La Val Màsino è stata scavata dal torrente Masino, che scende dal pizzo Badile (Alpi Retiche occidentali) verso sud, confluendo nell'Adda nel territorio del comune di Ardenno, all'altezza della frazione di Masino.
Il comune di Val Masino occupa buona parte del territorio della valle omonima, eccezion fatta per il lato meridionale della Valle di Spluga, che rientra nel comune di Civo, per il lato orientale delle valli di Sasso Bisòlo e di Preda Rossa e per l’intera Val Terzana (chiamata anche Valle di Scermendone: così, per esempio, nella carta della Val Masino curata dal conte Lurani, nel 1881-1882; confluisce, da nord-est, nella Valle di Sasso Bisòlo, la più orientale delle valli che costituiscono la Val Masino), che appartengono al comune di Buglio in Monte, e per la parte più bassa della Val Masino, che rientra nei comuni di Ardenno e Civo.
Diverse sono le ipotesi sull’origine del toponimo "Masino": forse da “Masna”, nome personale etrusco, o da “mansum”, termine latino che significa manso, corte, con campi e boschi; non è escluso che ci sia di mezzo il verbo dialettale “masnà”, cioè macinare, o che addirittura si debbano chiamare in causa le “Masanae matres”, divinità celtiche.
Il suo territorio, esteso 115,54 kmq, abbraccia un arco di valli che, da sud-ovest verso nord est, comprende la Valle di Spluga (lato sinistro), le valli della Merdarola, Ligoncio, dell’Oro e Porcellizzo (che confluiscono nella Valle dei Bagni di Masino), la Val di Mello (con le sue celebri laterali settentrionali, Valle del Ferro, Val Qualido, Valle di Zocca, Val Torrone, e con la Val Cameraccio, che si apre sul suo fondo), le Valli di Sasso Bisolo (val de sas besö) e di Preda Rossa (lato destro).
Oltre che con i comuni sopra citati, confina, a nord-ovest, con Novate Mezzola (dal passo di Primalpia, in alta Valle di Spluga, alla punta S. Anna, sulla testata della Val Porcellizzo), a nord con la Svizzera (dalla punta S. Anna al monte Sissone), a nord-est con Chiesa Valmalenco (dal monte Sissone al monte Disgrazia). In tutto, 115 kmq, che ospitano 962 abitanti.
Un territorio interamente montano, dalle caratteristiche di straordinaria bellezza e fascino, dal punto di vista turistico, escursionistico ed alpinistico.
Immaginiamo di poter salire alla cima d'Arcanzo (omèt), il miglior osservatorio sull'intero gruppo del Masino, nella costiera Remoluzza-Arcanzo, e di osservare l'impressionante sequenza di cime che da qui si apre. Da sinistra (sud-ovest) ecco la cima del Desenigo (m. 2845), alla cui destra si aprono i passi gemelli di Primalpia (pàs de primalpia, m. 2477) e della bocchetta di Spluga o di Talamucca (bochèta de la möca, m. 2532), che congiungono l’alta Valle di Spluga alla Valle dei Ratti. Procedendo verso destra, notiamo l’affilata cima del monte Spluga o Cima del Calvo (m. 2967), posto all’incontro di Valle di Spluga, Val Ligoncio e Valle dei Ratti. I più modesti pizzi Ratti (m. 2919) e della Vedretta (m. 2909) preparano l’arrotondata cima del pizzo Ligoncio (Ligunc’, m. 3038), che si innalza sopra una larga base di granito, nel catino glaciale che si apre sopra i Bagni di Masino (Val Ligoncio e Valle dell’Oro).
Alla sua destra, la punta della Sfinge (m. 2802) precede la larga depressione sul cui è posto il passo Ligoncio (m. 2575), fra la valle omonima e la Valle d’Arnasca (Val Codera). A nord del passo si distinguono i modesti pizzi dell’Oro (meridionale, m. 2695, centrale, m. 2703 e settentrionale, m. 2576), seguiti dall’affilata punta Milano (m. 2610), che precede di poco la costiera del Barbacan, fra Valle dell’Oro e Val Porcellizzo, la quale culmina nella cima del Barbacan (m. 2738). Proseguendo verso nord, la testata della Val Porcellizzo propone le poco pronunciate cime d’Averta (meridionale, m. 2733, centrale, m. 2861 e settentrionale, m. 2947), alla cui destra si eleva il più massiccio pizzo Porcellizzo (il pèz, m. 3075), seguito dal passo Porcellizzo (m. 2950), che congiunge la valle omonima all’alta Val Codera. Ecco, poi, le più celebri cime della Val Porcellizzo: la punta Torelli (m. 3137) e la punta S. Anna (m. 3171) precedono il celeberrimo pizzo Badile (badì, m. 3308), cui fa da vassallo la punta Sertori (m. 3195). Segue il secondo signore della valle, il pizzo Cengalo (cìngol, m. 3367). Chiudono la testata i puntuti pizzi Gemelli (m. 3259 e 3221), il passo di Bondo (m. 3169), che dà sulla Val Bondasca, in territorio svizzero, ed il pizzo del Ferro occidentale o cima della Bondasca (m. 3267).
Procedendo verso est, ecco il pizzo del Ferro centrale (m. 3287), il torrione del Ferro (m. 3070) ed il pizzo del Ferro orientale (m. 3200), che costituiscono la testata della Valle del Ferro (laterale della Val di Mello) e sono chiamati nel dialetto di Val Masino “sciöme do fèr”. Alla loro destra la poderosa cima di Zocca (m. 3175), sulla testata della valle omonima, seguita dalla punta Allievi (m. 3121), dalla cima di Castello (la più alta del gruppo del Masino, con i suoi 3392 metri), e dalla punta Rasica . I tre poderosi pizzi Torrone chiudono la valle omonima, che precede l’ampia Val Cameraccio, sulla cui testata si pongono il monte Sissone, la punta Baroni, o cima di Chiareggio settentrionale (m. 3203), le cime di Chiareggio centrale (m. 3107 e 3093), il passo di Mello (m. 2992), fra Val Cameraccio e Val Sissone, in Valmalenco, ed il monte Pioda (m. 3431), posto immediatamente a sinistra dell’imponente ed inconfondibile monte Disgrazia (m. 3678), che chiude la Valle di Preda Rossa. Le due cime, pur così vicine, sono geologicamente separate, in quanto appartengono a mondi diversi: dal grigio granito del monte Pioda si passa al rosseggiante serpentino del monte Disgrazia. A destra di questa cime si distinguono i due maggiori Corni Bruciati (punta settentrionale, m. 3097, e punta centrale, m. 3114).
Questa superba carrellata di cime e, soprattutto, le valli che da esse scendono, vennero plasmate in un passato remotissimo. Tutto iniziò nell’era quaternaria, cioè nell’ultima era geologica, iniziata forse 1.800.000 di anni fa. Iniziò con una grande glaciazione, che coinvolse tutta la catena alpina. Nella zona della futura Val di Mello il ghiaccio ricopriva ogni cosa, fino ad una quota superiore ai 2.500 metri. Immaginiamo lo scenario spettrale: una coltre bianca ed immobile, dalla quale emergevano, come modesti isolotti, solo le cime più alte della valle, il monte Disgrazia (desgràzia), i pizzi Torrone (turùn), il pizzo Badile (badì), il pizzo Cèngalo (cìngol), la punta Rasica (rèsga), la cima di Castello (castèl), la cima di Zocca, i pizzi del Ferro. L’azione di questo enorme ghiacciaio, lenta, inesorabile, scandita in ritmi difficilmente immaginabili, cioè in migliaia di anni, cominciò a modellare il volto della valle: si deve ad essa la straordinaria conformazione delle pareti granitiche, verticali, con grandi placche lisce, e la forma straordinariamente levigata delle numerosissime placche di granito. Fu un’azione che si esercitò in quattro grandi tempi: tante furono, infatti, le successive glaciazioni (la quarta ebbe inizio 40.000 anni fa), prima dell’ultimo e definitivo ritiro dei ghiacci alle quote più alte, dove ore di essi resta solo un’esigua traccia.
Il ritiro del ghiacciaio determinò, anche, il crollo di grandi blocchi sospesi di granito: li troviamo, ora, muti testimoni di eventi ciclopici, un po’ dappertutto in valle, come vassalli erranti degli incombenti signori della valle, le ardite costiere che la guardano. Così fu disegnato il profilo delle diverse valli, furono scavati i caratteristici pianori di alta quota delle valli Porcellizzo e di Zocca, il profilo dolce ed arrotondato della Val di Mello, le pareti verticali e vertiginose che non hanno eguali nell’arco alpino, le gotiche ed aspre guglie che si elevano, come sfida al tempo ed all’incalzare degli elementi, verso il cielo. Venne, poi, lentamente, la vita, le piante, gli animali e, da ultimo, l’uomo, che vi giunse spinto dalla necessità di trovare nuovi pascoli.
Dal punto di vista geologico questo territorio è costituito da un blocco di rocce intrusive, vale a dire da rocce magmatiche che si sono solidificate in profondità: si tratta del cosiddetto “plutone della Val Masino”.
Risalendo all’indietro nella storia, troviamo per la prima volta menzionata la valle nel documento di donazione della corte di Masino e del suo territorio, da parte di Rodolfo di Borgogna, re del Regno d’Italia, alla chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia: siamo nel primo terzo del secolo X. Nel Medio-Evo tutto il complesso dei monti e dei paesi dalla Val dei Ratti alla Val Masino veniva denominato "Monte di Domofole", dal nome del castello poco sotto Mello che fu dei potenti feudatari della casa dei Vicedomini. Si tratta della "comunitas civium et vicinorum montaneae Domofolis, videlicet a flumine Masini ad lacum" (così è denominata in un rogito del 1363), cioè la comunità dei paesi e delle vicinanze della montagna di Domofole, vale a dire dal fiume Masino al lago.
Quando dal questa communitas si staccarono via via i diversi comuni, il territorio della Val Masino fu suddiviso fra tre comuni del terziere inferiore della Valtellina e della squadra di Traona, Civo, Mello, Ardenno. A Civo apparteneva la sponda destra della valle fino alla Pegolera, con i nuclei di Còrnolo e di Sant’Antonio. A Mello appartenevano il territorio del fianco destro a nord della Pegolera e del fianco sinistro compreso tra il torrente Màsino e il torrente Duino (Valle di Sasso Bisolo), gli abitati di Cataeggio (la parte sulla sponda destra del Masino), Filorera, Zocca e San Martino. Ad Ardenno, infine, apparteneva buona parte del fianco sinistro della Valle di Sasso Bisolo e della valle principale, dal crinale divisorio con la Valle Sasso Bisolo alla Val dal Punt, oltre alle abitazioni di Cataeggio sulla sponda sinistra del torrente. L’istituzione del comune di Val Masino è assai più recente, in quanto risale al 1785.
Al legame fra Val Masino e comune di Mello, posto nel settore centro-orientale della Costiera dei Cech, non sembra alla valle, già si è accennato. L’origine storica di questo legame è, però, presto spiegata: i “Melàt”, cioè gli abitanti di Mello, alla ricerca di pascoli per i loro armenti, si spinsero, nei secoli passati, nella stagione invernale, fino alle porte della Valchiavenna, a Samolaco e Novate Mezzola, ed in quella estiva in Valle dei Ratti, in Val Codera ed in Val Masino. In particolare, in Val Masino colonizzarono quella splendida valle che da loro prende il nome, la Val di Mello, appunto, oggi conosciutissima per i suoi splendidi scenari e per le possibilità offerte ad alpinisti e climbers, ma nei secoli scorsi valle considerata aspra ed ostile, per i magri pascoli posti in cima alle valli laterali, erte e scoscese. Teniamo, infine, presente che in passato l’accesso normale alla valle passava proprio dal limite orientale della Costiera dei Cech, quindi da Dazio, Caspano e Cevo, per i quali passavano le mandrie che poi raggiungevano gli alpeggi della valle, posseduti da diverse famiglie, prime fra tutte i Vicedomini di Cosio, i San Fedele di Dubino ed i Parravicini di Caspano.
Alla fine del Cinquecento nell'opera “Raetia”, Giovanni Guler von Weineck così descrive la valle: “Dopo il ponte sul Masino, comincia la Valmasino, attraverso la quale, dopo un’ora e mezza di strada cattiva e sassosa, si giunge al villaggio di San Martino, che è popoloso ed in buona posizione, alle falde di un monte e circondato da praterie ridenti, da campi, da pascoli e boschi. Quivi la valle si biforca in due rami; dei quali uno, internandosi a destra, giunge sino ai monti della Valmalenco, la quale comincia presso Sondrio, e l’altro prosegue a sinistra fino ai monti della Pregaglia…”
Aggiunge più avanti che, oltre alle acque termali, “che costituiscono per la vallata un nobile e degno tesoro”, ed alle quali accorrono ogni anno “i vicini Grigioni, i Chiavennaschi ed i Valtellinesi, ma anche i Comaschi, i Milanesi, i Bergamaschi e molti altri popoli”, “nella Valmasino Iddio ha profuso anche parecchi altri doni; tali l’aria buona, pura e sana, la selvaggina e l’uccellagione svariata, le squisite rotelle del Masino e il latte abbondantissimo che da ogni sorta di bestiame, grosso e minuto, si produce sugli erbosi pascoli alpini, i quali si stendono tutto all’ingiro per quei monti. Una indicibile quantità di bestiame trascorre lassù i quattro mesi caldi, poiché per il resto dell’anno queste alpi sono coperte di neve. Sopra i Bagni,ai piedi di una montagna detta dell’Oro, vi è una cava donde si estraggono lavaggi, ossia pentole di pietra per cuocervi dentro… Poco oltre il villaggio di S. Martino, scendendo dalla valle lungo la sponda destra, si incontra presso la piccola frazione Remenno un enorme e colossale macigno, lungo trentacinque braccia, largo dieci ed elevato quindici, che alcuni ritengono piuttosto un monte…che non una pietra isolata… Proseguendo incontriamo più a valle Filorera, S. Pietro, Cataeggio, Cornolo, S. Antonio, S. Caterina e Cevo; ciascuna di queste frazioni giace a circa cinquecento passi dall’altra; e tutte quante sono abitate da contadini, che vivono in gran parte del bestiame. In questi luoghi si produce anche un poco di castagne e di segale, ma non alligna la vite, perché i raggi del sole vi giungono appena nelle ore di mezzogiorno, essendo la montagna del versante occidentale a ridosso di questi paesi”.
Da questa descrizione, assai ampia rispetto a quella dedicata ad altre valli e luoghi importanti di Valtellina, emerge un quadro che di primo acchito pare prospero e felice; gli accenni, però, all’economia del castagno, accanto a quella dell’alpeggio, schiudono uno scorcio di stenti e fatiche testimoniato dalla stessa struttura delle case che ancora si vedono, per esempio, a Cataeggio, grigie, senza intonaco, addossate le une alle altre. Contribuiva a trattenere buona parte della valle entro questa economia di sussistenza la mancanza di valichi praticabili per i commerci verso il nord, presenti, invece, nella vicina Valmalenco: i passi di Bondo e Zocca, per i quali si accede al territorio svizzero, sono, infatti, alti e, soprattutto, praticabili solo con molta difficoltà (soprattutto sul versante elvetico).
Il relativo isolamento della valle aveva anche dei risvolti positivi, accanto ai molti negativi: la sua comunità era sostanzialmente preservata da sommovimenti e bufere che investirono, in diversi momenti, gran parte delle zone della Valtellina, a partire dai 12 anni di dure vessazione durante l’occupazione francese del 1500-1512. Ai Francesi si sostituirono, nel 1512, le Tre Leghe, il cui dominio durò per quasi tre secoli, fino alla bufera napoleonica del 1797.
Il periodo più difficile della storia della Valtellina è quello 1620-1639, quando questa valle assunse una centralità strategica nel tragico contesto della Guerra dei Trent’Anni, corridoio che univa le due grandi potenze alleate, gli Asburgo d’Austria e la Spagna insediata nel Milanese. La Val Masino ne risentì solo marginalmente: non venne coinvolta dalla feroce caccia al protestante scatenata nel 1620 (anche se dalla valle passarono, senza subire aggressioni, protestanti fuggiaschi verso la Val Bregaglia), non subì i saccheggi della soldataglia dei Lanzichenecchi nel biennio 1629-30, (anche se non fu risparmiata dalla terribile epidemia di peste che ne seguì). Poi il vento impetuoso della storia lasciò la Valtellina: la comunità della Val Masino, che poco ne aveva sofferto, continuava a soffrire della penuria e della durezza di una montagna affascinante ma avara.
Il quadro del seicento può essere completato citando quanto scrive Mario Songini nell’Inventario dei toponimi valtellinesi e valchiavennaschi. Territorio comunale di Valmasino (Sondrio, Società storica valtellinese, 1997: “Lo sfruttamento intensivo delle risorse offerte dalla valle e un sistema di vita contenuto all’essenziale non bastavano tuttavia a soddisfare tutte le esigenze della popolazione, sempre più numerosa nonostante le ricorrenti epidemie. Supplì, almeno dal XVII secolo, l’emigrazione temporanea o definitiva di un’alta percentuale di valligiani. Merita una speciale menzione quella sviluppatasi nei secoli verso Roma. Insieme a tanti abitanti della zona dei Cèch, con i quali in loco permanevano intensi rapporti, numerosi valmasinesi raggiunsero la Città Eterna. Là i “Grigi” (così erano chiamati per via della dominazione gigiona cui era soggetta la Valtellina) esercitarono i mestieri più diversi, in genere i più umili.” Il Seicento fu, infatti, caratterizzato da un intenso flusso emigratorio, soprattutto verso Roma, tanto che dagli atti della visita pastorale del vescovo di Como Carlo Ciceri del 1696 si evince nella vice parrocchia di Cataeggio più della metà delle famiglie contavano uno o più emigranti. A Roma la colonia di emigranti dalla valle era costituita da 8 filoreresi e 23 cataeggesi. Le loro rimesse e donazioni contribuirono non poco all’abbellimento delle chiese di Val Masino.
Il settecento fu un secolo decisamente più favorevole per la Valtellina, ed anche la Val Masino vide un lento ma graduale miglioramento delle condizioni di vita, come pare suggerire, fra gli altri indizi, un aumento complessivo della sua popolazione, che, all’avvento della dominazione francese, nel 1797, era salita a 359 abitanti. Al miglioramento contribuì anche l’introduzione di due nuove coltivazioni, quelle della patata e del granoturco, che costituirono una importantissima integrazione calorica delle magre diete dei valligiani. È curioso pensare che la classicissima polenta, in tutte le sue varianti, che siamo abituati a considerare l’alimento più tipico della civiltà contadina, risale, in realtà, ad un’epoca abbastanza vicina alla nostra.
Nel 1785, però, la valle si staccò da Mello ed ottiene l'autonomia amministrativa. Dodici anni dopo, nel 1797, terminarono i quasi tre secoli di dominio delle Tre Leghe Grigie sulla Valtellina, a causa delle brillanti campagne napoleoniche in Italia. Seguirono anni piuttosto convulsi per quanto riguarda l’assetto istituzionale del neonato comune di Val Masino. Nella prima ripartizione del dipartimento d’Adda e Oglio (legge 13 ventoso anno VI), il comune di Val del Masino apparteneva al distretto di Ardenno. Nell’assetto definitivo della repubblica cisalpina, determinato nel maggio del 1801 (legge 23 fiorile anno IX), Valle del Masino era uno dei settanta comuni che costituivano il distretto III di Sondrio del dipartimento del Lario.
Dalla repubblica Cisalpina si passò al Regno d’Italia, nel quale, con decreto del 8 giugno 1805, la Valle del Masino costituì un comune unitario, di III classe, appartenente al cantone V di Morbegno, con 309 abitanti.
Durante il Settecento ed il periodo napoleonico il comune di Val Masino ottenne anche l’autonomia religiosa: S. Martino, con la sua chiesa quattrocentesca, ingrandita fra il 1620 ed il 1670, fu eretta a parrocchia nel 1718; Cataeggio, con la chiesa di S. Pietro, di epoca incerta (ampliata nel 1841), divenne parrocchia 1800.
Nel 1815 la Valtellina, caduto Napoleone, passò sotto il dominio della casa d’Austria nel Regno lombardo-veneto: il comune di Valmasino, con 329 abitanti, era stato aggregato, insieme a Dazio e Campovico, al comune principale di Civo, nel cantone V di Morbegno, e passò poi, nel 1816, al distretto V di Traona. La Valle del Masino venne, poi, divisa in due comuni, San Martino con Bagni, Rasica con Cassina Piana, e Cataleggio, con Filorera e Visido. Nel 1853, infine, il comune di Valle del Masino, di nuovo riunificato, con le frazioni San Martino con Bagni, Rasica con Cassina piana, e Cataeggio, con Filorera e Visido, contava una popolazione di 599 abitanti, ed apparteneva al III distretto di Morbegno.
Durante il periodo del dominio asburgico il comune vide la realizzazione, fra il 1842 ed il 1847, della prima carrozzabile di Val Masino (in parte rifatta e migliorata agli inizi del Novecento), che dalla frazione Masino di Ardenno raggiungeva San Martino, soppiantando, come via privilegiata di accesso, l’antichissima mulattiera di Val Portola, che entrava nella valle dalla Costiera dei Cech.
Nel 1861 venne proclamato il Regno d’Italia. Il comune contava allora 768 abitanti, saliti ad 865 nel 1971, a 933 nel 1881 ed a 994 nel 1901. La seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento portarono anche altre novità in valle, insieme a qualche conferma. La conferma era soprattutto quella dell’emigrazione, che però estese il suo raggio, assumendo come meta, accanto alla tradizionale Roma, anche l’America.
Fra le novità della seconda metà dell'ottocento, la prima in ordine di tempo è la scoperta di un terzo volto della valle, dopo quello riservato ed esclusivo dei Bagni e quello variegato e spesso sofferente della popolazione contadina: nasceva la Val Masino degli alpinisti. Anzi, nasceva, in questa valle, l’alpinismo. Le sue cime attrassero, infatti, negli anni Sessanta, i pionieri di questa pratica, che venivano dall’Inghilterra. E. S. Kennedy, L. Stephen e T. Cox, che, per primi, raggiunsero la vetta del monte Disgrazia il 24 agosto del 1862, furono i battistrada (con grande sorpresa furono visti tornare giubilanti a San Martino, dopo che già ci si preparava a celebrarne i funerali), seguiti, ben presto, da altre figure animate da eguale entusiasmo, spirito di avventura e desideri di cimento, come Freshfield e Tucker, che quattro anni dopo salirono il pizzo Cengalo, e Coolidge, che l’anno successivo scalò il pizzo Badile.
Vennero, poi, anche gli italiani, primo e più appassionato fra tutti il conte Francesco Lurani, che lasciò anche dettagliate descrizioni delle montagne visitate e scalate. L’esplosione della passione alpinistica determinò anche la nascita di una robusta tradizione di guide alpine in valle, prime fra tutte Bortolo Sertori e Giulio Fiorelli. Il Novecento segna numerosissime tappe nel progresso delle capacità tecniche di approccio a difficoltà alpinistiche di grado sempre più elevato, fino al virtuosissimo dei Sassisti, che, contrari alla filosofia della scalata come conquista, esaltano il puro piacere dell’arrampicata, misurandosi con le pareti apparentemente più inaccessibili. Tutto ciò è compendiato in una famosa affermazione del celebre alpinista Walter Bonatti, che ha definito la Val Masino come l’università dell’alpinismo.
Ma gli alpinisti non erano i soli frequentatori di passi e vette dell’alta montagna. Cacciatori e contrabbandieri, fin dall’Ottocento, se ne servivano. Fin dai primi mesi successivi all’unità d’Italia in valle venne costituito un distaccamento della Guardia di Finanza (Caserma di S. Martino), che nel 1900 era costituito da 15 unità, numero significativo, che testimonia la consistenza dei traffici di contrabbando che sfruttavano i passi, alcuni dei quali assai difficili, per la Val Codera e la Svizzera. Lunga storia, quella del contrabbando in Val Masino. Lunga un secolo abbondante. Già Douglas W. Freshfield, alpinista inglese che ha legato la sua fama alle pionieristiche scalate nel gruppo del Masino, menziona, nel 1862, il contrabbando in valle, parlando del sentiero che dalla valle dell’Albigna raggiunge il passo di Zocca, sentiero “conosciuto soltanto dai contrabbandieri e dai pastori”. Dobbiamo portarci agli anni settanta del Novecento per assistere al tramonto del contrabbando, ormai non più conveniente economicamente.
Il passo di Zocca era il più valicato, in quanto decisamente più agevole rispetto al passo di Bondo, in Val Porcellizzo, o al monte Sissone, sulla testata della Val Cameraccio. Non l’unico, però, dal momento che i Finanzieri non stavano a guardare, o meglio, guardavano, sì, ma da postazioni strategiche, pronti ad intervenire ogniqualvolta avvistavano sospetti contrabbandieri scendere dal passo.
In questi scenari si è, dunque, giocata più e più volte la partita di abilità, scaltrezza, coraggio e resistenza fra i “fènc” (letteralmente, i ragazzi: così venivano denominati, gergalmente, allo scopo di non farsi intendere, i finanzieri) o "burlandòt" ed i contrabbandieri, che, di ritorno dal “viac’ inch dè pòs”, portavan fuori dalla Svizzera “el mòrt” (il morto, cioè, nel gergo, la merce di contrabbando: sale, soprattutto nel periodo fra le due guerre e durante la seconda guerra mondiale, poi caffè e tabacco, nel secondo dopoguerra, scambiati in genere con riso e prodotti alimentari della valle). Quando andava bene, si poteva “mèt via èl mòrt”, “mettere via il morto”, non nel senso di celebrare un funerale, ma di riuscire a smerciare la merce contrabbandata, realizzando quel guadagno che ripagava dello sforzo durissimo della doppia traversata (effettuata in genere in 24-36 ore). Quando andava male, invece, si doveva fuggir via a gambe levate, lasciando sul posto la bricolla con la merce.
Una partita fra avversari, non nemici: contrabbandieri e finanzieri, infatti, senza darlo troppo a vedere, si rispettavano, ciascuno comprendendo le ragioni dell’altro, anche se fermamente decisi a non venir meno al proprio compito. Una partita che non era giocata in campo neutro, in quanto i contrabbandieri avevano dalla loro parte la popolazione locale, in genere pronta ad avvertirli del pericolo di pattugliamenti o appostamenti, anche con finti richiami alle greggi "bea, bea, ciachès"). Vi furono momenti di tensione, ma in nessun caso si giunse ad esiti tragici, che invece non mancarono in altri versanti valtellinesi interessati alla pratica del contrabbando. I finanzieri si accontentavano di requisire tutti i carichi di cui riuscivano ad impossessarsi, fingendo, per lo più, di non riconoscere i contrabbandieri fuggitivi, con i quali, poteva capitare, finivano talora per giocare qualche partita a carte, la sera, in qualche osteria. Addirittura si poteva arrivare a forme di reciproco aiuto, come accadde, stando ad un racconto riportato da Bruno Galli Valerio, alpinista e naturalista che molto amò queste montagna, quella volta che, sul finire dell’ottocento, due contrabbandieri sorpresi da una terribile tormenta appena sotto il passo di Zocca, sul versante svizzero, implorarono i Finanzieri di trarli d’impaccio. Poi, il progressivo esaurirsi del fenomeno, che portò alla chiusura della caserma delle Guardie di Finanza nel 1973 (negli ultimi anni, peraltro, utilizzata soprattutto per ospitare militi convalescenti da malattie legate a cause di servizio).
Se non vi furono episodi tragici nei decenni caratterizzati dal contrabbando, alla valle non furono risparmiate altre tragedie. Innanzitutto quelle legate a ricorrenti epidemie, fra Ottocento e primi del Novecento, di tifo, colera, vaiolo, difterite, fino alla terribile influenza spagnola che si diffuse sul finire del 1918. Poi quelle legate a disastri naturali, frane ed alluvioni (particolarmente disastrosa, nell'intera provincia, quella del 1911, definito, in Val Masino, "l'an del disàstro"). La popolazione del comune era, in quell'anno, di 1908 abitanti.
Infine, la grande tragedia della Prima Guerra Mondiale, nella quale caddero quattro valmasinesi, ricordati nel Monumento ai Caduti a Cataeggio: Rossi Antonio di Giacomo, Marchetti Cesare di Giacomo, Folla Giovanni di Bartolo e Songini Andrea di Giovanni. A loro si aggiunge il ricordo di Speziali Lorenzo fu Domenico, caduto nel 1898 ad Abba Garima.
La Prima Guerra mondiale ebbe un risvolto interessante, destinato ad incidere non poco nella successiva immagine della valle: ad essa, infatti, risale il primo nucleo di quel Sentiero Roma che è uno dei più celebri percorsi di alta montagna dell'arco alpino, conosciuto ed amato da tutti gli appassionati dell'escursionismo, teatro anche della celebre gara di corsa in montagna dedicata alla memoria della guida Pierangelo Marchetti, detto "Kima". Le cose andarono così. Com'è noto, si combatteva sul fronte dello Stelvio-Ortles-Cevedale, ma il generale Cadorna, che non si fidava dello stato maggiore svizzero, temeva che l'esercito austro-ungarico potesse ottenere il permesso di transito in territorio elvetico e di qui irrompere in Valtellina e Valchiavenna, con conseguenze disastrose per il fronte italiano. Volle, quindi, che sulle montagne di Valtellina si tracciassero sentieri ed allestissero postazioni che avevano lo scopo di sbarrare l'avanzata del nemico. Anche la Val Masino rientrava in questo disegno: vennero posti distaccamenti sui rifugi di alta quota e si cominciarono a tracciare sentieri di collegamento fra le valli. Nel primo dopoguerra, durante il regime fascista, a partire dal 1928, l'allestimento riprese, collegamento i diversi segmenti e costituendo un unico sentiero di alta quota, impervio e difficile, in molti passaggi, ma di incomparabile fascino e suggestione, che collegasse le capanne della valle, dalla Omio alla Ponti, passando per la Gianetti e l'Allievi.
Nel periodo fra le due guerre mondiali la popolazione del comune subì una leggera flessione, che la dai 1116 abitanti del 1921 ai 1106 del 1931 ed ai 1077 del 1936.
Se la prima guerra mondiale non toccò la Val Masino, più travagliata e tragica fu la seconda: 14 alpini della valle furono dispersi nella terribile ritirata di Russia, ed uno solo di loro fece ritorno a casa. Dopo l’8 settembre 1942 e la costituzione della Repubblica di Salò, poi, in Val Masino si organizzò un nucleo cospicuo di resistenza partigiana, temporaneamente disgregato, però, dal rastrellamento a tappeto delle forze nazi-fasciste del novembre 1944. Nel libro di granito che a Cataeggio la Val Masino ha dedicato ai suoi caduti nella seconda guerra mondiale troviamo i nomi di Barola Giuseppe, Bonesi Dino, Bonesi Gino, Cassina Attilio, Ciappini Rino, Dolci Alessandro, Dolci Giuseppe, Dolci Olimpio, Fiorelli Albino, Fiorelli Genesio, Fiorelli Mario, Folla Eugenio, Iobizzi Ventura, Petrini Pio, Rodelli Lino, Rossi Vittorio, Scetti Lino, Scetti Pietro, Scetti Tommaso, Songini Giovanni, Songini Giuseppe, Speziali Pietro, Speziali Vittorio e Taeggi Marco.
Il secondo dopoguerra, superato il primo periodo di severe ristrettezze per le conseguenze del conflitto, vide la progressiva transizione dell’assetto economico della valle, nel quale il peso delle attività agricole e zootecniche subivano un ridimensionamento rispetto ad altre attività, legate soprattutto alla lavorazione del granito, al turismo o ai nuclei produttivi del fondovalle. Riguardo alla lavorazione del granito, c'è da ricordare che questa branca produttiva costituiva, fin dall'ottocento, un elemento importante nell'economia della valle; ecco come, nei primi anni del novecento, ne parla il già citato Bruno Galli Valerio: "Visito i cantieri dove si lavora il granito di Val Masino, il così detto "ghiandone". E' un lavoro interessantissimo. Trovato il filo dell'immenso blocco di granito, gli scalpellini lo fanno saltare in lastre regolarissime. E' là che si sono lavorati tutti i pezzi del famoso ponte della ferrovia del Desco, e che si sta lavorando la pietra pel castello di Milano. Non vi sono che gli operai italiani che sappian lavorare tanto bene il granito. Sono essi che han costruito l'immensa e splendida diga di Assouan. Alcune persone arrossiscono, quando parlano di operai italiani che girano il mondo come scalpellini, muratori e minatori. Dovrebbero sapere che senza di loro, moltissimi lavori non si farebbero. Essi sono specializzati da padre in figlio e lavorano da veri artisti e non come macchine. Una volta organizzati e protetti, essi saranno i più ricercati e rispettati lavoratori in queste tre arti".
Il turismo non ha stravolto il volto del comune, anche perché non ha mai assunto connotazioni di massa, essendo piuttosto legato a quel particolare popolo di alpinisti, sassisti, escursionisti ed amanti della montagna che amano confrontarsi con i suoi aspetti più difficili e meno amichevoli, e, proprio perciò, più affascinanti. Un solo dato: se togliamo la strada per Preda Rossa, non esistono carrozzabili che superino la quota di 1170 metri. Il resto è affidato ai piedi. Ed anche la strada Filorera-Preda Rossa non ha avuto vita facile: sembra quasi che la montagna si sia sentita violata da questo tracciato che, nel 1967, venne portato a termine dall'ENEL in previsione della costruzione di uno sbarramento idroelettrico che doveva chiudere la Valle di Preda Rossa (progetto che non venne, peraltro, attuato per le proteste degli ambientalisti): per due volte, nel 1977 e nel 1991, il distacco dal fianco sud-orientale del monte Piezza di enormi speroni granitici ha distrutto il sottostante maggengo di Valbiore, interrompendo la carrozzabile ed imponendo la costruzione di una nuova pista sul lato opposto della valle, come se la montagna avesse voluto esprimete tutto il proprio sdegno e la propria ira contro quella strada che consentiva un troppo facile e comodo accesso ai suoi scenari di incomparabile bellezza.
Una particolare menzione meritano, infine, i Sassisti, che hanno trovato qui, sopratutto in Val di Mello, l'ambiente ideale per praticare la loro filosofia dell'arrampicata che trova in se stessa la propria ragion d'essere e la propria gratificazione. La roccia che domina la Val di Mello, infatti, è la granodiorite (nome commerciale: ghiandone) e la quarzodiorite (nome commerciale: serizzo), assai simile al granito, ma, a differenza di questo, più povera di quarzo, e quindi assai meno scivolosa. Un paradiso, quindi, per coloro che coltivano l'arrampicata in aderenza. Ma ciascuno, in Val Masino, può trovare il proprio, di paradiso, anche perché qui non si è ancora sviluppato il fenomeno del turismo di massa e l'ambiente ha ancora conservato un volto che richiama le suggestioni del passato.
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