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Conosciamo la storia e l'architettura del famoso TEATRO ALLA SCALA
Il Teatro alla Scala di Milano (citato spesso semplicemente come la Scala) è uno dei teatri più famosi al mondo: da oltre duecento anni ospita artisti internazionalmente riconosciuti ed è stato committente di opere tuttora presenti nei cartelloni dei teatri lirici di tutto il mondo. È situato nell'omonima piazza, affiancato dal Casino Ricordi, oggi sede del Museo teatrale alla Scala.
Il teatro prende nome dalla Chiesa di Santa Maria alla Scala, a sua volta così intitolata in onore della committente Regina della Scala. La chiesa fu demolita alla fine del XVIII secolo per far posto al teatro, inaugurato il 3 agosto 1778 con L'Europa riconosciuta, dramma per musica composto per l'occasione da Antonio Salieri.
A partire dall'anno di fondazione è sede dell'omonimo coro, dell'orchestra e del corpo di Ballo, dal 1982 anche della Filarmonica.
Le prime strutture deputate all'opera in Milano furono i teatri di corte che si avvicendarono nel cortile di Palazzo Reale: un primo salone intitolato a Margherita d'Austria-Stiria, moglie di Filippo III di Spagna, eretto nel 1598 e distrutto da un incendio il 5 gennaio 1708 e il Regio Ducal Teatro, costruito nove anni più tardi a spese della nobiltà milanese su progetto di Gian Domenico Barbieri.
« Con mia grande sorpresa vidi che stavano demolendo una chiesa per far posto ad un teatro »
(Thomas Jones)
Il Teatro alla Scala fu costruito in conformità al decreto dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria dopo che un incendio, divampato il 26 febbraio 1776, aveva distrutto il teatro di corte. Il progetto venne affidato al celebre architetto Giuseppe Piermarini, il quale provvide anche al disegno del “Teatro Interinale”, una struttura temporanea costruita presso la chiesa di San Giovanni in Conca, e del Teatro della Cannobiana, dalla pianta assai simile a quella della Scala, ma in dimensione ridotta, dedicato a spettacoli più “popolari”. La decorazione pittorica fu realizzata da Giuseppe Levati e Giuseppe Reina. Domenico Riccardi dipinse invece il sipario, rappresentante, pare su suggerimento del Parini, il “Parnaso”. Le spese per l'edificazione del nuovo teatro furono sostenute dai palchettisti del “Regio Ducale” in cambio del rinnovo della proprietà dei palchi.
I lavori di demolizione della collegiata di Santa Maria iniziarono il 5 agosto 1776, il 28 maggio 1778 si svolsero le prime prove di acustica e il 3 agosto, alla presenza del governatore di Milano, l'arciduca Ferdinando d'Asburgo-Este, venne inaugurato il “Nuovo Regio Ducal Teatro” con la prima rappresentazione assoluta de L'Europa riconosciuta di Salieri. Il libretto, opera dell'abate Mattia Verazzi, fu pensato per dare spazio ad arie ricche di virtuosismi, ed è caratterizzato dai numerosi duetti, terzetti e complessi finali d'atto. La sera del 3 agosto, tra gli spettatori c'era anche Pietro Verri, il quale scrisse al fratello Alessandro, in quel periodo a Roma: «la pompa dei vestiti è somma, le comparse ti popolano il palco di più di cento figure e fanno il loro dovere... gli occhi sono sempre occupati». Particolarmente suggestivo risultò l'inizio in medias res, «mentre te ne stai aspettando quando si dia principio, ascolti un tuono, poi uno scoppio di fulmine e questo è il segnale perché l'orchestra cominci l'ouverture, al momento s'alza il sipario, vedi un mare in burrasca». Allietarono gli intervalli i balli Pafio e Mirra, o sia I prigionieri di Cipro, musica di Salieri, coreografia di Claudio Legrand, e Apollo placato, musica di Luigi de Baillou, coreografia di Giuseppe Canziani.
Il teatro non era all'epoca soltanto un luogo di spettacolo: la platea era spesso destinata al ballo, i palchi venivano usati dai proprietari per ricevervi degli invitati, mangiare e gestire la propria vita sociale, nel ridotto ed in un altro spazio in corrispondenza del quinto ordine di palchi si giocava d'azzardo (tra i vari giochi figura anche la roulette, introdotta dallimpresario Domenico Barbaja nel 1805). Fin dal 1788 era infatti severamente proibito giocare in città, con l'unica eccezione dei teatri in tempo di spettacolo.
La facciata dal teatro raffigurata in due diverse incisioni storiche, una in rame del 1790 (sopra) e l'altra all'acquatinta del 1850 (sotto): si noti, in quest'ultima, il corpo laterale aggiunto nel 1835.
La facciata dal teatro raffigurata in due diverse incisioni storiche, una in rame del 1790 (sopra) e l'altra all'acquatinta del 1850 (sotto): si noti, in quest'ultima, il corpo laterale aggiunto nel 1835.
La facciata dal teatro raffigurata in due diverse incisioni storiche, una in rame del 1790 (sopra) e l'altra all'acquatinta del 1850 (sotto): si noti, in quest'ultima, il corpo laterale aggiunto nel 1835.
Durante gli anni di dominazione austriaca e francese, la Scala era finanziata, oltre dagli introiti provenienti dal gioco, dalle stesse famiglie che avevano voluto la costruzione del teatro e ne conservavano la proprietà attraverso le quote dei palchi. Mentre i primi tre ordini rimasero per molti anni di proprietà dell'aristocrazia, il quarto e il quinto erano per lo più occupati dall'alta borghesia, che a partire dagli anni venti fa un massiccio ingresso in teatro. In platea, ed ancora di più in loggione, vi è un pubblico misto di militari, giovani aristocratici, borghesi, artigiani.
La titolarità della gestione rimase principalmente in mano ad esponenti della nobiltà milanese (l'anno dell'inaugurazione i «Cavalieri associati» furono il conte Ercole Castelbarco, il marchese Giacomo Fagnani, il marchese Bartolomeo Calderara e il principe Antonio Menafoglio di Rocca Sinibalda), ma l'effettiva gestione era quasi sempre affidata a impresari di professione come Angelo Petracchi (1816-20), Domenico Barbaja (1826-32), Bartolomeo Merelli (1836-50), i fratelli Ercole e Luciano Marzi (1857-1861).
Il problema maggiore nell'organizzare le stagioni era mantenere acceso l'interesse degli spettatori, molto spesso distratti, nei palchi, in altre faccende. Essendo lo sfarzo dell‘Europa riconosciuta a lungo andare economicamente insostenibile, già nel secondo anno di attività si diede spazio all'opera buffa, della quale il maggior interprete, il basso Francesco Benucci, calcò spesso le scene scaligere. Grande successo ebbero alla Scala i castrati, sopranisti e contraltisti, tra i quali si possono ricordare Gaspare Pacchierotti, Asterio nell'opera di apertura, Luigi Marchesi, Girolamo Crescentini, di lì a qualche decennio sostituiti dalle primedonne (tra le prime, le celeberrime Giuseppina Grassini ed Elisabetta Gafforini). Quanto ai compositori, oltre a Salieri, forse imposto dall'alto e comunque raramente chiamato, si possono in questi primi anni ricordare Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello, Nicola Antonio Zingarelli, Luigi Cherubini, Ferdinando Paër, Johann Simon Mayr, Gioachino Rossini, Giacomo Meyerbeer.
Durante la primavera e l'estate del 1807, le stagioni furono trasferite alla Canobbiana a causa di importanti lavori di rifacimento delle decorazioni interne, ridisegnate secondo il gusto neoclassico mentre nel 1814, a seguito della demolizione di alcuni edifici tra i quali il convento di San Giuseppe, venne ampliato il palcoscenico secondo il progetto di Luigi Canonica.
Un grande lampadario con ottantaquattro lumi a petrolio, disegnato dallo scenografo Alessandro Sanquirico, venne appeso al centro del soffitto nel 1823. Contrastanti furono le reazioni: contro i sostenitori dell'innovazione alzava la voce chi riteneva che il lampadario illuminasse troppo la sala, permettendo agli sguardi indiscreti di penetrare nell'intimità dei palchi.
Dal settembre 1812 con La pietra del paragone di Rossini la Scala diventa il luogo deputato alla rappresentazione del Melodramma italiano fino ad oggi.
Negli anni venti fecero la loro comparsa le opere di Saverio Mercadante, di Gaetano Donizetti (nell'ottobre 1822 con Chiara e Serafina) e soprattutto del siciliano Vincenzo Bellini (nell'ottobre 1827 con Il pirata), sul quale Barbaja punterà negli anni della propria gestione. È percepibile però la "regia occulta" dell'editore Ricordi che, in forza del suo privilegio di copista prima, di editore poi, delle opere rappresentate alla Scala, oltre che del fondo dei manoscritti del teatro acquistato già nel 1825, influenzò fortemente la scelta dei compositori a cui venivano commissionate riprese e nuove produzioni.
Nel 1830, le fasce tra gli ordini tra i palchi vennero decorate, sempre su indicazione del Sanquirico, con rilievi dorati e Francesco Hayez realizzò una nuova decorazione della volta della sala, visibile ancora nel 1875, quando fu sostituita da una decorazione a grisaille. Nel 1835, su progetto di Pietro Pestagalli, vennero aggiunti nella facciata due piccoli corpi laterali sormontati da terrazzi.
Dopo la partenza dalla città dagli austriaci (1859), l'attività riprende con Lucia di Lammermoor di Donizetti: alla recita del 9 agosto assiste anche il re Vittorio Emanuele II. A seguito dell'unità d'Italia, la Municipalità si sostituì al governo austriaco nell'erogazione di sovvenzioni al teatro.
Nel 1860, in occasione della serata di apertura della Stagione di Carnevale e Quaresima, venne inaugurato il nuovo sistema di lumi a gas del lampadario del Sanquirico. Nel 1883 venne invece completato l'impianto di illuminazione elettrica.
Negli anni immediatamente successivi si tentarono alcuni esperimenti, per lo più falliti: I profughi fiamminghi di Franco Faccio su libretto di Emilio Praga nel 1863, manifesto antiverdiano che proponeva l'abbandono delle tradizionali formule operistiche, e Mefistofele di Arrigo Boito (1868), spettacolo di quasi sei ore che si rifaceva al dramma wagneriano. È invece dal 1873 la prima, fortunata apparizione scaligera del grande compositore tedesco con Lohengrin, in lingua italiana, diretto da Franco Faccio.
Rassicurato da Tito Ricordi e da suo figlio Giulio, Verdi tornò alla Scala nel 1869 con una versione rinnovata de La forza del destino "messa in scena dall'autore", come si legge nel cartellone. Altre produzioni messe in scena dal compositore furono la prima europea di Aida (1872), la nuova versione di Simon Boccanegra (1881), la versione italiana in quattro atti del Don Carlo (1884), Otello (1887) e Falstaff (1893).
Tra i titolari della gestione degli anni post unitari si possono ricordare i fratelli Corti (1876) e Luigi Piontelli (1884-1894).
Tra il 1894 e il 1897 la gestione del teatro passò in mano all'editore Edoardo Sonzogno. Sul palcoscenico scaligero apparvero in quegli anni opere di compositori francesi (Charles Gounod, Fromental Halévy, Daniel Auber, Hector Berlioz, Georges Bizet, Jules Massenet, Camille Saint-Saëns) e della cosiddetta scuola verista (Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano). Grande successo ebbero anche le opere di Richard Wagner, che in quegli anni inaugurano spesso la stagione operistica.
Tra il 1881 ed il 1884 furono rinnovate le decorazioni degli ambienti al piano terra seguendo un progetto del 1862 degli architetti Savoia e Pirola. Nel 1891, per controllare meglio l'afflusso degli spettatori, furono aboliti i posti in piedi e vennero installate le prime poltrone fisse in platea.
Il 1º luglio 1897, il Comune di Milano, posto di fronte a emergenze sociali e sotto la spinta delle sinistre, decise di sospendere il proprio contributo: la Scala fu costretta a chiudere.
Alla fine del 1918, Visconti di Modrone fu costretto a rinunciare all'incarico per ragioni economiche. Lo stallo di due anni portò ad una radicale trasformazione dei criteri di gestione: grazie alla rinuncia del diritto di proprietà sia da parte dei palchettisti che del Comune, venne fondato infatti l’Ente Autonomo Teatro alla Scala, subito impersonato dal direttore generale Angelo Scandiani. Grazie a sovvenzioni comunali e statali e alle somme raccolte attraverso una sottoscrizione promossa dal Corriere della Sera, il teatro poté finalmente godere di una completa autonomia.
Si deve a Scandiani la costituzione formale dell'orchestra del Teatro alla Scala, i cui musicisti, un centinaio, verranno d’ora in poi scelti secondo rigidi criteri di selezione e assunti con regolari contratti a tempo indeterminato. Alla direzione musicale tornò ancora una volta Toscanini, promotore di una intensa e straordinaria stagione per il teatro. Il palco scaligero vide avvicendarsi i maggiori cantanti del tempo, tra cui Fëdor Ivanovič Šaljapin, Magda Olivero, Giacomo Lauri-Volpi, Titta Ruffo, Enrico Roggio, Gino Bechi, Beniamino Gigli, Mafalda Favero, Toti Dal Monte, Gilda Dalla Rizza, Aureliano Pertile.
Nel 1929 lo Stato fascista riservò al capo del governo la facoltà di nomina del presidente dell'Ente e impose la partecipazione di un rappresentante del Ministero dell'Educazione Nazionale al consiglio di amministrazione. Di fronte a ciò, Toscanini, portata a termine l’impegnativa tournée a Vienna e Berlino, lasciò la direzione del teatro nel maggio dell'anno successivo e si trasferì a New York. Nel 1931, a seguito di un'aggressione subita a Bologna, schiaffeggiato davanti al Teatro comunale per essersi rifiutato di eseguire la Marcia Reale e Giovinezza, il maestro lasciò definitivamente il paese.
Nel 1932, Luigi Lorenzo Secchi progettò le "scale degli specchi" che collegano il foyer al ridotto dei palchi, anch'esso al centro di importanti lavori nel 1936.
Nel 1938 il palcoscenico venne dotato di ponti e pannelli mobili, oltre che di un sistema che permetteva di abbassarne il livello, facilitando il carico delle scene direttamente dal cortile.
Subito dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, comparvero sui muri del teatro manifesti inneggianti al ritorno di Toscanini ("Evviva Toscanini", "Ritorni Toscanini"). Nella notte tra il 15 ed il 16 agosto di quell'anno, però, la Scala subì un devastante bombardamento: gravi danni furono causati alla sala (crollo del soffitto, di parte delle gallerie e dei palchi), andarono completamente distrutti il palcoscenico e le strutture di servizio. Su iniziativa dell'assessore alla cultura Achille Magni e con il placet del sindaco di Milano Antonio Greppi, si optò per ricostruire il teatro "com'era e dov'era" prima del conflitto. Fu perciò nominato un commissario straordinario (Antonio Ghiringhelli) che diede avvio ai lavori, guidati dall'ingegnere capo del Comune di Milano Secchi.[34] Quest'ultimo continuerà fino al 1982 a sovraintendere alle opere di adeguamento e rinnovo del teatro.
I lavori si protrassero fino al maggio 1946, ma nel frattempo non si cessò di far musica: l'attività scaligera continuò presso il Teatro Sociale di Como, nel Teatro Gaetano Donizetti di Bergamo e, a Milano, nel Teatro Lirico e nel Palazzetto dello Sport. L'11 maggio 1946 alle ore 21:00 "precise", come si legge sul cartellone, Toscanini inaugurò la nuova sala, dirigendo l'ouverture de La gazza ladra, il coro dell'Imeneo, il Pas de six e la Marcia dei Soldati del Guglielmo Tell, la preghiera del Mosè in Egitto, l'ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l'ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l'intermezzo e estratti dall'atto III di Manon Lescaut, il prologo ed alcune arie del Mefistofele. Il "concerto della ricostruzione", che vide tra gli interpreti anche Renata Tebaldi, fu un evento storico per tutta Milano. Come scrisse Filippo Sacchi:
« quella sera non dirigeva soltanto per i tremila che avevano potuto pagarsi un posto in teatro: dirigeva anche per tutta la folla che occupava in quel momento le piazze vicine, davanti alle batterie degli altoparlanti »
Dopo una serie di concerti diretti da Toscanini, Klecky e Votto, l'attività operistica riprese il 26 dicembre con il Nabucco.
La gestione di Ghiringhelli, nominato sovrintendente nel 1948, fu contrassegnata tra l'altro dalle partigianerie tra i sostenitori di Maria Callas e di Renata Tebaldi: il soprano greco, che era già apparsa in sostituzione della collega italiana in alcune recite di Aida del 1950, ottenne il primo trionfo scaligero in occasione dell'apertura della stagione 1951-52. Tra gli eventi più importanti di questo periodo si possono citare il debutto scaligero di Herbert von Karajan in veste di direttore d'orchestra (Nozze di Figaro, 1948) e di regista (Tannhäuser, due anni più tardi), la rappresentazione de L'anello del Nibelungo (marzo-aprile 1950) diretto da Wilhelm Furtwängler, e della novità di Igor Stravinskij The Rake's Progress, rappresentato l'8 dicembre dell'anno successivo.
Mentre la riscoperta delle partiture fu affidata alle bacchette di Thomas Schippers, Gianandrea Gavazzeni, Carlo Maria Giulini, le scelte di regia di artisti come Giorgio Strehler, Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Pier Luigi Pizzi e Luca Ronconi permisero al pubblico di vedere con occhi nuovi i libretti. Tra i grandi coreografi e ballerini impegnati in quegli anni alla Scala si possono invece ricordare Léonide Massine, George Balanchine, Rudolf Nureyev, Carla Fracci e Luciana Savignano.
Il 18 febbraio 1957 la Scala ricordò Toscanini, scomparso a New York in gennaio, con un concerto diretto da Victor De Sabata.
Nel proprio progetto, ispiratosi al Teatro di corte della Reggia di Caserta di Vanvitelli, il Piermarini ne modificò curvatura e strutture decorative in modo da migliorarne l'acustica: la sala divenne immediatamente il modello per il "teatro all'italiana", la cui forma a "ferro di cavallo" venne in seguito impiegata in molti teatri d’Europa come la Staatsoper di Vienna (1869), il Palais Garnier a Parigi (1875), la Royal Opera House di Londra (1858).
La facciata principale è la parte del teatro che ha subito, rispetto al progetto originario, il minor numero di modifiche. L'unica aggiunta è stata quella dei due piccoli corpi laterali sormontati da terrazzi (1835), i quali, se alterano lievemente la visione laterale rompendo la scansione dei tre diversi volumi della facciata, fanno salva la percezione frontale. L'aspetto più innovativo del progetto è sicuramente la galleria che l'architetto antepone agli accessi del teatro. Un tempo era possibile, grazie a questo accorgimento, arrivare a pochi metri dall'ingresso, e al coperto, con la carrozza.
I piani sono scanditi da cornicioni e dal diverso rivestimento murario. Al piano terreno e al mezzanino, su un basso bugnato si aprono sette arcate cieche, intonacate di chiaro come le superfici dei piani superiori. Originariamente le porte di accesso al teatro erano solo due, in corrispondenza delle arcate laterali della galleria. All'interno delle altre cinque aperture si aprivano, invece, altrettante finestre. Oggi, ogni fornice ospita un portone, sormontato dalle finestrelle arcuate del mezzanino. In corrispondenza dei piedritti delle arcate corre un corso di blocchi più sporgenti. Sporgente è anche il concio.
Sopra alla galleria e ai corpi aggiunti dal Pestagalli, un parapetto a balaustra, il cui disegno è ripreso anche come zoccolo per le semicolonne e le lesene corinzie che scandiscono il ritmo dei diversi volumi al primo piano. In corrispondenza del terrazzo, in mezzo alle quattro coppie di semicolonne, si aprono tre porte timpanate. Sulla parete del volume intermedio e sui terrazzi laterali si aprono altre quattro luci, sempre decorate da timpani triangolari, due a destra e due a sinistra. In corrispondenza dei capitelli corre un fregio spezzato a festoni in stucco. Al di sopra corre un'importante trabeazione su cui poggiano le basi delle basse lesene e le cornici delle aperture dell'odierno ridotto delle gallerie.
Corona il prospetto, in corrispondenza della galleria delle carrozze, un timpano decorato, sempre su disegno del Piermarini, a bassorilievo in stucco da Giuseppe Franchi. Il soggetto è l'allegoria de Il carro del Sole inseguito dalla Notte (altrove detto Il carro di Apollo o di Fetonte). Ai due lati una balaustra interrotta, in corrispondenza delle sottostanti lesene, da parapetti ciechi decorati da vasi fiammati.
Per il bugnato fu scelto il granito di Baveno, di color grigio-rosa; per i parapetti, lo zoccolo del primo piano, le lesene, le colonne, la trabeazione che corre su queste, i timpani di tutte le finestre e la cornice del grande timpano triangolare, la pietra di Viggiù, un'arenaria di colore grigio paglierino, e la pietra Gallina.
L’architetto concepì la facciata principale per la visione di scorcio, giacché il teatro si trovava in origine in una contrada relativamente stretta. La visione frontale, e il curioso effetto del timpano sormontato da coppi, si è resa possibile a seguito dell'apertura di piazza della Scala, nel 1857.
La decorazione neoclassica e la stessa disposizione degli ambienti al piano terreno non sono quelle previste dal Piermarini. Originariamente, passato uno stretto corridoio parallelo alla facciata, analogo a quello attuale, si accedeva a due ambienti oblunghi. Sul lato esterno di quello di sinistra si trovavano il «camerino dei biglietti», la «camera per gli impresari» con l'attigua «camera per gli accordi», l'alloggio del custode. Sul lato esterno di quello di destra, il locale per il corpo di guardia con il «camerino per l'ufficiale» e la «bottega del caffè» per la platea. Al centro, una sala di transito dove il pubblico attendeva l'arrivo delle carrozze. Percorsi fino al fondo i due corridoi, si entrava nell'atrio, o «vestibolo per la servitù», oblungo e non molto ampio, e finalmente, attraverso tre porte, nella sala. Sempre da qui si accedeva ai palchi, grazie ad un duplice sistema di scale, e a due «botteghe per chincaglierie».
Tra il 1881 ed il 1884 furono rinnovate le decorazioni di questi ambienti seguendo i disegni di ornato previsti in un progetto del 1862 degli architetti Savoia e Pirola. Oggi, varcata la soglia di uno dei cinque portoni centrali (i due laterali danno accesso ad altrettanti ambienti minori ricavati nei corpi aggiunti nel 1835) si accede ad un ambiente, coperto da una volta a botte, lungo quanto l'originale corpo aggettante della facciata, assai stretto e basso. Da qui altrettante porte introducono nel foyer della platea e dei palchi. L'ambiente è diviso, parallelamente alla facciata, da una fila di sei alte colonne in marmo. Le pareti sono decorate a stucco con paraste che sorreggono fregi e una ricca trabeazione in parte dorata. Diversi specchi riflettono la luce dei lampadari di cristallo che pendono dalle volte.
Sul fondo, l'ampio varco centrale dà accesso, tramite una breve rampa tripartita da due colonne, alla platea. A destra e a sinistra, due coppie di varchi più piccoli conducono tramite alcuni scalini ai corridoi dei palchi (quelli centrali) e ai guardaroba della platea (quelli laterali). Nelle pareti laterali dell'atrio si aprono quattro porte: le prime comunicanti a destra e a sinistra, rispettivamente, con il buffet degli spettatori della platea e con il Bookshop, le seconde con le "scale degli specchi" che danno diretto accesso ai ridotti dei palchi e delle gallerie.
Fino al bombardamento del 1943 si era conservata la struttura originaria della volta, costituita da uno spesso strato di intonaco pressato su "bacchette", strisce larghe circa cinque centimetri ricavate da tondelli di castagno non del tutto essiccati e lasciati a macerare nell’acqua, inchiodate a centine in legno di pioppo. Queste erano a loro volta appese mediante sottili tiranti in legno ai travettoni appoggiati sulle grandi capriate poste a sostegno delle falde del tetto. Questo sistema, quasi un controsoffitto, è stato per certi versi ripreso nel Teatro degli Arcimboldi, dove il soffitto che vede lo spettatore è in realtà composto da pannelli riflettenti rivolti verso la platea e fonoassorbenti rivolti verso l’orchestra.
La semplice volta della sala era intonacata, come pure le pareti dei cinque ordini di palchi e le quattro grandi colonne che racchiudono i palchi di proscenio. La sala appariva all'origine in modo molto diverso da quanto si vede oggi: numerosi sono stati gli interventi, tra cui quello curato da Luigi Canonica (1808) e quello dello scenografo Alessandro Sanquirico (1830), ammirabile nel suo complesso ancora oggi.
Il boccascena è di 16 x 12 metri (identico a quello del teatro degli Arcimboldi, il quale è infatti stato costruito in modo tale che le scene possano passare da un teatro all'altro). L'originario sipario in tela dipinta che si apriva a caduta è stato sostituito dall'attuale in velluto cremisi, con apertura all'imperiale, riccamente decorato a ricami in oro. Nella parte superiore troneggia lo stemma del Comune di Milano. Sopra il boccascena, un orologio che indica l'ora (numero romano) e i minuti (numeri arabi, scanditi a intervalli di tempo di cinque minuti) è sorretto da due grandi figure femminili in basso rilievo.
Il palcoscenico, originariamente in assi di pioppo solcato dalle guide per i pannelli mobili delle scene, aveva dimensioni ragguardevoli (oltre trenta metri di lunghezza e quasi ventisei di larghezza) e si prolungava un tempo nella sala fino oltre il proscenio, nello spazio oggi occupato dalla buca d’orchestra. In base al progetto iniziale avrebbe dovuto avere non sei ma sette campate, ridotte in corso d’opera a causa di difficoltà nell'acquistare i terreni necessari. Lunghi ballatoi permettevano ai macchinisti di manovrare le scene.
L’orchestra suonava fino agli inizi del XX secolo allo stesso livello della platea, dalla quale era separata grazie ad un’"assata in pendio" che poteva essere rimossa in occasione delle feste da ballo. L’attuale fossa fu costruita all’inizio del Novecento.
I colori dominanti della decorazione attuale sono l'oro e l'avorio. I decori, medaglioni e motivi floreali e zoomorfi, sono realizzati in cartapesta dorata applicata sul legno laccato color avorio dei parapetti. Le colonnine che separano un palco dall'altro sono un po' arretrate e le pareti stesse dei singoli palchi sono direzionate in modo da permettere una migliore visuale anche dai palchi più laterali. Le tappezzerie alle pareti sono state uniformate in damasco cremisi. Del tutto simile è l'aspetto dalla platea delle due gallerie. Anche l’attuale seconda galleria, nel progetto del Piermarini pensata quale unico loggione, si offriva alla vista in modo identico ai cinque ordini di palchi sottostanti, ma aveva in realtà un soffitto a volta.
Dalla volta, decorata a grisaille, pende il grande lampadario donato dai maestri vetrai di Murano dopo la seconda guerra mondiale.
I sei livelli sono oggi organizzati in quattro ordini di palchi e due gallerie. I primi tre ordini contano trentasei palchi, diciotto a destra e diciotto a sinistra, numerati in ordine crescente a partire dal proscenio; il quarto ordine ne conta invece trentanove, giacché tre palchi occupano lo spazio che negli ordini sottostanti è riservato al palco reale. Su entrambi i lati del proscenio si affacciano ulteriori quattro palchi di proscenio, corrispondenti ai primi quattro ordini.
I palchi e i retrostanti camerini erano un tempo decorati dai singoli proprietari con tappezzerie di differenti colori, tappeti, mobili, specchi e sedie di loro scelta. In base ad un inventario del 1790 siamo a conoscenza della stoffa prevalentemente scelta per le pareti dei palchi, una «tela di Vienna, a fondo bianco, rosso, celeste, a righe, su cui sono sparsi o s'intrecciano rami o s'inviluppano fantasiose composizioni alla cinese; la tendenza classicheggiante è rappresentata da tappezzerie a "musaico"». Fu deciso che solo le tinte e l'andamento delle mantovane dovessero essere uniformi, di color rosso, e, a differenza di quanto avviene oggi, in foggia tale da poter isolare completamente il palco dalla sala.
In occasione dei lavori di rinnovo del 1830, fu deciso, su indicazione del Sanquirico, di adottare un nuovo colore ed una nuova foggia, così descritti in una lettera del 6 agosto di quell'anno: «un solo piegone candente nel mezzo e due code laterali, di un solo colore, quello celeste». Il modello delle nuove cortine, da riprodursi a cura dei proprietari dei singoli palchi, fu messo in opera nel palco in uso all'I.R. Comando Militare (il numero 16 del primo ordine) e, per i palchi di proscenio, in quello del governatore, il conte Francesco di Hartin. Nel 1838 furono rinnovate le dorature e i panneggi, ma, come si deduce da una lettera di Franz Liszt, i tendaggi non mutarono colore.
Nel 1844, tutti i panneggi del teatro divennero «cedrone», un verde brillante, ad eccezione del palco reale, il cui predominante color rosso cremisi fu scelto come tradizionale insegna di potere.
Una tra le importanti trasformazioni che seguirono all'istituzione dell'Ente Autonomo, fu l'uniformazione della decorazione dei palchi. Il compito fu affidato nel 1928 all'architetto Giordani, il quale decise di rivestirli uniformemente con un damasco rosso di seta con decorazioni in stile impero. I tendaggi tornarono ad essere color cremisi, rifiniti con gocce e pigne dorate. Nel 1988, i damaschi di seta furono sostituiti con una stoffa di disegno abbastanza simile, ma in fibra sintetica ignifuga. Nel corso degli ultimi lavori di restauro è stato nuovamente posato del damasco di seta, sempre di colore rosso, tra il rubino e il granato antico.
Un complesso sistema di scale a più rampe (dette «a tenaglia») collega il foyer con i corridoi di accesso ai palchi. Nei primi tre ordini i corridoi dei palchi di destra e di sinistra non sono comunicanti a causa del volume del palco reale, cui si accede dal secondo ordine tramite un ampio vestibolo. Sui corridoi si aprono sia le porte dei camerini, oggi utilizzati come guardaroba per gli spettatori dei singoli palchi, sia quelle di accesso ai palchi. Varcata questa prima porta in legno laccato, per accedere alla sala è necessario aprire una seconda anta ricoperta di velluto.
La cromia prevalente delle pareti dei corridoi e delle scale è giallo/arancio, mentre le zoccolature sono nere. Sulle pareti delle scale d'accesso al primo ordine, invece, il marmorino è grigio-verde con la fascia verticale in prossimità del corridoio gialla, in continuità con la tinta delle pareti di quel piano. I pavimenti dei palchi sono oggi in cotto, lo stesso materiale previsto da Piermarini, i corridoi e i pianerottoli delle scale sono invece in terrazzo veneziano.
L'originaria unica galleria era collegata al vestibolo per la servitù tramite due scale a chiocciola. Gli spettatori con biglietti di galleria entrano oggi attraverso l'ingresso del Museo teatrale, in largo Ghiringhelli. Nello spazio occupato nei piani sottostanti dai camerini, si trovano in corrispondenza delle due gallerie i guardaroba, non dissimili da quelli della platea. Differente è invece il disegno delle rampe che collegano i due ultimi piani, ridisegnate nel corso del XX secolo.
Vi sono oggi due ridotti. Il primo, in corrispondenza del terzo ordine di palchi, è destinato agli spettatori dei palchi. Il secondo, aperto nel 1958 nel luogo un tempo adibito a "stanza delle stufe", è destinato a quelli delle due gallerie. L'aspetto di entrambi questi ambienti è stato più volte modificato nel corso degli anni. In origine, nel locale che attualmente ospita il ridotto delle gallerie si producevano le braci da porre in appositi bracieri dislocati nei vari ambienti del teatro.
L'attuale decorazione del primo ridotto, intitolato ad Arturo Toscanini, risale all'intervento di Luigi Lorenzo Secchi (1936). Il primo ambiente cui si accede dal corridoio del terzo ordine, stretto e assai allungato, funge quasi da anticamera al più vasto salone, corrispondente all'area del corpo aggettante. A dividerli un muro in cui si aprono un grande varco sorretto da quattro colonne marmoree e due varchi minori, a destra e a sinistra, che danno accesso ad altrettanti vani più piccoli, ospitanti i buffet. Le pareti di tutti e quattro gli ambienti sono decorate da specchi, fregi e paraste con capitelli corinzi dorati realizzati a stucco. Sopra questi ultimi corre la trabeazione, assai importante nei due ambienti maggiori, meno appariscente nei due buffet. Tre porte finestre e due finestre si aprono dal salone verso piazza della scala, una finestra da luce a ciascuno dei due ambienti minori. Tre grandi lampadari di cristallo pendono dalla volta del salone ed altrettanti, più piccoli, illuminano il corridoio. Decorano il salone alcuni busti di compositori (Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Umberto Giordano), musicisti (Arturo Toscanini, opera di Adolfo Wildt) e responsabili del teatro, realizzati in marmo o in bronzo a partire dal dopo guerra. Le tappezzerie delle poltrone e dei divani sono realizzate con la medesima seta di colore giallo utilizzata per i tendaggi.
La disposizione degli ambienti è la medesima anche nel ridotto superiore, cui si accede dalla seconda galleria. Soltanto l'altezza delle volte è minore e più discreta è la decorazione.
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