giovedì 20 agosto 2015

RODENGO SAIANO

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Rodengo-Saiano è un comune della provincia di Brescia.

L'origine del comune è recente, risale al 18 ottobre 1927 quando, con Regio Decreto, vennero unificati i due centri di Rodengo e di Saiano. Essi mantennero nel corso dei secoli una propria individualità dovuta probabilmente alla diversa origine: Saiano risale all'epoca romana, come testimoniato da un cippo funerario rinvenuto in loco ed ora conservato al Museo di Santa Giulia di Brescia, mentre Rodengo è di origine longobarda, come risulta da una carta topografica del territorio datata 910 d.C.
Il primo nucleo abitato si sviluppò in epoca medioevale attorno al Castello di Saiano di cui oggi rimangono pochi ruderi e un fossato annessi all'edificio di Villa Maria. La vita sociale e culturale di Rodengo Saiano è stata fortemente caratterizzata dalla presenza di importanti centri religiosi che hanno impresso alla comunità un forte spirito di impegno cristiano.

L'economia di Rodengo Saiano è stata improntata fino agli inizi del novecento ad un'attività prettamente agricola caratterizzata soprattutto dalla coltivazione della vite e del mais e dall'allevamento del bestiame. Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo aumento delle attività artigianali, industriali e del terziario avanzato, favorite soprattutto dall'ottima rete viaria di collegamento con Brescia e con l'autostrada. Recentemente, infatti, si sono insediati nel Comune un importante centro commerciale e numerose aziende industriali conosciute in tutto il mondo, dedicate soprattutto alla trasformazione e lavorazione dei metalli e delle loro leghe.

Nel panorama storico bresciano Rodengo Saiano riveste un'importanza primaria. Questo non solo per la presenza della grande Abbazia Benedettina, fra le maggiori d'Italia, ma anche per un articolato intreccio di eventi che hanno coinvolto il territorio.
La strada romana, che seguendo il pedemonte congiungeva Brescia con la Spina di Erbusco (e poi con Bergamo e Milano) aveva il più importante presidio a Ponte Cingoli, struttura a tre arcate, affiancata da una Posta e difesa dall'alto dall'imponente complesso militare della Rocca.
Sull'area dell'attuale Abbazia sorgeva un "castrum", accampamento militare fisso, con edifici in muratura e, scoperta recentissima, con un tempio. Vari cippi esposti al museo romano documentano la massiccia presenza latina.
Con le invasioni barbariche l'importanza di Rodengo aumenta: dapprima si insediano i Goti (fino al 1500 vari documenti parlano della contrada del Gotho - Godo), poi arrivano i Longobardi che si insediano sulla Rocca, ampliandola oltre le mura romane. Esiste una leggenda secondo cui Carlo Magno dovette fermarsi a Ponte Cingoli nell'inverno del 774 e, non potendo esaudire il voto di celebrare il Natale nella Chiesa di San Dionigi ad Aquisgrana, avrebbe fatto erigere lì una chiesa dedicata al santo vescovo francese e avrebbe battezzato la zona "piccola Francia", da cui il nome Franciacorta.
Centinaia di sepolture di epoca alto medioevale (e in particolare quelle nell'area detta della Santa, disposte militarmente) fanno pensare a un lungo assedio, con battaglie cruente e centinaia di morti fra i Franchi.
Carlo Magno conquisterà Brescia nella primavera successiva, tornerà in Italia due anni dopo e in questa occasione farà distruggere la Rocca di Rodengo Saiano dove si erano nuovamente asserragliati ribelli Longobardi e Goti. Con la vittoria di Carlo Magno arrivano numerosi coloni francesi che si concentrano soprattutto a Saiano professando la "lex salica". Da qui Saliani, Saiani, Saiano. Convivono con Goti e Longobardi, Latini e Cenomani che continuano a professare antiche religioni e a rispettare consuetudini legali che ritroviamo intatte nel 1066 quando a Rodengo arrivano i monaci benedettini francesi di Cluny che già avevano una solida base a Pontida. I Cluniacensi avevano badie, conventi, sussidiari come San Pietro in Lamosa (Provaglio d'Iseo) o Clusane, case maggiori (il Camaione) o minori (Camignone a Pasirano e Mignone a Monticelli), corti, mulini, migliaia di ettari di terra in almeno trenta comuni della provincia con possedimenti fino a Polpenazze e dipendenze come S. Maria del Giogo; l'Isola di S. Paolo nel Lago d'Iseo e S. Salvatore a Capo di Ponte.
Per 700 anni sono i monaci a segnare la storia del paese, ma forse da prima ancora la Franciacorta è terra delle corti dei monaci francesi.
Tutti i più grandi artisti bresciani (Foppa, Romanino, Gambara, fra i tanti) hanno lasciato testimonianze grandiose nell'Abbazia di Rodengo. Purtroppo è andato disperso gran parte del patrimonio librario, di manufatti e di mobili dell'Abbazia, che nel 700 contava fino a 70 fra monaci e conversi.
Padre Ludovico Pavoni muore a Saiano nel Convento dei Francescani (noto come Calvario, voluto dalla famiglia Provagli per un voto): è una figura risorgimentale di spicco, fondatore della Pavoniana.
Nello stesso periodo si fa largo anche l'aristocrazia terriera che costruisce splendide Ville nella zona (i monaci vendono almeno la metà dei terreni per pagare i lavori di ampliamento ed abbellimento del monastero) e l'esempio più fulgido è Villa Fenaroli a Corneto (sono notevoli anche Villa Molinari, Villa Maria, Villa Zerla a Padergnone, terza frazione del Comune).

Tra gli edifici civili degni di nota ricordiamo la medioevale Villa Masperoni, connotata da tre bei portali in pietra bugnata e da otto arcate di un portico mai ultimato; Villa Maria in stile neogotico, Villa Molinari e Villa Fenaroli a Corneto, quest'ultima posizionata a metà collina in una splendida conca che presenta il tipico schema architettonico bresciano con il corpo centrale alto rispetto alle due ali laterali più basse.
Il territorio di Padergnone appartenne prima alla Pieve di Gussago e, fino al 1969, alla Parrocchia di Rodengo.
Le prime informazioni storiche documentate sulla vita ecclesiale di Padergnone, risalgono al 1432 quando, come dimostra un’ iscrizione che ancora oggi troviamo trascritta all’interno della porta, a seguito di un’ epidemia di peste, per un ex voto, dalla vicinia viene eretta una cappella (“santellone”) dedicata a  SAN ROCCO.
La santella era coperta, ma aperta sui lati.  È la stessa cappella che verrà in diverse fasi ampliata e diventerà l’attuale Chiesa parrocchiale.
Da un’altra iscrizione latina del 1507, che oggi possiamo trovare intorno a una croce sostenuta dallo stemma della famiglia Masperoni, su una lapide posta sul muro di una casa all’incrocio della strada che porta a Ronco, abbiamo notizia di un’altra epidemia di peste.
Dunque, già nel 1500, gli abitanti del piccolo borgo si riunivano nella cappella di San Rocco per le pratiche religiose.
Nel 1567, Monsignor Bollani vescovo della diocesi,  decretava che la cappella si chiudesse almeno con dei cancelli di legno o ferro e che nel frattempo non vi si celebrasse nessun rito religioso.
Forse proprio a seguito di questo decreto, gli abitanti decisero di rifabbricarla,  ma non riuscirono a completare i lavori per la Visita Pastorale del 1581 di San Carlo Borromeo che, nel decreto da lui emanato in quell’occasione, diceva: “ “Nella chiesa di San Rocco in Padergnone, non ancora finita, si tolga l’altare irriverentemente costrutto”.
Da altri documenti storici, si ha notizia che nel 1569, la cappellania di San Rocco aveva in dotazione una casa e quattro pezzi di terra e che nel 1691 il nobile Francesco Torre dotava la chiesa di un’altra cappellania per una seconda messa festiva. E’ circa nel 1730 che gli abitanti di Padergnone cominciano a reclamare una autonomia  ecclesiale: lo si desume da alcuni documenti che parlano di una vertenza sorta con il monastero di Rodengo e più tardi, tra la fabbriceria e lo stato italiano. Nel 1770 viene eretto il campanile.
Nel 1828, alla chiesa viene accordata apposita fabbriceria distinta da quella di Rodengo, considerato anche il fatto che gli abitanti erano ormai più di 400.
Nel 1842,  Andrea  Piardi di Gussago dona alla chiesa una casa con broletto, ma data l’esiguità della rendita e l’incameramento dei beni, non è stato possibile farvi risiedere un religioso.
In vista delle esigenze della popolazione, nel 1858, alla chiesa viene concessa la conservazione degli oli sacri; l’anno successivo viene accordato il permesso di confessare le donne e, due anni più tardi, direttamente dalla Santa Sede, arriva l’autorizzazione a  conservarvi  l’Eucarestia. Particolarmente benemerita fu la cappellania di Don Camillo Presti. Nativo di Padergnone, ordinato sacerdote nel 1849, vi si fermò come secondo cappellano di Don Carlo Bonini, succedendogli alla sua morte come cappellano curato. Al suo zelo si devono la pala dell’altare maggiore, opera di Angelo Inganni e raffigurante San Rocco (1853),  la casetta per il sagrestano (1859), l’organo, costruito dal Tonoli (Brescia 1868),  la costruzione delle due cappelle della Madonna e di San Giuseppe, coi relativi altari, con la statua dell’Immacolata e la pala di San Giuseppe di G.B. Guadagnini,  il raddoppio del presbiterio, l’abside, il coro e la sacrestia  e il nuovo altare (1808),  il pavimento della chiesa, (ancora oggi in buono stato di conservazione) (1899),  l’orologio meccanico collocato sul campanile dalla ditta Frassoni (Rovato 1903), e, infine, la casa canonica (1906). Padergnone si arricchisce inoltre di un  ampio terreno denominato piazza, donato dalla nob. Silvia Fenaroli ved. Averoldi, morta il 13 ottobre 1887.
A Don Presti, morto nel 1909, successe Don Andrea Romano, sacerdote di grande pietà e dottrina, espertissimo in questioni giuridiche.  Al suo zelo di deve la Schola Cantorum e la decorazione, ad opera del pittore Trainini Giuseppe delle cappelle laterali.
L’ostilità del regime fascista lo costrinse a lasciare Padergnone dopo 19 anni, cedendo il posto, nel 1928, a Don Giuseppe Gatti che, nei nove anni di apostolato portò a compimento la decorazione della chiesa.
Passato a Timoline nel 1937, gli successe don Ernesto Bozzoni che realizzò nel 1942 il teatrino, nel 1960 il campo sportivo, nel 1967 la scuola materna e dotò il campanile di un nuovo concerto di campane (1958).
Sua preoccupazione fu il potenziamento della catechesi, la costituzione nel 1950 del “Gruppo delle madri e dei padri cristiani” e, nel 1955 dell’Azione Cattolica.
Si deve inoltre a lui l’istituzione del circolo Anspi.
Grazie alla sua intensa attività e all’organizzazione ecclesiale, in vista di un aumento della popolazione, con decreto del 14 maggio 1969, Padergnone veniva eretta a Parrocchia.
E’ toccato a Don Eugenio Panelli, successo a Don Bozzoni nel 1986, affrontare il problema dell’aumento della popolazione, passata da 445 abitanti del 1969 a 1356 del 1993.
Dopo aver ristrutturato la canonica, affrontò opere grandiose quali il complesso delle aule per la formazione e la catechesi denominato “Centro formativo San Rocco” e il nuovo oratorio, inaugurato il 14 giugno 1992, con annessi  un salone teatro, un moderno bocciodromo affidato all’associazione “Tris sport e tempo libero”, campi di calcio e pallavolo.
Il 26 giugno 1994 veniva poi posta la prima pietra della nuova chiesa parrocchiale dedicata al “Nome di Maria”, il cui progetto è del francescano padre Costantino Ruggeri di Adro.
Dal 1993 funzione la radio parrocchiale “Radio Punto.”
A Don Panelli successe, nel 1998 Don Giampietro Forbice che continua nell’organizzazione delle diverse iniziative pastorali di formazione, catechesi e aggregazione e che ha rivisto il progetto della nuova chiesa, affidandolo all’Architetto Fabrizio Viola e dedicandola a “Cristo Risorto”.
Dal primo ottobre 2011 è subentrato a don Giampietro Forbice don Duilio Lazzari di Collio V.T.

Il territorio di  Saiano appartenne probabilmente alla Pieve della Cattedrale di Brescia, gravitando prima su Iseo ed infine su Gussago.

Nel 1019 sembra che in questo territorio sorgesse un castello o un piccolo borgo fortificato, all’interno del quale venne eretta una cappella ufficiata da un sacerdote e dedicata a San Salvatore. Il nome dato alla primitiva cappella è dovuto al controllo sul territorio della Badia di Leno.

Le origini della parrocchia vengono fatte risalire al sec. XIV quando la chiesa era affidata ad un rettore-parroco mantenendosi così indipendente dal monastero di Rodengo.

La prima investitura di cui si abbia documentazione è un atto notarile del 1379 con il quale il prevosto di Gussago conferisce la rettoria di San Salvatore al sacerdote Ranuzio di Todi, destinato a succedere a don Lorenzo de Lagaimaro.

È ormai comunque certo che la prima parrocchiale di Saiano sorse in epoca longobarda, come hanno rinvenuto gli scavi archeologici da poco conclusi, in occasione del restauro della chiesa di San Salvatore.

Nel 1567, il vescovo di Brescia Mons. Bollani, durante una sua visita ordinò di abbellire la chiesa elencando i lavori da fare.

La parrocchia assunse sempre più precisi connotati pastorali dopo il Concilio di Trento.

Nel 1581 venne anche visitata da San Carlo Borromeo che ordinò una

nuova pala per l’altare maggiore oltre all’esecuzione di altri lavori (come il battistero) per rendere la chiesa più decorosa.

In questo anno è presente anche la Confraternita del SS. Sacramento; nel 1583 venne eretto il Monte di Pietà.

Nel 1601, sulla pubblica piazza di Brescia venne decapitato il rettore parroco di San Salvatore con l’accusa di aver praticato l’usura ed altro.

Nel 1631 il parroco è Francesco Fiorentini, sacerdote zelante, studioso e poeta, grazie al quale la parrocchia acquistò prestigio tanto da essere eretta insieme a Rodengo, Ome, Ronco, Gussago, Sale e Cellatica a vicaria foranea.

Nel 1641 i Padri della Pace, che possedevano dei terreni in Saiano ed erano quindi presenti sul territorio, con un congruo lascito contribuirono alla ricostruzione della chiesa parrocchiale nelle attuali linee di stile barocco a tre navate.

La generosità dei padri si solidificò con la collaborazione alla vita pastorale e alla erezione dell’oratorio di San Filippo Neri.

A premio di tanta attività e di così intenso lavoro pastorale il 2 febbraio 1686 venne chiesta e ottenuta l’erezione dell’arcipretura di Saiano, “per la bellezza della Chiesa, la presenza di tre Oratori oltre alla chiesa e il convento dei padri minori di San Francesco, nonché per la grande fede della popolazione.”

Nel 1648 è presente la Confraternita della Madonna del Rosario.

Il parroco don Francesco Capitanio, tra il 1671 e il 1685, stendendo una relazione da inviare al vescovo di Brescia, testimoniò che “...l’attuale chiesa fu costruita e ridotta in forma migliore sulla vecchia distrutta ...”

Nel 1697 la bottega del Fantoni dotò la chiesa di una statua dell’Addolorata e prima ancora di un crocefisso (forse colorato).

Nel 1792, il parroco don Palmerino Fattori di Montichiari, dottore in teologia e professore di filosofia, acquistò una casa presso la chiesa parrocchiale per sistemarvi la Scuola.

Nel 1872 il parroco è don Pio Martinelli che descrisse la popolazione come “buona e nella sua gran maggioranza piena di fede”.

Gli successe nel 1887 don Giacomo Mazzoldi, ma questo parroco non era gradito ai cittadini di Saiano che ne contestano la nomina; venne accettato come parroco solo dopo l’intervento del beato Don Giovanni Piamarta.

Nel 1893 venne nominato Parroco don Giuseppe Garbelli che, fino al 1906, svolse un servizio particolarmente attivo: a lui si deve la nascita della Congregazione della Madri Cattoliche, delle Figlie di Maria, degli oratori maschile e femminile.

Nel 1898 ebbe una grande intuizione e, aiutato da alcune famiglie del paese, fondò il primo Asilo infantile.

All’inizio, l’asilo, intitolato a Re Umberto I e retto dalle suore Poverelle, era collocato in un fabbricato del beneficio e, dieci anni più tardi, venne ampliato. Successivamente, nel 1956, viste le esigenze della popolazione venne costruito un nuovo edificio più spazioso, grazie anche all’intervento delle sorelle Anna e Maria Fenaroli, a cui venne dedicato.

La struttura riesce a soddisfare le esigenze della popolazione fino al 2002, quando, a seguito dell’evoluzione storica delle tre Parrocchie del territorio e del notevole aumento della popolazione, l’Amministrazione Comunale, in convenzione con l’Ente Morale, costruisce un nuovo edificio, più accogliente e funzionale, sempre nelle vicinanze della Chiesa parrocchiale.

Nel 1907 si insediò il nuovo Parroco Don Giambattista Salvi che, pochi anni dopo diede vita alla Casa S. Giuseppe gestita dalle Suore di S. Marta, più conosciute col nome di Suore Bianche di Saiano.

Sotto la sua guida, la parrocchia svolse molta beneficenza, soprattutto nei momenti difficili, organizzando aiuti durante gli inverni rigidi (come quello del 1911) ed allestendo una cucina gratuita presso l’asilo infantile per 120 giorni l’anno a favore dei bisognosi.

Nell’ottobre del 1927, durante un pellegrinaggio a Lourdes, per ringraziare della salute ritrovata, a don Salvi venne l’idea di costruire una nuova chiesa parrocchiale.

Abbandonata l’idea iniziale di un’imitazione del Santuario di Lourdes, il disegno venne steso dall’ing. Mario Piotti, aiutato da Beniamino Andreis, che avrebbe in seguito assunto i lavori di costruzione.

Nonostante numerose difficoltà, il progetto si concretizzò nel 1929 e le fondamenta furono gettate nel Settembre 1930.

Da subito, l’iniziativa venne sostenuta dall’entusiasmo della popolazione che prestò manodopera, si sottoscrisse per oblazioni ed assicurò lavoro gratuito, nonostante l’avversione delle autorità politiche del tempo.
L’opera continuò grazie ad aiuti crescenti di tutti i parrocchiani, ai lavori di disoccupati sfamati in parrocchia, a offerte di beneficenza e forniture gratuite di materiale, superando gravi difficoltà.”

A fianco della Chiesa, vennero costruite anche la Sacrestia e alcune aule per il catechismo.

L’occupazione del cantiere da parte delle truppe tedesche, la morte di don Salvi (1944), e le vicende belliche rimandarono fino all’ottobre 1945 l’inaugurazione della Chiesa che venne poi consacrata il 19 ottobre 1946 da Mons. Tredici e dedicata a Cristo Re.

L'abbazia olivetana di San Nicola fu fondata dai monaci cluniacensi - congregazione dell'Ordine di San Benedetto - verso la metà dell'XI secolo. Un documento del 1085 parla di un già esistente monastero; un altro documento del 1109 fa menzione della dedicazione a san Nicola, che rimarrà inalterata nel tempo.
La ubicazione del monastero fu posta su un quadrivio romano, che portava alla città e serviva da ostello per i pellegrini in viaggio per Roma. Il sito era già stato occupato in età romana ed altomedievale, come documentato da scavi archeologici hanno portato alla luce i resti di un muro romano e di una capanna longobarda.

Lo sviluppo del monastero avvenne inizialmente per impulso della importante badia di Pontida e di quella di San Paolo d'Argon. Il monastero di Rodengo affermò presto una propria autonomia, in connessione anche con lo sviluppo economico dovuto alle molteplici donazioni ed acquisti di proprietà terriere. Come per tutti gli altri monasteri benedettini la gestione di tali proprietà fece subito riferimento all'ausilio di fratelli conversi.

Già nella seconda metà del XIII secolo, tuttavia, lo sviluppo spirituale ed economico del monastero si era arrestato. Documenti relativi alle adunanze capitolari riferiscono di un numero di monaci e di conversi che non arrivava a dieci persone. Alla fine del XIV secolo si arrivò alla installazione di un abate commendatario al posto di quello nominato dall'ordine cluniacense; ma tale evenienza non arrestò - anzi accelerò – la decadenza del monastero. Le autorità che avevano voce in capitolo (dal papato, alla diocesi di Brescia, alla Repubblica di Venezia che aveva inglobato i territori bresciani, alla municipalità di Rodengo) si trovarono spesso in disaccordo sulle scelte relative alla gestione del monastero.

Nel 1446, per volere di papa Eugenio IV, la primitiva abbazia fu affidata agli olivetani. Aspri contrasti segnarono la rinuncia ai propri privilegi da parte dell'ultimo abate commendatario, e solo nel 1450 il passaggio del monastero agli olivetani divenne definitivo.

Iniziò subito una forte ripresa delle fortune spirituali ed economiche del monastero. Fu consolidato l'impiego delle proprietà terriere ed altre vennero acquisite anche attraverso i lavori di bonifica dei terreni paludosi circostanti.
Fin dal 1450 si assunse la decisione di riedificare il complesso abbaziale, a cominciare dalla chiesa di San Nicola, interamente ricostruita nel luogo ove sorgeva la vecchia chiesa cluniacensa.
Il progetto di ampliamento delle strutture architettoniche riguardò presto anche la costruzione del chiostro occidentale e del chiostro grande, (rifatto poi nel 1560-70, con l'ampliamento dei piani superiori), e progressivamente interessò tutto il monastero. I priori olivetani si mostrarono subito consapevoli della importanza delle azione intrapresa e furono attenti a valersi della collaborazione dei più importanti artisti bresciani.

Il fervore di opere costruttive si protrasse per circa tre secoli dando luogo ad uno dei complessi abbaziali artisticamente più significativi dell'Italia settentrionale. Nel Cinquecento furono coinvolti pittori come il Romanino, il Moretto, Lattanzio Gambara e Grazio Cossali; in epoche successive troviamo troviamo impegnati i pittori Gian Giacomo Barbelli, Giovan Battista Sassi ed altri. Di grande pregio sono anche alcune opere lignee (come il coro a tarsie realizzato da Cristoforo Rocchi nel 1480), opere marmoree ed in ceramica (come le decorazioni del chiostro maggiore).

Nel 1797 il Governo Provvisorio di Brescia, in virtù delle leggi napoleoniche, decretò la soppressione del monastero e la sua assegnazione all'Ospedale femminile di Brescia.

Dopo un lungo periodo di decadenza, nel 1969 l'abbazia è tornata, per interessamento di papa Paolo VI ai monaci olivetani. Si è da allora avviata – con il sostegno della Sovrintendenza di Brescia e di numerose associazioni – un'ininterrotta opera tesa a riportare il complesso architettonico al suo antico splendore.

Costruita a partire dalla metà del XV secolo, la chiesa dell'abbazia, intitolata a San Nicola, venne a più riprese ampliata e modificata nelle sue strutture e negli apparati decorativi. Dell'aspetto che presentava l'edificio quattrocentesco si è conservata soprattutto la facciata, con la sua semplice forma a capanna, racchiusa ai lati da due robusti piloni.
Quattrocentesca è anche la decorazione in maiolica gialla e verde che corre lungo la linea del tetto.
Al di sotto di tale decorazione in maiolica ancora si intravedono le tracce di un affresco raffiguranti due angeli in volo, al centro dei quali si apriva una monofora ad arco a sesto acuto.

Quattrocentesco è il portale realizzato in pietra simona, decorato con motivi vegetali e con tondi a bassorilievo posti sull'architrave. Esso è sormontato da una lunetta nella quale era posto un affresco della Madonna col Bambino, già attribuito al Foppa. Il protiro con volta a crociera che protegge l'ingresso è opera posteriore.
Anche il finestrone mistilineo posto al centro della facciata è posteriore, databile ai primi decenni del settecento.

La struttura architettonica interna lascia ancora intuire la originale soluzione quattrocentesca che, con le campate suddivise da archi traversi e con l'ampio presbiterio quadrato, rimanda ad analoghe soluzioni visibili in alcune chiese coeve presenti nel territorio bresciano.

Le pareti della chiesa sono impreziosite da un'ininterrotta decorazione a fresco - realizzata nella terza decade del Settecento da artisti prevalentemente di area milanese, Giovan Battista Sassi, Giacomo Lecchi e Giuseppe Castellini – composta da finte architetture, da medaglioni, e da motivi vegetali che inquadrano narrazioni agiografiche.

Notevole è l'apparato decorativo delle sei cappelle che si aprono sulla sinistra della chiesa.

Nella prima cappella, detta del Santissimo Sacramento, troviamo una pregevole pala d'altare di G.B. Sassi raffigurante la SS. Trinità con il trionfo della Croce.
Nella cappella seguente, detta di San Pietro, è possibile ammirare una pala del Moretto raffigurante Gesù in gloria consegna le chiavi a san Pietro e il libro della dottrina a san Paolo. La pala, di dimensioni non molto ampie, è databile dopo il 1540: essa è stata qui impiegata dopo un lavoro di risagomatura ed il suo inserimento in una cornice settecentesca. Il dipinto celebra con grande attenzione didascalica la solidità della Chiesa e della sua missione pastorale, affidata direttamente da Gesù ai due santi che ne costituiscono le colonne portanti. Le figure dei santi che si ergono maestosamente verso il Cristo occupano la maggior parte della scena; sullo sfondo, per dare profondità al dipinto, si profila un paesaggio pieno di luce e di poesia.
Nella stessa cappella, sulle pareti laterali, sono collocate due opere del Sassi (1730) riferite rispettivamente ai due santi raffigurati nella pala d'altare: Quo vadis Domine? e S. Paolo di fronte al Dio Ignoto.
Nella cappella del Rosario troviamo ancora tele del Sassi: una Madonna del Rosario sull'altare e, ai lati, una Annunciazione ed una Visitazione.
Nella cappella di san Bernardo Tolomei, fondatore della congregazione di Monte Oliveto Maggiore, troviamo, al centro, una pala d'altare di incerta attribuzione con la figura del Santo; ai lati tele del Sassi con episodi della sua vita. Alquanto suggestiva è la scena di san Bernardo Tolomei che dà sepoltura ai morti della peste che colpì Siena nel 1348.
Nella cappella di Santa Francesca Romana, fondatrice delle Oblate di Tor di Specchi, sono poste tele del Sassi, tra cui un notevole San Benedetto in gloria con Santa Francesca Romana e un Angelo.
La sesta cappella, priva di altare e decorata con finte architetture, è dedicata a Maria Bambina. Custodisce un'urna ottagonale con il Simulacro di Maria Bambina, oggetto di speciale devozione da parte degli olivetani.

L'altare maggiore della chiesa è stato realizzato nel 1668 ad opera di Paolo Sambinelli detto il Puegnago. Ai lati del presbiterio, in posizione simmetrica, a metà delle pareti, sono poste due cantorie: quella di destra ospita un organo, mentre quella di sinistra è decorata con un seicentesco affresco raffigurante Santa Cecilia all'organo, attribuito al pittore cremasco Gian Giacomo Barbelli.

Al centro dell'abside è posta una pala seicentesca raffigurante la Madonna col Bambino ed i santi Nicola e Benedetto.
Notevolissimo è il coro a tarsie addossato all'abside, opera di Cristoforo Rocchi, datata 1480. Riprendendo un impianto decorativo molto stimato in quell'epoca (come testimoniano tra l'altro le superbe tarsie di Fra Giovanni di Verona a Monte Oliveto Maggiore) il coro monastico è formato da sedici sedili con schienali che ripetono, quasi identiche, le raffigurazioni ad intarsio della prospettiva di una corte con pavimentazione a scacchiera.

Al centro del coro trovava posto un magnifico leggio in legno (con intarsi ricavati probabilmente da disegni del Romanino), opera di Fra Raffaele da Brescia (datato circa 1530), ora conservato presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.

Nella chiesa è oggi collocata anche la grande tela di Grazio Cossali, firmata e datata 1608, raffigurante le Nozze di Cana. Essa era posta in precedenza sulla parete di fondo del refettorio, a coprire l'affresco di inizio Cinquecento della Crocifissione. Il dipinto, di grande qualità artistica, denuncia il debito artistico dell'autore verso Antonio Campi.

Altre opere di notevole interesse artistico sono conservate nella sacrestia, a cominciare dalla porta decorata da trentun formelle intarsiate, opera realizzata (alla pari degli stalli del coro) da Cristoforo Rocchi. L'interno alquanto spazioso e luminoso della sacrestia ospita un cospicuo arredo ligneo ed un elegante apparato decorativo a fresco. Tra le due finestre troviamo un affresco cinquecentesco raffigurante la Madonna col Bambino affiancata dai Santi Nicola e Benedetto, opera appartenente al manierismo bresciano vicina ai modi stilistici di Lattanzio Gambara.
Il contributo più importante all'apparato decorativo della sacrestia viene dalla mano di Gian Giacomo Barbelli: suoi sono gli affreschi posti nelle undici lunette sulle pareti, con episodi della Vita di San Benedetto (tratti dai Dialoghi di San Gregorio Magno), sue sono le decorazioni del soffitto al centro del quale campeggia il grande affresco con la SS Trinità adorata da San Benedetto, dal Beato Bernardo Tolomei, da Santa Scolastica e da Santa Francesca Romana.

Uno degli elementi che maggiormente caratterizzano l'Abbazia di Rodengo è dato dalla presenza di tre chiostri rinascimentali, realizzati con continuità, a partire dagli ultimi decenni del XV secolo, in un arco di tempo di un centinaio di anni.
Il chiostro piccolo, posto in prossimità della chiesa, è verosimilmente quello avviato per primo, utilizzando anche materiale proveniente dal preesistente chiostro cluniacense. Le dimensioni ridotte, le linee di grande semplicità dei suoi corridoi e delle sue arcate con cordonature in cotto, l'aspetto ancora goticizzante dato dalle diverse forme dei capitelli a fogliami, conferiscono all'ambiente un'atmosfera di notevole raccoglimento.

Il chiostro grande (o chiostro del Cinquecento) si connota per la elegante maestosità, dei due loggiati sovrapposti: quello inferiore, con dieci archi per lato, e quello superiore che corre, con archi raddoppiati, lungo tre lati della pianta quadrata. La qualità estetica del chiostro, di gusto pienamente rinascimentale, è impreziosita da una decorazione in maiolica che compone il cornicione che occupa ininterrottamente il lato meridionale. Al centro del prato è posta una pergola in ferro battuto.
Si affacciano sul chiostro quelli che earano i locali di servizio dell'abbazia (la cucina, il pozzo e l'acquaio, il forno, la foresteria, ecc.). Vi si affaccia inoltre la cosiddetta "sala Sansone" che prende il nome dagli affreschi, opera di un artista bresciano del XVI secolo, che ne adornano la parete centrale e le lunette, aventi come tema le imprese dell'eroe biblico.

Il chiostro della cisterna (o chiostro delle meridiane) fu realizzato all'incirca nel decennio 1580 -90. La struttura architettonica, con archi sorretti da colonne binate poggianti direttamente sulla pavimentazione, è improntata ad un gusto tardorinascimentale poco diffuso in territorio bresciano. Al centro del cortile acciottolato, su un basamento di tre scalini, poggia un pozzo di ferro battuto (costruito in un periodo più tardo).
Caratteristica è la presenza di tre meridiane su tre lati diversi del chiostro; la più elegante, datata 1648, mostra lo stemma degli olivetani (monte di tre cime sormontato da croce con rami d'ulivo).
Sul chiostro si affaccia quella che era la Sala del Capitolo (oggi utilizzata come cappella), la cui parete centrale è adornata da un affresco raffigurante Cristo risorgente (1599). Il dipinto, già attribuito a Lattanzio Gambara, è ora assegnato al pittore bresciano Pietro da Morone.

Sul soffitto della sala che immette al refettorio è posto uno straordinario ciclo di affreschi realizzato nel 1570 da Lattanzio Gambara. Il pittore, affermatosi a Brescia come collaboratore del Romanino e poi come erede della sua bottega, dimostra qui una piena assimilazione dei modi pittorici del manierismo settentrionale.

Il programma decorativo che si dispiega sul soffitto dell'antirefettorio e che dovette esser stato dettagliatamente concordato con i committenti olivetani, ha come tema generale la Salvezza dell'uomo.
Al centro della volta, in una grande cornice a stucco è raffigurata una scena di difficile lettura iconografica:

«Salvezza è legata innanzi tutto alla Croce che campeggia enorme ed evidente al centro della scena raffigurata nel riquadro del soffitto; la Croce è librata da un angelo in volo verso il Padre seduto sul trono, a braccia aperte, mentre accoglie l'Agnello che appoggia con atteggiamento confidenziale le zampe sulla gamba destra del Padre. All'intorno fanno da cornice, su nubi, dodici figure di vecchi, con la palma nella mano, e, in un giro successivo, lungo i lati del riquadro molte altre figure di giovani e di vecchi, variamente atteggiati, mentre un angelo passa ad imporre sulla loro fronte il sigillo. Ai quattro angoli, quattro angeli muniti di spade tengono a bada i quattro venti, affinché dalla loro bocca non soffi alito. »
(P. V. Begni Redona, Gli affreschi di Lattanzio Gambara nell'abbazia olivetana di Rodengo, Edizioni "l'Ulivo", abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Siena), 1996, p. 21)
Si tratta della traduzione pittorica del settimo libro dell'Apocalisse, attenta a cogliere il maggior numero di dettagli di quanto viene riportato nel visionario e profetico racconto.

Attorno al grande riquadro centrale, nelle zone incassate tra grandi mensole in stucco, sono affrescate altre dieci scene tratte dall'Apocalisse (un tema che il Gambara aveva già affrontato negli affreschi, andati distrutti, della Loggia di Brescia). Tra le raffigurazioni più efficaci (e più facilmente riconoscibili) si nota quella dei Quattro cavalieri dell'Apocalisse.

Negli spazi tra i piedritti dei mensoloni sono affrescate tredici scene dell'Antico Testamento, scelte secondo un criterio dottrinale che le collega al tema della Salvezza.
Lo straordinario impegno profuso nella decorazione della volta si completa attraverso figure di putti con ornati vegetali e mascherone, festoni floreali e scenette monocrome affrescate sui fianchi delle venti grandi mensole in stucco.

Il grande refettorio dell'abbazia fu sopraelevato nel 1600, risparmiando uno solo degli affreschi preesistenti: il grande Cristo crocifisso tra la Madonna e san Giovanni e la Maddalena abbracciata alla croce sulla parete di fondo. Si tratta di un'opera di notevole qualità artistica che alcuni studiosi hanno assegnato a Vincenzo Foppa; ma che ora viene per lo più attribuita ad un ignoto pittore bresciano attivo nel primo Cinquecento (vicino ai modi stilistici di Floriano Ferramola).
Dopo la sopraelevazione furono chiamati a decorare le alte pareti e l'ampio soffitto i pittori bresciani Tommaso Sandrini e Grazio Cossali, specialisti nel genere – allora molto stimato- delle finte architetture. Colpisce, in particolare, la profonda conoscenza delle leggi della prospettiva impiegata nel dipingere, come trompe-l'oeil di tipico gusto barocco, le finte colonne della volta: esiste un punto preciso, in mezzo alla sala, dal quale esse appaiono allo spettatore tutte quante diritte.

La visita al refettorio della foresteria – dov'era la mensa riservata ad accogliere gli ospiti forestieri – presenta un notevolissimo interesse per la presenza di affreschi che il Romanino eseguì verso il 1530. Essa viene anche indicata come "Sala Romanino".

Due notevoli scene di soggetto evangelico, oggi non più visibili, furono affrescate dal pittore bresciano sulla parete occidentale della sala: la Cena in Emmaus e la Cena in casa di Simone Fariseo; due raffigurazioni scelte con evidenza per celebrare il tema della Ospitalità. Esse furono staccate nel 1864 e trasferite nel 1882 alla Pinacoteca Tosio Martinengo.
A seguito dei lavori di restauro del 1979 sono riemersi sulla parete consistenti strati di pittura che erano rimasti aderenti all'intonaco: essi consentono ancora di intravedere il disegno delle due scene e di intuire così quale poteva essere l'aspetto originale del refettorio. Una copia (in dimensioni ridotte) delle due scene è stata riproposta nella sala a vantaggio dei visitatori: essi possono in tal modo apprezzare nel dipinto la forza del colorito, la solidità delle figure, lo stile rapido e sciolto, l'ambientazione popolana delle scene, narrate con un linguaggio connotato da grande umanità e da un marcato anticlassicismo.

Sulla parete di fronte si possono ancora ammirare, intatti, gli affreschi eseguiti dal Romanino: una lunetta con la Madonna col Bambino e San Giovannino e, più in basso, due riquadri incassati nel muro, raffiguranti Gesù e la Samaritana al pozzo e (esempio insolito di "natura morta") una Dispensa con stoviglie.

L'affresco nella lunetta costituisce uno struggente brano di poesia. La Madonna è raffigurata mentre guarda con animo dolente verso san Giovannino, che ha al suo fianco un agnello annunciante il necessario sacrificio del Redentore, mentre il Bambino sembra, con un gesto assai familiare, voler scendere dalle ginocchia della madre. Le figure sono illuminate da una luce che viene dal basso sulla loro sinistra; esattamente dov'è posta una finestra che dà luce alla stanza: si tratta di un'altra invenzione dettata dal realismo del Romanino.



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