lunedì 4 aprile 2016

LE MINE ANTIUOMO

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Le mine antiuomo, inventate e sviluppate durante le due guerre mondiali, erano all'inizio destinate a proteggere temporaneamente installazioni e obiettivi strategici. Le mine antiuomo possono causare vittime civili e continuare a danneggiare la popolazione locale anche molto tempo dopo la fine di un conflitto. Secondo le fonti che vanno contro l'impiego di questo tipo di ordigno oltre 35000 persone in Cambogia hanno sofferto di mutilazione o sono decedute a causa delle mine antiuomo molto tempo dopo la fine della Seconda Guerra d'Indocina e molte altre vittime ci sono state anche in Mozambico, Afghanistan, Angola, Cecenia, Kurdistan iracheno e ex-Iugoslavia. La rimozione delle mine terrestri è un'attività pericolosa, costosa e richiede tempi molto lunghi, e un terreno minato può risultare non percorribile e quindi non coltivabile o in generale non utilizzabile per decenni, specialmente nei paesi poveri che non hanno i mezzi per portare a termine lo sminamento. Oggi la maggior parte delle nazioni del mondo ha ufficialmente acconsentito a mettere al bando le mine antiuomo. Il record di un maggior numero di mine inesplose stimate appartiene ad Iraq e Afghanistan.

Esistono numerosi tipi di mine antiuomo: oggi se ne producono circa 340 tipi, sono molto sofisticate e poco costose; possono rimanere attive fino a quarant'anni. In media contengono circa 0,5 kg di esplosivo.

Le mine antiuomo sono attualmente messe al bando a livello mondiale dal Trattato di Ottawa del 1997 firmata da 138 paesi fra cui l'Italia. Tale convenzione entrata in vigore nel 1999 proibisce l'utilizzo, la vendita e la produzione di mine antiuomo e prevede che i paesi firmatari si impegnino in 4 anni a distruggere il loro stock di mine ed a bonificare le aree minate entro 10 km dalle loro frontiere. I paesi che non hanno firmato la convenzione sono: la Cina, gli Stati Uniti, la Russia, Cuba e Israele e Corea del Nord.

Ogni 20 minuti in qualche parte del mondo un essere umano salta su una mina, le mine antiuomo hanno causato 5.197 morti nel 2011, un terzo dei quali bambini.

Quando non uccidono, straziano corpi e anime. Invalidano per sempre, con costi enormi anche per la collettività. Le mine antiuomo continuano a mietere vittime innocenti. Perché sono l’arma più «abominevole e barbara mai concepita». Lo diceva già Kofi Annan. Tempo addietro si era accesa una fiammella di speranza. Morti e feriti sembravano in calo. E l’obiettivo di un mondo libero dalle mine nel 2025 non pareva così irraggiungibile. Ma i dati non mentono mai. Quando fu firmato il trattato in Canada, si contavano ancora 9mila vittime l’anno. L’interdizione e gli sforzi degli operatori di pace stavano garantendo ottimi risultati. Così fino al 2013. Ma da allora in poi il trend si è purtroppo invertito. Le vittime hanno ripreso a crescere, con un’iperbole nel 2014. Morti e feriti sono aumentati del 12%. Un dato 'inquietante', forse il più tragico del rapporto 2015 dell’Osservatorio sulle mine. Gli esperti che l’hanno redatto appartengono all’organizzazione non governativa Norwegian People’s Aid, un gigante mondiale della bonifica umanitaria, insieme ad Halo Trust e al Mines Advisory Group (MAG). Dalle 300 pagine del rapporto, emerge una mappa dai confini precisi. Vi spiccano dieci paesi, i più pericolosi e mortali a livello mondiale. Sono le macro-tessere di un mosaico infernale, intessuto di crisi e guerre, alcune semi-permanenti, altre dimenticate.

L'Afghanistan ha il triste primato. Le mine colpiscono qui più che altrove. Seguono la Colombia, l’Angola, la Bosnia, l’ex-Birmania, il Pakistan tribale, la Siria tragica, la Cambogia senza volto e il Mali del jihadismo rinascente. Molte delle campagne cambogiane sono tuttora minate. I contadini non possono tornare alle terre. Coltivarle è impossibile. «Troppo pericoloso», dicono gli esperti. Le mine le infestano. Sono un dramma umanitario che persiste, lontano dalle guerre, a decenni di distanza. Rallentano il ritorno dei profughi e degli sfollati. Distruggono le attività economiche. Ce ne sono nel mondo almeno 100 milioni. Pensate: dal 1945 sono state inventate 600 tipologie di mine terrestri. L’Italia era un grande produttore. Oggi non più, fortunatamente. Le sue mine ad 'azione estesa' hanno segnato una triste pagina dell’industria nazionale: le valmara-59 e le valmara-69 sono state utilizzate copiose dagli iracheni, per minare il deserto del Kuwait. Erano gli anni della prima guerra del Golfo. C’è un bellissimo libro di Gino Strada, che andrebbe letto e diffuso, per non dimenticare. Pappagalli Verdi racconta delle nostre mine antiuomo, impiegate dai mujhaeddin afghani. L’Afghanistan è pieno zeppo di mine: una, tremenda, è la sovietica Pfm-1. Ne avrete sentito già parlare: si chiama anche 'mina a farfalla', per la forma caratteristica, molto attraente per i bambini che la scambiano per un giocattolo. È stata prodotta nelle varie sfumature di marrone, verde e bianco.
Armi terribilmente semplici, fabbricate con pochi materiali: un involucro, una carica esplosiva e un congegno di accensione. È sufficiente una minima dimestichezza nell’uso degli esplosivi. Il web fornisce perfino manuali per realizzare ordigni anti-uomo, tanto rudimentali quanto esiziali. Tutti dal costo infimo. Il prezzo è garanzia di proliferazione: 3 dollari per le mine meno sofisticate e 10-15 per le più dirompenti. Molte componenti si trovano sul mercato civile. Altrimenti c’è il mercato nero delle armi, dove imperano le mine cinesi ed ex-sovietiche. Le più diffuse appartengono alla famiglia Mrud o Mon-50, copiate dalla statunitense M-18 Claymore. Costruite nei Paesi del blocco comunista, sono state impiegate massicciamente in tutto il mondo. Ne vengono continuamente rinvenute in Afghanistan, Bosnia, Croazia e Kosovo. Alcune varianti uccidono nel raggio di 200 metri, investendo chiunque vi si aggiri. Sono sistemi micidiali, dalla letalità intrinseca e permanente. Hanno una longevità di decine di anni. Bonificarle costa. Chiede un’infinità di tempo, perché le tecnologie laser e nucleari non sono ancora del tutto mature. Guerriglieri e produttori ci hanno messo del loro. Usano involucri sofisticati. Gli ordigni sono diventati impermeabili agli agenti atmosferici e semi-invisibili agli strumenti elettronici di ricerca. Non esistono più i contenitori di legno e di ferro, come ai tempi della Seconda guerra mondiale.



La tecnologia delle mine si è evoluta. La bachelite ha ceduto il posto alla resina sintetica, non aggredibile dai componenti chimici del terreno e sfuggente agli occhi elettronici degli sminatori. Quando va bene, si riesce a bonificare non più di 15-20 metri quadrati al giorno. E i costi lievitano: per ogni euro speso in un campo minato ne occorrono 20 volte tanto nell’opera di sminamento.
Si muore di mine nel Donbass, nonostante la tregua. Sorte simile tocca al disperato popolo saharawi, dai più dimenticato. L’India, la Birmania e il Pakistan ne fabbricano a iosa. I confini ne sono disseminati. E non ci sono dati certi sui conflitti in Libia, Mali, Yemen, Siria e Iraq. Daesh usa mine ed esplosivi tanto negli assedi offensivi, quanto nelle fortificazioni difensive. «Quel che abbiamo visto a Kobane, supera di gran lunga i nostri peggiori incubi», racconta un operatore di Handicap International. «L’80% della città è in rovina e ci sono obici inesplosi ovunque». Le mine non fanno notizia, ma hanno ucciso e mutilato 100mila individui negli ultimi 15 anni; 3.679 nel solo 2014.

1.243 sono i morti dell’anno scorso. Gli altri sono feriti. Di una guerra insensata. Quando esplode, una mina scatena un’onda d’urto di seimila metri al secondo. Tutto intorno la temperatura schizza fino a 4mila gradi. Il rumore è assordante, intollerabile per l’orecchio umano. Il piede investito dall’esplosione si sbriciola, insieme alle ossa della gamba. Le schegge colpiscono il resto del corpo, deturpando perfino il volto e gli occhi. Mutilano e causano emorragie. Fanno più di 10 vittime al giorno, in massima parte civili (80%) e bambini (39%). E c’è un grido d’allarme. Guerriglieri e jihadisti stanno facendo un uso sempre più massiccio di ordigni esplosivi artigianali: i famigerati Ied, assimilabili in tutto alle mine antiuomo, come le bombe cluster. Dal 1965 ad oggi sono state usate 460 milioni di sub-munizioni. Ne persistono inesplose 132 milioni, sparse qua e là, come una spada di Damocle sulle generazioni future. Individuarle è estremamente complicato, anche per il personale esperto. I più ottimisti prevedono decenni di lavoro. Forse ci vorrà anche di più. Ma non bisogna perdere la speranza. Lo insegna il Mozambico, che si è dichiarato libero dalle mine e dagli ordigni inesplosi il 17 settembre scorso.

Poche case che affacciano su vialetti di fango e campi incolti. Questo è Syze, villaggio dell’Ucraina orientale stretto tra il confine russo e la linea del fronte con la cosidetta Repubblica popolare di Luhansk. Per Kiev, un avamposto di importanza strategica.
Le mine anti-uomo, circondano letteralmente il centro abitato.
Il conflitto separatista in questa regione del Paese ha fatto fuggire quasi tutti gli abitanti di Syze. Ne restano 13, se si prendono per buoni i dati dell’Agenzia Onu per i Rifugiati.
E sono loro a convivere con la minaccia delle mine anti-uomo.
Il Comitato internazionale della Croce Rossa ritiene che questi ordigni abbiano ucciso almeno 260 persone nel Donbas, tra la metà del 2014 e la fine del 2015. I feriti superano i 480.
I pochi abitanti rimasti sono spesso le fonti migliori per localizzare i campi minati.
“Qui si può camminare solo sul sentiero – spiega Alexander – non è prudente scartare né a destra né a sinistra, il bosco e i campi sono contaminati”.
Alexander è tra quanti auspicano una divisione federale dell’Ucraina. “Le nostre tasse devono restare qui – dice – e non andare a Kiev”.
Da queste parti sono in tanti a pensarla come lui, compresi i separatisti che controllano Luhansk e Donetsk.
Il conflitto armato ha aumentato l’isolamento di queste località dal resto del Paese. Ora a Syze si sopravvive grazie all’UNHCR, che distribuisce ogni genere di aiuti.
La presenza di campi minati ostacola tutte le normali attività. Solo le forze ucraine sono abilitate a rimuovere gli ordigni. Ma per questo servono la pace e un lavoro meticoloso.
“Sono passati oltre cinquant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e ogni tanto continuano a saltare fuori delle mine di quell’epoca – dice un’infermiera del luogo – Queste altre non saranno rimosse a breve. Resteranno qui ancora per molto tempo”.
Nell’attesa, diverse organizzazioni internazionali sono attive nella zona per disegnare delle mappe dei campi minati. Ma anche per istruire gli abitanti sui comportamenti da assumere al fine di minimizzare i rischi di incappare su un ordigno inesploso.


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