Il suicidio assistito differisce dall'eutanasia per il fatto che l'atto finale di togliersi la vita, somministrandosi le sostanze necessarie in modo autonomo e volontario, è compiuto interamente dal soggetto stesso e non da soggetti terzi, che si occupano di assistere la persona per gli altri aspetti: ricovero, preparazione delle sostanze e gestione tecnica/legale post mortem.
Il tema è oggetto di forte dibattito internazionale, sia per questioni di natura religiosa, sia per questioni di natura etica. In alcune nazioni, tra le quali il Belgio, la Colombia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Svizzera, gli stati dell'Oregon, Washington, Montana e California negli Stati Uniti, il suicidio assistito è permesso a patto del rispetto di condizioni che variano da ordinamento a ordinamento.
In riferimento al "suicidio assistito" e all'eutanasia, l'enciclica Evangelium Vitae cita varie fonti teologiche e dottrinali, tra cui Sant'Agostino:
«Non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».(Epistula 204, 5: CSEL 57, 320.)
Allo stesso modo l'enciclica afferma che non bisogna confondere l'eutanasia con la rinuncia all'accanimento terapeutico, ossia i casi in cui la morte dell'ammalato sia ritenuta "imminente e inevitabile".
La posizione cattolica su questo argomento viene così descritta nel 2000 dalla Pontificia Accademia per la Vita: «Nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente "è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita" (cfr Dich. su Eutanasia, parte IV), poiché vi è grande differenza etica tra "procurare la morte" e "permettere la morte": il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa».
Non essendo le posizioni etiche uniformi, ma più che altro frutto di una sintesi tra le sensibilità delle varie comunità e della maggior vicinanza dei pastori con il tessuto sociale in cui la comunità vive e opera, in altre confessioni cristiane il dibattito sull'eutanasia è più ampio. Nel caso dei Valdesi, il Sinodo si è pronunciato favorevolmente alla pratica dell'eutanasia per combattere l'inutile sofferenza e anche singoli pastori non mostrano, di principio, pregiudiziali all'adozione di misure a tutela della dignità dei malati. Afferma il pastore valdese prof. Ermanno Genre (peraltro in piena polemica con le posizioni della gerarchia cattolica), decano della Facoltà valdese di teologia di Roma: «…La legge approvata in Olanda merita di essere conosciuta prima che "scomunicata": è una legge che tutela il diritto del cittadino, per evitare che altri decidano per lui … È semplicemente vergognosa l'operazione vaticana che tende a screditare una nazione che in fatto di diritti umani e di dignità della persona non ha proprio nulla da imparare né dal Vaticano né dall'Italia».
Nel marzo 2006 il prof. Sergio Rostagno, coordinatore della Commissione bioetica della Tavola Valdese, dichiarò: «L'eutanasia non è un attentato alla vita umana, ma una norma che vuole indicare come si può morire con dignità. Ci batteremo perché venga introdotta in Italia». Riguardo all'incidente diplomatico con i Paesi Bassi causato da dichiarazioni espresse da Carlo Giovanardi (all'epoca sottosegretario alla presidenza del consiglio), Rostagno aggiunse che, al contrario, la legge olandese era stata ben valutata dai Valdesi al momento della sua promulgazione, pur con tutti i suoi limite.
Anche nella Chiesa d'Inghilterra è iniziata una discussione non pregiudizialmente ostile alla pratica dell'eutanasia: il primo a sollevare il tema è stato, nel novembre 2006, il reverendo Tom Butler, vescovo di Southwark, che ha sostenuto la giustezza della sospensione delle cure («in alcune circostanze») anche se si sa che esse porteranno alla morte. La discussione sull'argomento seguiva di poco la presa di posizione della Reale associazione degli ostetrici e ginecologi britannici, che aveva proposto l'eutanasìa infantile - anche attiva - per casi di gravissime invalidità neonatali che hanno come unico sbocco una vita vegetativa.
Ci sono diverse visioni del problema dell'eutanasia tra i buddisti. In generale vi è una posizione di netto rifiuto delle pratiche eutanasiche, ma non mancano le correnti di pensiero volte ad accettare possibili eccezioni in alcuni casi particolari.
Nel buddismo Theravada ogni upasaka (credente buddista laico) recita quotidianamente questa formula: "Io mi rifiuto di distruggere esseri viventi." Tuttavia per gli ordini monastici buddisti le regole sono più esplicite, come si può notare dal testo che segue: "Nessun monaco (bhikkhu) dovrebbe intenzionalmente privare ogni uomo della sua vita, o cercare un assassino per questi, o pregare per la sua morte, o incitarlo a morire ..."
Il Dalai Lama è stato citato dall'Agence France-Presse il 18 settembre 1996 in un articolo intitolato Il Dalai Lama riconsidera l'eutanasia per le circostanze eccezionali riguardo alle sue posizioni sull'eutanasia:
Alla domanda sulla sua opinione sull'eutanasia, il Dalai Lama ha detto che i buddisti credono che ogni vita sia preziosa e nessuna più della vita umana, aggiungendo: "Penso sia meglio evitarla" (l'eutanasia).
"Ma allo stesso tempo penso che come per l'aborto, che è considerato dal buddismo come un atto di omicidio il metodo buddista consiste nel giudicare il giusto e l'errore o i vantaggi e gli svantaggi."
Il 9 febbraio 2009 il Dalai Lama, in visita a Roma per ricevere la cittadinanza onoraria e intervistato sul concomitante caso di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 17 anni, ha ribadito le sue convinzioni sull'argomento:
L'eutanasia "dovremmo evitarla, ma in casi particolari si potrebbero fare delle eccezioni". Su Eluana: "Se veramente non c'è alcuna possibilità di guarigione, mantenere quello status è molto costoso e le famiglie soffrono, allora si potrebbe agire. In generale se pure una persona non cammina più, ma il suo corpo e il suo cervello sono ancora presenti, allora è meglio tenere una persona in vita, ma si possono fare eccezioni".
Le cure vanno fermate se non vi è "la possibilità di recuperare la coscienza e le funzioni mentali". Nel buddismo, "nei casi di male incurabile c'è una pratica che consente l'abbandono della coscienza dal corpo"; negli altri casi "anche noi parliamo di suicidio".
Il buddhismo Nichiren, specialmente quello della Soka Gakkai, ha invece un'attitudine più permissiva nei confronti dell'eutanasia e del suicidio.
In genere i teorici dell'ebraismo ortodosso si oppongono all'eutanasia, spesso in modo vigoroso, anche se alcuni dimostrano una certa comprensione per l'eutanasia passiva in circostanze limitate. All'interno dell'ebraismo conservativo e riformato, invece, c'è un sostegno abbastanza diffuso per l'eutanasia passiva.
L'induismo rispetta fortemente la vita umana, ed è in genere contrario all'eutanasia, ma lascia comunque libertà di coscienza. Considera invece il suicidio, cui è contrario in assoluto, un atto che causa impedimento alla liberazione finale, aumentando il "Karma" negativo individuale.
L'Islam vieta categoricamente tutte le forme di suicidio e tutte le azioni che possano agevolare il suicidio di qualcun altro. È inoltre vietato per un musulmano pianificare la propria morte per il futuro ma è possibile rifiutare terapie curative.
Il Codice penale svizzero traduce in norma l'interpretazione aperta del problema, per cui in uno degli articoli di legge viene sancita la possibilità di assistere al suicidio, salvo se dettato da interessi personali. In Europa, paesi come l'Olanda o il Belgio, hanno depenalizzato l'eutanasia attiva sotto controllo medico.
Per poter usufruire del suicidio assistito occorre presentare una domanda che deve essere innanzitutto seria e reiterata con l'andare del tempo. Secondariamente la persona deve essere affetta da un male incurabile, il cui esito fatale è prevedibile. Le sofferenze fisiche e psichiche causate dalla malattia devono inoltre essere tali da rendere insopportabile l'esistenza.
Tra la domanda di suicidio assistito e il passaggio all'atto, c'è sempre un periodo di grazia. Un tempo in cui le associazioni invitano il paziente a regolare i propri conti con la vita e a congedarsi da amici e familiari. Quando poi la scelta, ponderata e maturata, diventa definitiva, chiedono nuovamente al paziente un'ultimissima conferma.
Accertato che si tratta della sua volontà si somministra una soluzione farmaceutica che il paziente deve essere in grado di assumere autonomamente e di ingerire esclusivamente con le proprie forze. Se non fosse così, sarebbe eutanasia, e non suicidio assistito. È una sfumatura sottile, ma di estrema importanza.
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