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« La Torre si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l'atmosfera della città di Milano, l'ineffabile eppure percepibile caratteristica »
(Ernesto Nathan Rogers, 1958)
La Torre Velasca è un grattacielo di Milano, situato nella piazza omonima, a sud del Duomo. Il nome, derivato dal preesistente toponimo, è legato al governatore spagnolo Juan Fernández de Velasco, a cui fu dedicata la piazza nel Seicento. La Torre svetta nel panorama cittadino, del quale è divenuta uno dei simboli più noti. Per il suo interesse storico-artistico, nel 2011 la Soprintendenza per i Beni Culturali l'ha sottoposta a vincolo culturale.
Fu progettata dallo Studio BBPR su incarico della società Rice, con la collaborazione dell'ingegner Arturo Danusso, su un'area del centro di Milano devastata dai bombardamenti angloamericani del 1943. La progettazione iniziò fra il 1950-1951, ma l'idea iniziale di una torre in ferro fu scartata a causa degli alti costi del materiale; fra il 1952 ed il 1955 fu realizzato il progetto definitivo della torre, realizzata tra il 1956 e il 1957 con i finanziamenti della Società Generale Immobiliare.
Per costruirla servirono 292 giorni, 8 in meno del tempo contrattuale.
La Torre Velasca è il monumento più rappresentativo di quel periodo di transizione, in cui Ernesto Nathan Rogers, direttore della rivista Casabella, rappresentava un punto di riferimento per quella parte della cultura disciplinare che cercava il superamento del razionalismo, traghettando quell'eredità dei maestri europei verso un nuovo atteggiamento nei confronti dell'ambiente e della storia.
Nella fase preliminare venne interpellata una società newyorkese specializzata nella valutazione economica dei progetti d'architettura e stabilì che, data la situazione tecnologica dell'industria siderurgica italiana, il progetto sarebbe stato irrealizzabile.
Il profilo della Torre è la conseguenza di un lungo studio che trova le sue origini nella ricerca di risposte funzionali alla costrizione in cui si trova la base della stessa, ubicata nella piccola piazza omonima, libera però di espandersi verticalmente; in tutto questo, la Velasca volle essere una citazione moderna della Torre del Filarete presente al Castello Sforzesco.
I primi diciotto piani sono occupati da negozi e uffici, mentre i successivi piani, fino al ventiseiesimo, sono destinati ad appartamenti privati. Essi sono sviluppati su una planimetria più larga rispetto ai piani sottostanti e ciò conferisce la caratteristica forma "a fungo" alla Torre, accentuata dalle numerose travi oblique. Quest'ultime sostengono l'espansione esterna dei piani superiori ma furono oggetto di ironia dei milanesi che diedero all'edificio il soprannome di "grattacielo delle giarrettiere" o di "grattacielo con le bretelle".
Nel 1961 al progetto venne attribuito il "Premio per un'opera realizzata", assegnato annualmente dall'IN/ARCH.
Malgrado l'indubbia valenza architettonica, la Torre Velasca ha da sempre suscitato pareri contrastanti – sia in patria che fuori dai confini nazionali – per il suo ardito design; lo scrittore Luciano Bianciardi, nel romanzo La vita agra del 1962, fu tra i primi detrattori definendola un «torracchione di vetro e cemento».
Esattamente cinquant'anni dopo, nel 2012, la scelta del quotidiano inglese The Daily Telegraph d'inserirla nella lista degli edifici più brutti al mondo ha rinfocolato il dibattito sul suo impatto nello skyline meneghino; architetti come Mario Bellini e Gianmaria Beretta ne riconoscono l'indubbio interesse stilistico e progettuale: «volle essere un palazzo milanese che rifiutava la standardizzazione dell'architettura internazionale»; dello stesso parere è il collega Stefano Boeri, anche assessore della giunta comunale milanese, per cui «la Torre è l’invenzione di una nuova architettura. Fu il primo grattacielo progettato con quella forma a fungo, nessuno prima aveva mai ideato un edificio del genere», rimarcandone quindi la sua unicità nel panorama internazionale.
Da parte della critica d'arte, Philippe Daverio considera la Torre un «assoluto capolavoro», sottolineando come ogni popolo rappresenta la propria idea di architettura. Sarebbe cattivo chiedere a un inglese di avere una conoscenza così articolata della nostra storia»; di diverso parere è invece Vittorio Sgarbi, critico e già assessore alla cultura del capoluogo lombardo, il quale sostiene che «chi non è abituato a guardarla con i nostri occhi indulgenti può sicuramente classificarla come mostro», ammettendo inoltre che «tende a non piacermi. È il paradigma della civiltà dell'orrore».
Al di fuori del versante artistico-architettonico, il giornalista Beppe Severgnini, pur parlando di un «capoccione di cemento» e di «tiranti improbabili», ne approva l'originalità e la follia, contestualizzandola a simbolo di quell'«Italia ottimista e casinista» del miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta del XX secolo:
« Chi dice che è orrenda, non capisce niente di Milano. Probabilmente crede che il capoluogo lombardo voglia gareggiare con altre città d'Italia in bellezze rinascimentali. Invece è orgoglioso dei suoi angoli strambi, dei suoi portoni, dei suoi cortili irregolari, dei suoi palazzi dove qualche incosciente vorrebbe sostituire il portiere con un citofono.»
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