da privati che lo trasformano in abitazioni, demoliscono la chiesa e realizzano a loro spese l'attuale strada. Con la costruzione della strada odierna gli ingressi originali vengono chiusi e si realizza quello attuale con la ricostruzione della parte su cui addossava la chiesa e il rimaneggiamento della facciata della parte sud-ovest che viene occupata dall'albergo "della Corona". Verso la fine dell'Ottocento vengono costruiti i due edifici situati tra il palazzo e la superstite muratura della rocca, edifici che fino a pochi decenni fa, insieme a parte del palazzo, hanno ospitato l'albergo "dei Tre Re". Nel 1937 viene ristrutturata la parte sud-est del corpo su strada con il rifacimento della facciata nella forma attuale.
Parte delle mura superstiti della rocca voluta dal Moro vengono ulteriormente demolite con la costruzione di un edificio negli anni sessanta.

Palazzo Crespi è la sede della Civica Biblioteca.
Eretto nel 1893 da Giuseppe Crespi, fondatore dell'omonimo cotonificio, fu acquistato dai signori Gagliardone e poi dai Biffignandi; successivamente venne ceduto al PNF come Casa del Fascio. Nel dopoguerra passò al Comune che, dal 1966, vi ospita la Biblioteca, intitolata nel 1983 allo scrittore vigevanese Lucio Mastronardi. I Musei Civici, che comprendono la Pinacoteca Civica e il Museo della Calzatura, prima situati presso questo Palazzo, sono stati trasferiti dal 2009 presso il Castello Sforzesco.
Le facciate mostrano paraste e tamponamenti a bugnato liscio al primo piano, mentre i piani superiori restano decorati con le sole paraste; le finestre sono incorniciate con timpano a motivi geometrici e si alternano a balconate in pietra con pilastrini al primo piano e in ferro battuto decorato al secondo piano. All'interno lo scalone d'onore si articola in quattro rampe ad andamento ottagonale con gradini in marmo. Alcune delle sale conservano affreschi ai soffitti con temi decorativi e figurativi in stile liberty. Adiacente al palazzo, un giardino cintato conserva antichi alberi ad alto fusto.

Il Castello Sforzesco di Vigevano è un complesso di edifici, inseriti in un perimetro comune, che occupano un’area di più di due ettari sul terrazzo naturale della valle del Ticino, nel punto più alto della città, dove la conformazione orografica del luogo, di altura modesta ma egualmente dominante nella pianura lombarda, ne ha favorito la fondazione. Visibile esternamente solo in alcune parti, totalmente separato dalla città e occultato alla vista dalle case che vi si addossano, appare nel suo insieme grandioso e molto suggestivo solo salendo lo scalone, posto sotto il porticato sud della piazza, e passando oltre l’arco d'ingresso principale della torre visibile dalla piazza, oppure entrando dal portone d'ingresso carraio di corso della Repubblica.
Il complesso è costituito da:
la torre d'ingresso detta del Bramante,
Tre grandi scuderie, di cui quella vicina alla torre detta "di Ludovico",
Un atrio d'ingresso neogotico,
Un corpo con loggiato detto falconiera,
Un ponte con loggia aerea,
L'edificio principale detto maschio,
Due corpi ottocenteschi posti tra il maschio e la torre,
Il grande edificio della strada sopraelevata coperta,
La rocca vecchia posta ad est che racchiude una grandiosa cavallerizza;
edifici tutti legati tra di loro in modo tale da apparire come una struttura unica con molte articolazioni.
La storia del castello collima per alcuni secoli con quella del borgo di Vigevano, chiamato anticamente "Vicogebuin". Fino alla metà del Quattrocento infatti l’area del promontorio, racchiusa dagli edifici che compongono l’attuale castello, era il sito dove sorgevano le case dell’antico borgo con il primo palazzo comunale e le primitive chiese. Il borgo circondato in origine da un rudimentale impianto di difesa in terra e legno, sostituito poi da una muraglia, aveva sul lato est un castello o recetto di forma quadrata, costituito inizialmente da una struttura in legno, sostituita prima del X secolo da muri in mattoni e separato dall’abitato da un fossato. Tale struttura, corrispondente all’attuale maschio, all’inizio svolse le funzioni di ricovero di foraggi e animali e di estrema difesa in caso di pericolo, ma con il passare del tempo e con i continui aggiustamenti e trasformazioni divenne, tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo, sede e dimora signorile dei Visconti, i quali cominciarono a prendere possesso anche delle case dell'antico borgo, iniziandone la demolizione. Svuotamento e demolizione proseguiti e conclusi poi dagli Sforza nella seconda metà del XV secolo, quando il maschio, ulteriormente ampliato e abbellito, diventa un palazzo ducale circondato da scuderie ed edifici di servizio.
Luchino Visconti, podestà di Vigevano nel 1319 e nel 1337, inserisce il villaggio nel suo piano di dominio territoriale, decidendo di farne una roccaforte difensiva inserita nello scacchiere territoriale dei castelli posti lungo l’Adda e il Ticino a difesa del ducato di Milano. In quest’ottica, nel 1341, realizza una rocca di difesa (in origine detta inferiore, prende l'attuale nome di rocca vecchia in contrapposizione alla rocca nuova edificata alla fine del XV sec.), posta ad una certa distanza dal castello, sul limite est del borgo che si stava ormai allargando fuori dal perimetro originale. Nel contempo inizia l’opera di trasformazione del vecchio castello in nuovo fortilizio sede e dimora ducale, edificio che nella nuova conformazione si presenta con pianta quadrangolare formata da muri merlati con tre corpi di fabbrica, torri agli angoli e una torre d'ingresso al centro della cortina anteriore. I lavori di ampliamento ed abbellimento del maschio proseguono poi per tutto il dominio visconteo. Nel 1347 i due fortilizi vengono uniti dalla cosiddetta "strada coperta", un grande edificio fortificato lungo 164 metri e largo 7,50 che, stagliandosi nel panorama cittadino, permetteva un rapido collegamento tra il castello e le campagne circostanti.
Nel 1447, alla fine del dominio visconteo, la stessa popolazione di Vigevano, conquista la libertà comunale e distrugge la rocca esterna. Libertà che finisce già nel 1449, quando Vigevano viene cinta d’assedio da Bartolomeo Colleoni e Francesco I Sforza, marito di Bianca Maria figlia di Filippo Maria Visconti, e nuovo signore di Milano. Dopo la conquista lo Sforza ripara i danni dell'assedio e raddoppia la parte centrale del maschio verso l'esterno inglobando i resti della torre di sud-est distrutta proprio durante l'assedio.
Galeazzo Maria Sforza nel 1466, appena succeduto al padre Francesco, ordina nuovi interventi che trasformano definitivamente il maschio in palazzo ducale e, prendendo atto della cessata funzione difensiva delle mura dell'antico borgo, concede la costruzione di case nel fossato esterno, di altezza non superiore al muro. Nel 1472 il nuovo Duca interviene su due antichi edifici, posti lungo la muratura sud dell'antico borgo e utilizzati a stalla, sopralzandoli e modificandone il piano terra con l'inserimento di un doppio colonnato con volte a crociera e nuove finestre. Nel 1475 realizza il ponte con loggiato, posto a sud del maschio, mentre poco prima della morte dà l'inizio alla costruzione dell'edificio della falconiera , completato poi da Ludovico il Moro, reggente il ducato a nome del nipote Gian Galeazzo Maria Sforza.
Con Ludovico il Moro, nato proprio a Vigevano, il progetto sforzesco si attua in interventi di proporzioni e qualità rilevanti, completando il processo di trasformazione del castello in residenza dinastica. Il cortile, occupato in origine dall'antico borgo, viene svuotato dalle residue costruzioni, si costruiscono la terza scuderia, detta per questo di Ludovico, e l’edificio delle cucine, realizzato con la demolizione dell’antica chiesa di S. Ambrogio e collegato al maschio da un edificio a ponte, chiudendo così il circuito di edifici a contorno dell’ampio cortile. Il maschio viene ampliato sul lato est con la realizzazione di un giardino pensile racchiuso da due edifici porticati progettati dal Bramante e aperto verso est. Del complesso bramantesco rimane oggi, dopo il crollo del loggiato addossato alla strada coperta e lo svuotamento del giardino con l’abbassamento al livello attuale, solo l'edificio sud chiamato “loggia delle dame”. Ad opera del Bramante si deve anche parte della decorazione pittorica che abbelliva il complesso di edifici prospiciente il cortile, di cui oggi rimangono tracce sulle pareti della scuderia di Ludovico, e il sopralzo dell'antica torre comunale, che verso il 1476 era già stata rialzata con nuovi merli e beccatelli per ospitare le campane della demolita chiesa di S. Maria, realizzato in tre parti di cui la seconda con una cella campanaria e la terza con un corpo ottagonale coperto da una guglia. I fasti del dominio sforzesco terminano con Francesco II Sforza il quale completa le decorazioni pittoriche del palazzo ducale.
Dalla prima metà dell'Ottocento si compiono le modifiche più consistenti. Prima del 1824 avviene l’interramento del lato ovest del fossato e la demolizione della cortina muraria del maschio con il rivellino, mentre nel 1824 viene chiusa e soppressa la porta che apriva verso la chiesa di S. Pietro Martire. Nel 1855, a seguito di un crollo di parte del corpo centrale del maschio e dell’antico scalone posto a ridosso della manica sinistra (che non fu più ricostruito), viene riedificata, ad opera dell'ing. Inverardi, la parte crollata con la modifica della parte verso la corte che ha comportato il rifacimento della facciata in stile Tudor, lo spostamento dell'accesso ai piani cantinati da destra a sinistra e la realizzazione di un nuovo scalone posto all'interno; lo stesso ingegnere progetta in stile neo-gotico l'ingresso da corso della Repubblica con un atrio che ingloba una campata della scuderia est. Nella seconda metà del secolo si completa l'interramento del fossato e si attua lo sterramento del giardino pensile, oggi chiamato cortile della duchessa con la ricostruzione del corpo a ridosso della strada coperta, ricostruzione che ha determinato la scomparsa della cappella ducale di epoca sforzesca e il trasferimento di nove affreschi (di cui otto attribuiti a Bernardo Ferrari) nel Municipio.
Altri interventi vengono compiuti per adattare il complesso alle nuove funzioni militari dotandolo di nuove strutture. Nel 1836 nella parte sud della rocca vecchia viene realizzato un grande edificio ad uso maneggio coperto oggi chiamato “cavallerizza”, una seconda cavallerizza (demolita a seguito di un crollo verificatosi nel 1979) di dimensioni minori venne costruita nella parte nord della rocca alla fine dell’Ottocento. Nel corso della seconda metà del secolo i locali del “prestino” (antico forno comunale situato ad est della torre e acquistato dall'amministrazione militare nel 1837) e quelli delle cucine ducali vengono ristrutturati, sopralzati di un piano e adibiti a circolo ufficiali; vengono interrate le parti rimaste del fossato; totalmente trasformato in portico terrazzato il ponte verso le ex cucine, mentre quello verso la falconiera viene rimaneggiato con la realizzazione di tre arconi al posto della muratura; svuotato fino alla quota attuale il giardino pensile, già parzialmente sterrato all'inizio del secolo; ricostruito il corpo addossato alla strada coperta e rimaneggiati gli interni delle scuderie.
Nel 1980, dopo un decennio di abbandono a seguito del cessato uso da parte dei militari, iniziano i lavori di restauro e recupero del grande complesso di edifici chiamato castello.

L'origine della Torre del Bramante, situata nel punto più alto della città, presso il castello, risale al 1198 e fu terminata dal Bramante alla fine del XV secolo, mentre nel XVII secolo venne aggiunto il cupolino barocco "a cipolla" in sostituzione dell'originaria guglia conica. La Torre ha una forma originale che, nell'800, fu il modello per la torre del Filarete nel Castello Sforzesco di Milano; è costituita da sezioni che si restringono avvicinandosi alla cima. DaI terrazzi è possibile ammirare un'ottima visuale della Piazza Ducale, del Castello e di tutta la città.
La cella campanaria, inaccessibile al pubblico, ospita "il campanone", una grande campana seicentesca "fessa" per necessità. Infatti nell'Ottocento non esistevano i moderni sistemi elettronici per controllare le campane, e l'orologio della Torre, all'epoca meccanico, batteva ogni mezz'ora anche di notte. Pare che il suono del "campanone" fosse così forte, che gli abitanti delle case addossate al Castello e alla Piazza fossero praticamente impossibilitati a prendere sonno. Così presentarono in Comune una petizione in cui si chiedeva di "zittire" il bronzeo disturbatore! Alla fine si raggiunse un compromesso: dalla campana, con precisione quasi chirurgica, venne asportato uno spicchio in modo da renderla fessa ed attutire il suono. Ed è così che ancora oggi la si può ascoltare battere i rintocchi ogni quarto d'ora.
Alta ben 75 metri dal livello della piazza, la Torre del Bramante è l'attuale Torre Civica della città di Vigevano, di cui da sempre è il simbolo.

All'interno del Castello Sforzesco sono presenti il Museo internazionale della calzatura e la Pinacoteca Civica. Il Museo dell'Imprenditoria vigevanese è invece ubicato presso le sale dell'ex orfanatrofio Merula, in via Merula 40. L’intero nucleo dei Musei Civici è stato dedicato a Luigi Barni (1º ottobre 1877 – 28 maggio 1952), uomo di grande lungimiranza e passione che contribuì significativamente alla nascita e alla crescita delle collezioni d’Arte esposte.

La stagione della grande pittura italiana ed europea del XIX secolo costituisce il cuore pulsante della Pinacoteca Civica. Una stagione che a Vigevano si apre con la figura di Giovanni Battista Garberini, (1819-1896) maestro riconosciuto della pittura vigevanese moderna ed autore di una imponente galleria di ritratti di esponenti della borghesia cittadina. L’impetuoso sviluppo industriale di Vigevano seguito all’unità nazionale porta alla ribalta una nuova classe imprenditoriale che manifesta uno spiccato gusto per l’arte pittorica: appartengono a quell’epoca gli acquisiti della “Marina” di Pompeo Mariani e della monumentale composizione storica “La morte di Carlo Emanuele II” di Francesco Valaperta. Gli anni settanta dell’Ottocento segnano un rinnovamento formale per la pittura lombarda e quindi, di riflesso, per la pittura vigevanese. Gli esponenti di punta della nuova stagione sono Ambrogio Raffele (1845-1928) e Casimiro Ottone (1856-1942) che suscitarono l’interesse e la menzione di Federico Zeri in occasione di una mostra organizzata nel 1997. Se Raffele si dedica quasi esclusivamente al paesaggio privilegiando le vedute di località alpestri (specialmente della Valle d’Aosta), Ottone si rivolge alla figura come dimostra la folta sequenza di intensi volti femminili che richiamano stilemi tardo scapigliati. La generazione di pittori a cavallo dei due secoli è bene rappresentata da Luigi Bocca (1872-1930), Luigi Barni (1877-1952) e dai fratelli Cesare e Ferdinando Villa. Luigi Bocca è il personaggio di maggior spessore, come testimonia la sua produzione incentrata sul ritratto e sulla composizione con figure umane bene esemplificata nel delicato “Per tua dote”. La stagione del Novecento pittorico ha invece in Mario Ornati (1887-1955) e Carlo Zanoletti (1898-1981) i protagonisti principali. In particolare Zanoletti si distingue per la sua particolare lettura dei paesaggi del fiume Ticino e dei suoi frequentatori (barcaioli, ma anche gente comune). Tra i rappresentanti della scultura di Otto e Novecento a Vigevano, che trovano spazio nel percorso di visita, in un dialogo perfetto tra pittura e scultura, troviamo Pasquale Miglioretti, Alfredo Berengario Ubezio, Giovan Battista Ricci e Cesare Villa.

Il primato di Vigevano quale capitale della calzatura, è un primato che arrivava da lontano per poi emergere in modo significativo a livello industriale nel corso del ‘900, quando a Vigevano si era arrivati a produrre addirittura 20 milioni di paia di scarpe l’anno.
Nel 1866 due fratelli, Luigi e Pietro Bocca, diedero vita al primo calzaturificio modernamente inteso per divisione e specializzazione delle fasi lavorative. Nel 1929 Vigevano fu la prima città italiana ad avviare la produzione di calzature in gomma.
Questa tradizione si trova oggi documentata nel Museo Internazionale della Calzatura, la prima ed unica istituzione pubblica in Italia dedicata alla storia e all’evoluzione della scarpa intesa come indumento e come oggetto di design e moda.
Il Museo della Calzatura, inaugurato nel 1972 per volontà dello storico locale Luigi Barni e dell’imprenditore Pietro Bertolini, cui é dedicato, dopo un’iniziale collocazione presso Palazzo Crespi, a partire dal 2003 si trova all’interno del Castello, al piano primo della seconda scuderia.

Il museo dell’Imprenditoria Vigevanese presenta all’interno delle sue sale, un percorso storico attraverso i due secoli ('800/'900) in cui si è sviluppato il processo di industrializzazione della città e del territorio, con uno sguardo sul futuro, ipotecato dall’utilizzo delle nuove tecnologie.

Da segnalare anche il teatro Cagnoni inaugurato nel 1873, sede ogni anno di una stagione teatrale ricca di eventi e manifestazione.

Tra le svariate proposte di piatti e delizie gastronomiche che impreziosiscono Vigevano e la Lomellina, spiccano insaccati, formaggi e i piatti a base di riso, questi ultimi presenti in tutti i tipi di portate, dagli antipasti ai dolci.

Si dice che il Dolceriso sia stato sfornato per la prima volta nelle cucine del Castello Sforzesco di Vigevano. Era la primavera del 1491, Beatrice d'Este, la raffinata, giovane moglie di Ludovico Maria Sforza, detto il Moro, voleva un dolce speciale da offrire al "signor suo consorte" e agli ospiti che qui trascorrevano "tutto il die et persino a mezza nocte passata in zoghi e feste". E il dolce è vera espressione rinascimentale. Legato al territorio, perché ripieno di quel riso la cui coltivazione si andava affermando nelle terre del Vigevanasco, e ricercato, perché profumato dall'acqua di rose e ricco di cedri canditi dei confettieri genovesi. Lo stampo inciso con l'impresa araldica dello "scovino", caro al Moro, ne impreziosisce la forma.

Le maggiori realtà calcistiche cittadine sono il Vigevano Calcio e la Pro Vigevano Suardese (militante nel girone A dell'Eccellenza Lombardia e con un fiorente settore giovanile, con il quale partecipa ai campionati regionali con Juniores, Allievi e Giovanissimi, è inoltre un Centro Pilota FIGC e una "Scuola di Calcio Specializzata").

Le altre realtà calcistiche ducali sono:

A.C.D. Gambolò Gifra: frutto dell'unione della vigevanese GiFra Vigor e dell'A.C. Gambolo', milita nel campionato di Seconda Categoria;
G.S. Superga, militante in terza categoria;
Accademia Lomellina, società satellite della Pro Vigevano Suardese di esclusivo settore giovanile.
Vigevano è città dalla grande tradizione cestistica, arrivando con la società Pallacanestro Vigevano, sponsorizzata Mecap, alla Serie A1 nella seconda metà degli anni settanta, annoverando negli anni campioni di grande prestigio come Albanese, Malagoli, Solman, Mayes, Iellini, Polesello, Franzin, Crippa, Delle Vedove, Thomas, Urga, Zanatta, Boni, Dellavalle, Premier e molti altri. Negli anni più recenti la principale realtà cestistica cittadina è stata la Nuova Pallacanestro Vigevano, che nella stagione 2008/2009 è tornata nel basket professionistico (Lega2) dopo 25 anni, passati per la maggior parte in A dilettanti (ex-B1). Nel 2010, a causa di problemi fiscali, la squadra è stata retrocessa dalla Lega Nazionale in Prima Divisione e successivamente non si è iscritta al campionato. Da segnalare tuttavia, nell'estate del 2013, la nascita del progetto Nuova Pallacanestro Vigevano 1955, la cui prima squadra militerà nel campionato di serie C Gold. Esistono molte altre realtà minori, quali la C.A.T. (Congregatio Altae Turris), che dopo aver disputato molti campionati in serie C e D, è ora di puro settore giovanile, fornendo giovani atleti alle maggiori realtà della zona, quindi la Pro Vigevano Parona, la Junior Basket, e il Nuovo Basket Vigevano militanti nel campionato di Promozione, e altre squadre militanti in Prima Divisione e campionati U.I.S.P.

Il team sportivo lomellino che sia arrivato più in alto in qualsiasi disciplina sportiva è la Paolo Bonomi, squadra di hockey vigevanese ma giocante a Castel d'Agogna, la quale ha vinto due scudetti, nel 1972/1973 sponsorizzata dalla ditta vigevanese Co.Ge.Ca, e nella stagione1979/1980. È ritornata nel 2009 in serie A1, lega alla quale è ancora scritta alla stagione 2015/16

La tradizionale gara podistica internazionale denominata "Scarpa d'Oro" si svolge all'inizio della stagione primaverile.
È una corsa di mezzofondo, su strada, nata nel 1980 da un'idea di Lord Sebastian Coe, ex atleta, Pari d'Inghilterra e presidente della candidatura olimpica di Londra per i Giochi organizzati nel 2012.
Il percorso, di circa 8 km, si snoda tra le vie storiche della città con arrivo nella Piazza Ducale.
Dal 2006 la corsa ha ottenuto la denominazione di Half Marathon: in programma tradizionalmente l'ultima domenica di marzo e affiancata alla Family Run, corsa a passo libero per le famiglie, ha negli anni visto un incremento dei partecipanti.

Hip-Hop Zema Contest si svolge tutti gli anni al Teatro Civico Cagnoni di Vigevano

È un concorso di danza Hip-Hop riservato a gruppi di ballerini nata nel 2009 fondata e gestita da un gruppo di amici di Daniele Conversa, ballerino di Vigevano scomparso in un tragico incidente stradale. Il concorso viene gestito dall'Associazione culturale sportiva dilettantistica Art On Stage fondata dagli amici di Daniele al fine di poter ripetere l'evento nell'anno e di conservarne il ricordo. Hip-Hop zema contest riceve ogni anno numerosi gruppi di ballerini provenienti da tutta Italia che si sfidano sul lussuoso palco del Teatro Cagnoni.


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