Aldo Moro nasce a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916. Si iscrive a Giurisprudenza nell'Università di Bari, e, dopo la laurea, inizia la carriera accademica. Nel 1939 pubblica il suo primo libro, che è dedicato alla 'capacità giuridica penale'. In quegli anni matura anche l'impegno politico nella FUCI: la federazione degli universitari cattolici di cui è presidente dal 1939 al 1943. Dal 1945 al 1946 dirige il Movimento Laureati dell'Azione Cattolica.
Nel 1946 è eletto all'Assemblea Costituente come rappresentante della DC di cui è uno dei fondatori. Poco dopo entra a far parte della Commissione dei Settantacinque che ha il compito di redigere il testo costituzionale. Nelle elezioni dell'aprile 1948 viene eletto alla Camera e fino al 1959 ricopre alcuni fra gli incarichi governativi più importanti: nel quinto governo De Gasperi è nominato sottosegretario agli esteri. Nel 1955, con il primo governo Segni, è ministro di Grazia e Giustizia. Due anni dopo, è ministro della Pubblica Istruzione nel governo Zoli. È a lui che si deve l'introduzione dell'educazione civica come materia d'insegnamento nelle scuole elementari e medie.
Lavora alla costruzione del centro sinistra dalla fine degli anni Cinquanta. È d'accordo con Fanfani. Comprende che la stagione del centrismo è terminata, e che occorre spostare a sinistra la politica del governo per dare al paese le riforme di cui ha bisogno. Ma è una strada difficile. Deve superare le resistenze interne al suo partito e quelle del PSI che, fino allora, ha sostenuto una politica di collaborazione con il PCI. Il 1959 è l'anno della svolta. Al VII congresso della DC ottiene la segreteria del partito: è il risultato di un compromesso fra le correnti democristiane. Nello scontro fra Fanfani e la destra del partito, che si oppone all'apertura verso i socialisti, Moro riesce ad imporre una linea che esclude l'appoggio parlamentare dei partiti di destra per ogni futuro governo e che equivale a sostenere l'ipotesi del centro sinistra.
Nel 1963 è presidente del Consiglio di un governo che vede la partecipazione dei socialisti. Un'esperienza politica che ha termine nel 1968. Gli elettori puniscono i partiti del centro sinistra e determinano, di fatto, la crisi di quella stagione. Dal 1970 al 1974 Moro è ministro degli esteri. Nel 1974 costituisce il suo quarto governo, ma l'anno successivo una novità importante cambia il quadro politico italiano. Alle elezioni amministrative del 1975 il PCI ottiene un grande consenso, e riporta al centro del dibattito politico la strategia che Moro sostiene da tempo: coinvolgere il PCI nella compagine governativa per dare una nuova spinta riformista al paese.
Dal luglio del 1976 al marzo 1978 l'Italia conosce la stagione della solidarietà nazionale. La guida democristiana del governo è sostenuta dall'esterno da tutti i partiti dell'arco costituzionale che si astengono. Votano contro il MSI, i radicali e democrazia proletaria.
16 marzo. La prima edizione del giornale la Repubblica esce con questo titolo a pag. 3 "Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della Dc". Riportano articoli sullo scandalo Lockheed, anche La Stampa a pag. 21, Il Giornale a pag. 6 e il Corriere della Sera pag. 6. Poco dopo le ore 9.00 del mattino, in Via Mario Fani a Roma, un commando delle Brigate Rosse uccide le sue cinque guardie del corpo, Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi e sequestra il presidente della Dc, Aldo Moro.
Alla notizia del rapimento scattano i blocchi stradali. La macchina dei rapitori verrà trovata pochi minuti dopo non lontano dal luogo del rapimento stesso. Appresa la notizia, operai, studenti, cittadini in tutta Italia scendono in sciopero e danno vita a manifestazioni in risposta agli appelli dei partiti e del sindacato a mobilitarsi contro il terrorismo. Tutti i giornali escono in edizione straordinaria annunciando e condannando il sequestro del presidente della DC e l'uccisione della sua scorta. L'edizione straordinaria de la Repubblica non riporta l'articolo uscito nella mattinata con le accuse ad Aldo Moro di essere Antelope Cobbler.
Il ministro dell'Interno Francesco Cossiga alle ore 10.45 presiede al Viminale la prima riunione del Comitato tecnico-politico-operativo e viene creato un Comitato per la gestione della crisi costituito da un piccolo gruppo di esperti e a mezzogiorno vengono diffuse le schede segnaletiche di 16 presunti terroristi ricercati. Sempre in giornata il neofascista Pierluigi Concutelli viene condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio.
17 marzo. Viene pubblicata la notizia che la Camera e il Senato con procedura d'urgenza hanno espresso la fiducia al monocolore Dc, presieduto da Giulio Andreotti con 569 voti su 630 (votano a favore anche i "demonazionali"). Per la prima volta, dopo il breve periodo del dopoguerra, il PCI è nella maggioranza parlamentare che appoggia il governo. Le Brigate Rosse rivendicano con telefonate il sequestro senza fornire alcuna richiesta. Tutti gli editoriali esaminano la vicenda, mettendo l'accento sulla necessità di reagire con forza e puntualizzano che il problema principale è quello di non cedere al ricatto, qualora le Brigate Rosse subordinassero il rilascio di Moro alla liberazione di Renato Curcio e altri detenuti. Più precise in proposito sono le posizioni assunte da Il Giornale Nuovo di Indro Montanelli che titola a piena pagina "Rapimento Moro: le Br chiedono la liberazione di terroristi detenuti» e l'editoriale di Arrigo Levi, direttore de La Stampa che ha per titolo: "Con i terroristi non si tratta". Il Giorno scrive di un ultimatum delle Brigate Rosse tendente a ottenere la liberazione di Curcio e altri detenuti.
Sul piano politico Andreotti diffonde un messaggio al paese invitando i cittadini alla calma e alla fermezza. Ci sono dichiarazioni in parlamento di tutti i segretari dei maggiori partiti. Benigno Zaccagnini, Dc: «Quanto oggi è avvenuto rappresenta la punta più alta dell'attacco contro lo Stato e le sue istituzioni». Ugo La Malfa, Pri: «Abbiamo tutti la consapevolezza di vivere l'ora più drammatica della nostra Repubblica. Queste bande terroristiche sono arrivate al vertice della vita democratica. È stata dichiarata guerra allo Stato, ma lo Stato democratico non deve rispondere con la guerra. A una situazione di emergenza non si può rispondere che con leggi d'emergenza». Poco prima aveva dichiarato: «Se è necessario, bisogna pensare anche alla pena di morte». Bettino Craxi, Psi: «Sia sconfitto il terrorismo, altrimenti sarà sconfitto il governo» e termina con un appello, «tentate l'impossibile per liberare Moro».
Enrico Berlinguer, Pci: «Il momento è tale che tutte le energie devono essere unite e raccolte perché l'attacco eversivo sia respinto con il rigore e la fermezza necessari, con saldezza di nervi non perdendo la calma, ma anche adottando tutte le iniziative e le misure opportune». Pier Luigi Romita, Psdi: «Si è voluto colpire il simbolo di questa politica e anzi lo Stato democratico in se stesso. Il Governo deve resistere e anzi contrattaccare all'assalto del terrorismo». Giuseppe Saragat: «È il fatto più terribile che ha colpito l'Italia dalla Liberazione ad oggi». Giorgio Almirante, Msi, propone le dimissioni immediate del Ministro dell'Interno, la sua sostituzione con un militare e la presentazione entro 48 ore di una legge speciale contro il terrorismo. Chiede anche l'assunzione di poteri eccezionali da parte del Capo dello Stato a meno che non preferisca anticipare la scadenza costituzionale del 24 dicembre (fine del settennato iniziato nel 1971). Valerio Zanone, Pli: «Nonostante l'eccezionalità della situazione i liberali hanno votato contro il governo. Non si può e non si deve cedere contro il terrorismo, ma modificare posizioni maturate nei partiti significherebbe cedere anche agli atti eversivi».
Sul fronte delle indagini viene data notizia di un vertice al Viminale per unificare l'azione di tutte le forze dell'ordine e il Procuratore generale della Repubblica di Roma, Giovanni De Matteo ha chiesto strumenti legislativi per le indagini, facendo notare che il governo può dichiarare lo stato di pericolo che, ampliando il potere dei prefetti, permette che questi possano ordinare l'arresto "di qualsiasi persona qualora ciò ritengano necessario per ristabilire o conservare l'ordine". Inoltre il Procuratore generale ha ordinato che la televisione trasmetta le foto di venti brigatisti ricercati.
18 marzo. Continuano le ricerche da parte delle forze dell'ordine, mentre si fa strada l'ipotesi di emanazione di un decreto legge tendente a rafforzare i poteri della polizia. I partiti si dichiarano concordi nel rifiutare l'emanazione di leggi speciali. Dopo il vertice dei partiti, Oddo Biasini si dichiara insoddisfatto per la mancanza di determinazione nell'affrontare il problema dell'emanazione di leggi speciali. Si riunisce la Direzione democristiana e viene deciso che in questa situazione di emergenza Zaccagnini, oltre che dai vice-segretari, venga affiancato dai capi-gruppo parlamentari, Bartolomeo e Flaminio Piccoli. Amintore Fanfani in direzione mette sotto accusa la gestione dell'ordine pubblico. Viene anche data notizia che il giorno precedente si è riunito il comitato interministeriale per la sicurezza presieduto da Andreotti e che Bonifacio si è incontrato con i rappresentanti dei partiti della maggioranza.
Viene fermato Gianfranco Moreno, sospettato di complicità nella strage di via Fani. Le foto dei ricercati vengono pubblicate a tutta pagina dall'Avvenire, Il Tempo, Il Popolo e dal Quotidiano dei lavoratori, quest'ultimo criticando la scelta delle foto da parte della polizia, accusata di leggerezza. Infatti, tra i ricercati, Piero Del Giudice smentisce tramite il suo avvocato, di essere un brigatista. Partecipano alle indagini i servizi segreti tedeschi. I sindacati discutono la possibilità di costituirsi parte civile al processo in corso a Torino contro le Brigate Rosse.
Luciano Lama, in un'intervista rilasciata al GR1, puntualizza che «l'indifferenza è il peggior nemico della democrazia. Lo so che i criminali sono pochi, pochissimi, ma molti di più sono quelli che sanno e che hanno visto qualche cosa. Ebbene questi amici, questi compagni, questi cittadini, se sono cittadini democratici, non possono farsi prendere dalla paura o peggio dall'indifferenza». Vengono sospesi gli scioperi degli ospedalieri. I telefonici garantiscono i servizi. Ugo Pecchioli, l'esperto dei problemi dello Stato del PCI, dichiara: "alla Sip, all'Enel, negli ospedali ci sono autonomi complici delle Brigate Rosse. Bisogna cacciare via questi nuclei e rompere la catena di solidarietà".
Vengono celebrati i funerali degli uomini della scorta uccisi. A mezzogiono, con una telefonata al "Messaggero", le BR indicano il luogo dove hanno lasciato una busta con cinque copie del loro primo comunicato e una fotografia Polaroid che ritrae Aldo Moro loro prigioniero. Pajetta critica in un'intervista a Il Corriere della Sera il comportamento della RAI nei giorni immediatamente successivi al sequestro Moro; dichiara che il Pci è orientato verso norme di comportamento della stampa nei casi di terrorismo e quindi anche per il caso Moro.
Tutti i giornali pongono l'accento sulla tesi del complotto internazionale, eccetto l'editoriale di Alberto Ronchey su Il Corriere della Sera, in cui si afferma che il terrorismo è frutto della situazione sociale italiana e che l'ipotesi che l'Italia sia campo di avventura dei servizi segreti, non è altro che un modo per eludere il problema. Anche Il Giorno, affrontando il problema del terrorismo e delle sue complicità, afferma che esistono alla base condizioni economiche e politiche. Sul problema delle leggi speciali tutti i giornali sostengono la non necessità di queste. Italo Pietra afferma che il terrorismo si combatte sviluppando le riforme. Di diverso parere Il Giornale che, sostenendo la scarsa partecipazione operaia alle manifestazioni contro il sequestro Moro, tende a dimostrare l'incapacità del Pci di rispondere al fenomeno.
Infatti in articoli successivi si sostiene che i brigatisti godono di ampi consensi, che esiste un parallelismo tra "eurocomunismo" e "euroterrorismo" e si sostiene l'esigenza di proclamare lo stato di pericolo. Lotta Continua lancia la parola d'ordine "né con lo Stato, né con le Br" e a pag. 12 vengono riportate delle interviste fatte di fronte alla porta 12 di Mirafiori. La Repubblica sia nell'editoriale del suo direttore Eugenio Scalfari che in un articolo (intervista a Pansa a pag.3) ripropone il problema di uno scambio tra Moro e Curcio, ribadendo la tesi della necessaria fermezza. Il Partito Socialista Italiano conferma che il congresso nazionale del Partito si svolgerà regolarmente a Torino.
19 marzo. Sono pubblicate da tutti i giornali la foto di Moro e il testo del "comunicato n.1",in cui si annuncia che Aldo Moro sarà sottoposto ad un processo da parte di "un tribunale del popolo". Viene fatto un preciso riferimento al processo in corso a Torino ai detenuti delle Brigate rosse, affermando: "ben altro processo è in atto nel paese, è quello che vive nelle lotte del proletariato". La foto viene pubblicata nella prima pagina con commenti che tendono ad evidenziare la stoica dignità e compostezza dimostrata da Aldo Moro. Un inviato del Tg Uno legge in una diretta il comunicato, elencando gli epiteti contro lo statista ("gerarca"), per venire elegantemente interrotto dalla giornalista in studio Angela Buttiglione: "Siamo al corrente del contenuto del comunicato".
A Milano sono stati uccisi, nella serata di sabato 18 marzo, due giovani di sinistra del centro sociale "Leoncavallo": Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli. Viene organizzato subito nella notte da giovani della sinistra extraparlamentare un corteo di protesta per le via della città. I giornali tendono ad accreditare la versione di un regolamento di conti nel mondo della droga. La notizia viene solo citata nelle prime pagine di alcuni quotidiani, altri la citano soltanto tra le notizie di cronaca.
Iniziano ad entrare in funzione misure operative per l'ordine pubblico: l'esercito a Roma affianca la polizia nelle ricerche e blocchi stradali. Arrivano altre smentite alla lista dei venti ricercati. Gli avvocati di due di loro dichiarano che i loro assistiti sono già in carcere da mesi. La NATO smentisce la notizia che Moro sia a conoscenza di segreti particolari ed annuncia una riunione per discutere il caso. La redazione di Controinformazione dichiara che Antonio Bellavista, altro ricercato, è estraneo all'attività delle Brigate Rosse. Viene precisato dalla polizia che il fermato Moreno si interessava alle abitudini di Moro.
Eugenio Scalfari, riallacciandosi alle tematiche sviluppate da Ronchey, nell'editoriale del 18 marzo su Il Corriere della Sera, afferma che le BR sono lucide nel colpire una Dc impopolare e costringere così i partiti di sinistra a coprire il partito di maggioranza. Il Giorno affronta il problema della vita di Aldo Moro titolando: «Moro presto libero, che riprenda il suo ruolo politico fondamentale per il paese». Il Giornale a proposito dell'intervento dell'esercito, lo ritiene una risposta politica valida, ricordando che era già stata da loro auspicata nei giorni precedenti: in un articolo, a pag. 5, dal titolo «Bologna come Lisbona» afferma che i comunisti e la CGIL usano l'emergenza per la creazione di una loro milizia privata: viene inoltre data notizia, a pag. 11, dell'apertura del processo per la strage di Brescia e si accusano le forze di sinistra che piangono per il rapimento di Moro di prepararsi a screditare lo stato come hanno fatto in tutti questi anni. La Stampa a pag. 3, ritorna sul problema delle trattative affermando che l'unica soluzione per bloccare il terrorismo è quella di non trattare. Vengono commentate due trasmissioni televisive —una con La Malfa e Saragat— in cui è stato chiesto un intervento dei paracadutisti e l'applicazione di leggi speciali, un'altra —con Pecchioli, Luciano Violante (giudice del tribunale di Torino) e Cabras della segreteria della Dc - in cui è stato affrontato il problema delle nuove leggi e quello dell'informazione di fronte al terrorismo.
All'interno della Dc emergono due posizioni sulla valutazione politica da dare al rapimento Moro. Ciriaco de Mita: «Le Br vogliono spostare a destra la Dc». De Carolis: «L'azione delle Br a sostegno del Pci e del compromesso storico». A Milano vengono distribuiti volantini con queste posizioni a San Siro, durante la partita di calcio e in un incontro tra i giovani della CDU e giovani democristiani ospiti di Democrazia Nuova. Berlinguer su L'Unità afferma: «La carta fondamentale che viene giocata contro le forze del rinnovamento è la disgregazione, è il lassismo, il non governo. Il rigore e una scelta nostra come lo è l'austerità, è la leva per cambiare le cose e non soltanto per impedire il collasso. Ciò e reso possibile dalla presenza, nella maggioranza, dei partiti e delle classi lavoratrici. II Pci reca anche in questa maggioranza un modo nuovo e più alto di sentire gli interessi nazionali, una nuova moralità». Nello stesso numero è pubblicato un appello di intellettuali italiani contro il terrorismo e la violenza.
In una intervista a Il Corriere della sera, Bryan Jenkins afferma che nei casi di sequestro, compito dei governi è quello dì trovare un punto di equilibrio tra il pericolo della reazione eccessiva e quello di fornire un'immagine di impotenza e di perdita dì controllo. Gianni Agnelli rilascia una intervista alla Gazzetta del popolo in cui dichiara: «Hanno rapito Aldo Moro perché è l'uomo più importante d'Italia, l'uomo cerniera in questa situazione difficile del paese. Per loro questo era il massimo obiettivo e l'hanno raggiunto». Sull'ipotesi di misure eccezionali precisa: «Le varie reazioni che ho sentito in un senso o nell'altro mi sembrano inutili, quello che conta infatti non è la reazione contingente di fronte a un fatto drammatico, ma è la linea di condotta generale. Ciò che è importante e l'atteggiamento di fondo dello Stato, la sua linea di condotta di ieri, di oggi, di domani. E ciò che è accaduto in questi giorni e un avvertimento preciso per la linea da tenere in futuro».
I sindacati milanesi prendono posizione contro le dichiarazioni di Ugo Pecchioli a Il Corriere della sera in cui affermava che alla Sip, all'Enel e negli ospedali vi erano dei sostenitori delle Br. Viene commentata la notizia dei funerali degli agenti della scorta uccisi, ma solo il manifesto pubblica che, dopo i funerali, un gruppo di agenti in borghese si è diretto verso la Casa dello studente sparando colpi di pistola.
20 marzo. Riprende a Torino il processo alle Br. Le indagini sul rapimento Moro sono ferme: sono giunti a Roma 32 esperti della polizia tedesca per collaborare nelle indagini. Viene installato un collegamento diretto tra il centro elettronico del Viminale e quello tedesco di Wiesbaden. Collaborano alle indagini anche specialisti inglesi e israeliani. Brunhilde Pertràmer smentisce con una lettera alla magistratura la sua partecipazione sia alle Br, sia all'uccisione del maresciallo Berardi. Il magistrato Infelisi dichiara di essere ragionevolmente ottimista. La Direzione democristiana sconfessa il volantino di «Democrazia nuova» (Massimo De Carolìs) in cui vengono mosse accuse precise al Pci ed al Kgb.
Emilio Colombo dichiara a La Stampa di Torino di condividere il tono drammatico di La Malfa sostenendo che è necessario «evitare confusione tra democrazia e debolezza». Il segretario del Pri, Oddo Biasini, dichiara: «Troppo a lungo si è tollerato il permissivismo nelle scuole e disordini nei posti di lavoro». Gli esperti per l'ordine pubblico nei partiti della maggioranza si riuniscono per decidere misure anti terrorismo. Il Papa Paolo VI nel suo discorso in piazza San Pietro lancia un appello affinché Moro sia restituito ai suoi cari: il cardinale Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, dichiara che l'eversione ha colpito lo Stato. Su La Stampa il giurista Giovanni Conso afferma che lo scambio di Moro con detenuti delle Br è un non senso giuridico; Mario Sossi dichiara al Giorno che certe esperienze possono togliere l'autocontrollo e Giovanni Ferrara sulla prima del Giorno avanza l'ipotesi che possano essere usati degli psicofarmaci su Aldo Moro.
Alberto Moravia intervenendo sulle vicende del caso Moro dice che «il sentimento che provo di fronte agli eventi storici di questi giorni è duplice: prima di tutto c'è il sentimento di estraneità e poi del già visto ... Sento con precisione che non avrei voluto scrivere una sola riga come quelle che scrivono le Brigate rosse nei loro proclami, d'altra parte non avrei mai scritto una sola delle tantissime parole che in discorsi, articoli, libri hanno scritto gli uomini dei gruppi dirigenti italiani negli ultimi trent'anni, né fatto una sola delle tantissime cose che essi hanno fatto da quando sono al potere». In un intervento sul Messaggero, Giuseppe Branca ex presidente della Corte costituzionale, afferma sotto il titolo «Un uomo da salvare»; «Pena di morte, guerra alla guerra terroristica, reagire duramente, difendere le istituzioni con ogni mezzo, giudici speciali, non cedere ai ricatti: sono le parole e le invettive che più si sono sentite in questi giorni del nostro tormento. Sembra quasi che ci si sia dimenticati la cosa più importante: che c'è un uomo da salvare. Però un uomo è un uomo e la sua vita non è una lucciola ma una stella. Né il prestigio dello Stato né quello delle istituzioni possono giustificarne la soppressione. Tanto più è forte la Repubblica quanto più ricorda in ogni occasione che lo Stato è fatto per gli uomini e non gli uomini per lo Stato».
Giancarlo Pajetta continua ad indicare il pericolo che può nascere dall'eccessivo spazio dato al fenomeno del terrorismo da parte della stampa. Sull'assassinio dei due giovani a Milano tutti i giornali affermano che ci sono ancora punti oscuri da risolvere nelle indagini. Lotta Continua in un'edizione speciale afferma: «Una squadra della morte uccide due compagni a Milano».
21 marzo. Vengono varate al governo, con l'appoggio di tutti i partiti della maggioranza, le leggi di emergenza per fronteggiare il fenomeno terroristico: d'ora in poi per le intercettazioni telefoniche basterà l'autorizzazione orale del magistrato: viene istituito il fermo di identificazione; arresto provvisorio per chi è sospettato di preparare delitti; ammesso l'interrogatorio in questura senza la presenza dell'avvocato; modificato il segreto istruttorio e la figura del giudice naturale per creare una banca delle notizie. I brigatisti sotto processo a Torino rivendicano il sequestro Moro. Il presidente Barbaro della Corte di Assise di Torino respinge l'ordine del ministero dell'Interno che vieta alla stampa e alla TV di entrare nell'aula del processo. Il fermato Gianfranco Moreno torna in libertà per assoluta mancanza di indizi. Sospesi in Italia la maggior parte degli scioperi, si avvia a conclusione anche la dura vertenza dell'Italsider. Macario, Lama e Benvenuto si incontrano con il generale comandante dell'Arma dei Carabinieri Corsini per esprimere la solidarietà dei sindacati con le forze dell'ordine. «Magistratura democratica» prende posizione contro le leggi eccezionali. A Milano si svolgono cortei e scioperi nelle scuole per i due giovani assassinati; viene annunciato dai sindacati uno sciopero nelle fabbriche per i funerali.
L'esperto di mass media Marshall McLuhan dichiara in un'intervista al Tempo che per combattere il terrorismo è auspicabile il buio totale sull'informazione. Su La Repubblica e Il Giorno si dà notizia che la Dc sta discutendo sulla validità del silenzio stampa. Eugenio Montale su Il Corriere della sera afferma che la pubblicazione o meno dei documenti è un caso di coscienza. Vittorio Foa sul Quotidiano dei lavoratri afferma che il pericolo maggiore rispetto al caso Moro è l'emergere della fredda ragion di Stato. Il Giornale attacca la Dc per aver censurato il volantino di De Carolis e denuncia di nuovo il pericolo che si formi una milizia operaia secondo le direttive della Cgil. David Maria Turoldo in una tribuna aperta su Il Corriere dal titolo «Per tornare a sperare» ricorda la disperazione dei giovani e quanto siano inutili questi discorsi sull'ordine e sulla giustizia: "sempre gli stessi discorsi e detti dalle stesse bocche".
22 marzo. Ampio rilievo da parte di tutta la stampa all'approvazione delle leggi eccezionali i cui contenuti vengono riportati in tutte le prime pagine e prosegue il dibattito su Brigate rosse e mass media. Il Corriere della Sera apre un'inchiesta tra tutti i direttori dei principali giornali internazionali. Vengono intervistati giornalisti della televisione, mentre da parte della Dc vengono escluse iniziative per bloccare la libertà di stampa; anche il Sole 24 Ore (quotidiano della Confindustria) prende posizione con un articolo di Luigi Pedrazzi dal titolo «Informazione come dovere». Su La Stampa si continua a discutere se è giusto o meno il silenzio stampa, mentre Lotta Continua e Il Quotidiano dei lavoratori prendono posizione contro il tentativo di «black out nelle teste» e viene duramente attaccato Antonello Trombadori, definito per il suo intervento nella trasmissione televisiva "Bontà loro" «un laido attore che recita a soggetto la sua parte, un pezzo viscido, consumato, falso» e annunciano di averlo querelato per aver paragonato Lotta Continua ad Ordine Nuovo.
Sulle leggi speciali inizia un aspro dibattito. Adolfo Beria d'Argentine su Il Corriere della sera critica le nuove leggi antiterrorismo, mentre su Paese Sera il giudice Luciano Violante afferma che questi provvedimenti sono un primo passo verso la difesa dei cittadini e Giovanni Conso su La Stampa scrive che questi provvedimenti si muovono nello Stato e per lo Stato. Emerge la polemica tra il direttore di Paese Sera Aniello Coppola e Leonardo Sciascia aperta dal primo nell'editoriale di Paese Sera di domenica, in cui accusava lo scrittore siciliano di un colpevole silenzio. Sciascia risponde a Coppola e al PC con durissime accuse non ultima quella di stalinismo, riconoscendosi nelle posizioni di estraneità manifestate da Moravia su Il Corriere della sera.
I sindacati si recano da Cossiga ad esprimere la loro solidarietà con le forze dell'ordine, mentre per i funerali dei due giovani assassinati a Milano si è aperto un aspro contrasto nei sindacati milanesi sulla durata dello sciopero per permettere la partecipazione degli operai ai funerali: alla posizione rigida della CGIL, che vorrebbe solo assemblee interne contro il terrorismo, si contrappone una posizione più aperta da parte della CISL che vorrebbe permettere la partecipazione degli operai ai funerali. Continua inoltre la polemica sulle posizioni di Pecchioli rispetto alla presenza di terroristi nelle fabbriche. A questo proposito Mario Colombo, segretario della Cisl milanese, dichiara che coloro che hanno cercato di dipingere le fabbriche come dei covi di brigatisti hanno ricevuto la più ampia smentita dai lavoratori milanesi con la grande manifestazione di giovedì scorso e con la mobilitazione in atto in tutte le fabbriche anche in relazione ai più recenti fatti ed all'assassinio dei due giovani militanti della nuova sinistra. Non è però da escludere che l'enfasi in taluni interventi sia strumentale a sostegno di una proposta che circola da tempo nel movimento sindacale: la costituzione di nuclei o di veri e propri "commissariati di polizia nelle fabbriche".
In un editoriale su La Voce Repubblicana, La Malfa afferma che è necessaria maggiore energia: viene ventilata l'adozione della pena di morte e sono ritenute insufficienti le nuove leggi contro il terrorismo. Zaccagnini, in una lettera ai dirigenti periferici della Dc per la riunione del 29 marzo, chiede l'adozione di leggi nel rispetto della Costituzione e Amendola, in una nota scritta per il Popolo, giornale della Dc, chiede di «isolare i terroristi, fare terra bruciata intorno ai gruppi che esaltano e praticano la violenza di massa e nella scuola respingere tutte le intimidazioni, affermare la libertà e la dignità dei docenti e degli studenti». Secondo i liberali le nuove leggi non tutelano gli interessi dei cittadini e rischiano di essere anticostituzionali. In questi giorni viene smentita l'esistenza di un piano per rapire Berlinguer diffusa dalla stampa nei giorni precedenti. È firmato l'accordo Italsider e i sindacati dichiarano: «abbiamo contribuito ad allentare la tensione».
23 marzo. Tutti i partiti decidono di non rinviare le elezioni di maggio. A Torino, la Corte respinge le proposte sull'autodifesa degli imputati; a Novara è arrestata Brunhilde Pertramer: inserita nell'elenco dei ricercati ha più volte smentito la sua partecipazione ai fatti di Torino e Roma. Il Giorno titola a tutta pagina: «Dopo una settimana, nulla», alla polizia servono altri diecimila uomini. In una riunione per l'ordine pubblico sono decisi controlli sulle radio private. Continua la polemica iniziata da Coppola. Sciascia è intervistato da La Repubblica. Le posizioni di Sciascia verranno precisate dallo scrittore stesso in un articolo su Panorama: «Lo Stato italiano è un guscio vuoto che rischia dì riempirsi di contenuti pericolosi. Non intendo scambiare la Costituzione per un po' di ordine pubblico». In un articolo sul Giorno viene precisato che l'intellettuale non può restare indifferente. Su Il Corriere della sera McLuhan, nuovamente intervistato sul problema della stampa e il terrorismo, precisa: «Bisogna ridurre al minimo lo spazio dei terroristi». Sempre in prima pagina, in un'intervista ad alcuni storici italiani, Il Corriere afferma: «Sì alla cautela, no all'autocensura».
I quotidiani dell'estrema sinistra rispondono alla posizione de L'Unità («Le armi della cultura contro il terrorismo») affermando che le posizioni assunte da Sciascia e da altri intellettuali sono posizioni reali e denunciando la subordinazione della Rai e della stampa al potere nella gestione del caso Moro. Per il processo di Torino, Il Corriere della sera scrive: «Fra codici e ideologie. È un processo politico». A Torino viene intervistato dal Giorno l'avvocato Giannino Guiso, difensore di Renato Curcio ed altri brigatisti. L'avvocato viene definito "uomo ponte fra lo Stato e le Br" perché alla precisa domanda se—qualora gli venisse chiesto—accetterebbe di svolgere opera di mediazione nel caso Moro, risponde: «Lo farei se lo chiedesse l'on. Craxi, segretario del mio partito, o l'on. Cossiga, che è stato mio professore di diritto costituzionale"». A Madrid viene ucciso il direttore delle carceri spagnole. L'attentato viene rivendicato dal Grapo.
24 marzo. Cossiga è il responsabile unico del coordinamento tra la Pubblica Sicurezza, i Carabinieri e la Guardia di Finanza. Questo per decisione unanime dei cinque partiti di maggioranza, che approvano i miglioramenti per le forze di polizia. I sindacati accettano le leggi antiterrorismo, purché sia fissata una scadenza precisa. Biasini in un'intervista a Il Corriere della sera dichiara a proposito della pena di morte: «Non escludiamo nessuna misura. Riteniamo che ogni indugio nella difesa dello Stato può far pagare al Paese in un prossimo futuro prezzi molto più alti di quelli che oggi siamo costretti a richiedere. C'è il rischio che si affaccino come difensori dell'ordine forze retrive e totalitarie». Intervistato sullo stesso problema, Emanuele Macaluso, del Comitato centrale del PCI, afferma che la pena di morte non serve, ma aggiunge: «Io sono d'accordo con La Malfa che siamo di fronte ad una situazione di emergenza... La risposta deve essere eccezionale e di emergenza».
Viene ventilata un'amnistia per i reati minori. È arrestato a Milano Francesco Berardi, detto "Bifo", leader dell'autonomia bolognese. La Cisl e la Uil prendono posizione contro la Cgil sul problema dei vigilantes in fabbrica. Uno dei venti ricercati, Antonio Favale, smentisce: è in carcere dall'agosto 1977. Lama dichiara al Gr2 di condividere le nuove leggi, e che compito dei lavoratori è quello di espellere dalle fabbriche i sostenitori del terrorismo. A Milano due delegati della Face Standard vengono processati in fabbrica: sono accusati di non aver scioperato per il sequestro Moro. I sindacati incontrano il comandante della Guardia di finanza. Umberto Terracini in un'intervista definisce la proposta di La Malfa per la pena di morte «un colpo di testa». Il Popolo in un lungo articolo prende posizione contro Sciascia, e Il Giorno riprende la polemica sugli intellettuali con un articolo su Sciascia, Moravia, Amendola. Rossana Rossanda su il manifesto in un articolo dal titolo «Chi sono i padri delle Brigate rosse» accusa i brigatisti di vetero-comunismo.
25 marzo. Le Brigate Rosse hanno ferito a Torino l'ex sindaco democristiano, Giovanni Picco. Sul sequestro Moro le indagini sono a un punto morto. A Roma avvengono assalti a sezioni democristiane e disordini durante una manifestazione di solidarietà per l'assassinio dei due giovani a Milano. La Cgil rinuncia alla sua proposta di creare ronde operaie antiterrorismo in fabbrica, in seguito all'opposizione della Cisl e Uil. Viene pubblicata la relazione che Biasini terrebbe al Congresso del Pri, il 26 aprile. Vengono evidenziati tre punti: 1) Severità dello Stato; 2) Leggi speciali; 3) Limiti e compatibilità dei contratti autunnali con la situazione del Paese. Si chiude anche la vertenza Dalmine, dopo quella dell'Italsider. Il Parlamento e i partiti resteranno aperti, data la situazione, anche a Pasqua.
I liberali chiedono ad Andreotti limiti di tempo alle leggi eccezionali e nessuna forma di autogestione per l'ordine pubblico. Si fa acuta all'interno della Dc la polemica, dopo la presa di posizione di Discussione, organo del partito, contro i firmatari del volantino distribuito a Milano in cui venivano chieste le dimissioni di Cossiga. Il Partito Liberale viene attaccato dal Partito Repubblicano per le sue posizioni rispetto alle leggi d'emergenza. A Caserta, un giovane di sinistra viene accoltellato da neofascisti. Giancarlo Pansa intervista Paolo Grassi, presidente della Rai, sul problema dell'informazione e sul terrorismo che dichiara: «I terroristi lo sappiano, non saremo il loro megafono. La stampa deve vendere, noi no».
Grassi polemizza inoltre con Pajetta per le sue critiche, e paragona il caso Moro al caso Schleyer, giungendo alla conclusione che in Italia non sarebbe possibile un controllo dell'informazione come in Germania poiché comunque le notizie finirebbero per uscire. Quindi, l'unica alternativa è quella di diffondere messaggi e notizie con circospezione. Italo Pietra, sul Messaggero, risponde a Moravia affermando che è necessaria la partecipazione di tutti, mentre Corrado Staiano sullo stesso giornale precisa che è assurdo attaccare Sciascia e Moravia per le loro posizioni. È necessario usare tolleranza. Andrea Barbato, direttore del Tg2, afferma su La Stampa che è necessario un giornalismo come servizio. Sul Tempo si afferma che chi non si schiera costituisce l'acqua per il pesce guerrigliero.
26-27 marzo. Recapitato in quattro città il "comunicato n. 2" delle Brigate rosse. In esso le Brigate annunciano che è iniziato il processo ad Aldo Moro ed enunciano i capi d'accusa. Affermano che l'organizzazione si muove in base al principio "contare sulle proprie forze" e il comunicato termina con la frase: «Onore ai compagni Lorenzo lannucci e Fausto Tinelli assassinati dai sicari del regime». Nell'editoriale su La Repubblica, Eugenio Scalfari afferma che la causa prima del fenomeno delle Brigate rosse è da individuarsi nell'aver costretto per troppo tempo il PCI all'opposizione anche se questo dichiarava la propria disponibilità ad assumere funzioni di governo. Questo eccessivo lasso di tempo avrebbe permesso la nascita alla sua sinistra di una opposizione: il partito armato.
Cossiga si riunisce a consulto con i capi della polizia. Zaccagnini riunisce il vertice democristiano. Guido Bodrato afferma in un'intervista che la Dc è più unita che mai, le decisioni sono collegiali e la base è pronta a rispettarle. Afferma inoltre che l'attacco alla Dc è anche imputabile al fatto che i giovani hanno assorbito una realtà del paese distorta. Alla precisa domanda se come partito la Dc accetterebbe lo scambio di Moro con un gruppo di brigatisti, risponde: «Su questo non ci possono essere opinioni personali e strettamente di partito. È un problema di governo e di Stato». Il Popolo afferma che si colpisce la Dc perché essa rappresenta il pilastro di uno Stato libero e democratico.
L'Avanti! afferma che «è importante che non si continui a fingere di aver di fronte un gruppetto di disperati, isolati, braccati nella loro pazzia. Leggendo il "comunicato n. 2" si ha un'impressione purtroppo diversa, e proprio questo rende ancora più umiliante l'impotenza dello Stato». L'Unità parla di «follia lucida, di struttura tipicamente paranoica di ragionamento. L'attacco ai partiti costituzionali, e in particolare al Pci dimostra l'irritazione chiaramente avvertibile per le grandi manifestazioni di massa che hanno marcato l'isolamento dei terroristi. Si vuole preparare uno sbocco tragico a questa farsa chiamata processo? La coscienza di tutti insorge. È urgente fermare la mano di questi pazzi criminali».
A Torino la Uil attacca la Fim per la stampa di un manifesto in cui appaiono le foto di dirigenti Fiat accusati per le schedature. Alcuni sindacalisti sostengono che «questa stampa può associare le Confederazioni alla linea di persecuzione dei funzionari dell'azienda già bersaglio preferito dei brigatisti». Per la Cisl «il tono di reazione al terrorismo talvolta sfiora l'isteria». A Genova il Pci espelle sei portuali del collettivo del porto colpevoli di aver distribuito un volantino in cui sotto il titolo «Né con lo Stato, né con le Br» prendevano posizione sul rapimento Moro affermando che questo fatto non deve portare all'assoluzione della classe politica democristiana e all'approvazione di leggi speciali liberticide. Il segretario provinciale del Psi, prendendo posizione sul problema, parla così: «espellere i socialisti presenti nel collettivo del porto? Direi che nel nostro partito questi problemi si pongono in modo diverso, non sono d'accordo su certi slogan e neppure col collettivo, ma non penso che le questioni si risolvano cacciando via i compagni».
Enzo Mattina, della segreteria nazionale della FIM, sul problema delle leggi speciali dichiara: «Penso che non sia il massiccio spiegamento di forze a ridurre l'influenza del terrorismo. L'esperienza nostra, e mi ha fatto piacere trovarla confermata nelle parole di Sandro Pertini, è che di fronte a gruppi terroristici è illusorio pensare che l'ampliamento della repressione possa tornare utile. Ho delle forti perplessità: ritengo che nonostante il momento non possono venir meno certi principi. Le intercettazioni, il fermo e l'interrogatorio senza avvocato sono provvedimenti ingiustificati anche davanti all'emergenza. Ci sono garanzie costituzionali a cui non si può rinunciare neppure in momenti come questi».
28 marzo. Il direttore de La Stampa, Arrigo Levi, su suggerimento di La Malfa lancia alcune proposte per l'emergenza. Esse sono: 1) Costituzione di un comitato formato dai capi partito incluso il Pli sul modello di quello formato in Germania per il caso Schleyer. 2) Il governo e il comitato dei capi partito devono indire in tutta Italia manifestazioni di solidarietà con Moro in concomitanza con una sospensione nazionale del lavoro. 3) Chiedere la convocazione del Consiglio d'Europa, da tenersi a Roma, che esamini la minaccia dei terrorismo in Europa: questa seduta sarebbe da tenersi nominando presidente Aldo Moro e conservando la sua sedia vuota. 4) Chiedere alle Nazioni Unite e alle massime potenze una dichiarazione di solidarietà e di appoggio al governo. 5) I sindacati e le organizzazioni degli imprenditori dovrebbero dichiarare una tregua per tutte le vertenze. 6) Viene sottoposta a discussione una proposta sulla presidenza della Repubblica: si dimetta Leone per rendere possibile l'elezione a Capo dello Stato Aldo Moro.
A Milano, i giovani del «Leoncavallo» rispondono polemicamente al volantino delle Br in cui vengono citati i due giovani assassinati. Lotta Continua afferma che non accetta la loro solidarietà e la rispedisce al mittente. Davide Lajolo in una "tribuna aperta" su Il Corriere della sera attacca il disimpegno degli intellettuali. A Torino la colonna «Mara Cagol» delle Br rivendica con un volantino il ferimento dell'ex sindaco Dc di Torino. Dopo il "giallo" della trasferta fantasma in Calabria del giudice Infelisi circolano voci di una sua sostituzione. Giorgio Galli in un articolo su La Repubblica afferma che non era certo il processo che stanno compiendo le BR quello che Pier Paolo Pasolini intendeva come "il processo al palazzo". Pasolini vedeva nel PCI il pubblico accusatore di questa DC, sulla posizione di collaborazione del PCI, invece che un processo con la DC rinnovata, si è inserito il terrorismo.
Unica risposta: la sinistra dimostri che è ancora in grado di operare una evoluzione in uno Stato che oscilla tra la devozione e la tentazione repressiva. Stefano Rodotà, riaprendo l'attacco contro gli intellettuali, ripete che gli untori vanno ricercati altrove. Si riporta la dichiarazione rilasciata da Mancini a Panorama in cui viene sottolineato che lo scandalo Lockheed è nato in America e che Moro era una delle persone che più si opponeva alle ingerenze esterne nel mondo politico italiano. Tra Il Corriere e L'Unità continua la polemica aperta da Ronchey sulla posizione del Pci e i collegamenti internazionali. Il quotidiano milanese afferma che il sequestro Moro è un altro segno del caos italiano e che la borghesia italiana usa il sequestro per rafforzare le leggi repressive. Mosca accusa Pechino di coordinare la strategia dell'ultrasinistra.
29 marzo. Si apre a Torino il 41º congresso del Partito socialista italiano e riprende, sempre a Torino, il processo alle Br con lo scoglio dell'autodifesa. Secondo i computer tedeschi la prigione di Moro si trova vicino a Roma. La proposta Levi per Moro alla presidenza della Repubblica provoca un ampio dibattito. Perplessità e interesse tra gli uomini politici. Tutti i giornali tendono a minimizzare, sottolineando che l'iniziativa è stata respinta dai vertici del partito democristiano, il Popolo afferma che questa è una proposta impraticabile: sarebbe Fanfani il vero presidente... Lotta Continua: «Proposta di Agnelli: condannare Aldo Moro alla presidenza della Repubblica». L'argomento è ripreso poi dall'editoriale «Cinismo e pessimo gusto», in cui si puntualizza che le indicazioni date da Levi vengono dalla trilaterale e dal capo dei padroni: Agnelli.
La Repubblica dà notizia che per l'indagine si segue anche una pista nera e vengono fatti dei confronti con il rapimento del figlio di Francesco De Martino avvenuto l'anno precedente. Macaluso, in risposta a Ronchey, parla di lotte tra correnti all'interno dei servizi segreti e porta l'esempio di Vito Miceli che avrebbe ricevuto finanziamenti dall'ambasciata americana. Montanelli in un'intervista afferma che gli italiani sono gli inquinatori d'Europa. Scalfari intervenendo su La Repubblica chiede che Fanfani chiarisca la sua posizione dopo la proposta di Levi. La Voce Repubblicana in un pezzo «Terrorismo non è sinonimo di paranoia» afferma di condividere l'analisi di Amendola sulla gravità del fenomeno e che tra il partito armato e le altre posizioni estremiste c'è una differenza solo quantitativa e non qualitativa. Paolo Spriano in un editoriale su L'Unità attacca le posizioni di Sciascia affermando «questo stato non è un guscio vuoto»
30 marzo. Giunge un terzo comunicato delle Br che annuncia una lettera di Moro a Francesco Cossiga. Moro invita il Presidente del consiglio e il Presidente della Repubblica a «riflettere opportunamente sul da farsi per evitare guai peggiori, pensare dunque fino in fondo per evitare una situazione emotiva ed irrazionale. In queste circostanze entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato». «Il sacrifìcio degli innocenti in nome di un astratto princìpio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz». «Queste sono le alterne vicende di una guerriglia che bisogna valutare con freddezza bloccando l'emotività e riflettendo sui fatti politici. Penso che un preventivo passo della Santa Sede potrebbe essere utile. Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza e un errore».
Tutti i giornali riportano il testo della lettera di Moro in prima pagina con enorme evidenza. Tutti i quotidiani, inoltre, evidenziano nella titolazione della prima pagina che la lettera è chiaramente estorta: La Repubblica: «Moro scrive a Cossiga. In un messaggio chiaramente estorto il leader Dc chiede al governo di trattare con le Brigate rosse». Il Corriere: «Le Brigate rosse hanno costretto Moro con una lettera a chiedere uno scambio». Il Giornale: «Moro chiede in una lettera a Cossiga che siano aperte trattative con le Br. Il testo è autografo ma lo stile è comunque diverso da quello abituale dello statista». Il Messaggero: «Una lettera di Moro. Vera? Falsa? Scritta sotto costrizione?» La Stampa: «Un nuovo messaggio delle Br con lettera (vera?) di Moro». Il Tempo: «Una lettera estorta a Moro col terzo messaggio delle Br». L'Unità: «Una tragica lettera di Moro. Dice di scrivere costretto dalle Br. Accenna a torture e chiede lo scambio». il manifesto: «Moro nella prigione delle Br (o di chi altro?) Sotto un dominio pieno e incontrollato chiede lo scambio perché lo Stato non lo ha difeso.» Avanti!: (Non riporta la notizia in prima, dando enorme spazio all'apertura del congresso del partito a Torino). Unico giornale con una titolazione diversa, (Lotta Continua) non ha potuto riportare in tempo la notizia. Il Giorno: «Lettera di Moro dal carcere. "Il processo diventa sempre più stringente si deve guardare lucidamente al peggio"». Il Sole-24 ore si limita a dare la notizia tra i fatti di cronaca. «Terzo messaggio delle Br. Moro scrive a Cossiga».
Unico giornale, La Repubblica, che riprende la proposta di Arrigo Levi titolando «La crisi investe il Quirinale. Inevitabili per La Malfa le dimissioni del capo dello Stato». Viene data notizia che La Malfa ha posto chiaramente la questione dell'inagibilità di Leone e della necessità dì sostituirlo al più presto. Fanfani, in una lettera, risponde alla richiesta di chiarimenti di Scalfari smentendo assolutamente di non aver nessuna intenzione né di accettare né di appoggiare una richiesta come quella di Levi. In un'editoriale Scalfari sottolinea la validità della risposta di Fanfani titolando il pezzo «Iniziative premature accrescono la tensione». Tutti i quotidiani riportano articoli in cui viene precisato che le parole di Aldo Moro non sono di Aldo Moro. La Dc "preoccupata ma composta" si prepara alle elezioni amministrative. Viene data notizia della riunione dei dirigenti regionali del partito. Fausto De Luca precisa in un articolo su La Repubblica che la lettera di Moro non è altro che una serie di «parole scritte sotto la tortura».
31 marzo. Il Corriere della sera: «La risposta della Dc: non è possibile accettare il ricatto delle Br». La Stampa: «Non si può accettare il ricatto delle Br». L'Unità: «La Repubblica non può cedere al terrorismo. I partiti democratici respingono il ricatto e le minacce delle Br». Il Giornale: «La Dc non tratta con le Br». Il Giorno: «Con le Br non si tratta». La Repubblica: «Non si tratta con le Br. Tutti i partiti sono d'accordo nel rifiutare qualunque tipo di scambio coi terroristi». Il Messaggero: «La Dc decide di rifiutare il ricatto delle Br: lo Stato non può cedere», II Tempo: «La Dc respinge il ricatto delle Br». L'Avanti!: «Il caso Moro ci riguarda tutti»». Lotta Continua: «Moro in Cile, Curcio in Urss».
1º aprile. Su Il Corriere della sera prosegue la polemica contro il Pci per la tesi comunista del "complotto internazionale" che secondo Ronchey serve soltanto a coprire la franca ammissione per la quale il sequestro Moro dimostra che ci si trova di fronte ad un fenomeno complesso, con profonde radici sociali nella realtà italiana. Dello stesso tono un articolo di Sabino Acquaviva, in cui si puntualizza la matrice leninista del fenomeno Br e la sua estraneità da quel fenomeno magmatico e complesso che si sviluppa nella realtà italiana durante il 1977, denominato "movimento". Al congresso socialista di Torino, De Martino affronta il problema della scelta tra autorità dello Stato e salvaguardia della vita umana: «Mi auguro che se dovesse porsi il problema di una scelta tra la fermezza dello Stato e la vita dell'ostaggio, il problema venga affrontato esaminandone tutti gli aspetti tenendo conto dei precedenti e del modo in cui si sono comportati altri Stati che hanno agito con fermezza ma hanno cercato di salvare la vita dell'ostaggio».
Pajetta, al congresso socialista di Torino, portando il saluto del comunisti afferma: «La risposta data dal governo e dalla DC all'attacco alla democrazia ci trova e spero trovi anche voi consenzienti». Il Vaticano conferma ufficialmente che è pronto ad intervenire per Moro, precisando comunque che ciò sarebbe possibile se non ci fossero richieste inique. Vengono anche rievocati dal giornale vaticano i precedenti casi di intervento da parte della Santa Sede. La Pertramer, indicata fin dai primi giorni come una delle componenti il commando che aveva sequestrato Moro ed eseguito l'uccisione del maresciallo Berardi, a Torino viene completamente scagionata da questa accusa. Ampio rilievo sui quotidiani alle smentite di ogni trattativa e al fatto che tutte le forze politiche sarebbero concordi nel rifiutare il ricatto.
Viene precisato che la Dc dopo la lettera di Moro ha attraversato momenti difficili, dibattuta tra la ragion di Stalo e quella dell'umanità. Senza riportare nessuna posizione della "componente umanitaria" viene precisato che ha prevalso la ragion di Stato, anche per le pressioni operate in tal senso dalle forze politiche, dai liberali ai comunisti. Macaluso su L'Unità polemizza con i "garantisti" affermando che il problema non è "prima riformare e post reprimere", ma affrontare immediatamente il problema del terrorismo senza per questo interrompere l'opera di rinnovamento. Nello stesso articolo viene portata una risposta alla posizione di Galloni, che aveva affermato la radice comunista del fenomeno.
2 aprile. Signorile al congresso Psi di Torino afferma: «Le parole di Sciascia e di Moravia e di altri mi hanno colpito profondamente. Nella loro assoluta buonafede e sincerità esse rivelano uno stato d'animo che non è limitato ad una ristretta cerchia di intellettuali». Enzo Forcella, in un suo intervento su La Repubblica fa notare che lo stato d'animo di estraniazione dolorosa di cui parlano Sciascia e Moravia si estende ad ampie fasce di cittadini. Tortorella, dirigente del Pci, in un editoriale su L'Unità dal titolo «Le responsabilità», interviene rigettando le accuse fatte al Pci di isolare e reprimere il dissenso, e precisa che non è certo attribuibile all'ideologia del Pci il proliferare del terrorismo. Su La Voce Repubblicana Giovanni Ferrara accusa Sciascia di dilettantismo politico e lo condanna per immobilismo.
3 aprile. Il democristiano Granelli ribadisce, in un'intervista alla radio, che l'atteggiamento del suo partito è unito senza smagliature nell'atteggiamento di fondo, che è quello di salvare i valori fondamentali dello Stato. Saragat dichiara: «Un atto del parlamento che condannasse a sicura morte un innocente sarebbe insensato. Occorre, in una situazione tanto complessa, lasciare al potere esecutivo la necessaria elasticità di atteggiamenti per fare il possibile allo scopo di salvare la vita dell'onorevole Moro». I giornali precisano comunque che la posizione di Saragat è una posizione personale: infatti danno ampio spazio alle dichiarazioni del segretario del Psdi, Romita, che ha respinto con intransigente fermezza qualsiasi trattativa in cui possano essere coinvolti organi dello Stato.
Papa Paolo VI da piazza San Pietro rivolge un appello ai rapitori ..,uomini delle Brigate Rosse,.. per scongiurarli di dare la libertà al prigioniero. Craxi, nella replica al congresso di Torino, si distacca dai sostenitori più intransigenti della ragion di Stato, affermando che essendo in gioco una vita umana non dovrebbero essere lasciati cadere alcuni margini ragionevoli di trattativa. Craxi respinge anche polemicamente le richieste avanzate da La Malfa riguardo alle dimissioni del Presidente della Repubblica e ricorda al segretario repubblicano di essere stato uno dei grandi elettori di Leone. Continuano, all'interno del sindacato, le divergenze tra Cgil e Cisl sui metodi di mobilitazione contro il terrorismo sui posti di lavoro.
4 aprile. Il fronte della non-trattativa si rafforza, poiché Andreotti ha ottenuto l'assenso non solo sulla linea di intransigente rifiuto di una trattativa con le Br, ma anche sull'opportunità di non affrontare un dibattito sul caso Moro. A Roma la polizia porta avanti delle operazioni-setaccio, rastrellando interi quartieri e effettuando 41 arresti. In Vaticano trapelano voci di divergenze che sarebbero sorte dopo l'appello di Paolo VI, perché alcuni vorrebbero più "cautela". II congresso socialista si conclude e il nuovo comitato centrale nel suo schieramento vede Craxi e Signorile con il 63% dei voti, i demartiniani con il 26%, i manciniani col 7% e la "nuova sinistra" di Achilli con il 4%. Su Il Corriere della sera, il deputato Macaluso dichiara che il linguaggio che il Pci usava negli anni cinquanta non è assimilabile a quello usato oggi dalle Br. Alla domanda se sull'esistenza del terrorismo il Pci abbia qualche autocritica da fare, risponde: «Su questo punto non abbiamo autocritica da fare».
Ma nella stessa intervista, Rossana Rossanda risponde che il terrorismo «ci appare come il frutto molto moderno di una crisi sia dell'integrazione capitalistica, sia della speranza di un mutamento. Se il terrorismo ha origine da queste frange di disperazione è chiaro che la sinistra, vecchia e nuova, ha la responsabilità di aver lasciato crescere questo ascesso». Sul Giornale si legge che il vertice della maggioranza ha ribadito la volontà di non cedere al ricatto dei rapitori di Moro. I liberali si dichiarano contrari a trattative con le Br, fosse anche per il tramite del Vaticano. Nell'operazione di polizia scattata a Roma 129 persone vengono "fermate". Rossanda replica duramente ai rimproveri de L'Unità. In aspra polemica con Macaluso scrive sul Manifesto che «I messaggi delle Br sono foto di album di famiglia del Pci» e accusa il partito dì Berlinguer di volersi «scrollare violentemente la criniera dal ricordo del passato». In un trafiletto è la notizia che è iniziato il processo di appello contro Ordine nuovo.
Giorgio Bocca intervista Antonio Bellavita, indicato come uno dei possibili autori del sequestro Moro, da quel cervello elettronico che aveva peraltro già indicato come probabili autori due persone ospitate in carceri italiane. Il Giorno riferisce sull'accordo al vertice per il metodo da seguire: nessun patteggiamento (perché lo Stato non può piegare la testa) ma ricerca di ogni soluzione per liberare il prigioniero. il manifesto informa sulla collaborazione fra Germania e Italia nelle indagini per la ricerca dei rapitori di Moro ed emerge l'evidente inferiorità tecnica della polizia italiana e la subordinazione alla polizia tedesca nella raccolta dei dati «dell'invadente calcolatore di Schmidt». Il brigatista Paroli, nell'udienza del processo di Torino, dichiara rivolto alÌa Corte: «Noi cantiamo poco, come le formiche, ma a voi cicale, faremo un inverno duro». Curcio assicura: «Diciamo anche al pubblico che i prigionieri del popolo, da Amerio al fascista Labate fino a Moro, non hanno mai subito alcuna forma di violenza».
5 aprile. Una lettera dall'inferno, scrive Il Corriere della sera, annunciando la lettera che Moro dalla sua prigione manda a Zaccagnini. «Caro Zaccagnini scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Barlolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga, ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità che sono ad un tempo individuali e collettive». La lettera prosegue: «Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi». Moro prospetta, non in astratto diritto, ma sul piano dell'opportunità umana e politica, la liberazione di prigionieri di ambo le parti. Ricorda che altri Stati hanno avuto il coraggio di farlo e ammonisce: «Se così non sarà l'avrete voluto, e lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone». E profetizza: «Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco che Iddio vi illumini e lo faccia presto, come necessario».
E Andreotti alla Camera, tempestivamente: «Non si può patteggiare con gente che ha le mani grondanti di sangue». La Dc ribadisce il suo "no", scrive Il Corriere della Sera, spiegando che «L'atteggiamento è stato concordato, dai leader del partito, con la morte nel cuore». Piccoli (capogruppo Dc) ripete il rifiuto di avviare trattative; Natta (capogruppo Pci) ribadisce la fermezza della posizione comunista. Lotta Continua titola invece: «Moro tenta un disperato arbitraggio, stretto tra le Br che lo processano e Dc-Pci che lo vogliono morto». Sul Giornale, Indro Montanelli sostiene che nessun commento ha da fare sulla seconda lettera di Moro «per il semplice motivo che non è di Moro». Smentisce quanto da Moro affermalo su Taviani e Gui a proposilo del caso Sossi dicendo che anche se Gui e Taviani invitati a testimoniare confermassero quanto da Moro affermato, «a noi non risulta, né pare credibile. E dobbiamo aggiungere che non cambieremmo idea nemmeno se i due parlamentari lo confermassero». L'articolo di fondo di Montanelli avvia il processo sulla psichiatrizzazione di Aldo Moro.
La Malfa, sul Messaggero, dichiara (in previsione di un suo rapimento da parte delle Br) di aver consegnato una lettera ai suoi familiari affinché possa servire da riscontro. «Questa è la mia scrittura - ha detto La Malfa alla moglie Orsola e ai due figli Giorgio e Luisa. Ove voi non la ricordiate, se mi succedesse quel che e successo a Moro, qualunque lettera vi arrivi, voi dovrete negare che la grafica è la mia». Il quotidiano non riferisce se la lettera è stata scritta su carta intestata con il simbolo dell'edera e non spiega se il rifiuto di accettare, da parte di La Malfa, le lettere di Moro debba essere letto in questa ottica di negazione dell'evidenza. L'Unità: «La Repubblica non cederà». Allegato al messaggio delle Br una lettera a firma Moro diretta a Zaccagnini che svolge «incredibili argomentazioni». Il Popolo commenta: «Non è moralmente ascrivibile a Moro». Lama dichiara: «È il testo di un uomo che non è padrone della propria persona». il manifesto: «In una camera atona, incapace di dibattito e di responsabilità, giunge un drammatico personalissimo appello di Moro. La risposta, elusiva, cinica, burocratica, è: non è lui». E nel corsivo («Inerte fermezza») scrive: «Quel che appare inspiegabile, inaccettabile, assurdamente vergognoso, è coprirsi dietro un rigido principio di Stato e insieme non far nulla».
La Repubblica si allinea alla psichiatrizzazione di Moro attraverso un editoriale di Eugenio Scalfari dal titolo perentorio: «Quelle parole non sono credibili». Perché? «Manca alla lettera autografa una data certa e manca ogni prova verificabile sull'effettivo stato di salute e di consapevolezza psichica del prigioniero. Le Br hanno ridotto un uomo alla condizione disumana d'un fantoccio. Non è attraverso un fantoccio che possono parlare ad una nazione». In terza pagina, Sandro Viola sostiene che Moro è sottoposto «ad una prova che avrebbe fiaccato la psiche, l'autocontrollo, l'equilibrio nervoso di qualunque uomo». È quindi con fredde e ciniche analisi che gli intransigenti rimuovono dalla propria attenzione le invocazioni e i suggerimenti che Moro indicava per la sua salvezza. Polemico riferimento di Andreotti contro gli intellettuali che van parlando di Stato autoritario e repressivo, perché sono oggettivamente complici dei terroristi. «Caso mai in Italia stiamo pagando per l'eccesso opposto», Balzamo alla Camera denuncia «la retata romana» e l'ondata di fermi come un fatto gravissimo. Sono state violate precise norme garantiste, manifesta inoltre la seria preoccupazione che l'indiscriminata lotta al terrorismo possa facilmente sfociare nella risposta repressiva.
6 aprile. Il Corriere titola che dopo il tentativo delle Br di dividere il partito servendosi del prigioniero, la Dc fa quadrato intorno a Zaccagnini. Tutti concordi nel riconoscere la mano dei terroristi nelle frasi in cui viene chiamato in causa il segretario della Dc. Nella Dc c'è la certezza che gli obiettivi del terrorismo siano essenzialmente di distruggere la figura di Moro, con lettere moralmente a lui non ascrivibili, e di dividere il partito, usando le parole di Moro come grimaldello. Dopo il nuovo messaggio delle Br la Santa Sede appare perplessa. Il Vaticano sta rinunciando ai tentativi per liberare Moro. Essendo stato proposto lo scambio dei prigionieri, questa proposta viene definita assurda. In un editoriale Vittorelli afferma che hanno fatto bene tutti i gruppi democratici della Camera a respingere ogni proposta di baratto. Perché questo dramma abbia fine, e perché esso non si ripeta «lo Stato non può, lo Stato non deve mollare».
Di Vagno dichiara invece che per salvare una vita umana, lo Stato democratico non può chiudersi dietro schemi o affermazioni apolitiche, ma deve fare tutto quanto è possibile e necessario perché questa vita venga salvata. Il diritto che lo Stato ha di punire è la controfaccia del dovere, di quanto deve e può fare per salvare la vita non solo di Moro, ma di qualsiasi cittadino. Editoriale su Il Corriere di Leo Valiani: «La volontà di Moro è coartata dai suoi torturatori». Commenti su Il Corriere dopo il ritrovamento dell'opuscolo della direzione delle Br: viene precisato che la matrice ideologica e semantica si muove tra Marx e Meinhof. Indagini su 300 persone irreperibili; secondo un rapporto della Digos, 200 sarebbero brigatisti. Dalla Dc viene precisato che, siccome i terroristi cercheranno di nuovo di far pressione tramite le lettere di Moro, la Dc rifiuterà di dare qualsiasi valore ai messaggi che Moro scriverà dalla sua prigione. Vittorelli apre un altro editoriale affermando: «Condividiamo il giudizio del Popolo quando scrive che la lettera di Moro non è moralmente a lui ascrivibile».
7 aprile. Editoriale su Il Corriere di Piazzesi. Affrontato il problema del terrorismo nel mondo, citando gli studi della Rand Corporation. Dai dati contenuti negli archivi della Rand, dei 47 uomini politici sequestrati in questi anni, risulta che 7 su 10 si sono comportati nello stesso modo del presidente della DC pur non essendo stati sottoposti a torture fisiche e nemmeno a grosse pressioni psicologiche. Si afferma che è forse il caso che certe ipotesi drammatiche e romanzesche vengano accantonate, anche perché (sempre tenendo come punto di riferimento gli studi della Rand Corporation) appare evidente che le dichiarazioni «con i terroristi non si tratta», basate su un giudizio morale e non politico («non si possono stringere mani lorde di sangue»), o di principio («lo Stato non può subire una umiliazione tanto grave»), si scontrano con il modo in cui avvenimenti di questo tipo sono stati affrontati nella maggioranza dei casi.
Si ricorda infine che hanno già trattato con i terroristi Stati forti come gli Stati Uniti d'America e la Germania federale. La moglie di Moro lancia un messaggio al marito attraverso il quotidiano Il Giorno. Sfiducia in Vaticano sui contatti con le Brigate Rosse per salvare Aldo Moro. Scoperto a Napoli un covo di terroristi con armi e targhe false. Tutti liberati i fermati dell'operazione del giorno precedente.
8 aprile. Vertice a Copenaghen. L'impegno europeo contro il terrorismo: i capi di governo della comunità diffonderanno una dichiarazione comune contro la violenza politica. Genova: ferito il presidente degli industriali. È il decimo attentato Br in quella città. Dichiarazioni di Luciano Lama a La Repubblica sul terrorismo: vengono anticipati i temi di discussione del direttivo confederale. Reazioni all'interno del sindacato anche per le dichiarazioni sul terrorismo. Dal carcere di Cuneo il brigatista Maraschi si dissocia dalle analisi e dalle azioni delle Br. Voci di trattative segrete tra i familiari e le Br. La tesi della famiglia è che non esistono nella situazione italiana elementi tali da escludere comportamenti che hanno un precedente nel caso Lorenz. Dichiarazioni degli autonomi in cui si criticano le posizioni «verticistiche e aristocratiche» delle Br nell'uso della violenza e nel lavoro di massa. Appello al paese degli uomini della Resistenza. Firmato da tutti gli uomini più rappresentativi della Resistenza.
In un editoriale de Il Corriere della sera viene criticata la posizione di Macario nei confronti di Lama precisando che Lama nell'intervista a La Repubblica altro non ha fatto che precisare alcune sacrosante posizioni sul risanamento economico delle aziende e la lotta al terrorismo. La gravità dei tempi impone a tutti di ripensare a tutto, che quindi anche Macario ripensi alla sua posizione. il manifesto titola: «In un'ora grave, una seconda intervista di Lama a La Repubblica porta il sindacato alla lacerazione». Il Consiglio superiore della magistratura critica le leggi anti-Br. Roberto Mazzola, uno dei leader del "gruppo dei Cento" (la componente liberalmoderata della Dc in Parlamento) in un'intervista a La Repubblica afferma: «Il 16 marzo con il rapimento di Moro è praticamente avvenuto un piccolo colpo di Stato, è nato un nuovo regime. Noi rappresentiamo la maggioranza del partito e ci faremo sentire. L'accordo con i comunisti ha destabilizzato il paese».
Enzo Forcella, direttore della Rete 3 scrive: «Sono tra coloro (ce ne sono, anche se si sta facendo il possibile per ignorarne l'esistenza) che non sono disposti ad accettare a scatola chiusa l'interpretazione ufficiale delle lettere di Moro, adottata, sin dall'inizio, dai partiti dell'arco costituzionale e recepita, con poche eccezioni, dalla maggior parte dei giornali e degli altri mezzi della comunicazione di massa. Le forze che oggi egemonizzano il potere e in primo luogo i democristiani, avrebbero dovuto agire in maniera diversa: non lo hanno fatto però dovrebbe essere chiaro, nelle coscienze se non nei documenti ufficiali, che si tratta di una manifestazione di debolezza, non di forza».
9 aprile. Il Corriere ripropone il mistero delle lettere di Moro alla moglie Eleonora. Zaccagnini e il Presidente del consiglio Andreotti tengono un "vertice". Nulla trapela del loro colloquio. Forse il tema è stato il nuovo messaggio delle Br. Ma quale? Sempre Zaccagnini, rispondendo alle richieste della base barese del collegio elettorale di Aldo Moro, scrive una lettera dichiarando di non voler lasciare nulla di intentato, ma non specifica che cosa voglia tentare. Il deputato Galloni non è più chiaro del suo segretario e, usando più parole, afferma che il partito adempirà fino in fondo al proprio dovere, che consiste, nello stesso tempo, nella difesa intransigente dello Stato e nel non tralasciare occasione per salvare la vita di Moro che ha un valore inestimabile per sé, per la sua famiglia, per la collettività nazionale ecc. ecc. Su L'Unità un editoriale di Gerardo Chiaromonte fa notare che «non c'è tempo da perdere; vanno rispettate le scadenze della attività parlamentare e governativa. Vanno approvate in tempo utile le leggi per evitare il referendum. Nel contempo e necessario rendere più incisiva l'azione della polizia, della magistratura, dei servizi di sicurezza».
La Voce Repubblicana, secondo la linea espressa da Ugo La Malfa, afferma che tutto quanto è avvenuto e avverrà durante la prigionia di Moro è attribuibile esclusivamente alle Br, con le quali non deve essere in alcun modo avviata la trattativa. I liberali appoggiano la fermezza democristiana, ma lamentano che non tutto avviene alla luce del sole perché molto è affidato a riunioni di partito o di gruppi ristretti. Sulle ipotesi da parte di un giornale torinese che attribuiscono a Fanfani una non precisata iniziativa per la liberazione di Moro, un portavoce di Palazzo Madama commenta: «Sono sciocchezze che non meritano neppure smentite». Sul Giorno si dà notizia di un intervento della polizia per intercettare una lettera di Moro diretta alla moglie e di riunioni notturne al Viminale. Mentre il Pci presenta un dossier sulla violenza, denunciando che in soli tre mesi sono siati compiuti 913 attentati. La cifra è spaventosa.
Statisticamente, gli atti di violenza sono esattamente il doppio rispetto a quelli dello stesso periodo del 1977. Per un'intervista intempestivamente concessa da Lama si crea una spaccatura tra Cgil e Cisl. In un articolo di Vecchiato si spiega il conflitto politico. Antonio Vassalli interviene sul caso Moro con «Tre considerazioni sulla linea dura» e dichiara, pur tra molte perplessità, di propendere per la via della trattativa. L'attentato all'ing. Schiavetti di Genova suggerisce al Giorno la definizione di "Uomini cerniera" per questi rappresentanti del mondo economico preso di mira dalle Br. Intanto la Lockheed e Ovidio Lefébvre occupano uno spazio minimo nelle cronache. Il Giornale di Montanelli in un riquadro in prima pagina titola: «Cresce il malumore nella Dc per la paralisi del partito». La paralisi è politica. Il segretario Zaccagnini viene sollecitato da più parti a convocare la direzione e il Consiglio Nazionale e ad abbandonare la pratica dei misteriosi "vertici" adottati fino ad ora. Il Pci sollecita la Dc per l'applicazione del programma concordato. I repubblicani intervengono per impedire eventuali cedimenti della Dc verso le trattative, su ispirazione del solito La Malfa. Su La Stampa ferme parole sul dramma tra famiglia Moro e partito: «Fate ciò che dovete fare» dice la signora Moro alla Dc. La Dc non fa niente.
10 aprile. La polizia ha intercettato la lettera di Moro diretta alla moglie ove ripropone in chiari termini lo scambio di prigionieri. La lettera di Moro è un accorato appello per la sua vita e chiede al suo partito e al governo di rivedere l'atteggiamento di chiusura rigida assunto nei confronti di qualsiasi trattativa. In un editoriale si fa notare che sebbene il caso Moro presenti parecchie analogie con il caso Schleyer, le situazioni interne per la gestione del caso sono diverse nei due paesi. «Una strategia efficace in Germania può rivelarsi inutile o dannosa in Italia, In Germania al silenzio del governo corrisponde in perfetta sincronia il silenzio della stampa. Ma tale comportamento in Italia non sarebbe possibile in quanto implica una totale autocensura» Come mai? Perché il silenzio presuppone un rapporto di fiducia tra Stato e cittadini: rapporto che in Italia non esiste.
Nel pomeriggio giunge il "comunicato n. 5" delle Brigate rosse, ma solo all'indomani sarà reso noto dalla stampa. Scalfari, in un corsivo, annuncia che il governo e la Dc sarebbero orientati verso la possibilità di indicare una persona che possa entrare in contatto con le Br a loro volta alla ricerca del riconoscimento di uno status. La Dc non vorrebbe compromettere se stessa, né lo Stato, né la famiglia Moro. Tutto ciò si rivelerà fervida fantasia. Più realistico l'articolo di De Luca che indica Fanfani e Zaccagnini candidati alla presidenza della Repubblica e titola: «Grandi manovre nella Dc, si prepara una nuova troika». C'è il problema del Quirinale. Moro è sempre in mano delle Br. Lo stato maggiore del Pci discute in gran segreto ma come sempre: «Solo una richiesta al governo: fermezza». Rodolfo Brancoli arriva a New York per conoscere gli studi che in America vengono fatti da diversi psichiatri sul caso Moro. Si tratta di specialisti nell'analisi del comportamento dell'individuo tenuto in prigionia e sottoposto a fortissima pressione psicologica per obiettivi politici. La conclusione unanime, che non desta d'altronde meraviglia, è che, anche senza abusi fisici, con il tipo di pressione adeguato e il tempo necessario, qualsiasi uomo può essere indotto a dire, fare e scrivere qualsiasi cosa. Insomma, Moro che chiede di essere salvato è in preda ad uno stato psichico ai confini del patologico.
11 aprile. Spiegato il mistero della lettera privata alla famiglia. La polizia controllando il telefono del collaboratore di Moro, Rana, ha intercettato una telefonata in cui le Br annunciavano la lettera ai familiari nei giorni precedenti. Arriva il quinto comunicato delle Brigate Rosse in cui i rapitori di Moro annunciano che il processo continua e che non esiste nessuna trattativa segreta, e «nulla verrà nascosto al popolo». Nel messaggio vi sono dei primi accenni ai risultati del processo con accuse nei confronti di Taviani. Allegata al volantino viene resa pubblica una lettera di Moro in cui il rapito ricorda al collega di partito come abbia smentito le sue dichiarazioni, confermate invece da Gui, sulla sua disponibilità ad adottare una linea flessibile durante il sequestro Sossi. Le accuse a Taviani continuano precisando qual è il suo ruolo all'interno del partito. Taviani, interpellato, precisa che non intende polemizzare con le Br (dimenticandosi che la lettera è di Moro, non delle Br). Tutti i giornali riportano la lettera precisando e dando rilievo che gli amici dichiarano che questo è un Moro irriconoscibile e i giornali sottolineano che dopo tre settimane di cattività Moro chissà sotto quali condìzioni di tortura fisica e psichica è costretto a scrivere ciò che vogliono i suoi carcerieri.
Sui problemi della sicurezza vengono decise riunioni settimanali dei ministri europei. Torino: in serata un ginecologo viene ferito a revolverate nel suo studio. L'attentato è rivendicato dalle "Squadre proletarie di combattimento". Il Popolo scrive che le Br insistono nell'insensata provocazione allo Stato e costringono un benemerito della Democrazia repubblicana a una prova fisica morale e psicologicamente insopportabile. I giornali riportano che il tragico dilemma sulla trattativa ha creato un contrasto tra la famiglia e il partito. Si apre un dibattito all'interno del gruppo "Febbraio '74" di cui il figlio di Moro è stato fondatore. Dopo il vertice dei ministri dell'Interno, a cui ha partecipato Cossiga, a Zurigo presto un nuovo vertice con Francia, Germania, Austria e Svizzera. Montanelli in un editoriale afferma che sarebbe estremamente grave se il caso Moro diventasse un caso di famiglia.
12 aprile. In un agguato, è ucciso a Torino un agente carcerario. Viene ferito e catturato uno degli attentatori che dichiara: «Sono un prigioniero politico». I dirigenti della Dc sostengono che i pericoli maggiori oggi sono essenzialmente tre: una frattura nel loro partito, una difficoltà del Partito comunista e una polemica sul caso Moro visto sotto il profilo umano che spacchi l'opinione pubblica in falchi e colombe. Berlino: al processo ai rapitori di Peter Lorenz, appartenenti al gruppo «2 Giugno», gli imputati inneggiano alle Brigate Rosse e dichiarano che il vero processo si svolge in Italia e non a Berlino. Su La Repubblica Antonio Gambino, dopo aver verificato che il fronte delle trattative aumenta di giorno in giorno, sostiene («Perché non si può trattare con le Br») che un negoziato può essere aperto solo se si ammette chiaramente di essere in una situazione di guerra civile e comportarsi di conseguenza, ma se questo vuol essere evitato va da sé che debbano essere evitate le trattative.
Il Popolo, dopo aver precisato di essere tra i più strenui sostenitori della libertà di stampa, critica alcuni giornali che hanno riportato il volantino e la "pseudodeposizione" di Moro senza chiose e commenti che richiamassero la virulenza antidemocratica dei testi. Secondo L'Unità, la terza via, teorizzata da alcuni intellettuali di fronte al fenomeno del terrorismo non è altro che un'illusione. Si disgrega in questa situazione «una controcultura che, col pretesto di tutelare l'autonomia dell'intellelluale si sottrae alla necessità di difendere la democrazia». Dichiarazioni del comunista Pecchioli sulla vicenda Moro: «C'è anche il rischio che le Brigate Rosse ottengano una sorta di status politico da parte dell'opinione pubblica, che i terroristi riescano a darsi un'immagine sul tipo della Olp dei palestinesi. Per questo il Pci continua a ripetere alla Dc che non deve trattare con le Br. Chi vuoi trattare è o l'estrema destra o Lotta Continua».
13 aprile. Le Br rivendicano l'uccisione della guardia carceraria a Torino. Il brigatista arrestato si chiama Cristoforo Piancone, ex operaio Fiat iscritto al Pci e al sindacato. Il P.G. Pascalino avoca l'inchiesta sul rapimento Moro. La Repubblica annuncia a tutta pagina che il sindacato scende in campo contro le Br. Viene anche annunciato che le prossime piattaforme «non potranno che avere un contenuto salariale obiettivamente ristretto». La Gazzetta del mezzogiorno pubblicherà l'indomani un appello proveniente da Bari affinché si tratti per salvare la vita di Aldo Moro. Galloni dichiara la sua adesione convinta alla linea del rifiuto del ricatto. La Malfa scrive: «La ragione di Stato vuole che noi riusciamo a liberare attraverso le forze dello Stato l'onorevole Moro. Il senso dello Stato vuole che non si ceda in nessun modo e in qualunque circostanza al ricatto delle Br». In una dichiarazione a Paese Sera Cossiga polemizza con chi critica le nuove leggi. Luigi Pedrazzi sul Popolo scrive: «L'unità della Dc al servizio del Paese». Sempre su Il Messaggero Giuseppe Branca affronta per la seconda volta l'argomento «Ancora su una vita da salvarci».
14 aprile. Il Corriere della sera, nell'editoriale di Gianfranco Piazzesi: «Il crollo di un sistema, lo sfascio di una nazione, non sono mai dovuti alla violenza dei partiti armati, bensì agli errori e alle insipienze di quelli disarmati». E ancora: «Senza la tutela di Moro, Zaccagnini e i suoi diretti collaboratori difficilmente potranno guidare da soli una forza politica composita come la Dc: due partiti dalle tradizioni e dalle finalità così diverse, come sono appunto la Dc e il Pci possono impostare rapporti realistici solo se si accordano su un programma minimo e se stabiliscono un modus vivendi dai limiti ben precisi. Anche una tregua fra Dc e Pci, oggi indispensabile, non può essere considerata una soluzione duratura. In quanto tale tregua conduce o alla ripresa delle ostilità o a rapporti meno occasionali e improvvisati tra le parti contraenti». La Dc conferma la chiusura ai terroristi, che vuoi dire rifiuto della trattativa per la liberazione di Moro.
Il sociologo Acquaviva analizza le origini storiche del partito armato e si chiede in che modo il '68 è diventato il '78. II magistrato Pomarici propone l'uso del siero della verità, poiché l'azione illecita che verrebbe commessa dai rappresentanti della legge sarebbe giustificala dallo stato di necessità. Qualcuno lo prende sul serio. Scalfari, su La Repubblica intitola un editoriale «Colombe che sono falchi». Si accorge che sta prendendo corpo il partito della trattativa. Tra i trattativisti elenca, allarmato, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, settori creativi del Movimento Studentesco, Luigi Pintor che viene definito un anarchico-individualista e sentenzia che «una parte delle nostre colombe è formata infatti da anarchici individualisti. Cent'anni fa, per distruggere lo Stato, gli anarchici individualisti attentavano alla vita di qualche monarca; adesso, sempre per distruggere lo Stato, sostengono che la vita umana va difesa a qualsiasi prezzo, il mutamento è notevole, ed anche apprezzabile, ma l'obiettivo rimane il medesimo».
15 aprile. Cristoforo Piancone dichiara di far parte delle Br. Il segretario del leader DC, Rana, è convocato in Procura. Gli inquirenti si recano nello studio di Moro. Si riaffaccia l'ipotesi di contatti segreti tra Br e famiglia. Nel Veneto vengono eseguiti undici attentati. Presi di mira anche un giudice e un vicequestore. Alla guardia carceraria Cotugno uccisa a Torino viene assegnata la medaglia d'oro alla memoria. A vuoto ogni ricerca della "prigione del popolo". I socialisti al Senato nella dichiarazione di voto chiedono che i nuovi provvedimenti per l'ordine pubblico siano limitali nel tempo.
16 aprile. Arriva il comunicato numero 6 delle Br. L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato: non ci sono dubbi, Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte. Riunione del comitato di emergenza della Dc. Sul Popolo si dichiara: «Fare tutto ciò che è possibile per salvare la vita del nostro presidente, nell'ambito dei nostri doveri indicati dalla direzione del nostro partito». Le Br rivendicano con un volantino l'uccisione della guardia carceraria a Torino.
17 aprile. La Dc lancia un appello per la salvezza di Moro. Il vicesegretario Galloni precisa il senso dell'iniziativa: quando gli viene rivolta la domanda «concretamente in che modo?» risponde «Sono problemi che non può risolvere la Dc da sola. Ecco il senso dell'appello». La Dc, viene precisato, lancia un appello umanitario ma non direttamente alle Br «perché ciò comporterebbe l'apertura formale di trattative». Lo scopo è sollecitare un intervento esterno al partito, al governo e allo Stato. Il PCI ribadisce la sua intransigenza, anzi dall'ultimo comunicato trae nuove conferme a resistere con estrema fermezza. Solidali con la Dc anche tutti i partiti minori e i sindacati. Viene data notizia dell'incontro tra Craxi e la signora Moro: portandole la solidarietà dei socialisti Craxi le ricorda che considera «dovere fondamentale dello Stato la liberazione di Aldo Moro». Il Vaticano è disponibile a passi umanitari per la liberazione di Moro. In un articolo di Ruggero Orfei su La Repubblica viene attaccato il partito delle trattative e il giornale Il Giorno che si è fatto portavoce di molte "colombe cattoliche".
18 aprile. Leo Valiani, dalle colonne de Il Corriere della sera, fa sapere che i provvedimenti che di recente sono stati decretati ampliando i poteri alla polizia sono ancora troppo blandi. È suo convincimento che si debba rafforzarli ulteriormente. Moro, prigioniero delle Br, dopo la sua condanna a morte aspetta che due organizzazioni internazionali possano intervenire. Una è la Caritas, l'altra è Amnesty International. Kurt Waldheim, segretario dell'Onu, rivolge un appello ai "membri" delle Br. Jimmy Carter, presidente degli Usa, manda un messaggio alla famiglia Moro. Il Pci con la relazione di Bufalini al comitato centrale chiede più energia sull'ordine pubblico, e precisa: «Non dimentichiamoci che non siamo più all'opposizione». Sempre in prima pagina de Il Corriere della sera: «Moro è vivo si può ancora trattare». Giannino Guiso, il legale che ebbe un ruolo importante nella soluzione del caso Sossi: "L'esecuzione non può essere già avvenuta, Moro va salvato, le cose che ha scritto vanno prese sul serio». Inizia la battaglia di Guiso per la salvezza di Aldo Moro con qualche precisazione: «Moro va salvato: per salvare la sua vita sono pronto a mettere a repentaglio la mia, ma non muoverei un dito per salvare la Democrazia Cristiana. Di fronte alla Dc ripeto le parole di Sciascia: "Non farò niente per evitare che si suicidi"».
Il Psi: «Lo Stato deve rimanere estraneo, non indifferente». Raniero La Valle, su Paese Sera rilancia con un suo articolo la necessità della trattativa: "Non si tratta di separare e di mettere tra parentesi la politica, ma di scegliere le politiche giuste». Su La Repubblica, Scalfari invece insiste: «Un prezzo che lo Stato non deve pagare», dice. Mentre Giorgio Bocca, ricordando l'abitudine degli italiani di convivere da secoli con catastrofi naturali e politiche, afferma che: «Non è colpa nostra, di noi manipolatori di professione, se il comunicato n. 6 delle Br, con quel suo modo di fare la storia e l'analisi della Dc nel dopoguerra dice, su per giù, quello che la sinistra storica ha detto per decenni. La storia non è una linea retta e non è neppure una maestra».
19 aprile. Un messaggio, che in seguito sarà clamorosamente smentito, annuncia che Aldo Moro è stato ucciso. Il testo dice: «Il processo ad Aldo Moro. Oggi 1º aprile 1978 si conclude il periodo dittatoriale della Dc che per ben 30 anni ha tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data comunichiamo l'avvenuta esecuzione del presidente della Dc Aldo Moro mediante "suicidio". Consentiamo il recupero della salma, fornendo l'esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del lago della Duchessa, altezza 1.800 m. circa, località Carlore in provincia di Rieti confinante tra Abruzzo e Lazio. È soltanto l'inizio di una lunga serie di suicidi. Il suicidio non deve essere soltanto una prerogativa del gruppo Baader-Meinhof. Inizino a tremare per le loro malefatte i vari Cossiga, Andreotti, Taviani e tutti coloro i quali sostengono il regime. P.S. Rammentiamo ai vari Sossi, Barbaro, Corsi ecc. che sono sempre posti in libertà vigilata. Comunicato n. 7 18-4-1978. Per il comunismo Brigate Rosse».
Vengono mobilitate in tutto il paese le sezioni della Dc. Sospeso il comitato centrale del PCI, Berlinguer si reca in piazza del Gesù. Si apprenderà in seguito che sia la Dc che il Pci avevano già pronti i manifesti di commemorazione e si attendeva solo il ritrovamento del cadavere per dare il via alle cerimonie funebri. Scoperto a Roma per una perdita nelle tubature dell'acqua un covo delle Brigate Rosse in via Gradoli. La Malfa esce piangendo dalla sede della Dc ed afferma: «È un giorno tragico per il Paese». I giornali pubblicano le fotografie di sei persone a cui erano stati sottratti i documenti poi ritrovati in via Gradoli.
20 aprile. I titoli dei quotidiani riportano a tutta pagina la cronaca delle affannose ricerche del corpo di Aldo Moro nel lago della Duchessa. Elicotteri, centinaia di uomini, cani poliziotto, sommozzatori cercano sotto uno spesso strato di ghiaccio formatosi da mesi, il corpo di Aldo Moro. Sulla prima pagina de Il Corriere della sera, gli avvocati delle Br sostengono la falsità del documento n. 7. Per esempio Guiso: «Chi ha dato credito a quel documento ha fatto perdere un giorno prezioso. Vi sono possibilità di trattare». E alla domanda: ma chi potrebbe essere il mediatore per un caso tanto delicato? Risponde: «Ho già detto l'altro ieri che se si vuole aprire una trattativa su basi politiche e reali, è necessario dialettizzarsi con Moro. Mediatore potrebbe essere lo stesso presidente democristiano». Nasce così la tesi che Moro va rivalutato, che Moro deve essere intermediario di sé stesso. I suoi scritti indicano la strada della salvezza. Sta alla Dc ed al governo accogliere o lasciare cadere le invocazioni di Moro.
I partiti sul "falso" comunicato n. 7 affermano che le caratteristiche sono analoghe a quelle dei precedenti comunicati «in ogni caso però, secondo gii esperti grafici, la certezza matematica che il comunicato n. 7 delle Br sia autentico non si potrà mai avere». Zaccagnini ha parlato di «speranza cristiana che in questa terribile prova ci unisce a Moro e alla sua famiglia». In extremis per salvargli la vita viene lanciato un appello da Lotta Continua e sollecitato da «Febbraio '74», sottoscritto da Davide M. Turoldo, Gianni Baget Bozzo, Italo Mancini, Raniero La Valle, Heinrich Böll e altri. Turoldo dichiara: «Uno Stato che non vuol difendere Moro, difende molto meno me. E allora non so che farmene di uno Stato simile».
«È morto o è vivo?» si chiede La Repubblica che nell'editoriale titola: «Il pericolo di cedere» e prospetta ancora ipotesi che presuppongono autentico il comunicato che annunciava il "suicidio" di Moro, gettato nel lago della Duchessa. Per Washington, Moro «politicamente è ormai morto». Cossiga conferma al Senato: «Molti dubbi sul messaggio (...) C'è una larga improbabilità della fondatezza dell'indicazione data dalle Br: la presenza del corpo di Moro nel lago della Duchessa». Nessuno chiede a Cossiga come mai esprima giudizi di validità su un comunicato palesemente falso, rozzamente formato, privo di contenuto politico e delle caratteristiche della produzione brigatista. Cgil, Cisl e Uil sospendono tutti gli scioperi e le agitazioni. I sindacati sono riuniti in permanenza. La Malfa teme un altro 16 marzo, Pajetta teme una svolta autoritaria.
21 aprile. Arriva il vero "comunicato n. 7", accompagnato da una foto del presidente della Dc con un giornale del giorno precedente che certifica che Moro è vivo. Il volantino, dopo aver affermato che il falso volantino del lago della Duchessa è una provocazione organizzata da Andreotti, dà 48 ore di tempo alla Dc per rispondere ad un ultimatum in cui si dichiari disponibile a trattare la liberazione di detenuti politici non specificati. Nel riferire il testo del messaggio, Sandro Viola su La Repubblica afferma che le Brigate Rosse, dopo aver aperto un varco con le lettere di Moro ora che hanno visto «crescere e farsi baldanzoso il partito delle trattative» hanno sferrato il colpo che tenevano di riserva. Non è da meno il direttore Scalfari che in un editoriale dal titolo «Sacrificare un uomo o perdere lo Stato» conclude: «La decisione da prendere è infatti terribile perché si tratta di sacrificare la vita di un uomo o di perdere la Repubblica; purtroppo per i democratici la scelta non consente dubbi». Sarà citata da Craxi come esempio di inutile cinismo nella Tribuna elettorale del 10 maggio.
In serata Zaccagnini riceve un'altra lettera di Moro. Le Brigate Rosse uccidono a Milano un maresciallo di San Vittore: Lama si dichiara contro ogni trattativa, ma il sindacato è diviso. Giovanni, Bentivoglio e Didò si schierano per le trattative. Scalfari in altri due pezzi affannosi precisa che «iniziative avventurose sono state prese» sia dalla Cei, che ha invitato la Dc a scostarsi dalla linea di immobilità, e si muove per cercare di mettere in crisi l'iniziativa di Craxi, favorevole ad esplorare possibili vie che portino alla liberazione di Moro.
Trombadori, scontrandosi con Mimmo Pinto alla Camera, alla notìzia che Moro è vivo afferma: «Vivo o morto. Moro è morto perché deve vivere la Repubblica». Craxi si schiera per la trattativa: lo scambio dei prigionieri è tecnicamente impossibile. Ma possono esserci altre vie d'uscita e quelle vie bisogna esplorarle. Dichiara: «Sono andato a troppi funerali, e non voglio andare ad un altro». Terracini e Lombardo Radice, che avevano firmato l'appello per le trattative apparso su Lotta Continua, vengono "processati" dal Pci, Lombardo Radice scrive una smentita pubblica del suo operato su L'Unità.
22 aprile. «Passa nel Psi la via della trattativa», scrive Pansa su La Repubblica, contestando a Craxi di ricalcare in modo troppo meccanico la tesi dell'avvocato di Curcio, Guiso («Moro deve farsi mediatore fra le Br e lo Stato»). Claudio Signorile dice che il Psi è messo sotto accusa da tutta la stampa italiana e la spiegazione della scelta del partito arriva puntuale in un documento unitario, L'Unità invece insiste sull'intransigenza e accusa «il partito della trattativa» di utilizzare le ore drammatiche dell'odiosa minaccia alla vita di Moro per giocare una partita terribile sulla pelle della nostra Repubblica. Secondo L'Unità, nel partito della trattativa emergono tre componenti. La prima è rappresentata da coloro che puntano alla destabilizzazione: sono finti umanitari, Lotta continua, gli aperti eversori. La seconda componente raccoglie forze che obbediscono a calcoli di parte, che vogliono isolare il Pci presentandolo all'opinione pubblica come malato di statolatria. La restante componente è quella dei familiari e degli amici di Aldo Moro. L'editoriale finisce con una domanda. «Diteci: chi vuole uccidere fisicamente e moralmente Aldo Moro?».
Baget Bozzo, su La Repubblica, sostiene che la Dc ha tre problemi il primo è il tipo di rapporti da instaurare con il Pci: il secondo problema che ha la Dc è il suo rapporto con la chiesa: il terzo è quello della composizione della sua classe politica. Achilli, del Psi lamenta: «Troppi poteri alla polizia», e motiva le sue perplessità. Leo Valiani, credendo che il fenomeno Br si esaurisca lasciando Moro in balia dei brigatisti afferma che se si dovesse cedere «poi saremmo condannati a un ricatto senza fine». Il Corriere pubblica in prima pagina questa ingenua affermazione. L'Unità si preoccupa di fare una biografia dell'avvocato di Curcio e dedicandogli enorme spazio in quinta pagina spiega «Chi è Giannino Guiso, il legale di cui si parla, e che ha anticipato il contenuto dei messaggi».
Quando l'avvocato intuisce le mosse dei brigatisti, sostiene il quotidiano del Pci, deve essere chiamato indovino, e quando suggerisce che Moro, lucido e presente a se stesso può essere il mediatore tra il suo partito e i brigatisti, è perfido! Non si trova sui giornali una dichiarazione di Guiso che prenda in considerazione il complimento. Secondo il Giornale, ostacoli insormontabili chiudono ogni possibilità di trattative con le Br. La legge non lascia alcuna scappatoia, L'Avvenire garantisce che «si esplora ogni via praticabile per salvare la vita di Moro». Dalle pagine dell'Avanti! la direzione del Psi sollecita la responsabilità di tutte le Forze democratìche e l'impegno di difendere lo Stato e salvare la vita di Moro.
23 aprile La Dc ha indicato nella Caritas internazionale l'organizzazione umanitaria che può fare dei passi per Moro, ribadendo però di non essere disposta a nessuna trattativa. Applausi dai banchi repubblicani. Sul loro quotidiano, trasformato in un bollettino di guerra, proclamano: «Il limite invalicabile». «La Democrazia cristiana - annunciano trionfanti - ha trasferito sul terreno privato e umanitario ogni iniziativa». Il Papa scrive una lettera alle Brigate Rosse pregandole «in ginocchio» di rilasciare Moro senza condizioni. Plauso di Scalfari, che sottolinea: «Dio perdona ma Cesare castiga».
«Il Papa si è mosso con molta sapienza politica e diplomatica, dove chiede la liberazione del prigioniero senza condizioni e laddove accenna alla impossibilità per lui di mettersi in comunicazione coi rapitori di Moro, che è un modo non equivoco di sollecitare una comunicazione diretta». «In questura bisbigliano il nome del Psi a proposito delle indagini», informa Lotta Continua. Il segretario generale dell'Onu si rivolge ai rapitori chiedendo di salvare la vita di Aldo Moro. Berlinguer in un intervento al convegno della Fgci riconferma più che mai la strada della fermezza e della collaborazione di ogni cittadino per combattere il terrorismo.
24 aprile. Francesco Alberoni si chiede su Il Corriere della sera «Che cosa vogliono». Se dovessero uccidere Aldo Moro, rapirebbero subito qualcun altro con cui ricominciare il gioco. Curcio in assise a Torino, nell'udienza tragica del 10 maggio confermerà questa profezia: "Non crediate che sia finita!", griderà. Si fanno ipotesi. L'ultimatum è scaduto. La Dc insiste sull'intransigenza e sull'immobilismo»: «Non si tratta!». Però si vivono «ore di ansia nella sede Dc di piazza del Gesù» mentre Berlinguer afferma che «cedendo al ricatto si arriverebbe alla guerra civile». Una volta rotto il principio—si dice—come potrebbe lo Stato respingere altri dieci, cento ricatti di terroristi che sequestrassero un qualsiasi cittadino? Berlinguer elogia la Dc per la sua fermezza.
Moro, intanto, nella "prigione del popolo" vede esaurirsi le ultime speranze. Le sue invocazioni di aiuto sono sostenute solo dai socialisti. In Moro subentra forse a questo punto la cristiana rassegnazione. Alla Caritas attendono una telefonata dalle Br. Waldheim fa sapere che verrebbe in Italia per salvare Moro. Il Giorno rilancia la tesi della psichiatrizzazione di Moro sostenendo che la lettera a Zaccagnini è «di pugno di Moro ma sicuramente non della mente di Moro», la tesi acuta e sottile viene sostenuta da Giovanni Ferrara. Bettino Craxi rilascia all'Avanti! una dichiarazione ove tra l'altro afferma che «la Dc ha assunto un'iniziativa che appoggiamo e che appoggeremo nei suoi sviluppi se questi saranno resi possibili. Non possiamo rassegnarci all'idea che nell'alternativa tra umanità e barbarie, debba essere quest'ultima, ancora una volta, a prevalere». La Dc non assumerà però alcuna iniziativa.
25 aprile. L'anniversario della Liberazione riserva la sorpresa del "comunicato n. 8" che chiede la scarcerazione di tredici detenuti politici in cambio della vita di Aldo Moro. La lista inizia con il nome di Sante Notarnicola, uno dei primi componenti di nuclei di lotta armata e si conclude con Cristoforo Piancone, accusato dell'omicidio dell'agente di custodia Cotugno, in Torino. Le reazioni della stampa sono decise. Una nuova lettera di Moro arriva a Zaccagnini. Secondo Il Corriere della sera Moro è un condannato a morte che pare scrivere sotto dettatura. Eppure la lettera è lucidissima, e lo stile sembra appartenergli.
La lettera è anche il suo testamento spirituale e politico, perché chiede che ai suoi funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. La famiglia farà rispettare questa deposizione testamentaria restituendo ad Aldo Moro quella dignità di cui i suoi "amici" Io avevano privato. Nonostante il comunicato, il difensore di Renato Curcio indica i punti che consentono una soluzione ragionevole, ove la Dc affronti il problema della liberazione. Ma le lunghe angosciose ore in piazza del Gesù, si concludono con un "doloroso rifiuto" della Democrazia Cristiana. Galloni dice: «L'ipotesi indicata era stata già prospettata e respinta». Le decisioni sono prese ma resta da attendere.
26 aprile. Il Giorno pubblica una lettera a Moro dei suoi figli: «Caro papà, sentiamo il bisogno dopo tanti giorni, di farti giungere con queste poche righe, un segno del nostro affetto...». Appello dell'ONU alle Brigate Rosse. La Repubblica, i repubblicani e i comunisti criticano l'appello, sostenendo che vi è un riconoscimento politico dei brigatisti e che Waldheim ha trattato il problema come se fosse "un problema tra Somalia e Etiopia". Cinquanta personalità del mondo cattolico firmano un appello in cui affermano che le lettere «non sono parole di Moro». Craxi propone un'iniziativa autonoma dello Stato italiano. L'Unità mette in rilievo come il segretario del Psi, nonostante tutto, parli ancora di negoziati escludendo soltanto l'ipotesi dello scambio dei prigionieri. L'appello delle personalità cattoliche che smentiscono le lettere viene portato in prima pagina con grande rilievo da L'Unità.
27 aprile. Craxi incontra Zaccagnini: si parla di una proposta di grazia per tre terroristi non colpevoli di delitti gravi. Piccoli dichiara che la Dc non muta comunque posizione. Le Br sparano al democristiano Mechelli, ex presidente della regione Lazio. Piazzesi in una lettera aperta al suo giornale—che lo ha emarginato in quanto favorevole alla linea del Psi—si schiera apertamente per le trattative, sostenendo di non condividere le posizioni del Pci e del Pri. L'Avanti!, rispondendo a La Malfa, afferma che sono insinuazioni fuori luogo quelle per cui il Psi vorrebbe incrinare la maggioranza parlamentare. Viene anche precisato che se questo è avvenuto o è stato minacciato non è stato fatto dal partito socialista ma da qualcun altro. Esplodono sulla stampa i casi Craxi e Waldheim. Uno criticato per il suo continuare a cercare tutte le possibili soluzioni del caso e l'altro accusato di aver dato troppo valore politico alle Br con il suo appello.
Tra Fanfani e i familiari di Moro, 20 minuti di colloquio. Pecchioli, Mammì e Romita respingono immediatamente la proposta di Craxi. Quanto a Scalfari, indignato, afferma che Waldheim ci ha scambiati per il Libano. La Repubblica si allarma che Craxi proponga la grazia per tre terroristi ma afferma che la Dc rifiuta ogni cedimento. In un'intervista, il vicesegretario del Psi, Signorile, precisa la posizione del suo partito: «Perché non tentare? È sempre meglio che restare immobili ad aspettare la notizia di un assassinio».
28 aprile. Aniello Coppola su Paese Sera critica la posizione possibilista del Psi, che chiede alla Dc e al governo di esplorare tutte le vie percorribili, nel rispetto della legge e della Costituzione. Conclude che se lo Stato desse il segnale che il delitto paga, sarebbe davvero il principio della fine. Il Corriere della sera raccoglie una frase dì Bettino Craxi: «La battaglia per salvare Moro è solo all'inizio». Il Psi insiste sulla via umanitaria, mentre gli altri partiti sono per la linea dura. Zaccagnini dà a Craxi significativi incoraggiamenti, tuttavia non fa nulla di concreto per smuovere le acque. Il Pci, che aveva detto che se si fosse ceduto si sarebbe dato l'avvio ad una serie indeterminata di delitti, adesso comincia a preoccuparsi su cosa potrebbe succedere se l'iniziativa di Craxi iniziasse a farsi largo nella Dc.
Il Vaticano però è ora contrario alle trattative Dc-brigatisti (Il Corriere della sera), mentre la Dc dice di essere in «ansiosa attesa di un segnale delle Brigate Rosse sulla sorte del presidente Dc». Martellante, continua la campagna per affermare che Aldo Moro "NON È LUI". Franco Fortini sul Manifesto denuncia in un bell'intervento il preciso interesse politico che si nasconde dietro questa scelta. «Noi vogliamo che Aldo Moro viva. Lo vogliamo non solo perché non si debbono distruggere né le persone né soprattutto le memorie e tutti devono vivere e sapere, cioè sapere per vivere diversamente; ma anche per un preciso interesse politico, e cioè perché la sua sopravvivenza disarmi il partito degli eroici furori, i difensori di uno Stato che sarebbe solo forte per la debolezza dei più, i virtuosi della intimidazione e della demagogia».
29 aprile. In un annuncio televisivo indirizzato al Paese, Andreotti sancisce chiaramente il rifiuto del governo a trattare con le Br. «Non esistono falchi e colombe nella maggioranza. Abbiamo giurato di rispettare e di far rispettare la legge, questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare». Plauso de L'Unità. «Sulla fermezza del governo non può esserci discussione». Scalfari va all'affondo. Col titolo "Colombe blindate" definisce la proposta di Craxi «un topolino partorito da una montagna di chiacchiere». Incapace di affrontare la questione nei termini reali (il raggiungimento del massimo scopo—la salvezza di Moro—col minimo prezzo). Scalfari si invischia in un contorto ragionamento politico il cui nocciolo è questo: chi cerca di salvare Moro è un reazionario. Queste argomentazioni non sopravviveranno due giorni, ma segnano probabilmente il limite più basso raggiunto dalla polemica dei "falchi" nei due mesi dell'affare Moro.
30 aprile. Sesto messaggio del presidente rapito scritto nella costrizione del carcere del popolo. Dc e governo fermi nel NO a ogni trattativa dopo la drammatica lettera di Moro. «Guai, caro Craxi, se la tua iniziativa fallisse», scrive il presidente Dc esortando il segretario socialista che non ha abbandonato la ricerca di una soluzione per liberarlo. Perché un democristiano si affida ad un socialista e non ad un "amico" del suo autorevole partito? Alcuni accusano la Dc di dimenticarsi del suo presidente che muore: lo spirito cristiano del partito di Zaccagnini si polverizza di fronte agli appelli di un uomo e di uno statista. L'immobilismo degli altri partiti finirà per condannare Moro. Scalfari prosegue: «Le lettere di Moro dal carcere possono avere molti fini e prestarsi a molti usi. Annunzia con cinismo che è nato il "partito della famiglia", coi suoi leader politici, i suoi plenipotenziari, i suoi organi di stampa, la sua rappresentanza parlamentare che comprende perfino Marco Pannella. Moro guida da lontano. Lo scollamento a questo punto è completo. Il solo aspetto positivo è che, finché lo scollamento aumenta, la vita di Moro è certamente al sicuro».
1º maggio. Il Corriere della sera titola a piena pagina: «Pressante e duro appello della famiglia Moro alla Dc dopo l'arrivo di sette lettere del prigioniero delle Br». Nel comunicato la famiglia usa parole durissime contro la Dc: «Sappia la delegazione democristiana che il comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa ratifica la condanna a morte». I messaggi alla Dc sono stati recapitati a Leone, Fanfani, Ingrao, Andreotti, Piccoli, Misasi e Craxi. Forse anche a Galloni e a Berlinguer. Solo Craxi renderà pubblico lo scritto a lui inviato dal presidente della Dc. A proposito delle celebrazioni per il Primo maggio, Ugo Indrio su Il Corriere della sera commenta: «Il movimento dei lavoratori è tutt'altro che compatto, sebbene tale sia apparso nella grande adunata a piazza San Giovanni il 16 marzo, poche ore dopo la strage di via Fani e il rapimento dì Moro».
Claudio Martelli, dirigente del Psi, scrive su Il Corriere della sera a favore dell'autenticità delle lettere di Moro. Afferma tra l'altro: «Sin dall'inizio, una sorta di disposizione all'incredulità ha accompagnato la disposizione all'intransigenza esibita da molte parti, giornalistiche e politiche. L'incredulità riguardo alle lettere di Moro è andata crescendo sino a tramutarsi in ostilità, in rapporto al carattere viepiù angosciato dì ciò che scrive il presidente della Dc e al crescere delle critiche nel confronti delle forze politiche maggiori segnatamente rivolte al ristretto gruppo dirigente della Dc che ha seguito l'evolversi del caso. Non doversi prendere in seria considerazione le lettere di Moro è stata la consegna del Pci. Costoro sembrano più preoccupati della "memoria" di Moro che non della sua vita e si disputano l'ìnterpretazione di uno stile e di una vita che non è ancora perduta». Afferma ancora Martelli: «Perché non leggere le lettere di Moro come quelle di un prigioniero lucido anche se disperato anche perché ormai da 45 giorni si sente abbandonato?».
Nella stessa pagina Giuseppe Ferrari, ordinario di diritto pubblico alla Facoltà di giurisprudenza di Roma afferma, a proposito della presunta proposta avanzata da Moro di proporre l'adozione del provvedimento dell'esilio per coloro che sono detenuti nelle carceri italiane per motivi politici: «Nessuno poteva avere tanta immaginazione da immaginare che un giorno un gruppo di assassini fanatizzati avrebbe potuto ridurre in schiavitù uno degli uomini più eminenti della politica internazionale, soggiogandolo sino a dare l'impressione che abbia smarrito la propria identità». Sempre sulle lettere di Moro, Il Corriere mette in evidenza che «La Dc è nella tempesta. Le nuove lettere dì Moro, i suoi appelli sempre più disperati, gli ultimatum delle Brigate Rosse. Ma soprattutto il conflitto con la famiglia Moro esploso con effetti forse irrimediabili e una situazione interna che dietro l'unanimità di vertice lascia trasparire molto nervosismo», Zaccagnini ha già scelto che sarà la direzione a prendere le decisioni finali. La nuova ondata di lettere di Moro ha portato anche gli altri partiti ad esprimersi nuovamente.
Craxi afferma: «Noi respingiamo le assurde richieste dei terroristi, ma anche la linea del rifiuto pregiudiziale ad esplorare altre vie, così come hanno fatto altri Stati democratici. Non si salva la Repubblica lasciando uccidere Moro». L'Unità in un corsivo afferma che «una cosa sola sia certa: ciò che esce dalla prigione è ciò che pensano e vogliono i suoi carcerieri». Su posizioni vicine ai comunisti sono i repubblicani. Nel Psdi, Saragat è pienamente favorevole alla linea di Craxi, Preti contrario, Romita sta in mezzo. I liberali giudicano «del tutto sconcertante l'atteggiamento di Craxi e di chi, con lui, accredita, se pur involontariamente, la linea del ricatto permanente delle Brigate Rosse». Pannella sollecita un dibattito in Parlamento sul caso Moro.
3 maggio. La Repubblica titola «Battaglia sul piano Craxi. Andreotti e Berlinguer ribadiscono la fermezza. La Dc incerta si rimette al Governo». Viene dato l'annuncio che la Democrazia Cristiana dopo l'incontro della sera precedente con la delegazione socialista ha deciso di rimettersi al governo. Le cronache dei giornali mettono in evidenza che la delegazione socialista ha cercato di riversare la responsabilità dell'iniziativa sulle spalle di Zaccagnini, cioè di chiedere un provvedimento di clemenza e, afferma La Repubblica, «Craxi se ne dice sicuro, ciò permetterebbe la liberazione di Moro». Viene anche riferito che nella giornata precedente Craxi ha incontrato sia Berlinguer che Andreotti. Sia Berlinguer che Andreotti hanno rifiutato la proposta di Craxi, cosa che porta il leader socialista a far pressione sulla Democrazia cristiana. Questo si deduce dalla cronaca della giornata redatta da La Repubblica che titola anche «Col Pci gelido incontro». Sui risultati di quest'ultimo, Perna che accompagnava Berlinguer, dichiara che il Pci non rifiuta «di appoggiare qualunque tentativo umanitario che sia rispettoso della sovranità dello Stato e dei princìpi del regime democratico e delle leggi. Non ci rifiutiamo di appoggiare tentativi umanitari a queste tre condizioni molto precise».
Il Corriere della sera ha per la prima volta un atteggiamento possibilista. Titola infatti in prima pagina; «Si prospetta la liberazione di qualche brigatista non colpevole di omicidi. Ora Craxi punta ad un atto di clemenza. Più flessibìle la posizione della Dc. Pri e Pci confermano il loro rifiuto allo scambio. Il segretario del Psi avrebbe già pronto un elenco di detenuti ai quali si potrebbe concedere la grazia. Un varco di disponibilità nel Psdi». L'Avanti! titola sempre in prima pagina: «Colloqui di Craxi con Andreotti e Berlinguer - Riunione tra le delegazioni DC e PSI. Incontri tra i partiti. Possibile una soluzione?» Viene data notizia che «nella tarda serata si è svolto un incontro ufficiale a piazza del Gesù tra la delegazione DC, guidata da Zaccagnini, e quella socialista composta da Craxi, Signorile, Balzamo, Cipellini, Di Vagno». L'ufficio stampa del PSI diffonde dunque il seguente comunicato: «Nel corso del colloquio il segretario socialista ha confermato l'appoggio del PSI al governo ed ha ribadito la convinzione che sia necessaria un'iniziativa autonoma dello Stato, nell'ambito delle leggi e dei poteri costituzionali, volta a conseguire il fine umanitario sul quale concordano tutte le forze politiche». Il documento di lavoro socialista prevede l'umanizzazione delle carceri e la liberazione di alcuni brigatisti.
La Repubblica afferma invece che non esisterebbe una terza via. "Stranamente" per il direttore de La Repubblica questa volta anche Moro lo afferma nelle lettere che dicono, «La terza via è una menzogna con la quale si cerca di nascondere il negoziato. Craxi non propone altro che la grazia o la libertà provvisoria per alcuni detenuti e una riforma del regime carcerario. Tutte cose che le BR hanno chiesto direttamente o attraverso le lettere di Moro o per gli interposti uffici del loro avvocato». Riferendosi alla prigionia di Moro afferma: «Quelle grida, comunque finisca questa vicenda, nessuno di noi potrà scordarle mai più». Dopo che la famiglia Moro ha rivendicato con forza l'autenticità delle lettere del proprio congiunto, in Vaticano si percepisce una situazione di silenzio e di imbarazzo. La Repubblica annuncia che se si arrivasse al dibattito in Parlamento sulla proposta Craxi, potrebbe essere messa in gioco la stabilità del governo.
Il Giornale titola dando notizia che Fanfani e Ingrao hanno respinto l'appello di Moro, e in un editoriale di Montanelli viene affermato che a questo punto sarebbe un atto di pietà chiedere l'atto di decesso politico di Moro. L'Unità, affermando che il PCI ribadisce la sua posizione di fermezza e dando notizia dei colloqui di Berlinguer con Andreotti e Zaccagnini e Craxi, precisa in un editoriale ("Limite invalicabile"): «Quando diciamo nessuna concessione, intendiamo dire no a qualsiasi atto che significhi entrare in un qualsiasi rapporto contrattuale con le BR. Tale sarebbe anche un cosiddetto patteggiamento mutuo tra Stato e BR». La Voce Repubblicana denuncia il cosiddetto "partito delle trattative": «Sembra attirare l'attenzione dell'opinione pubblica e necessariamente quindi degli inquirenti, il problema della via più o meno nascosta attraverso cui le BR fanno pervenire ai rispettivi destinatari le ormai numerose lettere attribuite all'on. Moro. A tale riguardo i membri della famiglia, appunto per il loro stato angoscioso e affettivo, sono fuori dal dovere di dare qualunque indicazione. Ma tutte le altre persone che si sono intensamente occupate della drammatica vicenda e continuano ad occuparsene, sono proprio sicure di non potere fare o dire nulla che faciliti o dia addirittura il successo alle indagini della magistratura e delle forze dell'ordine? E non si può assumere qualche responsabilità al riguardo proprio al fine di fare tutto il possibile per salvare la vita dell'on. Moro senza cedere al ricatto?».
Il Lavoro di Genova riporta l'intervista all'avvocato Giannino Guiso. Alla domanda «cosa pensa della lettera di Moro e dell'azione del PSI?» Guiso risponde: «La lettera di Moro recapitata al Messaggero dimostra, al di là di ogni dubbio, quanto sia stata opportuna la posizione presa dal PSI e dal suo segretario, Craxi, in circostanze drammatiche e con l'opposizione incessante degli altri partiti. Il merito dei socialisti è di non avere accettato subito la logica della passività e della falsa fermezza e dell'immobilismo colpevole e l'aver capito che non è qui in gioco il prestigio dello Stato - ben altrimenti compromesso - ma la vita di un uomo. Credo che se Moro è rimasto in vita fino a poter scrivere quella lettera, lo si debba - come egli stesso riconosce - all'intervento instancabile di noi socialisti».
4 maggio. Il titolo d'apertura de Il Corriere mostra che la possibilità di una ricerca di vie per la salvezza di Moro è ormai pressoché nulla. In netta contrapposizione con l'apertura possibilista del giorno precedente il quotidiano milanese scrive che «la DC ha affidato al governo la valutazione delle proposte umanitarie per Moro. Andreotti deciso ad assicurare al paese che nessun terrorista verrà scarcerato». Si palesa così la linea dura del Governo. Il sottotitolo rincara: «Non si ipotizza la benché minima deroga alle leggi e non si dimentica il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie che piangono le tragiche conseguenze dell'operato degli eversori». Anche la segnalazione delatoria lanciata il giorno precedente da La Voce Repubblicana affinché i collaboratori di Moro venissero interrogati è stata accolta: «Il procuratore generale della Repubblica, Piero Pascolino, ha deciso di ascoltare i più stretti collaboratori dello statista rapito per chiedere loro se esiste realmente un canale diretto tra le Brigate Rosse e la famiglia Moro».
L'Unità rende in modo più che mai esplicito, al di là delle parole, il risultato dell'incontro di due giorni prima tra Berlinguer e il segretario del PSI, Craxi. Testualmente: «Quando si insiste sulla fermezza e sul rifiuto di cedere al ricatto non è perché in qualcuno sia meno forte la pena per la vita di un uomo che, tra l'altro, avrebbe ben capito ciò che stiamo scrivendo, e nemmeno perché si voglia difendere un generico ed astratto prestigio dello Stato che prevarica le ragioni dell'umanità. È in questione ben altro: la vita, la libertà, la sicurezza di tutti». Onde non lasciare dubbi sulle proprie scelte, l'organo del Pci segnala nuovamente uomini del "partito delle trattative". All'attenzione della polizia «colpisce sempre più il modo come alcune persone - l'avvocato Guiso, ma anche altri - parlano delle Br: rivelano una conoscenza sorprendente non solo della loro visione politica, ma anche delle mosse che esse compiono e perfino delle loro intenzioni». L'insinuazione è trasparente: dalla condanna a morte di Moro si passa alla denigrazione e all'intimidazione. Craxi rilascia un'intervista a Epoca in cui spiega i termini esatti dell'iniziativa socialista nei confronti del caso Moro. L'Avanti! la riporta integralmente. È ormai chiaro che il governo, marcato strettissimo dal Pci, ha chiuso ogni spiraglio che la Dc aveva potuto aprire spinta dai socialisti.
5 maggio. La stampa riporta la notizia degli interrogatori dei tre principali collaboratori della famiglia Moro: Rana, Guerzoni, Freato. Le indagini continuano senza precisi criteri, con battute e perquisizioni in varie parti di Italia. Le Br compiono due attentati, uno a Genova e l'altro a Milano contro due dirigenti della Sit-Siemens e l'altro dell'Italsider. Il Pci chiede più decisione, mentre il Psi insiste per salvare la vita a Moro, affermando che le ricerche più energiche non escludono di lavorare ancora per liberare il leader democristiano. Inizia l'attacco sistematico e crescente contro l'avv. Guiso e quei socialisti che più si adoperavano nel ricercare ogni possibilità per la salvezza della vita di Moro. Guiso è iscritto al Psi, che si è avvalso della sua esperienza di legale e la sua conoscenza delle modalità dei sequestri.
Il primo attacco proviene dal Giorno che prende pretesto da un libro scritto da Guiso nel settembre 1977, dal titolo "L'uomo senza diritti. Il detenuto politico". Di questo saggio vengono estratti brani e passati al setaccio per poter affermare: «A questo punto sarebbe forse opportuno che l'avvocato di Curcio e della Mantovani accettasse di spiegare più a fondo, proprio perché sulla sua azione di "legale" e sulla sua militanza socialista non pesi alcun dubbio, quali siano esattamente le basi della sua ideologia». La Stampa in un articolo di Fabrizio Carbone arriva ad affermare: «Un saggio sconcertante. Soprattutto per le tante analogie tra questo scritto e i volantini e i quaderni 4 e 5 delle Br».
6 maggio. Le Brigate rosse fanno pervenire il comunicato "numero 9": "Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato". Dai giornali si apprende anche che: «nella mattinata il Comitato interministeriale per la sicurezza, discutendo la proposta socialista di un atto di clemenza aveva ribadito che lo Stato non può fare concessioni». La Repubblica titola "L'assassinio di Moro preannunciato dalle Br". L'Unità: "Gli assassini annunciano l'uccisione di Aldo Moro" e commenta: "mai come in questo momento sono necessari nervi saldi, sangue freddo, coraggio. Nessun abbandono a recriminazioni, speculazioni, calcoli di parte. L'unità del popolo italiano e delle forze politiche in cui il popolo si riconosce e si esprime è in questo momento l'argine più solido, il bene più prezioso da salvaguardare e questa unità va consolidata ed estesa a tutti i livelli nel tessuto vivo del paese. Per aver lavorato a costruire questa unità, non dimentichiamolo, Aldo Moro è stato rapito il 16 marzo. Unità e rinnovamento. È nella coscienza più profonda delle masse che una svolta è indispensabile".
Le speranze si affievoliscono. L'avvocato Spazzali dichiara, appena appreso il testo del comunicato: "Dalle parole del comunicato numero 9 non c'è spazio per pessimismo né per ottimismo. Sono entrambi superati. Ogni interpretazione non può che essere banale. Si è aspettato troppo tempo. Alla richiesta di scambio non c'è stata nessuna proposta valida per bilanciare la trattativa. A questo punto c'è solo da domandarsi chi voleva veramente Moro vivo. Nessuno. Né le Br, né la Dc. Solo la moglie e i figli". Fanfani si reca a trovare la famiglia Moro. Il vescovo di Ivrea, monsignor Bettazzi, vuole offrirsi alle BR in cambio di Moro ma la sua proposta viene respinta dalla Curia Vaticana.
7 maggio. Le forze politiche sono attestate in una posizione di attesa, non si parla più né di trattativa, né di non trattativa. Le indagini sono ferme, vengono effettuati 23 arresti a Roma, ma non sembrano vi siano indizi certi. A Novara sparano contro il medico delle supercarceri. Sempre Il Corriere della sera titola: «Cupo silenzio dei terroristi sulla sorte di Aldo Moro». Zaccagnini: «La DC è ferita, ma non cederà mai». Si annuncia che alla famiglia è arrivato un messaggio poche ore dopo il Comunicato N. 9. Si preannunciano misure per colpire i fiancheggiatori delle BR, Il Corriere della Sera: «Un piano del procuratore di Roma per colpire l'area dei consensi. L'iniziativa è di Pietro Pascolino. Anche a chi non fa parte delle BR, ma ne condivide l'ideologia, possono essere contestati i reati di cospirazione politica e di banda armata». La Repubblica: «Nuova iniziativa della famiglia dopo un'ultima lettera del leader rapito. Disperato appello per Moro. Concedete la grazia ad almeno uno dei 13 detenuti». «Per Zaccagnini cedere alle BR è la fine della democrazia».
8 maggio. I giornali riflettono il pesante clima di attesa dopo il comunicato N 9. Colpito un sindacalista dell'INAM. Colpito un sindacalista del Pci alla Sit-Siemens. Fanfani: «Muoversi e non vivere alla giornata».
9 maggio. Tutti gli organi di informazione annunciano il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in una Renault 4 rossa posta in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, poco distante da piazza del Gesù. Una telefonata alla segreteria del presidente della DC era giunta alle 13, con le opportune indicazioni. La famiglia Moro diffonde il seguente comunicato: La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglie alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia.
Il giorno dopo, la salma è tumulata dalla famiglia a Torrita Tiberina, un piccolo paese della provincia di Roma: il governo terrà i funerali di Stato, celebrati dal Papa, senza la bara ed i famigliari del morto. Nella Capitale affissioni del Partito Comunista che riportano la prima pagina de L'Unità con la notizia dell'uccisione, sono coperti da strisce con la scritta "assassini", probabilmente apposte da gruppi di estrema destra, tesi ad indicare le Brigate Rosse quale braccio armato del PCI.
Il 28 gennaio 1983 i giudici della Corte d'assise di Roma, al termine di un processo durato nove mesi, inflissero ai 63 imputati delle istruttorie Moro-uno e Moro-bis 32 ergastoli e 316 anni di carcere. Decisero anche quattro assoluzioni e tre amnistie. Furono applicate le norme di legge che concedevano un trattamento di favore ai collaboratori di giustizia, e furono riconosciute alcune attenuanti ai dissociati. Il 14 marzo 1985, nel processo d'appello, i giudici diedero maggior valore alla dissociazione (scelta fatta da Adriana Faranda e Valerio Morucci) cancellando 10 ergastoli e riducendo la pena ad alcuni imputati. Pochi mesi dopo, il 14 novembre, la Cassazione confermò sostanzialmente il giudizio d'appello.
Negli anni successivi furono celebrati tre nuovi processi (Moro-ter, Moro-quater e Moro-quinquies) che condannarono altri brigatisti per il loro coinvolgimento in azioni eversive svolte a Roma fino al 1982 e in alcuni risvolti del caso Moro.
Nei confronti dei brigatisti coinvolti direttamente nella vicenda furono emessi i seguenti giudizi:
Rita Algranati: ultima a essere catturata fra i terroristi coinvolti nel caso Moro, a Il Cairo nel 2004, sta scontando l'ergastolo. Fu la «staffetta» del commando brigatista in via Fani.
Barbara Balzerani: catturata nel 1985 e condannata all'ergastolo. In libertà vigilata dal 2006. In via Fani presidiava mitra alla mano l'incrocio con via Stresa e durante il sequestro occupava la base di via Gradoli 96 nella quale conviveva con Mario Moretti.
Franco Bonisoli: catturato nella base di via Monte Nevoso 8 a Milano il 1º ottobre 1978, è stato condannato all'ergastolo e oggi è in semilibertà. In via Fani sparò sulla scorta di Moro e alla conclusione del sequestro portò nel covo di Milano il memoriale e le lettere dello statista ritrovate in una prima tranche contestualmente al suo arresto e in una seconda tranche l'8 ottobre 1990.
Anna Laura Braghetti: arrestata nel 1980, condannata all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 2002. Durante il sequestro non era ancora in clandestinità: era l'intestataria e l'inquilina «ufficiale», insieme con Germano Maccari, dell'appartamento di via Montalcini a Roma, tuttora l'unica prigione accertata di Moro.
Alessio Casimirri: fuggito in Nicaragua, dove gestisce il ristorante «La Cueva Del Buzo» a Managua specializzato in frutti di mare, è l'unico a non essere mai stato arrestato né per il caso Moro né per altri reati. In via Fani presidiava con Alvaro Lojacono la parte alta della strada.
Raimondo Etro: catturato solo nel 1996, è stato condannato a 24 anni e 6 mesi, poi ridotti a 20 e 6 mesi. Non presente in via Fani, fu il custode delle armi usate nella strage.
Adriana Faranda: arrestata nel 1979, è tornata in libertà nel 1994 dopo essersi dissociata dalla lotta armata. Non è stata accertata in sede giudiziaria la sua presenza in via Fani, è stata la «postina» del sequestro Moro con Valerio Morucci.
Raffaele Fiore: catturato nel 1979 e condannato all'ergastolo, è in libertà condizionale dal 1997. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro, anche se il suo mitra si è inceppato quasi subito.
Prospero Gallinari: già latitante (durante il sequestro Moro) per il sequestro del giudice Mario Sossi, è successivamente catturato nel 1979. Dal 1994 al 2007 ha ottenuto la sospensione della pena per motivi di salute, ottenendo gli arresti domiciliari. È deceduto il 14 gennaio 2013. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequestro era rifugiato nel covo brigatista di via Montalcini, unica prigione di Moro accertata in sede giudiziaria.
Alvaro Lojacono: fuggito in Svizzera non ha mai scontato un solo giorno di prigione né per il caso Moro né per l'omicidio dello studente Miki Mantakas ma soltanto per reati legati a traffici d'armi da e per la Svizzera, che non ha mai concesso la sua estradizione in Italia. In via Fani presidiava con Alessio Casimirri la parte alta della strada.
Germano Maccari: arrestato solo nel 1993, rimesso in libertà per decorrenza dei termini e poi riarrestato dopo aver ammesso il suo coinvolgimento nel sequestro, viene condannato a 30 anni, poi ridotti a 23, nell'ultimo processo celebrato sul caso Moro. È morto per aneurisma cerebrale nel carcere di Rebibbia il 25 agosto 2001. Insieme con Anna Laura Braghetti era l'inquilino «ufficiale» dell'appartamento di via Montalcini, unica prigione di Moro finora accertata, sotto il falso nome di «ingegner Altobelli».
Mario Moretti: catturato nel 1981 e condannato a 6 ergastoli. Dal 1994 è in semilibertà e lavora da oltre 14 anni per la Regione Lombardia. Capo della colonna romana delle Brigate Rosse, in via Fani era alla guida dell'auto che ha bloccato il convoglio di Moro e della scorta avviando l'imboscata. Nonostante alcune testimonianze oculari, non è stata accertato in sede giudiziaria che abbia sparato. Durante il sequestro occupava con Barbara Balzerani il covo di via Gradoli 96 e si recava quotidianamente a interrogare Moro nel luogo della sua detenzione e periodicamente a Firenze e Rapallo per riunioni con il comitato esecutivo dell'organizzazione terroristica.
Valerio Morucci: arrestato nel 1979 venne condannato a 30 anni dopo essersi dissociato dalla lotta armata. Rilasciato nel 1994, si occupa di informatica. In via Fani ha sparato sulla scorta di Moro e durante il sequestro è stato il postino delle Brigate Rosse insieme con la sua compagna Adriana Faranda.
Bruno Seghetti: catturato nel 1980 e condannato all'ergastolo, è ammesso al lavoro esterno nell'aprile del 1995. Ottiene la semilibertà nel 1999 che però gli viene revocata in seguito ad alcune irregolarità. È tuttora detenuto, e lavora per la cooperativa «32 dicembre» di Prospero Gallinari. In via Fani era alla guida dell'auto con la quale Moro venne portato via dopo l'agguato.
La morte di Moro è stata oggetto di diverse speculazioni e teorie. La stampa ad esempio ipotizzò, a seguito delle interviste ad alcuni brigatisti catturati, che le BR avessero puntato su Moro ritenendo che l'obiettivo precedentemente scelto dai terroristi, Giulio Andreotti, risultasse troppo protetto. Lo stesso Andreotti però smentì la fondatezza dell'assunto, pubblicamente raccontando che ogni mattina abitudinariamente si recava di buon'ora, a piedi e del tutto solo, a messa in una chiesa vicina alla sua abitazione; come obiettivo, affermò, era anche eccessivamente facile.
Anche il brigatista Valerio Morucci nelle sue deposizioni ai processi Moro ha affermato che l'obiettivo di colpire Andreotti fu abbandonato non per la protezione di cui godeva ma per il luogo estremamente centrale di Roma ove egli abitava che impediva, di fatto, qualsiasi tentativo di fuga del commando brigatista dopo l'eventuale agguato. Viepiù la scelta di rapire Aldo Moro con un'azione tanto clamorosa, secondo il Morucci, era dettata dall'impossibilità di compiere l'azione in altri luoghi frequentati dal presidente della DC.
Adriana Faranda, che partecipò alla preparazione del piano di sequestro, raccontò: «Moro, la mattina intorno alle nove, si recava nella chiesa di Santa Chiara per la messa. Partì un'inchiesta massiccia e fu ideata una prima ipotesi di sequestro. Questa ipotesi non prevedeva l'uccisione della scorta, doveva effettuarsi all'interno della chiesa e con la diretta partecipazione di un nucleo di sette militanti Br. Era prevista una via di fuga che dall'interno della chiesa, passando per un corridoio di una scuola, arrivava in via Zandonai; perciò completamente fuori dalla vista di chi si trovava in piazza dei Giochi Delfici, su cui si affaccia la chiesa. Furono analizzate anche altre vie di fuga e tutte le strade che in automobile erano percorribili da via Zandonai fino ai luoghi più sicuri. Questo progetto venne abbandonato perché piazza dei Giochi Delfici si trova in una zona altamente militarizzata, e se ci si fosse accorti del sequestro in atto sarebbe potuto nascere un conflitto a fuoco che avrebbe coinvolto passanti e reso impossibile la fuga dei brigatisti coinvolti; nel piano, come copertura, si arrivava più o meno a venti persone».
La colonna romana decise di intervenire bloccando l'auto di Moro lungo il percorso tra via Trionfale e la chiesa di Santa Chiara. Davanti alla chiesa Franco Bonisoli scoprì che l'auto non era blindata, così si decise di uccidere la scorta.
I brigatisti, inoltre, scartarono quasi subito l'ipotesi di rapire Moro all'Università per il sempre gran numero di studenti presenti.
Durante il sequestro, il giornalista Carmine Pecorelli aveva scritto più volte sulla rivista da lui diretta OP-Osservatore Politico che Roma «a duemila anni di distanza Roma avrebbe visto nuovamente le Idi di Marzo e la morte di Giulio Cesare...». Ciò in riferimento alla data di morte di Cesare (15 marzo 44 a.C.) e del rapimento di Moro (16 marzo 1978). Dopo la morte del presidente DC Pecorelli pubblicò un articolo intitolato Vergogna, buffoni!, sostenendo che il generale Carlo Alberto dalla Chiesa si fosse recato da Andreotti dicendogli di conoscere la prigione di Moro, non ottenendo il via libera per il blitz a causa della contrarietà di una certa «loggia di Cristo in paradiso». La probabile allusione alla P2, organizzazione implicata in attività eversive, fu chiara soltanto dopo il ritrovamento della lista degli iscritti alla P2, avvenuto il 17 marzo 1981. In questa lista erano presenti i nominativi di diversi personaggi che ricoprivano ruoli importanti nelle istituzioni sia durante il sequestro Moro che durante le indagini che seguirono. Alcuni erano stati promossi ai loro incarichi da pochi mesi o durante il sequestro stesso: tra questi il generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMI, il prefetto Walter Pelosi, direttore del CESIS, il generale Giulio Grassini del SISDE, l'ammiraglio Antonino Geraci, capo del SIOS della Marina Militare, Federico Umberto D'Amato, direttore dell'Ufficio affari riservati del Ministero dell'interno, il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza e il generale Donato Lo Prete, capo di stato maggiore della stessa, il generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano (responsabile per quello che riguardava i posti di blocco effettuati nella Capitale durante le indagini sul sequestro, che vennero considerati ben poco efficaci dalla Commissione Moro).
Stando a quanto riferito dal professor Vincenzo Cappelletti (uno degli esperti chiamati a formare i comitati durante il rapimento) alla commissione stragi, il professor Franco Ferracuti (uno dei sostenitori del fatto che Moro fosse stato colpito dalla sindrome di Stoccolma, che era anche un agente della CIA, e il cui nome risultò tra gli iscritti della P2 tessera 2137) aderì alla loggia proprio durante il periodo del rapimento, su proposta del generale Grassini, per lo meno stando a quanto riferitogli dal Ferracuti stesso.
Licio Gelli ha affermato che la presenza di un elevato numero di affiliati alla loggia nei comitati non era dovuta a un coinvolgimento attivo della P2 nella questione, quanto al fatto che molte personalità di primo piano del tempo erano iscritte alla stessa, quindi era naturale che in questi comitati se ne trovassero diverse. Lo stesso Gelli affermò che alcuni degli iscritti presenti nei comitati probabilmente ignoravano il fatto che anche altri appartenessero alla stessa loggia P2.
Altro caso dubbio, che è stato dibattuto in numerose pubblicazioni sul caso Moro, è quello relativo alla presenza del colonnello Camillo Guglielmi del Sismi nelle vicinanze dell'agguato durante l'azione delle BR. La notizia della sua presenza nella Via Stresa, tenuta segreta inizialmente, verrà rivelata soltanto nel 1991 durante le indagini della Commissione Stragi, anche a seguito di una relazione presentata dal deputato di Democrazia Proletaria Luigi Cipriani (allora membro della commissione) che riferiva di alcune testimonianze sul caso Moro e sul ruolo di Guglielmi come osservatore, da parte di un ex agente del SISMI (poi quasi totalmente smentite dal diretto interessato). Guglielmi affermerà di essere stato realmente in zona, ma perché invitato a pranzo da un collega che abitava nella vicina via Stresa. Secondo alcune pubblicazioni il collega, pur confermando il fatto che Guglielmi si fosse presentato a casa sua, negò che il suo arrivo fosse previsto. Secondo alcune fonti (tra cui lo stesso Cipriani) Guglielmi avrebbe anche fatto parte di Gladio, tesi però fermamente smentita dallo stesso colonnello.
Indagini della DIGOS porteranno poi a scoprire che alcuni macchinari presenti nella tipografia utilizzata dai brigatisti per la stampa dei comunicati (da quasi un anno prima del rapimento), che era gestita da un brigatista (Enrico Triaca) e finanziata da Moretti, erano stati precedentemente di proprietà dello Stato: si trattava di una stampatrice AB-DIK260T, che era di proprietà del Raggruppamento Unità Speciali dell'Esercito (facente parte del SISMI) e che, seppur con un pochi anni di vita e un elevato valore, era stata venduta come rottame ferroso, e di una fotocopiatrice AB-DIK 675, precedentemente di proprietà del Ministero dei trasporti, acquistata nel 1969 e che, dopo alcuni cambi di proprietario, era stata venduta a Enrico Triaca.
Anche l'appartamento di via Gradoli presenta alcune peculiarità. Innanzitutto fu affittato da Moretti sotto lo pseudonimo di Mario Borghi nel 1975, ma il contratto d'affitto tra «Borghi» e la controparte (Luciana Bozzi) non venne registrato. Inoltre, in quello stabile vivevano anche un confidente della polizia e diversi appartamenti erano intestati a uomini del SISMI. La palazzina fu perquisita dai Carabinieri del colonnello Varisco, ma venne saltato l'appartamento in oggetto, in quanto nel momento del controllo non risultava essere presente nessuno. Ad aggiungere ulteriori incertezze sul caso, diversa pubblicistica evidenzia che la signora Bozzi si scoprirà successivamente essere amica di Giuliana Conforto, nel cui appartamento furono arrestati i brigatisti Morucci e Faranda. Infine, Pecorelli, nel 1977, si burlò di Moretti indirizzando a Mario Borghi (residente in Via Gradoli) una cartolina da Ascoli Piceno recante il messaggio «Saluti, brrrr».
La stazione dei servizi segreti di Beirut, guidata dal colonnello Stefano Giovannone, il 18 febbraio 1978 inviò a Roma un dispaccio della «Fonte 2000»: in esso si riconferma la fedeltà del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina al lodo Moro nello stesso momento in cui si richiede di non farne menzione alla centrale OLP in Italia ed in cui si rivela che azioni terroristiche europee erano in preparazione in Italia.
In ogni caso, in ben due lettere dalla prigionia Moro evoca il nome del colonnello Giovannone e ne richiede il rientro in Italia: in quella a Flaminio Piccoli lo cita in rapporto alla «nota vicenda dei palestinesi» e in quella ad Erminio Pennacchini lo considera tra i protagonisti della soluzione per la quale «ai prigionieri politici dell'altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato terzo».
Nel giugno 2008, poi, il terrorista venezuelano Ilich Ramírez Sánchez, detto «Carlos», in un'intervista all'agenzia di stampa ANSA, dichiarò che alcuni uomini del SISMI, guidati dal colonnello Stefano Giovannone (ritenuto vicino a Moro), nella sera tra l'8 e il 9 maggio 1978, all'aeroporto di Beirut, tentarono un accordo per far liberare Moro: questo accordo avrebbe previsto la consegna di alcuni brigatisti incarcerati a uomini del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sul territorio di un paese arabo. Secondo «Carlos» l'accordo, che vedeva i vertici del SISMI contrari e violava la direttiva del governo di non trattare, fallì perché l'informazione fuoriuscì dall'ufficio politico dell'OLP, probabilmente a causa di Bassam Abu Sharif, e da lì ne vennero informati i servizi di un Paese della NATO che ne informò a suo volta il SISMI. Il giorno dopo Moro venne ucciso. Sempre secondo il terrorista venezuelano gli ufficiali che avevano effettuato questo tentativo vennero allontanati dai servizi, costringendoli alle dimissioni o al pensionamento. Lo stesso Carlos, a metà degli anni Ottanta, era stato indicato da Kyodo News, un'agenzia di stampa giapponese, in base a informazioni provenienti da una fonte non dichiarata, come uno dei possibili ispiratori del rapimento.
Quanto ai rapporti tra Giovannone ed il FPLP, essi risulterebbero asseverati anche da altre inchieste, come quella sulla sparizione di Graziella De Palo e Italo Toni.
Nella seconda metà di aprile del 1978 due dirigenti del PSI, Claudio Signorile e Antonio Landolfi, s'incontrarono con Lanfranco Pace e Franco Piperno, due militanti di Autonomia Operaia in contatto con Faranda e Morucci: i due esponenti socialisti cercarono di trovare un compromesso per liberare Moro, che non avesse come passaggio obbligato la liberazione di terroristi detenuti. Antonio Savasta, brigatista diventato collaboratore di giustizia, ricordò: «C'era un tentativo politico da parte di Pace e Piperno di essere loro gli interlocutori verso lo Stato per conto della guerriglia e dei movimenti di massa che allora si erano sviluppati. Si diceva che questo tipo di trattative tra Pace e Piperno ed esponenti del Partito socialista italiano non poteva assolutamente interferire sul comportamento delle Brigate rosse perché le Brigate rosse tendevano ad una trattativa aperta con lo Stato.»
L'ipotesi di collegamento tra Autonomia e BR con il delitto Moro si sviluppò l'anno successivo, in seguito agli arresti del 7 aprile: i magistrati padovani sostennero che a effettuare la telefonata del 30 aprile fosse stato Toni Negri, docente universitario e leader di A.O. Tuttavia nel 1980 i possibili collegamenti tra le due organizzazioni e il caso Moro caddero, anche grazie alle rivelazioni di Patrizio Peci, che scagionò Negri dall'accusa rivolta.
Nel novembre 1977 Sergej Sokolov, studente presso l'Università La Sapienza di Roma, avvicinò Moro per chiedergli di frequentare le sue lezioni. Nelle settimane successive, si fece notare per le domande sempre più indiscrete fatte agli assistenti circa l'auto e la scorta, tanto da suscitare anche qualche sospetto in Moro che raccomandò al suo assistente di rispondere vagamente a eventuali domande dello studente. Sergej Sokolov incontrò l'ultima volta Moro la mattina del 15 marzo. Da allora nessuno lo incontrò più. Nel 1999, in seguito allo scoppio dello scandalo Mitrokhin, si sospettò che Sergej Sokolov fosse in realtà Sergej Fedorovich Sokolov, ufficiale del KGB sotto copertura a Roma, dove iniziò a lavorare come corrispondente della TASS da Roma (report Impedian 83) nel 1981, ma che nel 1982 era stato richiamato in patria. Il senatore Paolo Guzzanti sostenne che almeno alcune tra le azioni delle Brigate Rosse furono richieste dal KGB. Guzzanti giunse a questa conclusione dopo aver presieduto per due anni la Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin.
Nel maggio 1979 i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, due degli ideatori del sequestro, furono arrestati a Roma nell'appartamento di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, con il rinvenimento nell'abitazione della mitraglietta «Skorpion» (di marca cecoslovacca) usata da Moretti per assassinare Moro. Nel Dossier (report Impedian 142) si parlò di Giorgio Conforto come agente del KGB, nome in codice «Dario», capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia, ma si disse anche che sia lui sia la figlia fossero estranei alle attività dei due terroristi e che, proprio in seguito alle indagini di cui sarebbe stato probabilmente oggetto dopo l'arresto dei brigatisti, i servizi sovietici decisero di «congelare» la sua attività di spia.
Francesco Cossiga durante la sua audizione alla Commissione Stragi sostenne che in un primo tempo era anche stato ipotizzato che il rapimento di Moro fosse stato effettuato su commissione dei servizi segreti degli Stati del Patto di Varsavia, ma che il comando NATO non riteneva che il politico potesse conoscere informazioni riservate sull'Alleanza Atlantica tali da considerare il suo rapimento un pericolo per la stessa (ma nel suo memoriale Moro parlerà di una struttura stay-behind, nota in Italia come organizzazione Gladio, la cui esistenza allora era ancora ufficialmente segreta). Cossiga sostenne che gli Stati Uniti, al contrario di altri Paesi alleati come la Germania Ovest, si rifiutarono di fornire all'Italia il supporto diretto delle loro agenzie di spionaggio, proprio per il fatto che il rapimento di Moro, a quanto ritenevano, non costituiva pericolo per gli interessi americani; gli Stati Uniti si limitarono quindi, su insistenza di Cossiga, a mandare in Italia Steve Pieczenik (a volte riportato come «Pieczenick»), ufficialmente uno psicologo dell'ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense, esperto in casi di rapimento, il quale riteneva si dovesse fingere una trattativa per poter proseguire le indagini e individuare i brigatisti che tenevano prigioniero Moro.
Altre persone, come pubblicato su un articolo di Panorama del 2005, invece affermano che almeno alcune azioni terroristiche delle Brigate Rosse erano state richieste dal KGB, il servizio segreto dell'Unione Sovietica. Tra questi Paolo Guzzanti, giunto a questa conclusione dopo aver presieduto per due anni la Commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin.
Nel corso degli anni alcuni collaboratori di Moro hanno dichiarato che durante una visita a Washington, Moro ebbe un duro scontro con l'allora Segretario di Stato Henry Kissinger (contrario a un'eventuale entrata del PCI nel governo italiano).
L'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni il 5 luglio 2005, in un'intervista nella trasmissione Next di RaiNews24 disse che poche settimane prima del rapimento, Moro gli confidò, discutendo della difficoltà di trovare i covi delle BR, di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani sia quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, ma che gli italiani non erano tenuti al corrente di queste attività che sarebbero potute essere d'aiuto nell'individuare i covi dei brigatisti. Galloni sostenne anche che vi furono parecchie difficoltà a mettersi in contatto con i servizi statunitensi durante i giorni del rapimento, ma che alcune informazioni potevano tuttavia essere arrivate dagli Stati Uniti:
« Pecorelli scrisse che il 15 marzo 1978 sarebbe accaduto un fatto molto grave in Italia e si scoprì dopo che Moro doveva essere rapito il giorno prima l'assassinio di Pecorelli potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare. »
(Intervista con Giovanni Galloni nella trasmissione Next.)
Lo stesso Galloni aveva già rilasciato dichiarazioni simili durante un'audizione alla Commissione Stragi il 22 luglio 1998, in cui affermò anche che durante un suo viaggio negli Stati Uniti del 1976 gli era stato fatto presente che, per motivi strategici (il timore di perdere le basi militari su suolo italiano, che erano la prima linea di difesa in caso di invasione dell'Europa da parte sovietica) gli Stati Uniti erano contrari ad un governo aperto ai comunisti come quello a cui puntava Moro:
« Quindi, l'entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, "life or death" come dissero, per gli Stati Uniti d'America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere. »
(Dichiarazioni di Giovanni Galloni, Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 39ª seduta, 22 luglio 1998.)
La vedova di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, ebbe modo di dichiarare al primo processo contro il nucleo storico delle BR, davanti al presidente Severino Santiapichi, che suo marito era inviso agli Stati Uniti fin dal 1964, quando venne varato il primo governo di centro-sinistra (Governo Moro I), e che più volte fosse stato «ammonito» da esponenti politici d'oltreoceano a non violare la cosiddetta «logica di Jalta». Le pressioni statunitensi sul marito, stante la deposizione della signora Moro, s'accentuarono dopo il 1973, quando Moro era impegnato nel suo progetto di allargamento della maggioranza di governo al PCI (compromesso storico). Nel settembre del 1974 fu il Segretario di Stato americano, a margine di una visita di Stato di Moro negli Stati Uniti, Henry Kissinger diede un monito ben chiaro allo statista DC avvertendolo della «pericolosità» di tale legame col PCI. E di nuovo, nel marzo 1976 gli avvertimenti si fecero più espliciti. Nell'occasione, egli fu avvicinato da un alto personaggio americano che lo apostrofò duramente.
Di fronte alla Commissione parlamentare d'inchiesta, la moglie di Moro rievocò così l'episodio: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. Adesso provo a ripeterla come la ricordo: 'Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere'». Molte di queste teorie si basarono sull'ipotesi che la ricerca di un compromesso tra i partiti di governo e il Partito Comunista Italiano al fine di creare un governo di grande coalizione, stava profondamente disturbando quegli interessi (la cosiddetta Pax Americana). Questo, secondo alcuni osservatori, avrebbe considerato che quanto accaduto a Moro poteva risultare vantaggioso per gli Stati Uniti.
Questa posizione era stata espressa per la prima volta nell'indagine Chi ha ucciso Aldo Moro? (1978), scritta dal giornalista statunitense Webster Tarpley e commissionata dal parlamentare della DC Giuseppe Zamberletti. Circa le parole riferite dalla moglie di Moro in seguito, durante una sua deposizione, secondo cui, prima del sequestro, «una figura politica statunitense di alto livello» disse ad Aldo Moro «o lasci perdere la tua linea politica o la pagherai cara», era da ricollegare al timore che in Italia si giungesse a una soluzione simile a quella del Cile che nel 1973 aveva subito un colpo di stato per opera del generale Augusto Pinochet, che aveva instaurato un'efferata dittatura militare. Il cambiamento era inteso come abbandono di ogni ipotesi di accordo con i comunisti. Alcuni ritengono che quella figura fosse Henry Kissinger, che già aveva parlato in termini molto diretti al Ministro degli Esteri Moro in un incontro a tu per tu nel 1974. Interpellato in merito, Kissinger ha smentito l'accaduto, a cominciare dalla data dell'ultimo diktat a latere di un meeting internazionale il 23 marzo 1976. Si disse anche che Moro tenesse i contatti tra Enrico Berlinguer, segretario del PCI e Giorgio Almirante, segretario del MSI, rispettivamente i principali partiti di sinistra e di destra, con lo scopo – secondo questa ipotesi – di «raffreddare la tensione delle rispettive frange estremiste» (Brigate Rosse e Nuclei Armati Rivoluzionari), l'esatto opposto di quanto volevano gli strateghi della tensione. Di certo, tra Berlinguer e Almirante ci furono contatti personali e stima personale (come dimostrato dalla presenza di Almirante ai funerali di Berlinguer nel 1984, presenza ricambiata da Alessandro Natta ai funerali di Almirante nel 1988).
Nel 2013 l'esperto statunitense Steve Pieczenik, che ufficialmente coordinava il collegamento tra i servizi segreti americani e gli omologhi italiani, ribadì in un'intervista concessa a Gianni Minoli su Radio 24 le rivelazioni precedentemente esposte nel 2008 in un suo libro, ovvero che il suo reale compito fosse quello di «manipolare alla distanza i terroristi italiani così da far in modo che le BR uccidessero Moro a ogni costo». Il PM romano Luca Palamara ha fatto acquisire agli atti il libro, del 2008, e l'intervista, del 2013, da parte della DIGOS. Le parole del consulente statunitense sono state inserite nel fascicolo processuale aperto sulla base di un esposto di Ferdinando Imposimato, avvocato che all'epoca dei fatti (1978) ricopriva la carica di Giudice istruttore. Nell'articolo del quotidiano veronese L'Arena si legge testualmente circa Imposimato: «Moro poteva esser salvato ed il covo di Via Montalcini – dov'era tenuto prigioniero lo statista – era monitorato da tempo dalle Forze dell'Ordine, ma il blitz per liberare l'esponente della DC, nonostante fosse stato preparato nei minimi dettagli, saltò all'ultimo momento». E ancora: «Steve Pieczenik costituisce un personaggio chiave in grado di fornire informazioni utili al fine di squarciare i veli ancora nebulosi ed oscuri che gravano sul Caso Moro». Palamara, che procede con un fascicolo contro ignoti, si dice particolarmente interessato alla versione resa da Steve Pieczenik, specialmente quando afferma: «Temevo, ma anche mi aspettavo, che le BR si rendessero effettivamente conto dell'errore che stavano per compiere uccidendo l'ostaggio, e che – alla fine – liberassero Moro rinunciando alla contropartita, mossa questa che avrebbe fatto fallire il mio piano e di cui io solo avrei dovuto render conto ai miei superiori: fino alla fine ho avuto il terrore che liberassero effettivamente il politico. Il sacrificio della vita di Moro era necessario».
Al vaglio del PM Palamara si trova pure un altro particolare della vicenda, il cosiddetto «giallo di via Caetani». Esso concerne l'ora in cui fu trovato, il 9 maggio 1978, il cadavere di Moro nella Renault 4 rossa in via Michelangelo Caetani. Il tutto nasce dal fatto che la telefonata brigatista di rivendicazione dell'omicidio arrivò alle ore 12:30, ma due artificieri, tra i primi a esser accorsi sul luogo, hanno spostato di un'ora e mezzo in avanti il momento di ritrovamento del corpo. Nella loro testimonianza, essi concordano che alle 11:00 in punto di quella fatidica mattina essi giunsero in via Caetani e vi trovarono già presenti l'allora Ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Questa versione dei fatti è già stata smentita da due testimoni: l'ex giornalista della Rai Franco Alfano, presente al momento dell'apertura del bagagliaio dell'auto, il quale sottolinea che l'ora del ritrovamento è quella conosciuta, e l'attrice Piera Degli Esposti. Quest'ultima, in un'intervista rilasciata al TG5 il 6 luglio 2013, dichiarò d'aver trascorso buona parte di quella mattina in via Caetani per motivi di lavoro e di non aver notato alcunché di quanto indicato dai due artificieri. Anche queste testimonianze sono state inserite nel fascicolo processuale.
È stata proposta anche l'ipotesi che le Brigate Rosse fossero infiltrate, già nel 1974, da agenti segreti di Israele. Alberto Franceschini riportò una confidenza fattagli durante l'ora d'aria nel carcere di Torino da Renato Curcio, secondo cui Mario Moretti era probabile fosse un infiltrato nell'organizzazione terroristica. Franceschini affermò inoltre che «quando rapimmo Mario Sossi, nel '74, eravamo in dodici. Esser in undici a dover gestire un rapimento complesso come quello di Moro mi sembra quanto meno azzardato» Mario Moretti prese in mano le redini dell'organizzazione proprio al momento della cattura di Franceschini e di Curcio, imprimendo all'organizzazione una struttura di tipo «paramilitare» e cominciando la guerra aperta contro lo Stato. Curcio smentì l'ex compagno e molti altri appartenenti all'organizzazione insurrezionale confutarono le parole di Franceschini a vario titolo. Lo stesso Moretti, in un'intervista televisiva del 1990, affermò di non aver mai visto un israeliano in vita sua, aggiungendo che fosse sbagliato pensare che il cambio della strategia brigatista fosse dipeso dall'arresto di alcuni militanti.
Un mese dopo il sequestro, il giorno 18 aprile, fu rinvenuto, nascosto nel cestino dei rifiuti di un bar in piazza Indipendenza, il «comunicato n. 7» delle BR. In esso si annunciava la morte dell'ostaggio e la sua sepoltura non lontano dal Lago della Duchessa, al confine tra il Lazio e l'Abruzzo. Anche se agli inquirenti il volantino apparve poco credibile (perché scritto con linguaggio e strumenti inconsueti) furono fatte partire numerose Forze dell'Ordine per il luogo della presunta sepoltura: attorno alla riva il manto di neve era intatto, ma l'ordine di sospendere le ricerche fu dato solo due giorni dopo, quando le BR fecero trovare a Genova, Milano e Torino le copie del vero comunicato, in cui veniva dato un ultimatum di 48 ore al governo e alla DC, con allegata una foto di Aldo Moro con una copia del quotidiano la Repubblica del 19 aprile, per dimostrare che il politico era ancora vivo e che la notizia della sua uccisione era falsa.
A scrivere il falso comunicato fu Antonio Chichiarelli, falsario legato alla Banda della Magliana, amico di neofascisti dei NAR e confidente dei servizi segreti, ucciso nel settembre 1984 in circostanze rimaste misteriose. È da notare che lo stesso Chichiarelli parlò del comunicato a diverse persone, tra cui Luciano Dal Bello, informatore dei Carabinieri e del SISDE, che riferì la questione a un maresciallo dei Carabinieri, senza che tuttavia alla segnalazione fossero seguite indagini su Chichiarelli.
Le BR interpretarono quel falso comunicato come un'impossibilità di effettuare scambi di prigionieri con lo Stato. Lo rivelò Enrico Fenzi ai giudici della Corte d'assise di Roma: «Secondo le Brigate rosse, il comunicato del Lago della Duchessa era un falso del governo, della polizia, insomma del potere... ed era il segnale chiaro e inequivocabile che nessuna trattativa era possibile... che lo Stato non avrebbe mai trattato per Moro».
Nello stesso giorno le Forze dell'Ordine scoprirono a Roma un appartamento in via Gradoli 96 usato come covo delle Brigate Rosse: la scoperta, avvenuta a causa di una perdita d'acqua per cui erano stati chiamati i Vigili del fuoco, si rivelerà essere causata invece da un rubinetto della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e con la cornetta rivolta verso un muro, quasi a voler far scoprire il covo, che era usato abitualmente dal brigatista Mario Moretti (il quale avrà notizia della scoperta dai giornali, che la riporteranno subito, e non vi farà ritorno). Moretti aveva affittato l'appartamento nel 1975, con l'identità dell'«ingegner Mario Borghi», e da allora l'aveva usato abitualmente (si è poi scoperto che oltre a Moretti vi hanno abitato per qualche mese anche Adriana Faranda e Valerio Morucci). La Polizia, durante la perquisizione, trovò tra l'altro la targa originale della 128 bianca usata per il tamponamento di via Fani.
Successivamente alla scoperta del covo vennero resi noti alcuni fatti molto particolari. Lo stabile in cui si trovava questo covo era stato già perquisito il 18 marzo, pochi giorni dopo il rapimento, nell'ambito di un controllo di alcuni appartamenti della zona, che venivano abitualmente affittati per brevi periodi, ma non essendoci nessuno dentro l'appartamento, gli agenti se n'erano andati senza controllarlo. La vicina di casa, nel confermare che lì vi abitava «una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi» (come riferirà in aula il sottufficiale incaricato del controllo), avrebbe consegnato una comunicazione destinata al dott. Elio Cioppa, vice capo della Squadra Mobile romana, in cui affermava che la sera prima aveva sentito dei rumori anomali, simili al codice Morse provenire dall'appartamento, ma sia il funzionario sia il sottufficiale che diresse l'operazione negarono di averlo mai ricevuto. Nella relazione di minoranza della commissione di inchiesta sulla Loggia P2, venne fatto notare che il dott. Elio Cioppa poco tempo dopo l'uccisione di Moro venne promosso a vicedirettore del SISDE, guidato allora dal generale Giulio Grassini, iscritto alla loggia, e che pochi mesi dopo anche Cioppa sarebbe entrato a far parte della medesima. La stessa vicina che aveva avvertito i rumori provenienti dall'appartamento, Lucia Mokbel, ufficialmente studentessa universitaria di origine egiziana che conviveva con il suo compagno Gianni Diana, viene indicata in diverse inchieste giornalistiche come rivelatasi poi essere impiegata come informatrice dal SISDE o dalla Polizia. Il verbale della perquisizione, presente agli atti del processo Moro, risulta essere stato scritto su fogli intestati «Dipartimento di Polizia», notazione che però cominciò a essere impiegata solo dal 1981, tre anni dopo la data in cui questi controlli sarebbero avvenuti.
Col passare del tempo divennero note altre notizie relative al covo e alla zona: nella stessa via, prima e dopo il sequestro Moro, erano presenti numerosi appartamenti utilizzati da agenti e aziende di copertura al servizio del SISMI (tra cui un sottufficiale dei carabinieri in forza al SISMI, residente al numero 89, nell'edificio di fronte al 96, che era compaesano di Moretti) e l'appartamento stesso era già stato segnalato e tenuto sotto controllo dall'UCIGOS da diversi anni (quindi era noto alle istituzioni), in quanto frequentato precedentemente anche da esponenti di Potere operaio e Autonomia Operaia. Si è scoperto che anche il deputato democristiano Benito Cazora, nei suoi contatti avuti con esponenti del 'Ndrangheta e della malavita calabrese nel tentativo di trovare la prigione di Moro, era stato avvertito che la zona di via Gradoli (per la precisione l'informazione era stata data in automobile, fermi all'incrocio tra la via Cassia e via Gradoli) era una «zona calda» e che questo avvertimento era stato comunicato sia ai vertici della Democrazia Cristiana che agli organi di Polizia.
Relativamente alla scoperta del covo, i brigatisti successivamente catturati hanno sempre parlato di una casualità, dovuta al rubinetto della doccia lasciato aperto per sbaglio, e hanno affermato che non erano a conoscenza del fatto che il covo fosse sotto controllo da parte dell'UCIGOS.
Steve Pieczenik, l'esperto di terrorismo del Dipartimento di Stato americano, in un'intervista concessa quasi 30 anni dopo il sequestro, ha affermato che l'idea del falso comunicato era stata presa durante una riunione del comitato di crisi a cui erano presenti, tra gli altri, lui, Cossiga, alcuni esponenti dei servizi e il criminologo Franco Ferracuti, con lo scopo di preparare l'opinione pubblica italiana ed europea al probabile decesso di Moro durante il sequestro, ma di ignorare poi come la cosa sia stata realizzata concretamente.
Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò hanno avuto un ruolo mai del tutto chiarito nel reperimento delle indicazioni su un possibile luogo di detenzione e resta tuttora alquanto oscura la vicenda della loro presunta seduta spiritica con il «piattino» effettuata il 2 aprile 1978, da cui sarebbero scaturite prima alcune parole senza senso, poi le parole Viterbo, Bolsena e Gradoli, quest'ultima («Gradoli») che appunto coincideva con il nome della strada in cui si trovava il covo impiegato da Moretti.
Il 10 giugno 1981 Romano Prodi, interrogato dalla Commissione Moro dichiarò:
« Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del piattino, termine che conosco poco perché era la prima volta che vedevo cose del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Nessuno ci ha badato: poi in un atlante abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno sapeva qualcosa e visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa. Se non ci fosse stato quel nome sulla carta geografica, oppure se fosse stata Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito. Il fatto è che il nome era sconosciuto e allora ho riferito. »
L'informazione fu ritenuta attendibile dal momento che, quattro giorni dopo, il 6 aprile, la questura di Viterbo, su ordine del Viminale, organizzò un blitz armato nel borgo medievale di Gradoli, vicino Viterbo, alla ricerca della possibile prigione di Moro.
La vedova di Moro dichiarò di aver più volte indicato agli inquirenti l'esistenza di una via Gradoli a Roma, senza che questi estendessero le ricerche anche a questa, (gli inquirenti avrebbero asserito che non esisteva una simile strada negli stradari di Roma). Questa circostanza è stata confermata anche da altri parenti, ma è stata energicamente smentita da Francesco Cossiga, all'epoca dei fatti Ministro dell'Interno.
La questione sulla seduta spiritica venne riaperta nel 1998 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo e le stragi: l'allora Presidente del Consiglio Prodi, dati gli impegni politici di poco precedenti alla caduta del suo governo nell'ottobre 1998, si disse indisponibile per ripetere l'audizione; si dissero disponibili Mario Baldassarri (senatore di AN, viceministro per l'Economia e le Finanze dei governi Berlusconi II e Berlusconi III, al tempo del rapimento di Moro docente presso l'Università di Bologna) e Alberto Clò (economista ed esperto di politiche energetiche, Ministro dell'Industria nel governo Dini e proprietario della casa di campagna dove avvenne la seduta spiritica, al tempo del rapimento di Moro assistente e poi docente di economia all'Università di Modena), anche loro presenti alla seduta spiritica. Entrambi, pur ammettendo di non credere allo spiritismo e di non aver più effettuato sedute spiritiche dopo quella, confermarono la genuinità del risultato della seduta e dichiararono che né loro né, per quanto ne sapevano, nessuno dei presenti (partecipanti al gioco del piattino o meno, oltre a loro tre erano presenti il fratello di Clò, le relative fidanzate, e i figli piccoli dei commensali) aveva conoscenze nell'ambiente dell'Autonomia bolognese o negli ambienti vicini alle BR. Alla critica relativa al fatto che qualcuno dei presenti avrebbe potuto guidare il piattino, Clò sostenne che la parola «Gradoli», così come «Bolsena» e «Viterbo», si erano formate più volte e con partecipanti diversi.
È stata prospettata la possibilità che elementi della 'Ndrangheta fossero coinvolti nell'agguato di via Fani e nel sequestro. È quanto emergerebbe da una telefonata tra il segretario di Moro, Sereno Freato, e Benito Cazora, deputato della DC; quest'ultimo era entrato in contatto con un certo «Rocco», poi identificato in Salvatore Varone, che aveva dichiarato di essere a conoscenza, tramite la malavita, dell'ubicazione della prigione di Moro che egli si offriva di rivelare in cambio di favori alle norme di confino alle quali era sottoposto. Il 18 aprile Varone ritornò in contatto con Cazora e richiese una foto originale di via Fani in cui egli riteneva potesse essere identificato un suo parente. Cazora ne parlò quindi a Freato ma non riuscì a ottenere la foto; non è chiaro a quale foto ci si riferisse. Inoltre Cazora non riuscì neppure a ottenere per Varone i benefici richiesti ottenendo un rifiuto sia dai funzionari ministeriali, sia da Giuseppe Pisanu, sia dal ministro Cossiga. Nonostante questo Varone diede alcune indicazioni sulla possibile prigione di Moro che però, nonostante gli accertamenti compiuti dalle autorità, si rivelarono completamente inutili.
Tommaso Buscetta raccontò che Salvo Lima e i cugini Salvo, su ordine di Giulio Andreotti, interessarono il boss mafioso Stefano Bontate per cercare la prigione di Moro: Bontate allora incaricò lo stesso Buscetta, all'epoca detenuto, di contattare gli esponenti delle Brigate Rosse in carcere per avere informazioni e cercò la mediazione di Giuseppe Calò, per via dei suoi legami con la banda della Magliana. Calò però chiese a Bontate di interrompere le ricerche, in quanto tra gli esponenti della DC non vi sarebbe più stata la volontà di cercare di liberare Moro. Dalla testimonianza di Francesco Marino Mannoia Bontate aveva convocato Calò per chiedere il suo intervento al fine di liberare Moro, ma il boss rispose dicendo che Cosa nostra non avrebbe avuto alcun interesse a muoversi. All'insistenza di Bontate, Calò avrebbe scosso le spalle, rispondendo: «Stefano, ma ancora non l'hai capito che sono proprio loro, gli uomini del suo stesso partito, a non voler affatto che sia liberato... ?!». Infatti, sempre secondo Buscetta, Andreotti, che in un primo momento si era adoperato a cercare Moro, era stato indotto a cambiare ogni iniziativa dalla notizia che il prigioniero stava collaborando con le Brigate Rosse e gli stava rivolgendo pesanti accuse.
Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, ha riferito a partire dal 1990, in modo confuso e variando più volte il suo racconto dei fatti, che egli si attivò per ricercare la prigione di Moro e sarebbe entrato in contatto con l'esponente della Banda della Magliana Franco Giuseppucci. Questi dopo qualche giorno avrebbe riferito a Cutolo che Nicolino Selis, altro membro della banda, sarebbe stato a conoscenza del luogo, che si sarebbe trovato vicino a un appartamento che egli utilizzava come nascondiglio di emergenza. Cutolo avrebbe quindi comunicato all'avvocato Francesco Gangemi di poter aprire una trattativa; a dire del capo della Camorra, l'avvocato avrebbe a sua volta contattato dei politici o ambienti del Ministero dell'Interno. Il boss esplicitò che i servizi segreti italiani e non i servizi segreti deviati avevano posto il veto all'intermediazione per la salvezza dell'allora presidente della Democrazia Cristiana. Nella testimonianza di Cutolo, avendo egli preso contatti con Roma per tramite di un suo avvocato, gli fu chiesto di starsene da parte e di non impicciarsi nella faccenda. Valerio Morucci ha completamente screditato davanti alla Commissione Stragi questo confuso racconto: il brigatista ha evidenziato come i militanti dell'organizzazione fossero all'apparenza «gente normalissima in giacca e cravatta», completamente estranei all'ambiente della malavita e quindi molto difficilmente identificabili da parte della banda della Magliana. Morucci concluse: «Non eravamo una banda criminale... non ci incontravano sotto i lampioni... non facevamo traffici strani... non vedo come la banda della Magliana o chicchessia potesse individuare le brigate Rosse».
Stando a quanto riferito da alcuni collaboratori di giustizia, le varie mafie italiane in un primo momento si interessarono alla questione, cercando di operare per la liberazione di Moro e/o per individuare il covo dove veniva tenuto prigioniero, anche su richiesta di alcuni interlocutori appartenenti alle istituzioni, ma dalla metà di aprile questi tentativi vennero interrotti da richieste opposte (le due posizioni non furono comunque condivise da tutti i gruppi e causarono una spaccatura all'interno di Cosa nostra tra i Corleonesi, contrari a portare avanti i tentativi di individuare la prigione di Moro, e i palermitani). Secondo quanto riportato durante uno dei processi dal giornalista Giuseppe Messina, uno dei suoi contatti con la mafia siciliana gli aveva comunicato che l'organizzazione aveva cambiato opinione sulla liberazione di Moro, in quanto questi voleva un governo aperto al PCI e questo era in contrasto con l'anticomunismo della mafia stessa.
Il 15 ottobre 1993 Saverio Morabito, un collaboratore di giustizia della 'Ndrangheta, ha dichiarato che in via Fani sarebbe stato presente anche Antonio Nirta, appartenente alla mafia calabrese e infiltrato nel gruppo brigatista. Secondo Morabito, inoltre, Nirta sarebbe stato anche un confidente dei Carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino; egli avrebbe acquisito queste informazioni nel 1987 e nel 1990 da due malavitosi, Paolo Sergi e Domenico Papalia. Sia Delfino sia Nirta hanno poi smentito queste affermazioni; inoltre le presunte rivelazioni del Morabito non sono supportate da altre fonti e sono state ritenute dalla Commissione Stragi «non ancora supportate da adeguati riscontri».
La commissione parlamentare d'inchiesta del 2015 sul caso Moro nella sua prima relazione resa pubblica il 10 dicembre 2015 emerge sia la probabile connessione con un'arma dei mafiosi calabresi presente durante il sequestro sia i presunti contatti per trovare l'ubicazione di Moro salvo poi dopo la richiesta di non interessarsene più. In questo stesso periodo il boss camorrista Raffaele Cutolo confessa che durante la sua detenzione con un boss di spicco della 'ndrangheta gli sarebbero stati rivelati contatti tra i criminali calabresi e le brigate rosse. La commissione parlamentare in merito a ciò conferma che durante la detenzione Cutolo era in carcere con un boss di 'ndrangheta compatibile con quanto da lui raccontato.
Il giornalista Carmine Pecorelli, che apparentemente godeva di numerose conoscenze all'interno dei servizi segreti, nella sua agenzia di stampa Osservatore Politico (OP) si occupò più volte sia del rapimento Moro, sia della possibilità che Moro potesse essere in qualche modo bloccato nel suo tentativo di aprire il governo al PCI.
Il 15 marzo, il giorno prima del rapimento, la sua OP pubblica un articolo sibillino che, citando l'anniversario delle Idi di marzo e collegandolo con il giuramento del governo Andreotti, farebbe riferimento a un possibile nuovo Bruto (uno degli assassini di Cesare).
Successivamente, durante la prigionia di Moro, Pecorelli nei suoi articoli dimostra di conoscere l'esistenza del memoriale (mesi prima del suo ritrovamento), di alcune lettere ancor prima che venissero rese pubbliche. Ipotizza la presenza di due gruppi all'interno delle BR, uno trattativista e uno invece deciso a uccidere comunque Moro, e fa trapelare il sospetto che il gruppo che ha materialmente effettuato l'agguato in via Fani non sia poi lo stesso che l'aveva pianificato e stava gestendo anche il sequestro escludendo peraltro che il gruppo storico delle BR (Curcio e altri già arrestati) avesse a che fare con il rapimento.
Sul ritrovamento del covo di via Gradoli Pecorelli fece notare come, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato dai brigatisti, nel covo tutte le possibili prove della presenza di questi era in bella mostra. Sui possibili mandanti evidenzia come il progetto di apertura dal governo al PCI di Berlinguer, tra i principali sostenitori dell'Eurocomunismo, sarebbe stato mal visto sia dagli Stati Uniti (per via del fatto che avrebbe cambiato gli equilibri di potere sia nazionali sia internazionali), sia dall'URSS (dato che avrebbe dimostrato che un partito comunista poteva andare al governo in maniera democratica e senza essere diretta emanazione del PCUS di Mosca).
Il 20 marzo 1979 Pecorelli fu ucciso a colpi d'arma da fuoco davanti alla sua abitazione. Nel 1992 Tommaso Buscetta rivelò che l'uccisione fu eseguita dalla mafia – con la manovalanza romana della Banda della Magliana – per «fare un favore ad Andreotti», preoccupato per certe informazioni sul caso Moro: Pecorelli avrebbe ricevuto dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa (di cui si conosce una domanda di adesione alla P2, ma apparentemente senza seguito) copia degli originali delle lettere di Aldo Moro che contenevano pesanti accuse nei confronti di Giulio Andreotti, e vi avrebbe alluso in alcuni articoli di OP.
Della circolazione in quegli anni a Roma di una versione integrale delle lettere di Moro scoperte dai Carabinieri nel covo milanese di via Monte Nevoso (delle quali solo un riassunto fu nell'immediato reso pubblico, il cosiddetto Memoriale Moro, mentre il testo integrale riaffiorò solo nel 1990 durante una ristrutturazione dell'appartamento che aveva ospitato il covo) fu prova un episodio verificatosi qualche anno dopo: al congresso socialista di Verona del 1983 Bettino Craxi diede lettura di una lettera di Aldo Moro, pesantemente critica verso i suoi compagni di partito, il cui testo non risultava da nessuno degli atti pubblicati fino a quel momento; la cosa fu considerata una sottile minaccia – nell'ambito della guerra sotterranea tra la DC e il PSI – e produsse animate critiche che raggiunsero anche l'ambito parlamentare.
Lo storico Giuseppe Tamburrano, nel 1993, espresse dei dubbi su quanto detto dai collaboratori di giustizia, poiché dopo aver confrontato i due memoriali (quello «amputato» del 1978 e quello «completo» del 1990) notò che le accuse di Moro rivolte ad Andreotti erano le stesse, per cui quest'ultimo non aveva nessun interesse a ordinare l'omicidio di Pecorelli, che non poteva minacciarlo di pubblicare cose già note e di pubblico dominio.
Nel processo a suo carico, Andreotti in primo grado fu assolto per non aver commesso il fatto, mentre la Corte d'appello di Perugia lo condannò a 24 anni di reclusione il 17 novembre 2002. Andreotti fece ricorso in Cassazione, che il 30 ottobre 2003 annullò la sentenza senza rinvio, rendendo definitiva l'assoluzione di primo grado.
Un altro personaggio che è stato spesso al centro delle ipotesi di giornalisti e politici è l'esperto statunitense giunto su invito di Cossiga, Steve Pieczenik, al tempo assistente del Sottosegretario di Stato e Capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato Statunitense, e rimasto in Italia circa tre settimane. Dopo la carriera come negoziatore ed esperto di terrorismo internazionale ha cominciato a collaborare con Tom Clancy, nella stesura di libri e film.
Il suo nome, come quello degli altri esperti, venne diffuso solo agli inizi degli anni Novanta. Dopo che venne resa pubblica la composizione dei tre comitati, durante le indagini della Commissione Stragi vennero richiesti i documenti prodotti da questi: si scoprì che erano presenti solo alcune relazioni di un comitato degli esperti, ma nulla di quanto prodotto dagli altri due. In una relazione a lui attribuita, Pieczenik analizzava le possibili conseguenze politiche del caso Moro, l'eventualità che l'operazione delle Brigate Rosse avesse avuto un appoggio dall'interno delle istituzioni oltre che alcuni consigli su come poter agire per far uscire allo scoperto i brigatisti. Dopo che il contenuto di questa relazione, intitolata Ipotesi sulla strategia e tattica delle BR e ipotesi sulla gestione della crisi, è stato reso noto, Pieczenik ne ha tuttavia negato la paternità, affermando che si trattava di un falso, contenente sia alcune delle teorie e ipotesi da lui effettivamente elaborate al tempo, sia alcuni consigli operativi su cui non concordava, che erano nello stile di Ferracuti, e che per prassi non aveva lasciato nulla di scritto. Il giornalista Robert Katz, che ha intervistato Pieczenik sul caso, fa anche notare che il supposto rapporto contiene riferimenti al comunicato n. 8 del 24 aprile relativi allo scambio tra Moro e 13 detenuti, riferimenti impossibili per via del fatto che l'esperto statunitense aveva lasciato l'Italia il 15 aprile.
Stando a quanto raccontato da Cossiga e dallo stesso Pieczenik, inizialmente l'idea dello statunitense era quella di inscenare una finta apertura alla trattativa, per ottenere più tempo e cercare di far uscire allo scoperto i Brigatisti, in modo da poterli individuare.
In alcune interviste rilasciate successivamente a questi fatti, Pieczenik affermò che durante i giorni del sequestro vi erano notevoli falle che permettevano di far giungere informazioni riservate al di fuori delle discussioni dei comitati e che non aveva l'impressione che la classe politica fosse vicina a Moro:
« Ci fu una cosa che emerse in maniera chiarissima, e che mi sbalordì. Io non conoscevo l'uomo Aldo Moro, dunque desideravo farmi un'idea di che persona fosse e di quanta resistenza avesse. Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che lo conosceva bene, e... ecco, alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati. Dopo un po' mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all'esterno. Lo sapevo perché ci fu chi - persino le BR - rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall'interno del nostro gruppo. C'era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. "C'è un'infiltrazione dall'alto, da molto in alto". "Sì" rispose lui "lo so. Da molto in alto". Ma da quanto in alto non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due. Cossiga e io, ma la falla non accennò a richiudersi. »
(I giorni del complotto, articolo del giornalista Robert Katz, pubblicato su Panorama del 13 agosto 1994.)
Tornato in America fu contattato da un consigliere politico dell'ambasciata argentina (Paese al tempo sottoposto a una dittatura militare) per chiedere aiuto contro sospetti terroristi. Al rifiuto di Pieczenik questo lo minacciò di fargli pervenire un ordine ufficiale da parte del Dipartimento di Stato. Secondo il negoziatore, il consigliere avrebbe potuto essere in realtà un agente segreto, che in qualche modo «era al corrente di ciò che era accaduto nelle stanze romane di Cossiga. Sapeva esattamente cosa vi avevo fatto nelle ultime tre settimane, anche se avrebbe dovuto trattarsi di segreti. Non mi spiegò in che modo fosse venuto a conoscenza di tutto ciò, e l'unica cosa che potei fare fu dedurne che la fuga di notizie faceva rotta diretta verso l'Argentina» e che «parlava in tono arrogante e pieno di sottintesi, come se a unirci fosse stata l'affiliazione a qualche misteriosa confraternita»; confraternita e fonte delle informazioni che Pieczenik identifica, a posteriori rispetto all'evento, con la loggia massonica P2, dopo che la pubblicazione dei nomi degli iscritti e le successive indagini avevano mostrato come molti degli appartenenti dei tre comitati ne facessero parte e come questa avesse legami proprio con l'Argentina.
Dopo alcuni accordi per essere sentito dalla Commissione Stragi, in un primo tempo accettò l'invito, ma poi improvvisamente rifiutò di presentarsi in Italia.
Nel 2008, a trent'anni di distanza dai fatti, durante la preparazione del documentario francese Les derniers jours de Aldo Moro, il giornalista Emmanuel Amara entrò in contatto con Pieczenik, che accettò di farsi intervistare. Il contenuto di questa intervista è stato poi inserito nel saggio Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro. Nell'intervista riportata nel libro stesso riassume quello che sarebbe stato il suo compito durante il rapimento Moro:
« Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all'interno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un'interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile. Il tempo, necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza in una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all'economia. Bisognava fare attenzione sia a sinistra sia a destra: bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra.
Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l'ostaggio per la stabilità dell'Italia. »
(Steve Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro, Cooper, pag 102 e 103.)
« Ho atteso trent'anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d'accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate rosse per farlo uccidere. »
(Steve Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro. La vera storia del rapimento Moro, Cooper, pag 186.)
Il fatto che Moro fosse ormai sacrificabile in nome della «ragion di Stato» sarebbe divenuto chiaro a Pieczenik nel momento in cui, a fronte di indagini inconcludenti e informazioni riservate che venivano continuamente diffuse, il presidente democristiano avrebbe cominciato a scrivere lettere sempre più preoccupate, che potevano far supporre che stesse per cedere psicologicamente.
Pieczenik ha affermato che appena arrivato in Italia venne informato da Cossiga che le istituzioni italiane non avevano idea di come uscire dalla crisi e che sia lo stesso Cossiga, sia i servizi segreti Vaticani che avevano offerto la loro collaborazione, lo avevano informato che in Italia da pochi mesi era stato effettuato un tentativo di colpo di Stato da parte di esponenti dei servizi segreti, principalmente di destra, e di persone che successivamente identificò come legate alla loggia P2, ma che il tentativo era fallito e che lo stesso Cossiga era riuscito a «fare un po' di pulizia e a riprendere il controllo su una parte di quegli elementi». Lo stesso Pieczenik si diceva stupito della presenza di tanti ex fascisti all'interno dei servizi segreti, tanto da avere l'impressione di ritrovarsi «nel quartiere generale del duce, di Mussolini», dicendo che durante il sequestro la «capacità di disturbo» di questi gruppi non fu così energica come temeva in un primo tempo. Anche le Brigate Rosse, secondo l'esperto, avevano infiltrati nelle istituzioni, e godevano di informazioni di prima mano fornite da figli di politici e funzionari italiani che simpatizzavano per il gruppo, o perlomeno militavano nei gruppi di estrema sinistra. Queste infiltrazioni vennero studiate, pur senza portare a nessuna individuazione sicura, da Pieczenik con l'aiuto dei servizi Vaticani, che l'esperto statunitense riteneva al tempo molto più efficienti e informati di quelli italiani.
Oltre a confermare quanto già detto in precedenti interviste, Pieczenik ha raccontato di aver partecipato in prima persona alla decisione di creare il falso comunicato n. 7, e ha rivelato di aver spinto le Brigate Rosse a uccidere Moro, con lo scopo di delegittimarle, quando ormai era chiaro (dal suo punto di vista) che non ci sarebbe stata la volontà di liberarlo da parte della classe politica, affermando: «Ho permesso che si servissero di questa violenza fino al punto di perdere tutta la loro legittimità. Piuttosto che riconoscere il loro errore, sono sprofondati in quella spirale che li ha portati alla fine»). Pieczenik ha anche sostenuto che gli Stati Uniti, pur avendo numerosi interessi in Italia (a cominciare dalle truppe dislocate), non erano al corrente della situazione del Paese (né per quello che riguardava il terrorismo di sinistra, né per quello che riguardava i gruppi eversivi di destra o i servizi deviati) e che quindi non poté avere aiuti né dalla CIA né dall'ambasciata statunitense in Italia. Lo stesso Dipartimento di Stato gli avrebbe fornito come informazioni sull'Italia solo articoli tratti da TIME e Newsweek.
Secondo l'esperto l'unico modo che avevano le Brigate Rosse di legittimarsi in qualche modo e distruggere i tentativi di stabilizzazione da lui portati avanti, sarebbe stato il rilascio di Moro, ma questo non avvenne.
Il fatto che fosse tornato in America anzitempo, secondo quanto affermato, era dovuto al fatto che non voleva dare l'impressione che dietro la ormai prevedibile morte di Moro vi potessero essere pressioni statunitensi. Precedentemente aveva invece affermato che se ne era andato perché la sua presenza non fosse strumentalizzata per legittimare l'operato (ritenuto inefficiente e compromesso) delle istituzioni.
Sul luogo della strage sono stati ritrovati 93 bossoli. Con questo elevato numero di colpi sparati in pochi secondi vengono colpiti tutti gli uomini della scorta di Aldo Moro: Oreste Leonardi Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino e Francesco Zizzi; tuttavia il Presidente della DC restò vivo, il che potrebbe far pensare a un'elevata esperienza da parte di chi stava usando quelle armi. I brigatisti Morucci, Moretti, Gallinari, Bonisoli e Fiore hanno sempre dichiarato che i militanti dell'organizzazione non erano addestrati professionalmente e non erano molto esperti di armi. I brigatisti hanno affermato che l'azione si fondava soprattutto sull'effetto sorpresa, che non era necessario un addestramento militare specifico ma che invece era richiesta rapidità e grande determinazione per avvicinarsi al massimo alle auto sparando a distanza ravvicinata sugli occupanti senza rischiare di colpire Moro e senza dare modo agli agenti, ritenuti pericolosi e preparati, di reagire.
Secondo le perizie balistiche presentate al processo «Moro–quater», una sola arma automatica risulta aver sparato più della metà dei colpi quel giorno: 49 colpi in 20 secondi. Tuttavia l'autopsia del cadavere di Moro ha evidenziato una ferita da arma da fuoco sulla coscia, riconducibile alla sparatoria dell'agguato; poiché Moro sedeva da solo sul sedile posteriore della sua vettura, non sarebbe risultato molto difficile per gli aggressori dirigere il fuoco delle loro armi verso la parte anteriore della vettura, dove si trovava l'autista e la guardia del corpo. I componenti del commando di via Fani indossavano divise da aviazione civile, invece di indossare vestiti in grado di farli passare inosservati, sia prima dell'operazione, sia durante la fuga; per quanto l'indossare divise offra il vantaggio di un'omogeneizzazione visiva delle persone, rendendole meno distinguibili singolarmente. Nella stessa perizia fu scritto anche che, contrariamente a quanto dichiarato dal brigatista Morucci, a sparare sulla Fiat 130 era presente almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dell'auto dal lato passeggero.
Partendo dai dubbi sull'apparente professionalità mostrata nel colpire la scorta senza uccidere Moro, alcuni hanno ipotizzato che nel commando vi fosse un tiratore scelto armato di mitra a canna corta, che sarebbe colui il quale ha sparato la maggior parte dei colpi, la cui identità sarebbe ancora sconosciuta. Il settimanale L'Espresso ha proposto un'identità al fantomatico cecchino. Si tratterebbe di un tiratore scelto, ex membro della Legione straniera, Giustino De Vuono, colui che avrebbe sparato tutti i 49 colpi andati a segno e , soprattutto, tutti quelli che hanno centrato gli uomini della scorta, guardie del corpo esperte e abituate a rispondere al fuoco. Agli atti della Questura di Roma si trova depositata una testimonianza, contenuta in un verbale datato 19 aprile 1978, in cui il teste Rodolfo Valentino afferma di aver riconosciuto De Vuono alla guida di una Mini o di un'A112 di color verde e presente sulla scena dell'eccidio. Altri, ipotizzano potrebbe essere stato un componente del servizio segreto (italiano o straniero) o dell'organizzazione clandestina Gladio estraneo all'organizzazione brigatista e che le divise sarebbero quindi state necessarie per rendere riconoscibili a prima vista e reciprocamente i brigatisti e il tiratore scelto.
Durante i 55 giorni – peraltro – De Vuono risultò assente dalla sua abituale residenza, a Puerto Stroessner (oggi Ciudad del Este, nel Paraguay meridionale, all'epoca dei fatti retto da una giunta militare trentennale con a capo il generale Alfredo Stroessner). De Vuono era affiliato alla 'Ndrangheta calabrese e diversi brigatisti testimoniarono che le BR si rifornivano di armi proprio dai malavitosi calabresi; inoltre De Vuono era ideologicamente «collocato all'estrema sinistra». È stato anche provato che in Calabria lo Stato aveva avviato contatti con la malavita per ottenere il rilascio di Moro.
In alternativa, l'identità del fantomatico tiratore scelto avrebbe potuto anche essere stata straniera. Un testimone occasionale, che si trovava a passare per via Fani circa mezz'ora prima della strage, sarebbe stato affrontato da un uomo che aveva l'accento tedesco e che gli ordinò di scappare via di lì. Si presume che fosse un appartenente alla RAF, l'organizzazione terroristica della Germania Ovest che sei mesi prima aveva pianificato ed eseguito un rapimento simile ai danni del presidente della Confindustria tedesca. Le perizie hanno appurato che in via Fani erano state usate anche munizioni di provenienza speciale (ricoperte di una vernice protettiva usata per avere una migliore conservazione), simili pallottole furono trovate anche nel covo di via Gradoli.
Inoltre, alcuni testimoni occasionali dichiararono di aver udito un forte rumore di elicottero sorvolare la zona di via Fani in concomitanza della strage, sebbene dai piani di volo risultino solo elicotteri della polizia in volo su quell'area ma a partire dalla tarda mattinata, a sequestro compiuto. C'è, infine, l'autorevole dichiarazione rilasciata alla stampa da parte del generale Gerardo Serravalle, fino al 1974 a capo della struttura Gladio, secondo il quale «dietro la "Geometrica Potenza" brigatista dispiegata in via Fani c'erano killer professionisti. Uno che spara in quel modo, centrando come birilli, tutti gli uomini della scorta senza lasciar loro il tempo per la fuga o per la difesa, è senza dubbio alcuno un tiratore scelto di altissimo livello; 49 colpi in una manciata di secondi: un record. In Europa di siffatti uomini si contano sulle dita d'una mano!». I brigatisti coinvolti nel sequestro Moro hanno sempre negato la presenza di componenti esterni alla loro organizzazione.
Nelle settimane precedenti all'agguato di via Fani si verificarono due episodi sospetti. Il primo lo segnalò Franco Di Bella (direttore del Corriere della Sera), che mentre si stava recando nello studio di Moro, in via Savoia, fu avvicinato da una persona armata di pistola, a bordo di una moto; il secondo fu la presenza di un tale Gianfranco Moreno di fronte allo studio di via Savoia, il 24 febbraio. Questo fatto fu denunciato da un inquilino del palazzo. Successivamente Nicola Rana, uno dei collaboratori del presidente democristiano, raccontò che il 15 marzo Giuseppe Parlato (Capo della Polizia) si recò nello studio di Moro per rassicurarlo su questo episodio.
Gli agenti di scorta di Moro (l'appuntato dei Carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana), che la mattina del rapimento non erano in servizio, rilasciarono dichiarazioni scritte stranamente molto simili tra loro, tra il 13 e il 26 di settembre 1978 ai Giudici Istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Gallucci. Gli agenti spiegarono che Moro era un personaggio fortemente abitudinario, al punto che usciva di casa sempre alla medesima ora (alle 9:00) cosicché i brigatisti, pedinandolo, avrebbero avuto maggiore certezza nei tempi per l'agguato. Tuttavia il 23 settembre 1978 la moglie Eleonora smentì questa versione nell'interrogatorio davanti al magistrato Achille Gallucci.
La Banda della Magliana in quel periodo dettava legge nella malavita della Capitale. A quest'organizzazione criminale apparteneva Antonio Chichiarelli, l'autore del falso volantino brigatista. Inoltre, il covo brigatista ove Moro venne tenuto sotto sequestro si trovava nel quartiere della Magliana e anche il proprietario dell'edificio di fronte al covo era vicino all'organizzazione romana.
All'epoca del ritrovamento del cadavere, e nei giorni immediatamente successivi, alcuni quotidiani a tiratura nazionale asserirono che nelle tasche dell'abito di Moro fossero stati ritrovati dei gettoni telefonici, il che avrebbe lasciato adito a dubbi sul fatto che i brigatisti avessero intenzione di rilasciare l'ostaggio. Mario Moretti ha smentito questa ricostruzione.
Dopo la «condanna a morte» e prima dell'uccisione, l'allora confessore di Moro Don Antonio Mennini – in base a una dichiarazione di Francesco Cossiga – entrò nella cella in cui le Brigate Rosse tenevano rinchiuso Aldo Moro per impartirgli i sacramenti. Nel 2015 Don Mennini ha smentito questa ricostruzione.
I giornalisti Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca nel loro libro Il misterioso intermediario sostengono che Moro era vicino alla liberazione, salvato da una mediazione della Santa Sede. Condotto in un palazzo del ghetto ebraico, stava per essere trasportato in Vaticano su un'auto con targa diplomatica, ma all'ultimo momento qualcuno all'interno delle BR non avrebbe mantenuto gli impegni, e avrebbe ucciso il prigioniero. Dà spazio a congetture l'ambiguo commento di Francesco Cossiga che definì il libro «bellissimo».
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