La concezione di una donna sottomessa, costretta a coprirsi interamente o imprigionata in un harem nel medio oriente non esiste. Questo pregiudizio del tutto occidentale nasce, molto probabilmente, da una serie di fraintendimenti e discordanze, originati dalla differenza tra quello che è realmente scritto nel Corano, l'interpretazione e strumentalizzazione politica dei diversi stati islamici e la visione della donna islamica nell’immaginario occidentale.
La realtà' dei diversi paesi arabi, e di conseguenza la realtà femminile, non può e non deve essere confusa con la realtà islamica. È ormai risaputo che in molti di questi paesi c'è grande disparità tra la condizione maschile e quella femminile, ma si tratta di paesi in cui e' da sempre in atto una battaglia contro l'occidentalizzazione della cultura (e il nemico americano). Dove, appunto, si e' radicata l'idea che maggiore liberta' significa maggiore occidentalizzazione. E di cio' ne fanno le spese proprio le donne, che finiscono per essere strumentalizzate perdendo parte dei loro diritti ,per altro bene esplicitati nello stesso Libro a cui queste teocrazie fanno riferimento.
Il pregiudizio più grande che la nostra cultura ha verso la cultura islamica è quello del velo che riteniamo il simbolo, chiaro ed evidente, della sottomissione della donna all'uomo e della sua mancanza di diritti. È quasi inconcepibile, per noi, che questa donna possa avere libertà di scelta o che, in caso l'avesse, possa scegliere di sua spontanea volontà di indossare un indumento tanto “alienante” come l'hijab, se non a causa esclusiva del forte condizionamento sociale dovuto alla sua ignoranza. Ovviamente, e purtroppo, tutto questo è una realtà innegabile in molti Paesi arabi, ma non è l'unica realtà. Questo pregiudizio di fondo impedisce la vera conoscenza di questo fenomeno che si presenta molto più vasto ed eterogeneo di quel che noi crediamo e di ciò che questo “simbolo” realmente significhi per molte donne arabe.
Esistono diversi tipi di velo usati dalle donne islamiche, ognuno dei quali è legato ad una determinata regione e in quanto tale ne riflette la cultura e la tradizione al di là della religione.
L’Hijab, il classico foulard che copre i capelli e il collo, è anche il più antico di tutti; la sua origine risale gia al XII sec a.c. Quando era in uso nella Mesopotamia assira. Lascia scoperto il viso e prevede che, oltre a coprirsi il capo la donna indossi un vestito lungo e largo che nasconde le forme del corpo, anche se solo le più osservanti tra chi sceglie questo tipo di copertura usano il vestito completo ed è il tipo di velo più diffuso tra le donne mussulmane in occidente e nei paesi islamici più liberali.
Il Niqab, è un tipo di velo, che copre interamente il volto della donna. È sovente confuso con il Burqa, l’abito islamico di colore azzurro, tipico dell’ Afghanistan, che avvolge integralmente il corpo e il viso, compresi gli occhi, coperti da una fitta griglia. Al contrario di quest’ultimo il niqab lascia, nella maggior parte dei casi, scoperti gli occhi. È molto diffuso in Arabia Saudita e Yemen anche se la foggia cambia leggermente tra i due stati. Il niqab yemenita è in fatti realizzato da un fazzoletto triangolare che copre la fronte e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento, mentre quello saudita è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca.
Nelle zone del Golfo persico è molto diffuso l’ Abaya, un velo leggero, ma coprente, lungo dalla testa ai piedi e che lascia completamente scoperto il volto. Mentre in Iran troviamo il famoso Chador che può essere sia un semplice fazzoletto sulla testa che un mantello che copre tutto il corpo, generalmente di colore nero.
Il velo tradizionale dei paesi del Nord Africa, quali la Tunisia e l’Algeria, è l’Haik, un ampio velo di cotone bianco, nero o anche colorato. Questo tipo di velo copre dalla testa ai piedi e spesso le donne, soprattutto le più anziane, lo usano per coprirsi il volto, tenendo uniti i due lembi con i denti.
Per molte donne rivolgere pubblicamente la parola ad un uomo senza indossare il velo,anche nei paesi dove questo non è d'obbligo, è motivo di imbarazzo. Grazie all'hijab si sentono libere di stringere rapporti di amicizia con uomini senza avere il timore di essere fraintese o di perdere la loro reputazione.
Secondo la sociologa egiziana Laila Ahmed, in questo contesto il velo non è ineluttabilmente un simbolo di segregazione, ma permette alle donne di presentarsi nella sfera pubblica senza costituire una minaccia né una trasgressione dell’etica socio-culturale islamica. Grazie al velo la donna islamica ha la possibilità di crearsi uno spazio pubblico legittimo. Non è uno strumento per relegare la donna in casa, quindi, ma al contrario per legittimarne la presenza al di fuori di essa.
Continua, poi, sostenendo che per quanto l'uso del velo possa apparire conservatore,il numero sempre maggiore di donne che grazie ad esso accedono alle università, alle professioni e allo spazio pubblico,non può essere considerato un fenomeno regressivo. E, mentre una coscienza femminista è più specifica delle classi medie urbane, sostiene la sociologa, il linguaggio del velo rivela la ricerca di una identità culturale anche da parte delle donne appartenenti ad ambienti rurali. Dunque “non cristallizza chi lo indossa nel mondo della tradizione, ma connota la volontà di approdare alla modernità”.
È quasi assurdo pensare che per compiere l’emancipazione sia sufficiente abbandonare i costumi di una determinata cultura, anche quando cosi androcentrica, in favore di quelli appartenenti ad una cultura differente . La dottoressa Ahmed afferma inoltre: ”Neppure la più ardente femminista del secolo scorso ha mai sostenuto che le donne europee potessero liberarsi dall’oppressione della moda vittoriana (concepita per costringere la figura femminile a conformarsi a un ideale di fragilità per mezzo di corpetti soffocanti che spezzavano le costole) adottando semplicemente l’abbigliamento di un altro tipo di cultura. Né si è mai sostenuto che l’unica possibilità per le donne occidentali fosse quella di abbandonare la loro cultura per trovarsene un’altra, dal momento che il predominio maschile e l’ingiustizia verso le donne sono sempre esistiti all’interno di essa” .
Per le stesse femministe arabe che combattono ogni giorno per l’ emancipazione della donna, il velo non è uno strumento culturale, politico o ideologico, che rappresenta la sottomissione agli uomini,ma una convinzione personale,legata alla fede. E in quanto tale, ogni donna libera e mussulmana ha il pieno diritto di scegliere se indossarlo o meno.
Il divieto del velo va contro il diritto della donna sul suo corpo esattamente quanto l'obbligo di indossarlo. Sembra quindi che questo indumento che fa tanto discutere sia in realtà un problema tutto occidentale.
L'abbigliamento delle donne musulmane è stato spesso oggetto di accesi dibattiti in Occidente dove è stato preso come simbolo dell'oppressione femminile di cui si accusa la religione di Maometto. La copertura totale del volto con il velo scandalizza alcuni paesi cattolici eppure secondo un recente sondaggio sono pochissimi i paesi islamici dove il burqa è ritenuto il tipo di abbigliamento più appropriato per le donne. La maggior parte degli intervistati preferisce il velo che copre solamente i capelli (hijab) ed alcuni non ritengono che sia necessaria alcuna copertura.
L'Institute for Social Research della University of Michigan ha posto la questione a sette paesi a maggioranza musulmana: Turchia, Egitto, Tunisia, Libano, Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq. Le sei varianti fra cui scegliere passano dal burqa, il velo integrale dove la parte all'altezza degli occhi è traforata al niqab, una variante del burqa con una fessura per lasciar scoperti gli occhi, il chador, un velo nero che copre il capo e la fronte, l'al Amira, un velo bianco intorno al volto, l'hijab, un foulard avvolto come un velo ed infine il capo interamente scoperto.
Dai più 'laici' come la Turchia ed il Libano ai più conservatori Arabia Saudita e Pakistan in media i paesi musulmani optano in maggiornaza (44%) per l'al Amira, si può dire il "più comodo" fra i veri e propri veli. Al secondo posto il favorito è l'hijab, variante ancora più blanda della copertura (12%) mentre l'8% preferisce il niqab o il chador.
Fanno eccezione l'Arabia Saudita dove la stragrande maggioranza (63%) sceglie il niqab ed, al contrario, il Libano dove quasi la metà ritiene che lasciare il volto scoperto sia l'acconciatura più appropriata (risultato probabilmente influenzato dal 27% di cristiani intervistati), opinione condivisa dal 32% dei turchi ed il 15% dei tunisini. Diversa la situazione in Pakistan dove a pari merito vincono le due forme più conservatrici, il niqab ed il chador, indicato come seconda scelta anche dall'Iraq e l'Egitto. Peccato solo che gli intervistati non siano divisi per sesso così da conoscere eventuali differenze fra le preferenze degli uomini e di chi deve effettivamente indossare il velo.
In ogni caso, se il burqa, il niqab ed il chador sono effettivamente indumenti destinati a standardizzare l'aspetto femminile, tutt'altra storia è l'hijab. Come dimostrato dai numerosi blog di moda sull'hijab, questo tipo di velo è considerato da molte giovani donne musulmane un dettaglio da scegliere con cura e da impreziosire con spille, forme, tessuti e pieghe diverse.
Ciò che in Occidente viene chiamato "velo" ed erroneamente si pensa sia stato introdotto dall'Islam esiste in realtà ben prima di esso. Una legge del XII secolo a.C. nella Mesopotamia assira sotto il regno del sovrano Tiglatpileser I (1114 a.C. — 1076 a.C.) rendeva di già obbligatorio portare il velo all'esterno a ogni donna sposata. Esso appariva anche nel mondo greco, tant'è vero che, nell'Iliade, si dice che Elena, moglie di Menelao, si velava per uscire.
Questa situazione si riscontrava in tutto il Mediterraneo, tanto che ancora nel Medioevo si hanno notizie di tre donne (Accursia, Bettisia Gozzadini e Novella d'Andrea) che nel XIII e XIV secolo ebbero la possibilità di tenere delle lezioni di Diritto all'Università di Bologna, ma soltanto a condizione che tenessero il corpo e il volto completamente velati per non distrarre gli studenti.
Nella Penisola araba preislamica la situazione delle donne era notevolmente contraddittoria: non pare vi fossero norme istituzionalizzate, in forza delle quali esse potessero reclamare precisi diritti. Da un canto, le bambine potevano occasionalmente essere sotterrate vive per motivi che ci sono rimasti oscuri ma che sembrano coinvolgere la sfera religiosa, d'altro canto le donne godevano nondimeno di vasti privilegi in campo coniugale: poliandria mirante alla procreazione di fanciulli sani in caso di impotenza del primo marito, possibilità di ripudio del marito e matrimoni a tempo predeterminato (mut'a), per il quale era assolutamente prescritto il libero consenso della donna e in base al quale l'eventuale figlio della coppia rimaneva al padre, che se ne assumeva ogni onere economico. Troviamo donne imprenditrici e notevolmente attive in campo politico (in passato si parlava non episodicamente di "regine degli Arabi").
A ridosso della nascita dell'Islam, alcuni di questi istituti giuridici non risultano essere stati più validi: segno probabile di una rivalsa virile a discapito del ruolo muliebre: è probabile che l'uso del velo, in questo periodo, fosse comunque abbastanza diffuso, sia pur non generalizzato come in seguito con l'affermarsi dell'Islam.
Secondo alcuni sociologi, con l'avvento dell'Islam il velo diviene il simbolo di una ritrovata dignità femminile, dal momento che la donna diventa soggetto di alcuni precisi diritti (al mahr, ad esempio, una quota di beni o denaro obbligatoriamente versata dall'uomo a tutela dell'eventuale vedovanza o di un ripudio subito, senza dimenticare il diritto all'eredità, per quanto normalmente determinata nella metà della quota-parte riservata al maschio avente pari titolo giuridico); secondo altri, l'obbligo del velo manifesta invece la subordinazione della donna rispetto all'uomo, vista come una sua proprietà e quindi costretta a nascondere il proprio capo a tutti gli altri uomini, se non a quelli della propria famiglia. La religione islamica chiede inoltre alle donne che si convertono di velarsi per essere distinte dalle schiave non musulmane.
Rimane un dato storico incontrovertibile che l'uso del velo non sia una pratica esclusivamente e specificamente musulmana, ma semmai araba e anteriore all'Islam, diffusa anche in varie altre culture e religioni, tra le quali il Cristianesimo orientale e in generale il mondo bizantino. Il suo scopo principale era quello di segnalare le differenze sociali, indicare le donne che dovevano essere oggetto di un particolare rispetto, e spesso marcare la differenza tra sacro e profano.
I passaggi del Corano che normalmente vengono citati a proposito del precetto di indossare il velo sono, in particolare, l'aya 31 della sura XXIV (al-Nur, "La luce")
« E di' alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle ad altri che ai loro mariti o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli, o ai figli dei loro mariti, o ai loro fratelli, o ai figli dei loro fratelli, o ai figli delle loro sorelle, o alle loro donne, o alle loro schiave, o ai loro servi maschi privi di genitali, o ai fanciulli che non notano le nudità delle donne, e non battano assieme i piedi sì da mostrare le loro bellezze nascoste; volgetevi tutti a Dio, o credenti, che possiate prosperare! »
e l'aya 59 della sura XXXIII (al-Azab, "Le fazioni alleate")
« O Profeta! Di' alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre, e a che non vengano offese. Ma Dio è indulgente e clemente! »
Il nome utilizzato per indicare il velo nella sura al-Nur è khumur (plurale di khimar), la cui radice significa "velare, celare, occultare qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Renato Traini, pubblicato dall'Istituto per l'Oriente (Roma 1966–1973), alla voce "khimar" si legge: «Velo che copre il capo e la faccia della donna» e nell'Arabic-English Lexicon di E. Lane: «A woman’s muffler, or veil, with which she covers her head and the lower part of her face, leaving exposed only the eyes» ("uno scialle o velo, con cui la donna si copre il capo e la parte inferiore del viso, lasciando scoperti solo gli occhi").
Nella surat il termine è jalabib (plurale di jilbab), la cui radice quadrilittera significa "indossare, essere rivestito di qualche cosa". Nel vocabolario arabo-italiano di Traini, alla voce "jilbab" si legge semplicemente: «Indumento femminile», e in quello di E. Lane leggiamo: «A shirt that envelopes the whole body» ("Una camicia che ricopre l'intero corpo"). Secondo i commentari del Corano (tafasir), il jilbab ricopre anche il capo, e per molti dotti anche il viso.
La parola hijab, invece, la più usata oggigiorno in riferimento al velo islamico, appare in sette versetti del Corano, ma in modo meno specifico, dato che si riferisce sempre - salvo un caso - ad una cortina, una tenda, dietro alla quale può avvenire la rivelazione del Corano stesso. In particolare:
« A nessun uomo Dio può parlare altro che per rivelazione, o dietro un velame, o invia un messaggero il quale riveli a lui col suo permesso quel che egli vuole »
(XLII,51)
« E quando tu reciti il Corano, noi poniamo tra te e coloro che rinnegano la vita futura un velo disteso »
(XVII,45)
« O voi che credete! Non entrate negli appartamenti del Profeta senza permesso, per pranzare con lui, senza attendere il momento opportuno! ... E quando domandate un oggetto alle sue spose, domandatelo restando dietro una tenda: questo servirà meglio alla purità dei vostri e dei loro cuori. E non vi è lecito offendere il Messaggero di Dio, né di sposare le sue mogli mai, dopo di lui. Questo sarebbe, presso Dio, cosa enorme »
(XXXIII,53)
Questa separazione, inizialmente riservata alle mogli del profeta Maometto, in seguito sarebbe stata estesa alle donne musulmane libere. L'imposizione di rivolgersi alle mogli del Profeta da dietro un hijab aveva quasi certamente in origine motivazioni di protocollo, e solo più tardi venne preso a pretesto per giustificare forme generalizzate di segregazione sessuale, del tutto sconosciute all'Islam dell'epoca di Maometto.
In un solo caso nel Corano hijab indica un velo inteso come capo di abbigliamento.
« Nel Libro ricorda Maria, quando si appartò dalla sua gente lungi in un luogo d'oriente ed essa prese, a proteggersi da loro, un velo. E noi le inviammo il nostro Spirito che apparve a lei sotto forma di uomo perfetto »
(XIX,16-17)
In sintesi, dunque, i giuristi musulmani designarono ben presto con il termine generico hijab tutto ciò che dissimula o copre il corpo delle donne al fine di preservarne il pudore. Hijab è il termine comunemente più utilizzato per designare il "velo" della donna musulmana, anche se nel Corano altri due termini (khimar e jilbab) lo definiscono in modo più preciso, specificando come esso dovrebbe coprire il capo della credente e a parere di molti anche il volto.
Secondo molti musulmani praticanti, per quanto riguarda l'abbigliamento femminile le principali fonti del diritto islamico, cioè il Corano e la Sunna, prescriverebbero senza alcun dubbio l'obbligo di indossare il velo. Anche tra gli assertori della obbligatorietà del velo, tuttavia, esistono due differenti linee di interpretazione dei testi: una ritiene che la donna possa mostrare il proprio viso (anche se si giudica più meritevole celarlo davanti agli estranei), l'altra afferma che sia comunque tenuta a coprirlo. Evidentemente, le donne musulmane che seguono quest'ultima interpretazione non la ritengono una tradizione culturale locale o invalsa solo col tempo e a motivo di presunti influssi di altre tradizioni sulla civiltà musulmana, bensì di un insegnamento appartenente in pieno all'Islam.
In Egitto, si considera che la prima contestazione riguardante l'asserita obbligatorietà d'indossare un velo abbia avuto luogo verso la fine del XIX secolo: Qasim Amin, che apparteneva allora alla corrente di pensiero "modernista", che cercava d'interpretare l'Islam per renderlo compatibile con i processi di modernizzazione della società egiziana in particolare, si espresse a favore dell'evoluzione dello status della donna nella sua opera (La liberazione della donna, pubblicata nel 1899). Si dichiarò in particolare a favore dell'istruzione femminile, della riforma della procedura di divorzio e della fine dell'uso del velo e della segregazione muliebre. A quei tempi Qasim Amin si riferiva al velo facciale (burqu: velo di mussolina bianca che ricopre il naso e la bocca) che portano le donne di classe agiate urbane, fossero esse cristiane o musulmane. Il hijab d'allora era effettivamente legato all'isolamento delle donne. Si considera generalmente che fu da quel momento che il hijab cessò dall'essere il simbolo d'uno status sociale e di ricchezza per divenire simbolo di arretratezza e di posta in gioco sociale, politica e religiosa.
Nel 1923, Hoda Sharawi, considerata come una delle prime femministe, ripudia il suo velo facciale tornando da un incontro femminista svoltosi a Roma, lanciando in tal modo, insieme a molte altre donne, un movimento di "svelamento" che sarà chiamato in arabo al-sufur.
In Turchia e in Iran, l'abolizione del velo fu imposta all'inizio del XX secolo da Mustafa Kemal Atatürk e dallo Shah d'Iran, che videro l'adozione dell'abbigliamento occidentale come un segno di modernizzazione. In Tunisia, Habib Bourghiba vietò il velo nell'amministrazione pubblica e sconsigliò fortemente alle donne di portarlo in pubblico.
In Marocco, all'avvento dell'indipendenza, il re Mohammed V, padre di Hassan II e nonno dell'attuale sovrano Mohammed VI, chiese a sua figlia di togliersi il velo in pubblico, come simbolo della liberazione della donna. Tuttavia in presenza del re, i deputati donne si videro obbligati a coprire i loro capelli in segno di rispetto per la tradizione.
Nel corso degli ultimi anni della guerra d'Algeria, i francesi organizzarono cerimonie di "svelamento" collettivo, miranti a dimostrare l'opera civilizzatrice della Francia in Algeria, a favore dell'emancipazione delle donne algerine.
Negli anni Sessanta, portare il velo divenne un fenomeno estremamente minoritario nella maggior parte dei paesi arabi (con l'eccezione dei paesi che si rifacevano al pensiero del wahhabismo).
Attualmente la maggior parte degli autori è concorde nell'includere il tema del hijab nell'ambito dello zay al-shari, il "vestito secondo la shari'a". Esso indica, in prima battuta, l'abbigliamento femminile che gli integralisti musulmani hanno preso ad adottare a partire dagli anni Settanta e che consiste in una tenuta lunga e ampia, il (jilbab), di colore sobrio e d'un velo, khimar, del pari di colore sobrio, che ricopre interamente i capelli delle donne, il loro collo, le spalle e il petto, in modo tale che - conformemente alla pretesa legge islamica - non appaiano altro che le mani e il viso.
L'obbligo di velarsi è oggi controverso, ma generalmente dedotto da un insieme di versetti già esposti del Corano e di Jadith del profeta Muammad. Non si trova traccia d'una tale controversia nei testi degli Julama e degli esegeti ( mufassirun ) antichi. Il soggetto del loro disaccordo era piuttosto quello di appurare se il velo fosse obbligatorio per coprire o meno il volto delle donne. L'obbligo di nascondere le altre parti del corpo (escluso il viso, le mani e i piedi per alcuni) è del pari riportato nei libri consacrati al tema del consenso.
A parte qualche sporadica ed isolata ordinanza municipale che ne dispone la proibizione punibile con sanzioni amministrative, indossare un velo integrale in Italia non è reato.
Coloro che si oppongono alla libera circolazione di donne con il viso velato si appellano al vigente Codice penale e alla Legge 152/1975 (e successiva Legge 155/2005) relativa alle norme di Pubblica Sicurezza, il cui art. 5 recita: "È vietato l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l'uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino."
Sulla interpretazione della clausola "senza giustificato motivo" si è già espresso il Consiglio di Stato, che ha ritenuto la matrice religiosa e/o culturale un giustificato motivo per poter circolare indossando un niqab, un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra il viso.
La ratio legis di questa norma, diretta alla tutela dell'ordine pubblico, è infatti quella di evitare che l'utilizzo di caschi o di altri mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene "senza giustificato motivo". Con riferimento al “velo che copre il volto”, si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture. In questa sede al giudice non spetta dare giudizi di merito sull’utilizzo del velo, né verificare se si tratti di un simbolo culturale, religioso, o di altra natura, né compete estendere la verifica alla spontaneità, o meno, di tale utilizzo. Ciò che rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento.
Il citato articolo 5 della legge 152/1975 consente nel nostro ordinamento che una donna indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni, e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi o da parte di specifici ordinamenti possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purché ovviamente trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e settoriali esigenze.
Va precisato, però, che in sede giurisdizionale il Consiglio di Stato ha solo funzione di tutela nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione. In particolare il Consiglio di Stato è il Giudice di secondo grado della giustizia amministrativa, ovvero il Giudice d'appello avverso le decisioni dei TAR, e nella sentenza richiamata si annullò un ricorso avverso decisione del TAR sostanzialmente per motivi di merito procedurale e gerarchico.
Rimane stabilito peraltro (Sentenza TAR Friuli Venezia Giulia n° 645 – 16.10.06) "che a prescindere dai singoli casi concreti in cui ogni agente di pubblica sicurezza è tenuto a valutare caso per caso se la norma di legge possa o meno ritenersi rispettata, un generale divieto di circolare in pubblico indossando tali tipi di coperture può derivare solo da una norma di legge che lo specifichi (allo stato attuale non esistente), il che è tra l'altro in linea con le implicazioni politiche di una simile decisione.".
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