giovedì 22 settembre 2016

LE SOLDATESSE

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Francesca Scanagatta è un personaggio singolare dell'Ottocento italiano. La vita di Francesca, fino a quel momento del tutto normale, cambiò radicalmente quando si ammalò uno dei fratelli che avrebbe dovuto frequentare l'Accademia Militare Teresiana di Wiener Neustadt. Francesca, che amava i poemi eroici e leggendari e si entusiasmava alle vicende delle amazzoni, si travestì allora da uomo e seguì al suo posto del fratello i corsi dell'Accademia, dal 16 febbraio 1794 al 16 gennaio 1797, combattendo poi nelle guerre napoleoniche in Germania e in Italia. Fu decorata e promossa.
Nel 1800 fu scoperta e congedata, ma ottenne una pensione. Poi si sposò e dal matrimonio nacquero quattro figli. Diventata nonna e bisnonna si sarà certamente augurata prima di chiudere gli occhi nel 1864 all’età di ottantotto anni, che le sue discendenti potessero un giorno vestire una divisa senza più menzogne e sotterfugi.

Le donne italiane con le stellette hanno dimostrato di essere più predisposte a svolgere attività particolarmente delicate quali, ad esempio, il sostegno alle vittime di violenza sessuale, il lavoro nelle prigioni femminili, l'addestramento delle donne cadetto nelle accademie di polizia. Oltre a questo valore aggiunto, le donne militari impegnate nelle missioni di pace costituiscono anche un modello per le donne che vivono in lontane comunità.
L'esempio delle donne peacekeeper è fonte di ispirazione ed incoraggiamento per donne e ragazze appartenenti a società spesso controllate da uomini, dimostrando loro che è possibile, per il genere femminile diventare protagoniste delle loro esistenze.
Mentre in Europa il velo è fonte di polemica e di battaglie legali, in altri paesi può essere un mezzo per favorire la comunicazione e il dialogo tra appartenenti a culture diverse. Una donna soldato italiana ha infatti capito che per una "straniera" in cerca di un contatto verso la comunità, indossare il velo poteva essere il mezzo per abbattere la barriera delle differenze e muovere un primo passo verso l'integrazione nella comunità.
E' quanto si è verificato ad Herat, in Afghanistan, nella zona di controllo dell'esercito italiano, dove la tenente degli Alpini Silvia Guberti ha scelto di mettere il velo per facilitare il suo lavoro a contatto con le donne del luogo. Guberti è a capo di un team che porta avanti azioni rivolte alle donne afgane, insieme alla caporalmaggiore Laura Fortunato e ad un'interprete afgana.

Il primo esempio di "donne soldato" risale al 1992: lo realizzò l'Esercito nella caserma dei 'Lancieri di Montebello', dove fu consentito a 29 ragazze di svolgere per 36 ore le normali attività di addestramento. Con il superamento di un percorso di guerra, con tanto di filo spinato e lotta nel fango, le 29 rappresentanti del gentil sesso fecero da spartiacque per tutte coloro che in futuro avrebbero portato un tocco di rosa nelle caserme. Ma bisogna aspettare sette anni (arrivando ultimi a livello europeo) perché il disegno di legge presentato dall'onorevole Valdo Spini ed altri venisse approvato, a larghissima maggioranza, il 29 settembre 1999. La parità non è stata inizialmente completa: c'era una regola che differenziava nettamente il servizio volontario femminile da quello maschile: le donne non potevano andare in prima linea.

Il Parlamento dava così il via libera all'ingresso delle donne nelle Forze armate a partire dall'anno 2000. La legge n. 380 del 20 ottobre 1999 ha delegato il Governo a predisporre uno o più decreti per disciplinare l'istituzione del servizio militare volontario femminile. I decreti sono stati tre, uno dei quali riguardanti l'altezza: non meno di 1 metro e 61 (1 e 65 per i carabinieri e i piloti).
Ecco i tratti fondamentali della legge sopra citata:
-assicurare la realizzazione del principio delle pari opportunità uomo-donna, nel reclutamento del personale militare, nell'accesso ai diversi gradi, qualifiche, specializzazioni ed incarichi del personale delle Forze armate e del Corpo della Guardia di finanza;
-applicare al personale militare femminile e maschile la normativa vigente per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni in materia di maternità e paternità e di pari opportunità uomo-donna, tenendo conto dello status del personale militare.

Oggi le donne soldato in Italia sono circa 11000; esse rappresentano ancora una minima parte rispetto ai loro colleghi, al contrario di altri paesi Europei dove i numeri crescono ampiamente. Inoltre anche se sulla carta questo non accade, come dimostrano alcune testimonianze, l’ avanzamento di carriera per le donne trova notevoli ostacoli. Infatti la lotta delle donne per far valere i propri diritti all’interno dell’ esercito non può dirsi ancora conclusa. Visivamente le donne in divisa hanno ancora un impatto molto forte; per molti l'espressione "donna soldato" costituisce ancora una contraddizione, ma certo non per le reclute che ogni anno scelgono di intraprendere questa carriera. Per le soldatesse, questa è ancora una fase di affermazione della personalità, in cui agiscono con molta più determinazione perché sentono di dover dimostrare di valere almeno quanto gli uomini. È una battaglia personale. Nelle donne nasce infatti il desiderio di non sentirsi differenti: «Qui non siamo né uomini, né donne: siamo soldati» rivela una volontaria, come se l'essere un soldato diventasse un valore che supera la distinzione sessuale.
Amara è la lettera inviata ad un settimanale da un’altra volontaria dell’esercito: “… quando decidi di arruolarti, a vent’anni, credi fermamente in ciò che fai, vivi per quel tricolore che porti sulla spalla, rinunci alla tua famiglia, agli amici … lo fai volentieri perché hai voglia di dare, come soldato e come persona ... e’ subito difficile gestire i rapporti con un mondo da sempre maschile … Passano gli anni e ti senti di dover dimostrare a questi uomini di essere più di loro, perché per essere giudicata al pari di un uomo, devi fare una stessa cosa ma dieci volte meglio…”. Afferma con delusione ma con orgoglio che anche la partecipazione alle missioni all’estero non è semplice “… se per un uomo partire è scontato, ogni donna viene scelta … nel primo elenco manca il tuo nome. Combatti per ottenere un posto … anche se l’ultimo arrivato ha già il suo posto. Dopo tutto sono solo una donna, no?”.

Le donne soldato, purtroppo, sono ancora spesso vittime di infondati pregiudizi da parte degli uomini, alcuni sostengono che la donna sia fisicamente inferiore all'uomo, che non sia portata per fare il soldato, che non abbia quella cattiveria che serve al soldato, che l'uomo non può prendere ordini da una donna soldato, che l'esercito è stato fin dai tempi antichi esclusiva maschile.
La recente regolarizzazione delle donne soldato dell’ultimo scorcio del XX secolo arriva in realtà come riconoscimento istituzionale di una figura, quella della donna guerriera, che è sempre esistita e che si è tramandata nei secoli passando sotto silenzio, emergendo di tanto in tanto nella figura di qualche eroina ancora oggi commemorata. Le sue tracce ricorrono anche a partire dalla leggenda delle Amazzoni, le famose guerriere di cui per primi ci diedero testimonianza gli antichi Greci. Inoltre le donne, che adorano il proprio mestiere e la divisa che indossano, dimostrano ogni giorno di essere professionali, competenti, preparate e soprattutto determinate e coraggiose, quanto gli uomini. Per capire quanto queste discriminazioni siano terribili basterebbe guardare tutto ciò dagli occhi di queste donne che, stringendo i denti, non curanti dei preconcetti di molti colleghi, sono pronte a combattere per difendere la patria e a lottare con forza per i propri diritti.

Secondo la legge una donna ha il pieno diritto di avere figli e di dedicarsi alla carriera militare. Nella realtà però, la questione non è cosi semplice a causa dei molti ostacoli che mamme soldato sono costrette a sopportare.

Per una donna è più facile ordinare una guerra che combatterla in prima persona. Nel 1982, durante la guerra delle Falklands, al numero 11 di Downing Street, c'era la signora di ferro, Margaret Thatcher, a comandare l'offensiva contro gli argentini. A battersi in prima fila sotto la bandiera di Sua Maestà per riconquistare l'arcipelago, però, donne non ce n'erano. Anche trent'anni dopo, oggi che le Forze Armate dei Paesi occidentali hanno aperto i ranghi al sesso femminile, per una donna sembra quasi più facile arrivare a posizioni di potere che andare al fronte. Basta guardare all'Europa: hanno affidato a una donna il ministero della Difesa Italia, Germania, Norvegia, Olanda, Albania, Montenegro. Ma in combattimento, no. Sembra quasi una logica da film bellico di terza categoria: dove fischiano le pallottole non è posto per signore. Persino i libri di storia confermano il pregiudizio: le eroine capaci di affrontare la morte senza paura non mancano, ma per molte di loro l'unica strada percorribile è quella di fingersi uomini.
Luogo comune o pregiudizio puro e semplice che sia, resta ancora consolidato al giorno d'oggi. L'altra metà delle stellette deve farsi largo a fatica, con il doppio dello sforzo. Arriva a comandare brigate, a pilotare navi o cacciabombardieri, a strappare l'ingresso nelle Forze speciali, ma in Occidente resta spesso accolta con un filo di condiscendenza dai commilitoni più tradizionalisti. Per limitare l'accesso delle donne alle posizioni più rischiose, cioè alle occasioni di combattimento, viene spesso citato il timore che i soldati maschi siano distratti dai loro compiti perché istintivamente sono portati a proteggere le colleghe. Apparentemente, all'origine di questa vicenda sembra esserci una citazione di Edward Luttwak, ripresa ampiamente dai circoli conservatori americani e basata, sostiene lo storico militare, sulle esperienze riferite dai militari israeliani durante la Guerra arabo-israeliana del 1948. In realtà questo comportamento incoerente non è mai stato evidenziato da esperimenti scientifici. E questo vale anche per gli altri luoghi comuni, come il presunto crollo psicologico degli uomini se vedono una donna ferita o uccisa.



Ma ci sono Paesi dove questi pregiudizi non vengono considerati, dove cioè le soldatesse rivestono anche ruoli di combattimento. Spesso il via libera alle donne arriva da motivazioni strategiche, cioè in Paesi che hanno estremo bisogno di militari per motivi storici e politici: Eritrea, Corea del Nord, la stessa Israele. Ma va sottolineato che il ruolo femminile è ancora più significativo nelle situazioni di scontro asimmetrico o non convenzionale. In altre parole, se gli eserciti delle nazioni sviluppate seguono regole rigide, evitando alle soldatesse l'impegno nelle situazione rischiose, gli schieramenti guerriglieri e le formazioni terroriste non si fanno troppi problemi. La tendenza era emersa già durante la guerra del Vietnam, per poi diventare comune nelle guerriglie moderne. Persino quando sono coinvolte fazioni che fanno riferimento alla religione islamica, il tradizionale ruolo subalterno della donna viene spesso dimenticato in favore dell'efficacia bellica. Le notizie degli ultimi mesi lo confermano: servono guerrieri per difendere Siria e Iraq, o almeno le province curde. E le donne peshmerga rispondono all'appello. Anche dall'altra parte, cioè fra le file del sedicente Stato islamico, ci sono combattenti con il velo. Insomma, se si tratta di apertura alle soldatesse, anche l'orda di Abubakr al Baghdadi appare più moderna delle Forze armate d'Occidente.

Le donne soldato soffrirebbero di disturbi mentali più del doppio dei loro colleghi maschi, anche se gli ufficiali tenderebbero a tenere nascosti problemi come lo stress post traumatico (definito PTSD) rispetto a coloro che hanno gradi inferiori. E a dirlo è un report del Dasa, il servizio di consulenza e analisi analitica del ministero della Difesa inglese, secondo il quale negli ultimi tre mesi del 2009 si sarebbero registrati 821 nuovi casi di disturbi psicologici accertati all’interno delle Forze Armate britanniche, con una crescita di 476 casi rispetto ai dati dell’ultimo quadrimestre e un’incidenza del 4 per 1000, che non si discosta molto dal 3,7 del periodo luglio-settembre 2009.

Un’analisi separata ha, poi, permesso di stabilire che le donne che lamentano tali tipi di disturbi, che vanno dalla depressione all’abuso di alcool e droga, sono oltre il doppio degli uomini, come conferma la percentuale di 7,6 per 1000 rispetto al 3,6 dei maschietti. Ma non è tutto. Sebbene il Dasa inviti alla cautela per il risultato dell’indagine e le inevitabili implicazioni che ne potrebbero derivare, è anche emerso che la percentuale relativa agli ufficiali che soffrirebbero di problemi di natura psicologica è sensibilmente più bassa rispetto a quella delle truppe (2,1 per 1000 contro 4,3), mentre i dati relativi all’esercito e alla RAF sono decisamente più alti di quelli della Marina (rispettivamente, 4,2 per 1000 e 4,4 per 1000 contro 2,7).

Ma l’eventuale impiego in zone di guerra non sembrerebbe avere troppa incidenza sui dati finali: stando, infatti, alla ricerca, comparando il personale che è stato inviato in Iraq e/o Afghanistan con quello che non si è mai mosso, non ci sarebbero differenze evidenti nel numero complessivo di disturbi mentali, mentre la percentuale di persone affette da PTSD sarebbe maggiore fra coloro che sono stati impiegati al fronte, sebbene tale disturbo resti ancora piuttosto limitato, visto che avrebbe colpito appena 44 persone nei tre mesi analizzati. A detta del Ministero della Difesa, sarebbero stati compiuti notevoli passi in avanti nel trattamento delle malattie mentali nelle truppe, fra cui l’introduzione di un sistema che insegna ai militari come individuare i segnali di stress ed angoscia nei loro commilitoni, così da spingerli a parlare apertamente dei loro problemi con gli esperti ed essere, quindi, aiutati. Sempre secondo i dati, il numero dei suicidi sembrerebbe essere in calo, sebbene i coroner abbiano ancora 19 verdetti di morte in sospeso: in pratica, i decessi archiviati come suicidi o verdetti aperti fra il 2000 e il 2009 sarebbero stati 163, per un totale di 737 dal 1984, di cui 19 donne. «C’è stata una chiara diminuzione nel numero dei suicidi nelle Forze Armate negli ultimi anni – ha spiegato un portavoce del Ministero della Difesa al "Times" – e ciò sta ad indicare che abbiamo fatto significativi progressi nella gestione dei suicidi e dei casi di autolesionismo e nell’individuazione e cura delle persone a rischio». A detta della "Combat Stress", l’associazione che aiuta i veterani di guerra con problemi psicologici, un soldato, uomo o donna che sia, ci mette all'incirca 14 anni per cercare assistenza nel risolvere i disturbi di natura mentale, tanto che ogni anno la charity riceve oltre 1000 richieste di aiuto e, ad ora, sono più di 4300 i militari di entrambi i sessi in cura presso la struttura.



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