sabato 5 settembre 2015

CIAO GIUSEPPE Quando Ti Faranno Riposare in Pace?

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Il sindacato di polizia Coisp regisce duramente alla presentazione dell'ultimo film di Ascanio Celestini "Viva la sposa!", ispirato alla morte del carpentiere Giuseppe Uva avvenuta a Varese il 14 giugno del 2008 e per la quale la sorella chiede giustizia, convinta che determinanti siano state le percosse subìte nella caserma dei carabinieri dove fu portato quella notte.

Attualmente è in corso un processo per stabilire le vere cause della morte di Uva. Dopo un processo travagliato agli operatori sanitari, tutti assolti, ora è in corso un procedimento contro i due agenti e i cinque carabinieri che nella notte tra il 13 e il 14 giugno trascinarono l'operaio nella caserma di via Saffi e, stando alle parole dell'amico, lo picchiarono a sangue.

Giuseppe Uva aveva 43 anni quando morì a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra "vittima dello Stato", come si denuncia da anni.  L'amico, racconta di aver sentito che nella stanza vicina, Giuseppe Uva, grida, urla; e poi del fracasso, rumori. Col cellulare, che i carabinieri non gli hanno portato via, chiama di nascosto l’ospedale. Quando l’auto-lettiga arriva, viene rimandata indietro: "è tutto tranquillo assicurano, solo due ubriachi un po' agitati".Gli avrebbero somministrato farmaci che hanno provocato una letale intolleranza. Ma alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte. La sorella racconta" Su tutto il fianco era blu, quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? Mia sorella prende il sacchetto in cui c’erano i pantaloni e li guardiamo. Erano pieni di sangue sul cavallo. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito".



Emorragia da emorroidi, sostengono in procura. Morte da tortura, per l'avvocato scelto dalla famiglia. La differenza che passa tra le due ipotesi è quella tra il dolore e l'orrore, tra un lutto accidentale e una "lezione a un ubriaco" finita male. Il "caso Uva" sta in bilico su questa linea di confine. Sono stati processati tre medici, poi prosciolti. Adesso stanno per finire davanti a un giudice 2 carabinieri e 6 poliziotti, fino a ieri sospettati solo per lesioni lievissime. A loro carico, ipotesi di reato che vanno dall'omicidio preterintenzionale (volevo fargli del male ma non fino al punto di), all'arresto illegale, al pestaggio ("indebita e violenta manomissione del corpo altrui"), al colpevole ritardo nell'affidarlo alle cure di un ospedale. Quasi tutto a rischio prescrizione, visto il tempo passato dai fatti.

Sulla lapide di Giuseppe c'è un Cristo in croce, una foto dove sorride felice con un pezzo di panettone in mano, e una gru a sbalzo color bronzo. Il gruista era il suo ultimo lavoro, ma ci andava a strappi, mollava e ritornava. Uno spirito libero, che dormiva a casa di un amico, di qualcuna delle sorelle, della donna del momento, qualche volta in albergo perché gli piaceva molto l'idea. Come gli piaceva bere, ballare, far casino, tenersi i capelli lunghi raccolti in una coda o sciolti e mossi, a seconda dell'umore.

Dopo la fine del matrimonio con Maria che se n’era andata col suo miglior amico, un commercialista, e questo l’aveva schiantato fino a spingerlo a fare il vagabondo per un anno e più, era tornato con l’aria di chi ha deciso di viversela un po’ alla giornata.

Per descrivere quella notte e l’alba successiva, basterebbe la cronaca. Il problema è che non ce n’è una sola. Ce ne sono due, opposte.

Quella ufficiale, nel senso che è stata assunta come vera dal pubblico ministero che gestisce il caso dal principio, comincia come l’altra con una bravata. È venerdì 13 giugno di un’epoca che sembra lontanissima.

Giusto a Varese, Pino Uva è a casa dal suo amico e vedono una partita della nazionale in tv, poi vanno per locali a tirar tardi. L’ultimo, Le Scuderie di via Cavallotti, chiude alle 3. I due, piuttosto ubriachi, non trovano di meglio che spostare transenne in mezzo alla strada e deviare il traffico.

Passa una Gazzella dei carabinieri, invitano la coppia a smettere. Ma Uva reagisce male, in parole e opere. Urla insulti (“toglietevi la divisa e poi vediamo”)“, i vicini si affacciano protestando, lui comincia a dare calci e pugni ai loro portoni. A quel punto, “onde evitare che la vicenda degenerasse”, i carabinieri chiamano in aiuto una Volante della polizia, ne arrivano due per sbaglio, poi se ne aggiungerà anche una terza (uno spiegamento di forze un po’ eccessivo per due balordi, visto che la città rimane a lungo sguarnita del presidio esterno di vigilanza, ma così è). Caricano Pino l'amico sulle auto e li portano nella caserma di via Saffi per il verbale, ore 3.50 (va sottolineato che questo orario, e gli altri successivi, sono quelli della versione ufficiale). Ma qui le cose degenerano per davvero.

Uva dà di matto, il lunedì successivo ha l’esame per riottenere la patente, teme che un verbale per alcolismo ne comprometta l’esito, perde quel poco di controllo di sé che aveva, rovescia una scrivania, poi “dalla sedia dove sedeva si dà una spinta all’indietro con i piedi, cadendo unitamente alla stessa per terra battendo il capo dapprima contro il muro e quindi volontariamente sul pavimento con il chiaro intento di lesionarsi”. Fortuna che un agente pietoso infila la scarpa tra la testa di Uva e il pavimento per attutire un po’ i colpi. Anche se in otto, gli uomini in divisa non riescono a contenere il suo forte stato di agitazione e convocano la guardia medica nella persona del dottor Augustin Desiré Noubissie che prova a fargli un’iniezione di calmante. Uva la rifiuta in malo modo, come rifiuta l’aiuto di un altro medico chiamato a rinforzo, Andrea Obert. Si decide di chiamare l’ambulanza del 118, che carica Pino non senza fatica (uscendo dà, darebbe diciamo così, un’ultima testata alla porta a vetri) e alle 5.48 lo deposita al pronto soccorso dell’ospedale dove, malgrado venga catalogato in “codice verde”, cioè non urgente, tre medici lo imbottiscono di farmaci e lo trasferiscono in psichiatria, dove cadrà in un sonno profondissimo e poi, dalle 10.30, eterno. Nel frattempo gli vengono tolti gli slip intrisi di sangue, che spariscono dalla scena per sempre. Causa del decesso, secondo il pm: “La combinazione, continuata per ore, di sedativi con l’alto tasso alcolico riscontrato nell’organismo”. Da qui, l’accusa, rivelatasi a processo non fondata, contro i medici.

È di fatto la seconda versione di quel venerdì 13. Anzi, di quel sabato 14, tra le 3 e le 10.30 di mattina. C’è una querela presentata il giorno dopo alla Procura di Varese, in cui l’amico che ha condiviso quelle ore con Giuseppe Uva, racconta una storia completamente diversa dalla cronaca ufficiale, in cui l’unica cosa che coincide sono le transenne spostate per fare una bravata.

I carabinieri che arrivano sul posto sono già molto arrabbiati. Pare anche ci sia stata una rissa recente con qualcuno di loro, in borghese, fuori da una discoteca. E che Uva, poche sere prima, abbia legato con una catena il cancello d’entrata della stazione di Caravate.

Uno dei carabinieri indica Pino e bestemmiando gli dice: “Proprio te stavo cercando. Adesso te la faccio pagare”. Pino si allontana, quello lo raggiunge, “lo scaraventa sul pavé”, lo carica sulla Gazzella in manette e comincia a menarlo. La scena si sposta nella caserma. Uva viene fatto entrare in una stanza dove c’è un via vai di carabinieri e poliziotti. Alberto resta fuori e lo sente gridare disperato, per tanto tempo gli sembra. “Ahi, basta, ahi, ahia”. E poi rumori sordi di colpi. Allora chiama lui il 118: venite, stanno massacrando un uomo. L’operatore dell’ambulanza chiede conferma in caserma prima di muoversi.

Gli rispondono che sono due ubriachi, di non preoccuparsi. Siamo intorno alle 4. Per il giudice, Uva è stato trattenuto “per un’ora e mezza in un presidio di polizia senza necessità operative”. Per ilp.m., “21 minuti d’orologio”, di cui solo 7 nella stanza da cui l'amico ha sentito le urla. Quando, dopo le 5, l’ambulanza arriva finalmente in caserma, l’amico Alberto viene portato a casa dal padre. Il giorno dopo denuncia quanto visto e sentito, ma passeranno più di 5 anni prima che il pm Abate lo convochi per ascoltarlo. Succede il 26 novembre 2013 ed è un interrogatorio di quasi 4 ore, considerato dal gip “degradante, atto a umiliare il cittadino e avvilirlo, in contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”.

Nonostante il p.m. non manchi di ricordargli che ha un invalidità del 100 per cento per problemi psichici e che quindi le sue parole hanno un peso relativo, anzi sono inattendibili, quel che l'amico cerca di dire è che in caserma hanno fatto del male a Giuseppe Uva, molto male, «perché forse, non saprei con precisione, vede dottore.. lui mi aveva confessato tempo prima di aver avuto una relazione con una donna che stava con uno dei carabinieri ».

Il pm gli intima di smetterla, che non lo lascerà infangare l’onorabilità dell’Arma, che Uva non è stato toccato se non per contenerne la furia autolesionista. La stessa linea, comprensibilmente, dell’avvocato di tutti i nuovi imputati, Luca Marsico, che è anche consigliere regionale lombardo nella giunta Maroni: «Ma certo che sono ancora tutti in servizio, e non cambierà niente neanche col rinvio a giudizio. Sono mortificati da quel che gli è caduto addosso. Vede, nella mia famiglia siamo carabinieri da tre generazioni, mio padre era comandante di stazione e io sono cresciuto in una caserma. Ho già presentato ricorso in Cassazione perché so che quegli 8 uomini tutte le sere possono tornare a casa e guardare i loro figli negli occhi con la coscienza più che a posto. Sono solo vittime di una campagna mediatica».

Il riferimento, implicito, è al legale della famiglia Uva come già lo è stato per altri casi molto simili. «Giuseppe è morto per lo stress fortissimo subito in via Saffi unito a un prolasso della valvola mitrale, di cui già soffriva. Il corpo è lì a dimostrare quel che ha patito, compresa l’ipotesi più orrenda: la Tac sul cadavere ha evidenziato aree gassose che sarebbero effetto di una lesione traumatica intestinale e del retto. C’è un particolare nella relazione dei carabinieri che colpisce. Scrivono di modeste escoriazioni alle gambe. Domanda: come facevano a vederle se Uva in caserma aveva addosso i jeans. Forse qualcuno glieli ha tolti? E per fare cosa? E comunque, per il nostro perito, il signor Uva di emorroidi non ne aveva».



Adesso sappiamo che a causare la morte di Giuseppe non sono stati i farmaci. Bene, è un primo passo. Lentissimo, ma lo è. Andiamo avanti con calma, perché il clima peggiorerà”.
È già partita una raccolta di fondi a favore dei poliziotti coinvolti, pubblicata dal quotidiano “La Prealpina” e promossa dal sindacato Cosip, per sostenere i colleghi nelle spese processuali e fare fronte “al tornado mediatico che ha condizionato la vicenda. Ora non manca occasione di accusare le forze dell’ordine per abusi e violenze, come se vestissimo la divisa per malmenare i cittadini e non per difenderli”.

Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decise per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta, misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte".La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso.

Io personalmente penso che fatti del genere lascino il segno e girare un film ispirato a una storia del genere sia come "non fare riposare in pace" la persona che ha subito torti. Piuttosto che girare film del genere penso che sia meglio fare beneficenza in quanto la gente le sue idee le ha già e determinate immagini  sono disturbanti per chi è già sensibile e al tempo stesso sono inutili per a far riflettere chi è insensibile a tali episodi, e di immagini simili ne ha già viste a bizzeffe senza cambiare di una virgola il suo pensiero..
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