Lanzada è un comune situato in Valmalenco ed è attraversato dal torrente Lanterna. È l'unico comune della Regione Lombardia la cui altitudine massima supera i 4.000 metri sul livello del mare, toccando quota 4.021 metri presso il Pizzo Bernina, la cui vetta (4.049 m s.l.m.) è situata in territorio svizzero.
Non è chiara l’origine del nome: l’Olivieri lo accosta ad un veneto “Lanzade”, facendo derivare entrambi dal latino “lanceatus”, cioè “appuntito”. La sua costituzione in comune autonomo risale al 1816: prima la sua storia segue le tracce di quella della valle di cui sorveglia l’ingresso. Ai tempi delle grandi glaciazioni i ghiacciai ricoprivano gran parte della valle, fino ad una quota superiore ai 2.500 metri. L’azione di questo enorme ghiacciaio, lenta, inesorabile, scandita in ritmi difficilmente immaginabili, cioè in migliaia di anni, cominciò a modellare il volto della valle. Fu un’azione che si esercitò in quattro grandi tempi: tante furono, infatti, le successive glaciazioni (la quarta ebbe inizio 40.000 anni fa). Poi anche l’immane ghiacciaio Malenco cominciò la sua ultima e definitiva ritirata. Fra le terre liberate, quelle di media montagna si rivelarono le più propizie ad accogliere gli animali ed i primi insediamenti umani, perché il fondovalle valtellinese era in gran parte paludoso. Ecco apparire, dunque, alle porte della Valmalenco le prime tribù di cacciatori (homo alpinus), che vi si stabilirono definitivamente intorno al 3000 a.C., partendo dalla zona di Cagnoletti (Involto-Cagnoletti-Bressia) e, più tardi, di Torre di Santa Maria. Età della pietra, del ferro e del bronzo trascorsero senza grandi scosse in questo lembo allora periferico della Valtellina. Si affacciarono, infatti, alla valle forse Liguri, Etruschi, Galli ed infine, sicuramente, nel 15 d. C., i Romani, senza, però, probabilmente addentrasi in Valmalenco. Solo nel 252 d. C. questa valle entrò a pieno titolo nella storia: il console romano P. Licinio Valeriano, infatti, iniziò la costruzione della strada carovaniera che, risalendo l’intera valle, scavalcava il passo del Muretto e scendeva in Engadina, consentendo un passaggio rapido fra territori latini al di qua della catena retica e territori romanizzati a nord della Rezia. Il ritrovamento di monete romane nei pressi del passo attesta che questo era frequentato fin dall’epoca romana. Poco più di due secoli più tardi, però, l’Impero Romano d’Occidente cadde e questa via di comunicazione venne abbandonata. Minore attenzione gli storici hanno riservato ad una seconda alta via malenca, che interessava il ramo gemello e più impervio dell’alta Valmalenco, cioè la Val Lanterna. Essa sfruttava il passo di Canciano, raggiunto da una mulattiera che saliva dall’alpe Campagneda per poi scendere in Valle di Poschiavo. Il ritrovamento di una moneta romana nei pressi del passo (nel 1880 una guardia di finanza rinvenne un grosso denaro della famiglia Giulia, molto ben conservato) prova che anch’esso era interessato fin dall’antichità ai commerci che dal bacino padano transitavano nel cuore della Rezia.
Alla cadura dell'Impero Romano, seguì mezzo millennio di nuovo isolamento: scarsissima eco, infatti, ebbero n Valmalenco l’alternarsi di dominazione ostrogota, longobarda e franca. All’inizio del secolo XII si ebbe la prima forma di associazione dei nuclei del territorio della valle, che però, nel medesimo secolo, finì per essere attratta nell’orbita dell’ingombrante vicina, Sondrio, di cui divenne “vicinanza”. Ne è prova l’edificazione della prima chiesa della valle (citata nel 1192), quella di San Giacomo nell’attuale Chiesa (che appunto da essa prese il nome), la quale fu fondata proprio dai potenti feudatari di Sondrio, i Capitanei, e rimase, fino al secolo XV, l’unico luogo di culto nell’intera valle.
Sul finire del XII secolo Malenco era una vicinia del comune di Sondrio con un decano “in antea”, avente, probabilmente, anche compiti militari. L’esistenza della Valmalenco come squadra unitaria all’interno del comune di Sondrio è testimoniata da un consiglio generale dei rappresentanti di Sondrio datato 9 aprile 1308. Successivamente, la squadra venne denonimata di Rovoledo (odierna Mossini) e Malenco; dalla seconda metà del XIV secolo questa squadra si divise in “foris” e “intus” (intus era la parte malenca) e partecipava, con diritto ad un voto, ai consigli della comunità di Sondrio. In età viscontea, la comunità di Malenco partecipava ancora unitaria ai consigli della comunità di Sondrio, ma nella propria zona di competenza aveva diritto di eleggere un anziano, riscuotere le decime, imporre taglie in base all’estimo per pagare le spese (regolando così in modo indipendente la gestione dell’economia di valle), nominava propri esattori ed emanava gride. Tali facoltà erano in possesso di ogni singola quadra in cui si suddivideva a sua volta la valle: ogni quadra al suo interno poteva tenere i propri conti particolari ed eleggere il proprio consigliere che una o più volte l’anno partecipava al consiglio della valle di Malenco.” Data la sua posizione leggermente defilata, rispetto all’asse di comunicazione principale del Muretto fra Rezia e Valtellina, Lanzada fu l’unico nucleo di Valmalenco a non essere interessato da opere di fortificazione, che vennero invece erette nell’attuale territorio di Torre, Chiesa e Caspoggio.
La metà del XV secolo segnò una svolta fondamentale per la Valtellina. Ai Visconti subentrarono gli Sforza che confermarono ai Beccaria, capi guelfi della valle e intermediari dei signori milanesi, gli antichi privilegi. Con l’avvento degli Sforza le nostre comunità, nonostante la esistenza di residui legami, rapporti, dipendenze feudali, godettero di una maggiore autonomia economica e politica che determinò, grazie anche all’accorta politica di pace degli Sforza, un periodo di generale tranquillità e di relativo benessere. Accanto alla mezzadria s’affermò l’enfiteusi che permise anche ai malenchi di avere delle terre da coltivare mediante la corresponsione di un canone annuo in natura e che limitò gli antichi rapporti di servitù tra nobili e contadini. Si dissodarono terre comunali che vennero in possesso dei contadini, si formarono delle piccole proprietà agricole attorno alle quali si consolidarono gruppi di famiglie che tuttora ritroviamo: a Lanzada, per esempio, i Fornonzini, i Parolini, i Nani e i Nana; a Chiesa i Pedrotti, i Faldrini, i Lenatti e i Masa; a Campo i Basci e i Vanotti; a Caspoggio i Negrini e i Pegorari; a Melirolo i Foianini, i Cristini e i Scilironi; a Bondoledo i Mitta e i Cometti. Questi gruppi familiari introdussero accanto alle mandrie e ai greggi, peraltro già condotti in Valmalenco fin da tempi remoti, numerosi nuovi capi di bestiame che assicurarono ai malenchi un nutrimento più ricco e sostanzioso.” (Don Silvio Bradanini).
Il cinquecento si aprì con un mutamento importante per la storia della Valtellina: terminato il dominio dei Duchi di Milano (i Visconti e, dalla metà del quattrocento, gli Sforza), le Tre Leghe Grigie presero possesso della valle nel 1512, dopo 12 anni di odiatissima occupazione francese. Iniziò in quest'anno la loro dominazione di quasi tre secoli in terra di Valtellina.
La metà del XV secolo segnò una svolta fondamentale per la Valtellina. Ai Visconti subentrarono gli Sforza che confermarono ai Beccaria, capi guelfi della valle e intermediari dei signori milanesi, gli antichi privilegi. Con l’avvento degli Sforza le nostre comunità, nonostante la esistenza di residui legami, rapporti, dipendenze feudali, godettero di una maggiore autonomia economica e politica che determinò, grazie anche all’accorta politica di pace degli Sforza, un periodo di generale tranquillità e di relativo benessere… Accanto alla mezzadria s’affermò l’enfiteusi che permise anche ai malenchi di avere delle terre da coltivare mediante la corresponsione di un canone annuo in natura e che limitò gli antichi rapporti di servitù tra nobili e contadini. Si dissodarono terre comunali che vennero in possesso dei contadini, si formarono delle piccole proprietà agricole attorno alle quali si consolidarono gruppi di famiglie che tuttora ritroviamo: a Lanzada, per esempio, i Fornonzini, i Parolini, i Nani e i Nana; a Chiesa i Pedrotti, i Faldrini, i Lenatti e i Masa; a Campo i Basci e i Vanotti; a Caspoggio i Negrini e i Pegorari; a Melirolo i Foianini, i Cristini e i Scilironi; a Bondoledo i Mitta e i Cometti. Questi gruppi familiari introdussero accanto alle mandrie e ai greggi, peraltro già condotti in Valmalenco fin da tempi remoti, numerosi nuovi capi di bestiame che assicurarono ai malenchi un nutrimento più ricco e sostanzioso.” (Don Silvio Bradanini).
Il cinquecento si aprì con un mutamento importante per la storia della Valtellina: terminato il dominio dei Duchi di Milano (i Visconti e, dalla metà del quattrocento, gli Sforza), le Tre Leghe Grigie presero possesso della valle nel 1512, dopo 12 anni di odiatissima occupazione francese. Iniziò in quest'anno la loro dominazione di quasi tre secoli in terra di Valtellina. Non fu un inizio sotto buoni auspici: nel 1513 un’epidemia di peste si portò via 3000 valtellinesi; la cronaca del Merlo registra, inoltre, che dal 1 agosto 1513 al 10 marzo 1514 non piovve né nevicò, e che nel 1514, “nel mese di Genaro venne tanto freddo che s’aggiacciò il Malero, che si sarebbe potuto passar sopra con 25 carri caricati ed era agghiacciato sin in Adda. Durò esso freddo giorni 25, et per questo freddo morirono tutte le viti in modo che in quell’anno a pena gli fu vino che bastasse per il nostro bevere, et di quel puoco di vino che gli fu non se ne trovava niente, perché li Mercanti Todeschi, ch’erano soliti comprar il vino, andavano in Bressana, et nel monte di Brianza, dove n’avevano mercato disfatto.” L’eccezionale ondata di gelo annunciava, poi, l’inizio di quel periodo durato più o meno tre secoli e noto come PEG, Piccola Età Glaciale, con tre punti di minimo nelle temperature medie, nel 1540, nel 1620 (detto minimo di Fernau) e nel 1800-1820 (minimo di Napoleone).
I Magnifici Signori Reti, richiamandosi ad una contestata cessione di tutta la Valtellina al vescovo di Coira operata da Mastino Visconti nel 1404, proclamarono di voler esercitare un dominio non rapace e prepotente, ma saggio e rispettoso delle autonomie dei valligiani, chiamati "cari e fedeli confederati" nel misterioso patto sottoscritto ad Ilanz il 13 aprile 1513 (di cui si conserva solo una copia secentesca, sulla cui validità gli storici nutrono dubbi); ma, per mettere bene in chiaro che non avrebbero tollerato insubordinazioni, nel 1526 abbatterono tutti i castelli di Valtellina e Valchiavenna, anche perché non li potevano presidiare ed avevano dovuto subire, l'anno precedente, il tentativo, fallito, di riconquista della Valtellina messo in atto mediante un famoso avventuriero, Gian Giacomo Medici detto il Medeghino.
I grigioni sentirono il bisogno, per poter calcolare quante esazioni ne potevano trarre, di stimare la ricchezza complessiva di ciascun comune della valle.
Una parte rilevante nell’economia delle sue comunità era costituita dallo sfruttamento degli alpeggi; non stupisce che questo fosse oggetto di controversie che resero necessari atti ufficiali di arbitrato.
La chiesa di San Giovanni Battista risultava essere vicecura di Sondrio; dieci anni dopo, però, se ne staccò, divenendo parrocchia autonoma, di nomina comunale. Da essa dipendevano le chiese della Beata Vergine Addolorata in frazione Ganda, della Beata Vergine Immacolata in frazione Moizi, e le cappelle dei Santi apostoli Pietro e Paolo in frazione Tornadri, di San Carlo in frazione Vetto, di patronato della famiglia Lavizzari, la cappella filiale, presso la chiesa parrocchiale, anticamente dedicata a Maria Santissima e a San Gregorio, poi chiamata cappella dei Morti e da ultimo della Madonna, sotto il titolo di Mater Christi. Il distacco era l’esito di un plurisecolare contrasto fra le comunità malenche e Sondrio: fino al trecento, infatti, risiedeva in valle un canonico di Sondrio, per la cura delle anime; successivamente, però, questa figura venne meno, per cui iniziarono i malumori delle comunità che rivendicavano il diritto di scegliere autonomamente il proprio curato. Nonostante l’opposizione di Sondrio, nel cinquecento di fatto risiedevano in valle due sacerdoti, uno che rimaneva a Chiesa, l’altro che assisteva, a turno, le rimanenti comunità di Lanzada, Caspoggio e Torre, finché nel 1624 si giunse all’autonomia delle quattro parrocchie. In quel medesimo 1624 Lanzada contava (secondo una stima che, però, mal si accorda con quella del Ninguarda di una generazione circa precedente) 500 abitanti, Chiesa 1083, Torre 800.
Il Seicento fu, per l’intera Valtellina, un secolo nero, almeno nella sua prima metà. La tensione fra protestanti, favoriti dalle autorità grigioni, e cattolici crebbe soprattutto per le conseguenze del decreto del 1557, nel quale Antonio Planta stabilì che, dove vi fossero più chiese, una venisse assegnata ai protestanti per il loro culto, e dove ve ne fosse una sola venisse usata a turno da questi e dai cattolici. L'istituzione del tristemente famoso Strafgericht di Thusis, tribunale criminale straordinario di fronte al quale si dovevano presentare tutti coloro che venissero sospettati di attività eversive del potere grigione in Valtellina, rese la tensione ancora più acuta. Il parroco di Lanzada era, in quel disgraziato periodo, don Giovanni Cilichini, che, con la sua opera di zelante apostolato, aveva ridotto di molto il numero degli “eretici”: per questo, nel 1608, era stato imprigionato e torturato dalle autorità grigione, ma ebbe salva la vita. Dieci anni dopo fu di nuovo in pericolo di vita, e di nuovo scampò.
Correva l’anno 1618 quando l'arciprete di Sondrio, Nicolò Rusca, venne rapito da una schiera di sessanta armati, guidati dal predicatore protestante di Valmalenco M. A. Alba da Casale Monferrato e scesi in Valmalenco proprio dal passo del Muretto, che lo sorpresero, nella notte fra il 24 ed il 25 luglio 1618, nella sua camera da letto. Il motivo del blitz era che il Rusca veniva considerato uno dei più fieri oppositori alla religione riformata in Valtellina. La sua figura, peraltro, si presta ad una diversa lettura: da una parte alcuni ricordano che, per la determinazione del suo impegno a difesa del Cattolicesimo, fu denominato “martello degli eretici”, dall’altra si ricorda, a riprova del suo atteggiamento di comprensione umana, l’affermazione “Odiate l’errore, amate gli erranti”. Una figura, comunque, scomoda. Gli venne, dunque, concesso solo di vestire il suo abito talare, poi fu legato, a testa in giù, sotto il ventre di un cavallo, ed il drappello si mosse sulla via del ritorno, seguendo l’itinerario che passa per Moncucco e Ponchiera. Proprio mentre passavano di qui, sul far del giorno, le cronache riportano un episodio curioso. La schiera di armati incrociò il parroco di Lanzada, che scendeva verso Sondrio travestito da “Magnàn” (calderaio), per timore di essere catturato dalle milizie dei Grigioni. Era stato, infatti, avvertito da un eretico del progetto dei protestanti di rapire anche lui (si narra che costui, combattuto fra il desiderio di salvare il prete, che stimava, e la promessa fatta ai correligionari di non dirgli nulla della congiura, si sia cavato d’impaccio con la coscienza recandosi da lui, picchiando con un bastone sopra la pietra del focolare e pronunciando queste parole: “Io dico a te, o pietra, che i Grigioni sono per condor via l’Arciprete di Sondrio e domani mattina, se non fuggirà in tempo, verranno a prendere anche il parroco di Lanzada”). Egli non difettava certo di prontezza di spirito e, alla domanda se avesse visto il parroco di Lanzada, la sua risposta fu pronta: “Sì, questa mattina ha già detto Messa”. Il Cilichini ebbe salva la vita, lasciando la Valtellina per il crinale orobico e rifugiandosi a Milano, dove si presentò al celebre Cardinal Federico Borromeo “con preghiere, con singulti e con lagrime… l’afflitta religione raccomandandogli e del suo favore appresso al governatore supplicandolo” (Carlo Botta, “Storia d’Italia…”, 1835). Sorte ben diversa ebbe il Rusca, costretto a proseguire il suo triste viaggio, passando da Torre e Chiesa, salendo a Chiareggio e scavalcando il Muretto. Di nuovo, ecco il Cantù: "Il ben vissuto vecchio, benché fosse disfatto di forze e di carne e patisse d'un ernia e di due fonticoli, fu messo alla tortura due volte, e con tanta atrocità che nel calarlo fu trovato morto. I furibondi, tra i dileggi plebei, fecero trascinare a coda di cavallo l'onorato cadavere, e seppellirlo sotto le forche, mentre egli dal luogo ove si eterna la mercede ai servi buoni e fedeli, pregava perdono ai nemici, pietà per i suoi."
In quel medesimo 1618 scoppiò la Guerra dei Trent’anni (1618-1648), nella quale la Valtellina, avendo una posizione strategica di nodo di comunicazione fra i territori degli alleati Spagna (milanese) ed Impero Asburgico (Tirolo), venne percorsa dagli eserciti dei fronti opposti, quello imperiale e spagnolo da una parte, quello francese e dei Grigioni, dall’altra.
Due furono i momenti più tragici di questo periodo. Nel 1620 il cosiddetto “Sacro macello valtellinese”, cioè la strage di protestanti operata da cattolici insorti nella notte del 19 luglio, per il timore che i Grigioni intendessero imporre la fede riformata in Valtellina.
La caccia al protestante fece registrare episodi tragici e portò all’assassinio di un numero di persone probabilmente superiore a 400. Di questi, 20 furono uccise in Valmalenco; a Lanzada gli “eretici”, assai ridotti di numero per l’efficace azione pastorale del già citato don Cilichini, riuscirono a darsi alla macchia, organizzandosi poi in una banda armata che si rese responsabile di furti di bestiame ed anche di azioni di vendetta in paese (furti di denaro ed un assassinio), prima di essere definitivamente espulsa. La reazione delle Tre Leghe non si fece attendere: corpi di spedizione scesero dalla Valchiavenna e, come sopra ricordato, dal passo del Muretto e quindi dalla Valmalenco, il successivo primo agosto. Le successive vicende belliche, che furono risparmiare alla valle, portarono al trattato di Monzon del 1626.
La pace sembrava tornata e tutti tirarono il fiato; fu, però, il sollievo dell’inconsapevolezza, perché il peggio doveva ancora venire. Il nefasto passaggio dei Lanzichenecchi, scesi dalla Valchiavenna per partecipare alla guerra di Successione del Ducato di Mantova, portò con sé la più celebre delle epidemie di peste, descritta a Milano dal Manzoni, quella del biennio 1630-31 (con recidiva fra il 1635 ed il 1636). Non era certo la prima: solo nel secolo precedente avevano toccato la Valtellina le epidemie del 1513-14, del 1526-27 e del 1588. Ma quella fu la più terribile, e non si fermò alle soglie della Valmalenco. L’Orsini osserva che la popolazione della valle, falcidiata dal terribile morbo, scese da 150.000 a 39.971 abitanti (poco più di un quarto). La stima, fondata sulla relazione del vescovo di Como Carafino, in visita pastorale nella valle, è probabilmente eccessiva, ma, anche nella più prudente delle ipotesi, almeno più di un terzo della popolazione morì per le conseguenze del morbo. In Valmalenco la popolazione passò, probabilmente, da circa 1800 abitanti ad 800. Nonostante fossero già stati istituiti gli archivi parrocchiali, non è però possibile ricavare da questi notizie più precise, perché buona parte dei morti veniva sepolta privatamente. Le cronache riportano, però, alcuni episodi che ci consentono di avere un’idea della cupezza di quegli anni. “Si è tramandato che a Vassalini era addetto alle sepolture, tra gli altri, il monatto Gregorio Della Streccia di Cantone. Non essendo malato, cercò di uscire dalla Valmalenco nella gelida notte del 10 gennaio 1630. All’alba dell’11 gennaio, all’altezza della chiesetta di S. Bartolomeo, fu intercettato dal locale posto di blocco e immediatamente ucciso. Il Trioli annota in data 24-25 settembre il documento processuale contro Antonio Nana di Lanzada per aver esso di notte rotto il Rastello di Sanità posto a Scandolaro e passato per forza.” (Don Silvio Bradanini). Fra le conseguenze della pestilenza, la diffusione del culto di San Rocco, protettore degli appestati.
Come se non bastasse, riesplose la guerra, con la campagna del duca di Rohan, fra il 1635 ed il 1637; solo il capitolato di Milano, del 1639, portò ad una pace definitiva, che riconsegnava la Valtellina ai Magnifici Signori Reti, proibendo, però, che vi venisse praticata altra religione rispetto a quella cattolica.
La seconda metà del seicento ed il settecento videro una costante ripresa economica e demografica. Molto giovarono alle condizioni economiche di Lanzada e dell’intera Valmalenco l’incremento delle attività commerciali e l’emigrazione. Il fenomeno dell’emigrazione che inizia già prima del ‘600 si sviluppa dopo i tristi e calamitosi fatti dell’insurrezione valtellinese e della peste. L’emigrazione più numerosa fu verso il centro di Sondrio e dintorni. Molti altri emigrarono in vari centri della Valtellina che i lanzadesi già percorrevano in lungo e in largo a vendere “lavecc” e a stagnar pignatte. L’emigrazione lanzadese si volge anche verso le grandi città. A Venezia è abbastanza comune il cognome “Nani”. Il problema emigratorio si dilaterà maggiormente negli anni antecedenti e seguenti la prima guerra mondiale anche e soprattutto verso i paesi d’oltre oceano.
Il quadro dell’economia del paese non può non evidenziare il mestiere più caratteristico dei lanzadesi, quello del “magnàn” o “ténc” (stagnino), che portò all’elaborazione, nei secoli, di un caratteristico gergo che rendeva possibile comunicare senza farsi capire da estranei, il “calmùn”.
Significative erano anche le attività esercitate nel quadro di un’economia in parte ancora legata all’autosufficienza familiare, come la confezione delle caratteristiche pedule. A riprova del miglioramento delle condizioni economiche si può ricordare, infine, che la chiesa parrocchiale di S. Giovanni Battista, di origini quattrocentesche, venne, come accadde a buona parte delle chiese di Valtellina, riedificata nella seconda metà del seicento, e precisamente fra il 1659 ed il 1666, per poi essere consacrata nel 1706.
Nel 1797 la prima campagna d’Italia di Napoleone portò alla fine della dominazione retica ed all’annessione della Valtellina alla Repubblica Cisalpina prima, ed al Regno d’Italia (1805) poi.
Durante tale periodo venne costituito il comune di Malenco, che figurava fra i settanta comuni del III distretto di Sondrio, nel dipartimento del Lario. Nel regno d’Italia esso contava 3250 abitanti e fu inserito nel I cantone di Sondrio. Negli anni successivi si prospettò l’unificazione con il comune di Sondrio, sostenuta anche dal consultore di stato e direttore generale della polizia Guicciardi, con la motivazione che Malenco era stata “per l’addietro sempre unita a Sondrio”, sebbene se ne fosse “sul principio della rivoluzione” separata “per sottrarsi alla preponderanza dei signori di Sondrio”; egli era consapevole però che la riunione avrebbe eccitato “sicuramente il malumore dei rozzi, ma altezzosi abitanti della valle di Malenco”. Ma non se ne fece nulla. Anzi, caduto Napoleone, con il Congresso di Vienna, che sancì l’annessione della Valtellina al Regno Lombardo-Veneto, dominio della casa imperiale degli Asburgo d’Austria, l’antico comune di Malenco venne suddiviso negli attuali comuni. Si costituì, dunque, nel 1816, il comune di Lanzada, che fu inserito nel I distretto di Sondrio. Nel 1853 Lanzada, con la frazione Moizzi, era comune con consiglio senza ufficio proprio e con una popolazione di 828 abitanti sempre inserito nel distretto I di Sondrio.
L’ottocento fu un secolo assai duro, segnato, soprattutto nella sua prima metà, da un peggioramento complessivo delle condizioni di vita dei contadini.
Dopo la II Guerra d’Indipendenza, cui parteciparono anche tre soldati di Lanzada, venne l’Unità d’Italia, proclamata nel 1861; il comune di Lanzada contava allora 858 abitanti. Nella successiva III Guerra d’Indipendenza, del 1866, partecipò un numero significativo di abitanti di Lanzada. Nei decenni successivi l’andamento demografico fece registrare una crescita costante: dai 959 abitanti del 1871 si passò ai 1067 del 1881, e poi ai 1135 del 1901 ed infine ai 1415 del 1911.
La seconda metà dell’ottocento, caratterizzata dall’acuirsi della crisi dell’economia contadina, di cui si è detto, vede, come conseguenza, due fenomeni che danno un po’ di respiro all’economia valligiana, l’emigrazione transoceanica e l’inizio dei traffici di contrabbando, che caratterizzeranno anche la prima metà del novecento. La redditività di questi traffici, non era proporzionata agli sforzi ed ai rischi connessi. Ma, in periodi di stenti diffusi, anche una modesta integrazione del reddito delle magre economie contadine era di vitale importanza. Una certa incoscienza e la vigoria fisica della giovane età erano componenti essenziali di quelle traversate, che erano, spesso, autentici tour de force. Si procedeva in squadre di 10-12 persone, nella buona stagione ma anche in quella invernale, alternandosi, nel tracciare la via fra la neve spesso alta, a 7-8 passi ciascuno, perché lo sforzo del battipista è assai maggiore di quello di chi segue. Si procedeva con il prezioso carico, 25-30 kg circa a spalla, pronti a nasconderlo in un luogo sicuro al primo sentore di un possibile incontro-scontro con gli avversari di sempre, i finanzieri. Il percorso più battuto passava per il passo di Canciano (m. 2464), che si immette nella val Poschiavina; la sorveglianza dei finanzieri all’alpe di Gera veniva poi talvolta elusa mediante una traversata attraverso il ghiacciaio di Fellaria fino all’alpe omonima. Qualche volta, però, come riporta una testimonianza citata dal Fassin, si incappava nei militi, e si doveva lasciare il carico seminascosto nella neve, tornando precipitosamente al passo; il carico, se andava bene, veniva poi recuperato a distanza di tempo. Assai praticati era anche il vicino passo di Campagnera (m. 2632), con accesso diretto alla conca delle alpi Campagneda e Prabello, e, più a nord, il passo Confinale (m. 2628), con discesa all’alpe Gembré, quando si supponeva che questi alpeggi fossero “liberi”. I finanzieri erano chiamati popolarmente “panàu” (dal nome di un leggendario uccello rapace scomparso dalla valle) e sceglievano appostamenti strategici per soprendere i contrabbandieri, sassi o baite che da loro prendevano il nome. Nel comune di Lanzada ci sono almeno cinque “sas di panàu”, roccioni utilizzati per gli appostamenti, sulla mulattiera Dosso dei Vetti – alpe Campascio, sulla mulattiera di accesso alla Foppa sopra Campo Franscia, sul limite a monte dell’alpeggio di Campagneda, a monte della chiesa di S. Carlo a Vetto e sulla strada per la località Bruciata. A questi vanno aggiunti una “ca di panàu”, un rudimentale ricovero ricavato sotto una roccia sporgente nella piana della Val Confinale che precede il passo omonimo, e la “caserme di panàu” (o “ca di panàu”), la caserma della Guardia di Finanza costruita alla fine dell’Ottocento ed abitata fino agli anni Sessanta del secolo scorso, dalla quale partivano i servizi di pattuglia verso diverse zone di confine, in particolare i passi di Canciano, Ur e Confinale.
Ma, al di là delle difficoltà di un periodo tutto sommato grigio, il progresso migratorio non mancava di far sentire i suoi effetti anche a Chiesa. Nel 1904 la vita del paese fu segnata da una piccola rivoluzione: una centralina costruita sul torrente Mallero, in località Curlo, fornì per la prima volta l’energia elettrica a Chiesa ed a Lanzada. Se pensiamo a quanto sia difficile immaginare la nostra esistenza senza di essa, possiamo ben valutare la portata della rivoluzione. Poco più di una decina di anni dopo, tuttavia, l’inserimento del paese nella storia mondiale fu tragicamente toccato con mano da molte famiglie di Chiesa.
Nel periodo fra le due guerre la popolazione iniziò a diminuire: gli abitanti erano 1377 nel 1921, 1254 nel 1931 e 1250 nel 1936 (può essere interessante osservare che nella vicina Chiesa si ebbe un andamento opposto).
Nel secondo dopoguerra sono stati costruiti i due grandi invasi idroelettrici di Val Lanterna. Il primo che si incontra, al termine della carrozzabile che sale da Campo Franscia a Campomoro, è l’invaso di Campomoro (dighe de cammòor), costruito dall’impresa Italstrade fra il 1955 ed il 1965, con una capacità di 10 milioni di metri cubi d’acqua, che vengono convogliati, tramite una galleria di 8 km, alla centrale di Lanzada, con un salto di 900 metri. La diga di Gera (dighe de la gère) è il secondo e più grande sbarramento idroelettrico che occupa la parte alta della valle di Campomoro. È stata costruita dall’impresa Italstrade fra il 1960 ed il 1965 (per conto della società idroelettrica Zizzola, prima, e dell’ENEL, poi) nella piana, di circa 2 km, che prima ospitava l’alpe di Gera (gère, m. 2024), ed è una delle più grandi d’Italia. La sua muratura, eretta con 1.800.000 metri cubi di calcestruzzo, ha un’altezza di 110 metri e si impone quindi prepotentemente allo sguardo di chi raggiunga la piana di Campomoro (a sua volta occupata da uno sbarramento più basso e meno capiente, la diga di Campomoro). La diga di Gera può contenere 65 milioni di metri cubi d’acqua ed è alimentata dal torrente Còrmor (le cui acque scendono dalla vedretta di Fellaria orientale), dal torrente della Val Poschiavina e dal torrente Scerscen (le cui acque sono convogliate qui mediante una galleria a pelo libero di circa 4 km).
Il territorio comprende in buona sostanza l’intero angolo nord-orientale della Valmalenco, ovvero la Val Lanterna, che, a monte della conca che ospita Campo Franscia, si divide nel vallone di Scerscen, ad ovest, e nella Valle di Campomoro, ad est. Il confine settentrionale, con il territorio elvetico, è costituito dal maestoso circo delle cime più alte di Valmalenco, che propone, da ovest, il pizzo Glüschaint (m. 3594), le gobbe gemelle della Sella (m. 3584 e 3564, ben visibili da Sondrio) e la punta di Sella (m. 3511), il pizzo Roseg (m. 3936), il pizzo Scerscen (m. 3971) il pizzo Bernina (m. 4049, il punto più alto del territorio comunale e dell'intera Provincia, oltre che il più orientale fra i "quattromila" alpini), la Cresta Güzza (m. 3869), i pizzi Argient (m. 3945) e pizzo Zupò (m. 3995), la triplice innevata cima del pizzo Palù (m. 3823, 3906 e 3882), a monte del ramo orientale della vedretta di Fellaria e, a chiudere la splendida carrellata, il più modesto pizzo Varuna (m. 3453). Il confine occidentale, con il territorio di Chiesa Valmalenco, corre, invece, lungo la poderosa dorsale che scende verso sud-est dal pizzo delle Tre Mogge (m. 3441), passando per il pizzo malenco (m. 3438), la Sassa d’Entova (m. 3329), la cima quotata 3006 metri, il Sasso Nero (m. 2921), le cime quotate m. 2734 e 2534, il bocchel del Torno (m. 2203), il monte Loggione (m. 2361), il passo di Campolungo (m. 2110) ed il monte Motta (m. 2336). Il confine orientale, con la Valle di Poschiavo (Svizzera), passa, poi, per il crinale che dal pizo Varuna (m. 3453) scende, verso sud, toccando la quota 3080, il passo Confinale (m. 2628), i Sassi Bianchi (m. 2805), il pizzo Confinale (m. 2810), il Corno di Campascio (m. 2808), il passo d’Ur (m. 2519), il passo di Canciano (m. 2464) ed il pizzo canciano (m. 3103).
Il confine piega, poi, verso sud-ovest ed ovest e separa Lanzada da Chiuro, Montagna e Caspoggio, passando dalla cima di Val Fontana (m. 3228), dal pizzo Scalino (m. 3323), dal passo degli Ometti (m. 2758), dal monte Acquanera (m. 2806), dal monte Cavaglia (m. 2728) e dal pizzo palino (m. 2686). Oltre alle maestose cime ed agli imponenti ghiacciai (di Scerscen, ai piedi della triade Roseg-Scerscen-Bernina, e di Fellaria occidentale ed orientale), anche i pittoreschi alpeggi, in gran parte ancora caricati, costituiscono un elemento fondamentale dello straordinario paesaggio nel territorio di Lanzada. Da ovest, per menzionare solo i più importanti, l’alpe Campascio (m. 1844), l’alpe Musella (m. 2021), l’alpe Fellaria (m. 2401, in posizione eccezionalmente elevata), l’alpe Gembrè (m. 2190), l’alpe Poschiavina (m. 2230), l’alpe Campagneda (m. 2145), l’alpe Prabello (m. 2287), l’alpe Largone superiore (m. 2064), l’alpe Acquanera (m. 2116) e l’alpe Cavaglia (m. 2056).
Per raggiungere Lanzada dobbiamo imboccare, da Sondrio, la strada provinciale n. 15 della Valmalenco, portandoci dal lato sinistro a quello destro della valle (per chi sale) appena prima di Torre; rimaniamo, quindi, sul lato destro e, salendo, lasciamo sulla sinistra Chiesa Valmalenco (sgésa, a 15,5 km da Sondrio); prendiamo, poi, a destra ad una rotonda ed attraversiamo Lanzada (il comune nel cui territorio rientra la val Poschavina, così come buona parte della Val Lanterna). Oltre Lanzada, la strada prosegue per Campo Franscia, a 8 km da Lanzada, che raggiungiamo dopo aver attraversato le impressionanti gallerie scavate nei roccioni strapiombanti della Val Lanterna. Da Campo Franscia (localmente solo “franscia”; l’aggiunta di “Campo“ si deve ad una situazione curiosa: la Guardia di Finanza progettò di costruire a Campomoro una caserma; il progetto, però, mutò e la scelta cadde su Franscia, ma nei documenti, già pronti, venne cancellato solo –moro, sostituito con –franscia; così nacque il toponimo “Campofranscia”), proseguiamo per altri 6 km, concludendo la salita in automobile in valle di Campomoro, dove si trovano i due grandi sbarramenti delle dighe di Campomoro e Gera (dighe de cammòor e dighe de la gère).
Una presentazione di Lanzada non può prescindere dalle sue frazioni, ricche di storia e suggestioni. Appena prima del centro, sulla sinistra, salendo in Val Lanterna, troviamo Mòizi, antico nucleo a ridosso di un ripido pendio terrazzato, nel quale è ben visibile la chiesetta della Beata Vergine Immacolata, edificata nel 1710. Dopo il centro, sulla destra, incontriamo, poi, la Ganda, unico nucleo sulla sinistra idrografica della Val Lanterna, raccolto intorno alla chiesetta della Madonna Addolorata, edificata nel 1750. Segue la contrada di Vetto, già attestata nel trecento, un tempo divisa in Vetto maggiore e Vetto inferiore; vi si trova la chiesetta dedicata a S. Carlo Borromeo, costruita dopo l'epidemia di peste del 1629-36 e restaurata fra il 1970 ed il 1980. Infine, sempre a valle della strada, sulla destra, ecco la contrada di Tornadri, la più orientale, con la chiesetta di San Pietro, edificata nei primi decenni del seicento.
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