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martedì 5 maggio 2015

PERSONE DI VALSOLDA : BRUNELLA GASPERINI

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Brunella Gasperini, pseudonimo di Bianca Robecchi (Milano, 22 dicembre 1918 – Milano, 7 gennaio 1979), è stata una giornalista e scrittrice italiana.

Trascorse la maggior parte della sua vita tra Milano, la sua città natale, e San Mamete, piccola frazione della Valsolda, sul Lago di Lugano. Conclusa una breve parentesi come insegnante nell'immediato dopoguerra, iniziò a collaborare con il Corriere della Sera e diversi periodici Rizzoli all'inizio degli anni cinquanta, distinguendosi immediatamente per una visione moderna e progressista sulle questioni che avrebbero dominato la società italiana negli anni successivi.

Bianca Robecchi, questo il suo vero nome, nasce a Milano da madre «autonoma, creativa agguerrita, senza tabù di sorta, con laurea nel cassetto, un sacco di interessi che non aveva tempo di coltivare e un talento di pianista che non aveva tempo di esprimere» e da padre «medico, miscredente, libero pensatore, pecora nera (peraltro rispettata) della nobile famiglia peraltro ripudiata» .
Ha quattro fratelli e una sorella, cresce in una famiglia profondamente antifascista. Ogni tanto andavano a prendere il padre, soprattutto in occasione di qualche visita del Duce o del Re, per portarlo dentro. «Abbia pazienza Professore, facciamo la nostra passeggiatina, eh?» dicevano. «Volentieri.» Rispondeva lui.
I fratelli, morti nella seconda guerra mondiale, erano tutti partigiani. Aiutavano a scortare gli amici ricercati, specialmente gli ebrei, fino al confine svizzero, nascondendoli nel canotto della darsena della amatissima casa di San Mamete in Valsolda.
Bianca si laurea in lettere classiche e filosofia e sposa Adelmo Gasperini dal quale ha un primo figlio, morto tra le sue braccia durante un bombardamento e poi altri due, Massimo e Nicoletta.
Dopo la guerra comincia la stagione delle sue «disastrose supplenze: non ero un’insegnante abbastanza repressiva né abbastanza equilibrata, nelle mie classi c’era sempre quella che allora si chiamava russia, ero eternamente nei guai coi presidi, coi professori, coi bidelli».
Un'amica di infanzia, le dice che i giornali femminili hanno bisogno di racconti da pubblicare a puntate. E Brunella comincia a scrivere, ma il primo glielo rimandano indietro sbalorditi: troppo progressista. Occorre tagliare, rivedere, rettificare, siamo nei primi anni Cinquanta… e Brunella taglia, rivede, rettifica, ma non troppo: è il successo.
Le viene affidata così la rubrica della posta del cuore su «Novella» con lo pseudonimo di Candida (da Bianca a Candida).
Passa poi ad «Annabella» firmandosi Brunella.
Brunella in 25 anni riceve centinaia di migliaia di lettere, attraverso le quali si potrebbe ricostruire la storia delle donne del XX secolo.
Nel suo libro I fantasmi nel cassetto dice: «Mi scrivono fantasmi in carne, ossa e nervi fragili, come me. Mentre rispondevo pensavo a mio padre che senza mai forzarci, per il solo fatto di essere quello che era, ci aveva trasmesso ironia, cultura, senso critico, libertà intellettuale. Pensavo a quando diceva che il mondo aveva bisogno di menti aperte, di spiriti liberi, come sarebbero stati i suoi figli. Adesso i suoi figli maschi erano morti, e quel liberissimo spirito della sua figlia minore pubblicava risposte edificanti sui giornali femminili degli anni Cinquanta, più realisti del re, conformisti, oscurantisti, filoclericali, dove l’umorismo andava subito ucciso con la melassa e le casalinghe avevano sempre la meglio su quelle modernastre che lavoravano fuori. Potevo dire solo una piccola parte di quel che pensavo, non ero obbligata a dichiararmi cattolica però mi era vietato dire che non lo ero…».
Brunella risponde alle lettere da casa sua dove ha una stanza tutta per sé. Il suo Aventino, la sua mongolfiera, la sua “prigione sospesa nel buio”.
Sulle pareti ha scritto : “NON ROMPETEMI IL FILO”. Mentre lavora è costantemente interrotta dai figli, dai numerosi animali che popolano la sua casa, cani, gatti, canarini, merli indiani… e dal marito, o “compagno della mia vita” come ama definirlo lei e dalle telefonate delle lettrici (o “dementi” come ama definirle il compagno della sua vita).
«Usano il mio telefono come urna confessionale, passatempo, ufficio informazioni, assistenza sociale, psicoterapia e strumento terroristico (uccideremo i tuoi figli stronza abortista)».
“E’ DURO DOMARE UNA SCRIVANIA” stava scritto sul muro davanti al suo tavolo.
Ma Brunella, «in pieno regime democristiano, mentre le altre piccole poste parlavano dell’angelo della casa che arrivava con la zuppiera fumante e quel buon profumo che ristabilisce un accordo turbato, mentre le donne in crisi erano dirette verso il porto tranquillo della religione, lei spingeva le donne frustrate, tradite, innamorate di un uomo impossibile, verso la totale autonomia, spiegando che vivere sole non è una maledizione. Parlava del lavoro che dà libertà e della dignità acquistata smettendo di correr dietro al fidanzato o al marito fedifrago. Incoraggiava i giovani ad occuparsi di politica e dalle sua pagine, seppur guardata male dai direttori, fece la sua brava campagna a favore del divorzio. Parlò dell’aborto prima di ogni altra, mai suggerito o consigliato, diceva meglio pensarci e non averlo un figlio non desiderato o di troppo.»
Spesso Brunella davanti a problemi posti dalle lettrici si mette da parte ed invita le lettrici stesse al dibattito, cercando di promuovere, attraverso il dialogo e il confronto, una crescita di queste donne imbavagliate che sembrava impossibile all’interno delle mura domestiche.
Negli anni sessanta, al culmine della rivoluzione giovanile, lei, donna tra i quaranta e i cinquanta, invece di guardare dall’alto questo esercito di contestatori, come facevano la maggior parte delle persone della sua età, ha provato a capirlo. Nel 1965 ha chiesto e ottenuto sul suo giornale uno spazio dedicato alle lettrici giovanissime che le chiedevano: «Si può rimanere incinta con un bacio?». Affronta il tema della verginità, della droga e di tutti quei tabù dei quali nella maggior parte delle famiglie era vietato parlare.
È stata etichettata “scrittrice rosa” ed è stato per sempre un suo cruccio. Voleva scrivere un libro che la facesse uscire da quello che viveva come un ghetto della letteratura “marchiata” femminile. Forse ci è riuscita col suo ultimo, Una donna e altri animali, cronaca familiare dove parla di gioie e dolori ma, come dirà sua figlia Nicoletta «con un senso dell’umorismo e una certa leggerezza che sono sempre stati una caratteristica di tutta la nostra famiglia e in particolare di mia madre, che ci ha insegnato che non c’è coraggio più grande dell’allegria».
Brunella era spesso ammalata, somatizzava tutte le sofferenze, le inquietudini, le angosce delle sue lettrici, se la portò via a 61 anni l’ulcera.
Sopra il divano del suo studio aveva scritto:

METTETE LE MIE CENERI
SOTTO IL MIO GELSOMINO
E SCRIVETE SULL’URNA:
“VIAGGIO’ TUTTA LA VITA
INTORNO A UN TAVOLO”

Ma ancora una volta l’ironia ebbe la meglio, di colpo deve esserle sembrata una frase un po’ troppo melodrammatica. Decise quindi di aggiungere:

SENZA PER ALTRO COMBINARE UN CAVOLO

La rubrica "Ditelo a Brunella", in particolare, fu pubblicata su Annabella per venticinque anni, e la vide stabilire un dialogo aperto e franco con i suoi lettori su tematiche come il divorzio, l'aborto, la famiglia e la politica. Analoghe tematiche affrontò nella sua rubrica "Lettere a Candida", pubblicata per molti anni su "Novella".

Nel 1956 pubblicò il suo primo romanzo, L'estate dei bisbigli (precedentemente uscito a puntate su Annabella), a cui fecero seguito Io e loro: cronache di un marito (1959), Rosso di sera (1964), A scuola si muore (1975) e Grazie lo stesso (1975), tutti editi da Rizzoli. Pubblicò inoltre l'ironico manuale Il Galateo di Brunella Gasperini (Sonzogno, 1975) e l'autobiografia Una donna e altri animali (Rizzoli, 1978). Una selezione dei suoi editoriali e delle lettere pubblicate su Annabella è stata raccolta nei postumi Così la penso io (Rizzoli, 1979) e Più botte che risposte (Rizzoli, 1981).

I suoi libri sono stati tradotti e pubblicati con successo in varie lingue, fra cui tedesco, francese, spagnolo e ungherese.



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giovedì 5 marzo 2015

MILANO & CRIMINI : ATTENTATO A INDRO MONTANELLI

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Indro Alessandro Raffaello Schizogene Montanelli (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001) è stato un giornalista, saggista e commediografo italiano.

Giornalista dalla prosa secca e asciutta, era in grado di spaziare dall'editoriale al reportage e al corsivo pungente. Fu per circa quattro decenni la bandiera del primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera, e per vent'anni condusse un importante quotidiano d'opinione da lui stesso fondato, il Giornale. Fu autore di libri di storia cui arrise un vasto successo. In ognuno di questi ruoli seppe conquistarsi un largo seguito di lettori.

Figlio di Sestilio Montanelli (1880-1972) e di Maddalena Doddoli (1886-1982), Indro nacque a Fucecchio (FI) in Toscana nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. A tale circostanza sono riferite alcune «leggende», la più famosa delle quali – raccontata dallo stesso Indro – narra che dopo un litigio (gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di sopra e di sotto; la madre era insuese e il padre ingiuese) la famiglia materna ottenne di far nascere il bambino nella propria zona collinare, mentre il padre scelse un nome adespota, estraneo alla famiglia materna e neppure presente nel calendario. Il nome Indro, scelto dal padre, infatti è la mascolinizzazione del nome della divinità induista Indra, poi trasformato nel soprannome "Cilindro" dagli amici e anche da alcuni avversari politici. Il nome, dopo la sua nascita, ebbe una certa diffusione a Fucecchio, ad esempio vi furono Indro Cenci e alcuni omonimi Indro Montanelli.

Passò l'infanzia nel paese natale, spesso ospite nella villa di Emilio Bassi, sindaco di Fucecchio per quasi un ventennio, nei primi anni del Novecento. A Emilio Bassi, che considerava come un «nonno adottivo», restò legato tanto da volere che a lui fosse cointitolata la Fondazione costituita nel 1987.

Sin da ragazzo, Montanelli iniziò a soffrire di depressione, un male che lo segnerà per tutta la vita:

« La prima crisi fu a undici anni. Mi svegliai una notte urlando "Muoio, muoio!". Una mano mi attanagliava la gola, mi sentivo soffocare. Accorsero i miei genitori, un po' mi quietai, ma smisi di dormire e di mangiare per mesi, avevo paura di tutto, un vero terrore, e mi sentivo addosso la tristezza del mondo intero. Dovetti abbandonare la scuola per quell'anno. I sintomi si sono poi ripresentati identici più o meno ogni sette anni, ciclicamente. »
Probabilmente Montanelli soffriva di disturbo bipolare. Il padre, preside di Liceo (il più giovane d'Italia), fu trasferito prima a Rieti (nel 1922), poi a Lucca, nonché a Nuoro presso il Liceo ginnasio statale Giorgio Asproni, dove il giovane Indro lo seguì. A causa degli spostamenti del padre, frequentò il liceo classico Marco Terenzio Varrone a Rieti, dove nel 1925 conseguì la maturità. Prima di diplomarsi, insieme al figlio del locale prefetto, aveva organizzato uno sciopero degli studenti e una manifestazione contro gli stessi preside e prefetto (episodio poi raccontato dallo stesso Montanelli in Un due tre, trasmissione televisiva del 1959).

Nel 1930 si laureò in giurisprudenza a Firenze, con un anno di anticipo sulla durata normale dei corsi, discutendo una tesi sulla «legge Acerbo» in cui criticava il provvedimento, sostenendo che era stato pensato per abolire le elezioni. Ottenne la valutazione di centodieci e lode. Successivamente frequentò corsi di specializzazione all'Università di Grenoble, della Sorbona e di Cambridge. Nel 1932 ottenne una seconda laurea, in scienze politiche e sociali, sempre a Firenze, al Cesare Alfieri, con una tesi in cui valutava positivamente la politica di isolamento inglese.

Nel 1929 fu allievo ufficiale a Palermo ove, vittima delle crisi depressive, fu raggiunto dalla madre che provava a rassicurarlo. La madre, molto tempo dopo, raccontò l'episodio in televisione.

Il 2 giugno 1977 Montanelli fu vittima a Milano di un attentato, tesogli dalla colonna milanese delle Brigate Rosse. Mentre si stava recando, come ogni mattina, al giornale, venne ferito all'angolo fra via Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7.65 munita di silenziatore. L'attentatore gli sparò otto colpi consecutivamente, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra e alla natica, secondo una pratica definita – con un neologismo coniato in quel periodo – «gambizzazione».

Il gruppo brigatista era formato da Lauro Azzolini, Franco Bonisoli e Calogero Diana; fu quest'ultimo a sparare. Gli attentatori, che probabilmente non sapevano che Montanelli portava con sé una pistola, lo avvicinarono di spalle chiamandolo per nome. Mentre il giornalista, fermatosi, stava girandosi per rispondere, Diana gli sparò a distanza ravvicinata. Colpito, Montanelli sentì cedere le gambe, ma decise di non estrarre la pistola. Il suo unico pensiero fu di non lasciarsi cadere a terra: si aggrappò alla cancellata dei Giardini mentre urlava: «Vigliacchi, vigliacchi!» all'indirizzo dell'attentatore e dei complici in fuga; poi si lasciò scivolare a terra. Poco dopo dichiarò ad un soccorritore: «Quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere». I proiettili trafissero la carne, fortunatamente senza ledere né ossa né vasi sanguigni. Lauro Azzolini afferma che se Montanelli avesse estratto la sua pistola sarebbe stato sicuramente ucciso.

Tutta la stampa italiana diede grande rilievo all'attentato contro Montanelli. Con due significative eccezioni: Il Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone, e La Stampa, diretta da Arrigo Levi, che arrivarono addirittura a omettere nel titolo di prima pagina il nome di Montanelli, relegandolo al "sommario". Il Corriere della Sera titolò: Milano, gambizzato un giornalista; poi nel suo editoriale, pur esprimendogli una solidarietà senza riserve, avvertì i propri lettori che il collega ferito «...rappresenta e difende posizioni nelle quali non ci riconosciamo». Per colmo, sia Arrigo Levi che Piero Ottone faranno poi visita al capezzale di Montanelli, che prenderà nota nei suoi Diari dell'imbarazzante visita dei due, con il consueto sarcasmo:

« La notizia era il mio nome. Abolendolo, hai svuotato la notizia. Ed è strano che lo abbia fatto proprio tu, che della notizia hai sempre predicato la centralità. Più tardi sopraggiunge Arrigo Levi, che dopo consulto telefonico con Ottone, aveva a sua volta evitato, nel titolo, il mio nome. Più accorto, non dice nulla, e io nulla gli rimprovero. Ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano! »
Più ironico sulla Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore Eugenio Scalfari nell'atto di puntarsi una pistola contro il piede dopo aver letto la notizia dell'attentato a Montanelli, suggerendo che ne invidiasse la popolarità. Altri quotidiani pubblicarono la notizia in prima pagina.

L'attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse con una telefonata al Corriere d'Informazione (edizione pomeridiana del Corriere della Sera). Secondo la rivendicazione dei terroristi perché "schiavo delle multinazionali". Due giorni prima, con la medesima tecnica, le Brigate Rosse avevano gambizzato a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX, mentre il giorno successivo all'attentato a Montanelli venne gravemente ferito a Roma Emilio Rossi, a quel tempo direttore del TG1.

Uno degli attentatori, Bonisoli, diverrà amico di Montanelli dopo la scarcerazione.

Fra i vari riconoscimenti tributati a Montanelli, spicca la nomina a senatore a vita offertagli nel 1991 da Francesco Cossiga, presidente della Repubblica. Il giornalista non accettò però la proposta, a garanzia della sua completa indipendenza. Dichiarò:

« Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza. »
(Citato in Il Messaggero, 10 agosto 2001)
E ancora:

« Purtroppo, il mio credo è un modello di giornalista assolutamente indipendente che mi impedisce di accettare l'incarico. »
(Dalla sua lettera al Presidente Cossiga)

Montanelli fu autore e uomo di cultura riconosciuto e premiato anche all'estero: nel 1992 fu il primo italiano ad essere nominato Commendatore di I classe dell'Ordine del Leone di Finlandia (Suomen Leijonan I lk:n komentaja), nel 1994 ricevette l'International Editor of the Year Award della World Press Review, e nel 1996 ebbe il Premio Principe delle Asturie. Fra i personaggi di fama mondiale da lui intervistati ci sono Henry Ford e Papa Giovanni XXIII, si possono ricordare Winston Churchill e Charles de Gaulle.

Degna di nota è la cena che Indro Montanelli ebbe nel 1986, in Vaticano, con Giovanni Paolo II:

« La sera che cenai col Papa  cenai praticamente da solo. Per la prima volta, nella mia lunga carriera d'inappetente sempre in imbarazzo per ciò che rifiuta, mi sentivo in colpa d'ingordigia. Quando ci alzammo da tavola, lui che c'era rimasto seduto quasi due ore a veder noi mangiare, mi accompagnò lungo il corridoio. Ma, passando davanti alla cappella, mi toccò il braccio e con qualche esitazione, come avesse paura di apparirmi indiscreto, mi disse: «So che sua madre era una donna molto pia. Vogliamo dire una piccola preghiera per lei?». C'inginocchiammo l'uno accanto all'altro. Ma quando, nel congedarmi, accennai a un inchino, me lo impedì serrandomi il polso in una morsa di ferro, e mi abbracciò accostando due volte la tempia alle mie. Come faceva mio padre, che baci non ne dava. »
(Indro Montanelli)
Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: "Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare".

Il Comune di Milano ha intitolato al grande giornalista i Giardini Pubblici di Porta Venezia, divenuti «Giardini Pubblici Indro Montanelli». All'interno del parco è stata posta una statua raffigurante Montanelli intento nella stesura di un articolo con la celebre Lettera 22 sulle ginocchia.

La fondazione Montanelli Bassi ha istituito nel 2001 un premio di scrittura dedicato alla triplice figura di Montanelli, giornalista, storico e narratore, assegnato a cadenza biennale (la prima edizione si tenne nel 2003). Il premio, suddiviso nelle sezioni "Alla carriera" e "Giovani", prende in considerazione gli scritti nel settore del giornalismo, della divulgazione storica e della memorialistica.


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