« La speranza è un sogno ad occhi aperti.»
Aristotele
Aristotele osserva come la speranza sia un atteggiamento che muta col mutare dell'età dell'uomo: la virtù della speranza è ben presente nella sua ben definita identità nella maturità, mentre nella giovinezza si manifesta con eccesso e nella vecchiaia difettosamente: «...I giovani sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri...e vivono la maggior parte del tempo nella speranza; infatti la speranza è relativa all'avvenire, così come il ricordo è relativo al passato e per i giovani l'avvenire è lungo e il passato breve...» perciò sono magnanimi perché inesperti e non ancora delusi dalla vita e, quindi, facili a sperare; i vecchi invece, amareggiati dalle asperità della vita passata e dai loro errori, sono meschini: si tengono al di sotto dei loro desideri e sperano solo ciò che attiene alla vita comune perché hanno paura del futuro.
Il significato del termine "speranza" nella storia della filosofia trova adeguata definizione soprattutto in Aristotele che la concepisce come un atto della volontà che nasce da una abitudine virtuosa che in potenza tende al raggiungimento di un bene futuro difficile ma non impossibile da realizzare. In questo comportamento occorre che sia ben definito il bene che si vuole ottenere e il mezzo che rende congruamente possibile conseguirlo: per cui la speranza si riferisce non solo all'oggettivo bene verso cui tende la volontà, ma anche a ciò con cui si ha fiducia di ottenerlo.
Il tema della speranza è presente nello stoicismo con la sua visione di un Cosmo retto dalla Ragione universale dove vive l'uomo partecipe del lógos e portatore di una "scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è infatti l'unica creatura, fra tutti i viventi, nel quale il Lògos si rispecchia perfettamente: egli è pertanto un microcosmo, una totalità nel quale tutto l'universo è riprodotto.
L'uomo deve dunque adeguarsi all'ordine razionale con l'annullamento delle sue passioni se vuole raggiungere la saggezza, garanzia di una vita serena. E tra le passioni da mettere da parte vi è in primo luogo la speranza poiché «il saggio è colui che sa vivere senza speranza e senza paura».
Avendo fiducia di come tutto sia regolato necessariamente dal Λόγος, il saggio è tale in quanto abbandona il punto di vista relativo dell’io individuale per assumere un punto di vista assoluto, una visione della realtà sub specie aeternitatis. Al punto culminante del suo complesso itinerario spirituale, reso possibile dalla filosofia, egli approda così ad un'unione mistica e ascetica con il tutto.
Ma il tutto rimane in un ambito terreno e privo di trascendenza: il divino rimane immanente all'universo e all'uomo in una concezione panteistica che ritroveremo secoli dopo in Baruch Spinoza dove «la speranza è un difetto di conoscenza e un'impotenza della mente» per cui «quanto più ci sforziamo di vivere sotto la guida della ragione, tanto più dobbiamo sforzarci di dipendere il meno possibile dalla speranza».
Se nell'ellenismo pagano si connotava la differenza tra falsa e vera speranza nella sopravvivenza nell'al di là, già nel messaggio biblico la "speranza d'immortalità" trova certezza in Dio («Lo spirito di coloro che temono il Signore vivrà,perché la loro speranza è posta in colui che li salva»): se quindi «La speranza dell'empio è come pula portata dal vento» per coloro che hanno vissuto secondo il comando divino «la loro speranza è piena d'immortalità» ed anzi essi possono sperare nella resurrezione dei corpi: «la speranza di riavere di nuovo da Dio queste membra» e «la speranza di essere da lui di nuovo resuscitati».
Nella mitologia greca Elpìs era la personificazione dello spirito della speranza. Nell'opera del poeta greco antico Esiodo, Le opere e i giorni, essa è tra i doni che erano custoditi nel vaso regalato a Pandora, donna creata da Efesto.
Il mito narra infatti che Pandora avesse con sé un vaso che non doveva aprire, ma che aprì, spinta dalla curiosità, infliggendo all'umanità tutti i mali, ai quali rimase come rimedio ultimo quello della speranza, chiamata "Timor del futuro".
Ma quella femmina il grande coperchio del doglio dischiuse,
con luttuoso cuore, fra gli uomini, e i mali vi sparse.
Solo il Timor del futuro restò sotto l’orlo del doglio,
nell’infrangibile casa, né fuori volò dalla porta,
perché prima Pandora del vaso il coperchio rinchiuse,
come l’egíoco Giove, che i nuvoli aduna, le impose.
Ma vanno gli altri mali fra gli uomini innumeri errando,
perché piena è la terra di triboli, il pelago è pieno.
E vagolano morbi di giorno sugli uomini, ed altri
giungon di notte, improvvisi, recando cordoglio ai mortali,
muti, ché ad essi tolse la voce l’accorto Croníde:
sicché, modo non c’è di sfuggire ai voleri di Giove.
Nei versi 90-105 delle Opere e giorni Esiodo descrive la conclusione della vicenda umana attraverso il mito del "vaso di Pandora". Questa giara che dovrebbe contenere il grano, contiene invece i "mali" che affliggono l'uomo e che sono fino a quel momento separati da lui, ma Pandora apre il vaso e li disperde ovunque facendo sì che l'esistenza umana venga da quel momento da questi afflitta. Solo Elpis, la Speranza, «l'attesa o il pensiero del presente-futuro che resta nel "pithos"; riparo al male schiacciante o dominante, in primis quello delle Chere di morte» rimane nel vaso per volere di Zeus.
Da quel momento i "mali" si presentano come "beni" e quando l'uomo li riconosce come "mali", questi ormai lo hanno raggiunto. Per poter raccogliere il bios, il nutrimento, e riempire la giara di "beni" l'uomo deve affrontare la fatica e la sofferenze ormai diffuse ovunque. Solo il lavoro, la costanza e la diligenza possono riempire di beni la giara della vita e nutrirla di buone speranze, regalando così all'esistenza umana momenti di serenità in mezzo ai mali diffusi da Pandora in ottemperanza alla punizione di Zeus.
Quando Pandora, fanciulla divina, per curiosità aprì il vaso che Zeus le aveva ordinato di non aprire , ne uscirono tutti i mali del mondo, eccetto la Speranza. Gli uomini, che prima erano felici e immortali come gli dei, conobbero allora il dolore e la morte, finché Pandora liberò anche la Speranza, che alleviò la loro insopportabile esistenza. Per i Greci la speranza era originariamente un male perchè nella loro cultura era troppo vicina all’illusione, a cui seguiva inevitabilmente la delusione, che rende ancora più tragica la realtà; dunque, meglio non sperare.
Eppure, a prescindere da filosofie e religioni, mai gli uomini hanno rinunciato a sperare. Sperare è una forma di ragionevolezza o di sentimentalismo? Non è un dubbio astratto, ma una questione sostanziale, in un momento in cui le correnti di disfattismo e addirittura il catastrofismo - con le sue visioni di imminente autodistruzione dell’umanità - fanno serpeggiare molte paure e atteggiamenti regressivi.
Il nostro pensiero è fatto di speranza, perché valutiamo il futuro ogni minuto, anche soltanto per il minuto successivo, e desideriamo che sia un futuro positivo. Dunque la speranza ha una base logica che ci proietta nel futuro. Il termine speranza, in latino “spes”, deriva infatti dalla parola greca “elpìs” che significa originariamente “desiderio”. Ora, poiché nessuno desidera il male per sé, la speranza sin dai tempi antichi significa tendere verso il bene. Quindi possiamo dire che sperare è quasi una necessità biologica per l’individuo, vicina all’imperativo della sopravvivenza, e credo che la società abbia il dovere di tutelarla.
È tradizionalmente definita come "ultima dea" (in lingua latina: Spes Ultima Dea),
La Spes veniva onorata come una dea sin dai tempi più antichi ma soprattutto nel periodo dell'Impero il culto della dea assunse un valore politico rappresentando simbolicamente la fiduciosa attesa di una felice successione imperiale. Da Claudio che la fece raffigurare sulle monete in occasione della nascita del figlio Britannico, la Spes venne quindi definita nelle epigrafi con l'epiteto di «Augusta, Augusti, Augustorum e anche 'publica o p(opuli)R(omani), a cui si aggiunsero sotto i Severi gli attributi di perpetua e firma.
Con Antonino Pio la Spes assunse un valore religioso nella riproduzione della defunta moglie Faustina in una serie di monete che la raffiguravano come la diva Spes: una giovane donna che incede, sollevando l'orlo della veste con un bocciolo di fiore nella mano destra.
L'imperatore voleva così significare che l'azione benefica di Faustina continuava anche dall'al di là per coloro che speravano in lei. Con gli imperatori cristiani la Spes, non venne più rappresentata secondo l'iconografia pagana, perse i suoi epiteti mondani e acquisì, divenendo una delle virtù teologali, un valore religioso ultraterreno.
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