martedì 15 settembre 2015

IMMIGRATI e COSTO Sociale



C’è chi parla di “esodo biblico”, chi di “invasione”, chi dice che l’unico modo per fermarli è chiudere gli accessi via mare. Ma qual è la reale entità del fenomeno? Siamo di fronte a un’emergenza? E qual è la situazione a livello europeo?

Sono 23 mila le persone sbarcate in Italia nel primo quadrimestre del 2015 (dato aggiornato al 15 aprile) un dato sostanzialmente in linea con quello dello scorso anno. Anzi in calo: nello stesso periodo del 2014 erano arrivati 26.735 migranti. A differenza dello scorso anno, però, gli arrivi massicci si sono concentrati in un’unica settimana: dal 7 al 15 aprile, infatti, sono arrivate circa diecimila persone. Negli stessi giorni si sono verificati i due naufragi, che hanno portato la cifra delle vittime del mare a 1.700 dall’inizio dell’anno: un numero mai registrato prima. Se guardiamo ai numeri, dunque, ad aumentare davvero non sono gli arrivi ma i migranti morti nel tentativo di raggiungere le nostre coste: passati dai 17 dei primi mesi del 2014 ai 1.700 dei primi mesi del 2015.

Delle oltre 170 mila persone sbarcate sulle coste italiane nel 2014, solo un terzo ha ricevuto accoglienza nel nostro paese. Secondo i dati del ministero dell’Interno nel 2014 sono in tutto 66.066 le persone ospitate nelle strutture temporanee, nei Cara e nei centri Sprar. Nei primi mesi del 2015 il loro numero è salito a 68mila. Un numero in linea anche con il dato sulle domande d’asilo e protezione internazionale presentate nel nostro paese: 64.886 in tutto nel 2014.
A fare domanda sono soprattutto afghani, maliani e persone provenienti dall’Africa sub sahariana. Tra le nazionalità maggiormente rappresentate non compaiono né la Siria, né l’Eritrea, che sono, invece, i primi due Paesi di origine dei 170.757 migranti arrivati in Italia lo scorso anno (rispettivamente 39.651 e 33.559 persone). Questo perché, come sostiene anche l’ultimo rapporto del Centro Astalli, l’Italia è sempre più considerata dai migranti un paese di “transito”. Stando ai numeri per ora non c’è “un’emergenza accoglienza”, tanto che il ministero dell’Interno non parla di un piano straordinario, quanto piuttosto di una redistribuzione del numero di migranti tra le regioni (tra quelle del Sud che da sole accolgono quasi il 50 per cento di coloro che arrivano e quelle del nord). Ad essere aumentati saranno piuttosto i posti per la primissima accoglienza (tra le ipotesi c’è anche quella di creare tendopoli e tensostrutture) ma anche i progetti Sprar, da cui oggi sono interessati solo 500 comuni su ottomila e i posti per i minori non accompagnati.

Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. Un importo non definito per decreto, ma da una valutazione sui costi di gestione dei centri di accoglienza. Soldi, però, che non finiscono in tasca ai migranti ma che vengono erogati alle cooperative, di cui i comuni si avvalgono per la gestione dell’accoglienza. E che servono a coprire le spese di gestione e manutenzione, ma anche a pagare lo stipendio degli operatori che ci lavorano. Della somma complessiva solo 2,5 euro in media, il cosiddetto pocket money, è la cifra che viene data ai migranti per le piccole spese quotidiane (dalle ricariche telefoniche per chiamare i parenti lontani, alle sigarette, alle piccole necessità come comprarsi una bottiglia d’acqua o un caffè). Una volta sbarcati, i migranti vengono accolti nei centri per la prima accoglienza, che di solito si trovano nelle vicinanze dei porti dove arrivano. Da qui vengono poi smistati nei centri per migranti o richiedenti asilo, presenti sul territorio nazionale. In assenza di posti sul territorio i prefetti si rivolgono anche a strutture alberghiere che, soprattutto in bassa stagione, danno la loro disponibilità ad ospitare persone (sono i cosiddetti Cas, centri per l’accoglienza straordinaria). Questo tipo di gestione straordinaria ed emergenziale, è stata molto spesso criticata da chi si occupa dei diritti dei richiedenti asilo perché improvvisata e, dunque, in molti casi non in grado di rispettare gli standard minimi di accoglienza.



Sono state 626 mila le persone che hanno fatto richiesta d’asilo in Europa nel 2014, 191 mila in più rispetto al 2013 (+44 per cento) secondo le cifre fornite da Eurostat a marzo 2015. L’Italia è il terzo paese in termini di domande ricevute, dopo Germania e Svezia. A registrare il numero più alto di migranti accolti sono i tedeschi, con una cifra che è pari a un terzo del totale (202.700), seguiti dagli svedesi con 81.200 (il 13 percento) e per l’appunto da noi italiani, insieme ai francesi. L’Ungheria, che ha ricevuto 42.800 richieste d’asilo (il 7 percento di tutta l’Ue) si colloca al quinto posto. Se si prende in esame, però, il rapporto tra richiedenti asilo e popolazione totale: la media Ue è di 1,2 richiedenti asilo ogni mille abitanti. L’Italia si colloca leggermente al di sotto con 1 rifugiato ogni mille abitanti. In Svezia il numero sale a 8,4 ogni mille abitanti, in Ungheria a 4,3, in Austria a 3,3 e in Germania a 2,5.
A livello mondiale, poi, il numero più alto di richiedenti asilo è accolto nei paesi in via di sviluppo. Alla fine del 2013, in questi paesi hanno trovato accoglienza 10,1 milioni di persone, equivalenti all’86 per cento dei rifugiati del mondo, il valore più alto degli ultimi 22 anni. I paesi in assoluto meno sviluppati (come Pakistan, Etiopia, Sud Sudan e Kenya) hanno da soli provveduto a dare asilo a 2,8 milioni di rifugiati, corrispondenti al 24 per cento del totale mondiale, come sottolinea l’ultimo Rapporto sulla protezione internazionale del 2014.

Quella via mare è solo una delle rotte utilizzate dai migranti per raggiungere l’Europa. Senza contare che il grosso dell’immigrazione, in Italia e in Europa, è costituito da migranti comunitari che arrivano via terra, semplicemente prendendo un autobus o un aereo, anche l’immigrazione extra Ue è un fenomeno che si snoda secondo diverse direttrici. Secondo l’ultimo rapporto di Frontex, ad aprile sono 23mila le persone arrivate via mare, a fronte delle 34mila che hanno scelto la terraferma, attraverso la rotta dei Balcani occidentali, per raggiungere la Slovenia e l’Ungheria e poi giungere in Germania o in un altro paese del Nord dell’Europa. Cresce anche la rotta del Mediterraneo orientale, dove al 15 aprile i passaggi sono stati 17.628, il 241 per cento in più del 2013.

Non sempre gli scafisti sono anche trafficanti di uomini. In molti casi sono reclutati tra le file dei profughi, tra quelli che hanno un minimo di esperienza di navigazione. In cambio di un viaggio gratis, accettano di mettersi alla guida dei barconi, senza sapere se arriveranno a destinazione, accettando il rischio di un’imputazione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Su di loro non si può generalizzare - spiega don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habescia - I veri scafisti e trafficanti non vogliono rischiare più e mandano avanti  dei disperati. Spesso nigeriani, eritrei, etiopi o somali”. (ec)

Dalle Primavere arabe ad oggi i confini geopolitici nell’area del Vicino e Medio Oriente hanno subito una alterazione in termini di transitabilità territoriale. Si guardi al fenomeno dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL o ISIS), e alla sua facilità nel muoversi da uno Stato nazione all’altro superando i confini internazionali.

La permeabilità delle frontiere internazionali nell’area mediorientale ha trovato un elemento di accensione nei movimenti sociali, culturali, ideologici, che nati dall’esigenza di una dignità sociale hanno generato la crisi di governi nazionali, fino a quel momento preservati da uno status quo avallato dalle potenze esterne all’area come garanzia di equilibro regionale. Dalla fine del 2010 sullo scacchiere mediorientale si gioca la partita che modificherà gli assetti geopolitici regionali, definita da alcuni analisti  “nuova guerra fredda regionale araba”, con inevitabili ripercussioni sul panorama internazionale.

La Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia e l’effetto a cascata in Egitto, Libia e Yemen, anticipato dalle elezioni iraniane del 2009, ha evidenziato il coinvolgimento anche di Stati non arabi nelle manifestazioni di piazza, il cui orizzonte era dar voce alla propria coscienza sociale senza strumentalizzare la confessione. Le motivazioni portate nelle piazze avevano un’identità sociale non religiosa.

L’immigrazione sulle nostre coste ha lasciato emergere contraddizioni e debolezze della politica europea, da un lato volta a controllare le frontiere esterne, dall’altro a consentire la libera circolazione all’interno degli Stati dell’Unione.


Le frontiere esterne regolate dall’Accordo UE/Dublino III, che demanda allo Stato di primo asilo il ruolo di destinatario a cui rivolgere la richiesta di protezione internazionale, conferisce all’Italia l’esclusività nella gestione dell’accoglienza, e la Direttiva/51/CE per il controllo delle frontiere interne all’area Schengen, che potrebbe costituire un valido strumento di contrasto alle organizzazioni criminali fautrici dell’immigrazione via mare, non è applicabile alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato.

L’Italia è il paese più esposto ad affrontare una situazione di emergenza generata dalla recrudescenza del fenomeno dell’immigrazione clandestina. E l’assenza di un quadro comunitario volto a collaborare, amplifica le difficoltà.

Dal 2013 il Resettlement Program/UE ha l’obbiettivo di “reinsediare” i rifugiati in aree cuscinetto intorno alle aree di crisi (Vicino e Medio Oriente) con un finanziamento da parte della Commissione Europea a supporto del FER (Fondo europeo per rifugiati) fino ad un massimo di 10.000 euro per rifugiato. Il Programma non ha riscontrato efficacia sul contenimento dell’immigrazione clandestina sia per la mancata partecipazione di tutti gli Stati membri dell’Unione, sia per la sua natura di programma volontario che richiede la cooperazione degli Stati di destinazione.

La fine di Mare Nostrum – missione militare e umanitaria con lo scopo di soccorrere i migranti fino al confine delle acque territoriali libiche – e l’introduzione dell’operazione Triton con l’obbiettivo di controllare le frontiere esterne nel Mediterraneo entro un raggio di 30 miglia, ha sottoposto l’Italia a dura prova  di fronte all’emergenza immigrazione.

E il piano elaborato dal Consiglio Europeo, potenziando in termini economici l’operazione Triton da 3 a 9 mln di euro al mese, anche agli occhi delle Nazioni Unite è risultato mancante per aver difeso l’identità militare senza assurgere ad un carattere umanitario, lasciando inalterati i confini territoriali entro i quali si svolge il monitoraggio delle acque europee.

L’assenza di un interlocutore istituzionale aumenta le difficoltà di convogliare verso la soluzione al problema dell’immigrazione clandestina.  La Libia rappresenta il punto da cui partire ma attualmente coesistono due governi, uno a Tripoli non riconosciuto dalla comunità internazionale e l’altro legittimo a Tobruk.

Un Paese ponte tra il Sahara e le coste mediterranee, dove il transito di esseri umani avviene in totale assenza di un controllo governativo, se non da parte di gruppi che si contendono il dominio sui territori interni di passaggio.

La geopolitica delle frontiere non è l’unico quadrante di una scacchiera destinata a mutare ulteriormente. Entra in gioco la geopolitica degli idrocarburi, l’Italia importa dalla Libia il 24% di gas e 27 % di petrolio.  E la geopolitica delle comunicazioni, con il transito di dati che dalla Sicilia passa per Tripoli e arriva oltreoceano. Mazara del Vallo è il cable landing point più importante d’Italia. Da qui transitano le comunicazioni globali, dati –  internet – telefonia,  di 9 importanti cavi sottomarini di fibre ottiche.

Lo scenario futuro dipenderà in maniera significativa dalle azioni del presente, dal ruolo che svolgerà l’Unione Europea e l’Italia in primis, nel nuovo ordine che si delineerà entro i confini del Vicino e Medio Oriente.
A oggi il fenomeno-immigrazione, affrontato spesso anche in Italia con pregiudizi ideologici o moralistici. Due i rischi che si corrono e tra loro opposti: da un lato il “buonismo” di chi vorrebbe far passare tutti, dall’altro la chiusura pregiudiziale di chi sostiene che non ci sono risorse sufficienti per gli italiani. Ci sarebbe una terza prospettiva, poco praticata: quella di valutare cosa rappresenti oggi l’immigrazione per l’Italia, quale peso economico e sociale abbiano gli immigrati regolari, quanto spazio ci sia nel mondo del lavoro per eventuali nuovi arrivi o l’accoglienza di coloro che fuggono dalle guerre e persecuzioni (Siria, paesi sub-sahariani, Eritrea ecc.).

Andando alla ricerca di dati e riscontri, si scopre anzitutto che gli italiani posseggono una percezione alquanto distorta sul peso e ruolo degli immigrati. Il Cisf (Centro internazionale studi famiglia) diretto da Francesco Belletti, ha sviluppato una ricerca dal titolo “Le famiglie di fronte alle sfide dell’immigrazione”, intervistando 4mila persone. Emerge che il 52% è d’accordo sul fatto che gli immigrati sono necessari per fare il lavoro che gli italiani non vogliono più fare, l’80% ritiene che se c’è poco lavoro gli italiani dovrebbero avere la precedenza, il 47% pensa che i figli di immigrati (più prolifici di noi) sono essenziali per compensare le nostre nascite sempre più scarse. E ancora il 78% dice che le case popolari andrebbero date per primi agli italiani; il 58% ritiene che i matrimoni misti producano maggiori conflitti e problemi; il 73% pensa però che le unioni miste favoriscano l’integrazione culturale e il 71% che il ricongiungimento culturale crei integrazione sociale. Il campione analizzato dal Cisf vede un 35,5% di “ostili” agli immigrati, un 35,3% di “problematici” e solo un 29,2% di “aperti”. Se oltre il 70% degli italiani hanno forti dubbi sull’immigrazione, il recente progetto “Integra. Famiglie in azione per una società interculturale”, condotto dal Forum famiglie in 7 regioni, ha mostrato che laddove si attuano concrete azioni di sensibilizzazione e dialogo, cambiano gli atteggiamenti sia degli italiani sia degli immigrati. Ma il percorso è lungo e difficile.

Dalla ricerca della Fondazione Leone Moressa, diretta dal prof. Stefano Solari, economista dell’università di Padova, emerge che sul totale di circa 5 milioni di stranieri presenti sul suolo italiano i contribuenti sono ben 3,5 milioni e hanno dichiarato 44,7 miliardi di euro, pari al 5,6% del totale dei redditi. In media ciascuno di loro ha dichiarato 12.930 euro, quasi 7.500 in meno della media italiana. Gli imprenditori stranieri sono oltre 600mila, l’8,2% del totale delle imprese italiane (per lo più piccole imprese commerciali e di servizio con pochissimi addetti) che producono il 6,1% del valore aggiunto nazionale (pari a 85,6 miliardi). Gli stranieri hanno intestate 2,8 milioni di auto e danno allo Stato un gettito pro-capite di 300 euro di sole imposte sui trasporti (840 milioni l’anno). I contributi Inps sono il 4,2% del totale per oltre 9 miliardi di euro, che sommati al gettito fiscale rappresenta un totale di 16,5 miliardi che entrano nelle casse pubbliche. Il calcolo della Fondazione Leone Moressa è che a fronte di questi 16,5 miliardi in entrata, lo Stato spenda per loro 12,6 miliardi (sanità 3,7; scuola 3,5; giustizia 1,8; trasferimenti economici, 1,6; servizi sociali, 0,6; casa 0,4) con uno sbilancio a favore dello Stato di 3,9 miliardi.

Visti questi dati, ci si chiede quale sia il reale grado di “pericolosità” degli immigrati rispetto ai conti pubblici e alla tenuta sociale del paese. Per le pensioni, ad esempio, versano 7,5 miliardi e ne ricevono “solo” 600 milioni, cioè di fatto pagano le pensioni agli italiani anziani. Quanto alle tasse abbiamo visto come contribuiscano per quasi 8 miliardi. I loro figli sono il 15% del totale e tengono alto il tasso demografico che, altrimenti – come nota il demografo Gian Carlo Blangiardo – “vedrebbe l’Italia condannata all’estinzione”. Sono dei grossi lavoratori, questo sì, in quanto pur essendo poco più del 7% della popolazione, “occupano” il 10,5% dei posti di lavoro (escluso il sommerso), ma i loro salari sono più bassi del 15-20%. In conclusione, considerato che nel mondo i migranti sono oltre 200 milioni, il dato di averne tra noi 5-6 milioni è poca cosa sul piano statistico. Semmai bisogna interrogarsi sull’appello del Papa a non chiudere le porte… ragionando anche in termini economici e valutando i benefici che l’immigrazione rappresenta per noi.


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