Quel treno non giunse a destinazione. Nella galleria di S. Benedetto Val di Sambro una volontà criminale, politico mafiosa, eversiva delle Istituzioni, volle un massacro di cittadini innocenti. Tutto fu predisposto per provocare il maggior numero possibile di vittime: l’occasione del Natale, la potenza dell’esplosivo, il “timer” regolato per fare esplodere la bomba sotto la galleria, in coincidenza del transito, sul binario opposto, di un altro convoglio. Solo il tempismo del conducente che prontamente bloccò la linea evitò una strage maggiore.
In quella galleria sono rimasti i corpi di 15 persone e centinaia ne sono usciti feriti in maniera anche gravissima, alcuni morendone a distanza di anni.
Al contrario del caso dell'Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, per massimizzare l'effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d'aria che frantumò tutti i finestrini e le porte.
Venne attivato il freno di emergenza, e il treno si fermò a circa 8 chilometri dall'ingresso sud e 10 da quello nord. I passeggeri erano spaventati, e a questo si affiancava il freddo dell'inverno appenninico. Il controllore Gian Claudio Bianconcini, al suo ultimo viaggio in servizio, chiamò i soccorsi da un telefono di servizio presente in galleria e, sebbene ferito, sopravvisse all'esplosione.
Bianconcini, sebbene anch'egli ferito da alcune schegge nella nuca, organizzò anche i primi soccorsi con l'aiuto di altri passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, isolata elettricamente, avevano poca autonomia. Oltre al sopracitato Bianconcini, organizzarono i primi soccorsi il capotreno Paolo Masina e il restante personale come Vittorio Buccinnà e Francesco Bosi (al personale venne conferito un Encomio Solenne e una medaglia d'oro). I soccorsi ebbero difficoltà ad arrivare, dato che l'esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata, inoltre il fumo dell'esplosione bloccava l'accesso dall'ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi, che impiegarono oltre un'ora e mezza ad arrivare. I primi veicoli di servizio arrivarono tra le venti e trenta e le ventuno: non sapevano cosa fosse successo, non avevano un contatto radio con il veicolo fermo e non disponevano di un ponte radio con le centrali operative periferiche o quella di Bologna. I soccorsi una volta sul posto parlarono di un "fortissimo odore di polvere da sparo".
Venne impiegata una locomotiva diesel-elettrica, guidata a vista nel tunnel, che fu per prima cosa usata per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte, su cui furono caricati i feriti. Un solo medico era stato assegnato alla spedizione. L'uso della motrice Diesel rese però l'aria del tunnel irrespirabile, per cui servirono bombole di ossigeno per i passeggeri in attesa di soccorsi. Con l'aiuto della macchina di soccorso i feriti vennero portati alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, seguiti subito dopo dagli altri passeggeri. Uno dei feriti, una donna, venne trovata in stato di choc in una nicchia della galleria, e fu portata a braccia fino alla stazione di Precedenze (stazione che infatti si trova circa a metà della galleria). Arrivati alla stazione di San Benedetto, ai feriti vennero offerte le prime cure, e quelli più gravi furono portati a Bologna da una quindicina di ambulanze predisposte per il compito, che viaggiavano scortate da polizia e carabinieri. Le cure ai feriti leggeri durarono fino alle cinque di mattina. Venne allestito rapidamente un ponte radio, e la Società Autostrade fece in modo di mettere a disposizione un casello riservato al servizio di emergenza. I feriti vennero portati all'Ospedale Maggiore di Bologna, facendosi largo nel traffico cittadino grazie a una razionalizzazione delle vie di accesso studiata proprio per i casi di emergenza. Per ultimi furono trasportati i morti: fortunatamente la neve cominciò a cadere solo durante questa ultima fase.
Il piano di emergenza era frutto delle misure predisposte dopo la strage del 2 agosto 1980, e questa operazione fu la prima sperimentazione del sistema centralizzato di gestione emergenze costituito a Bologna. Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l'opera di soccorso e l'operato dei soccorritori furono ammirevoli per l'efficienza dimostrata, tanto che poco dopo il servizio centralizzato di Bologna Soccorso sarebbe diventato il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118. Alla grande abilità e organizzazione delle forze dell'ordine e dei soccorritori si aggiunse anche una certa fortuna: cominciò a nevicare solo dopo la conclusione delle operazioni di trasporto, e il vento soffiò i fumi dell'esplosione verso sud, rendendo possibile l'accesso dal lato bolognese da cui arrivavano i soccorsi. Le attrezzature dei vigili del fuoco prevedevano solo bombole con mezz'ora di autonomia, che altrimenti sarebbero state insufficienti.
Venne predisposta una perizia chimico-balistica da parte della Procura della Repubblica di Bologna, per capire le dinamiche dell'esplosione e il materiale utilizzato. Emerse che un testimone aveva visto una persona sistemare due borsoni in quel punto presso la stazione di Firenze, per cui l'inchiesta fu trasmessa alla Procura della Repubblica di Firenze.
Nel marzo 1985 vennero arrestati a Roma, per altri reati (tra cui traffico di stupefacenti), Guido Cercola e il pregiudicato Giuseppe Calò, noto mafioso palermitano più comunemente conosciuto come Pippo Calò. L'11 maggio 1985 venne identificato il covo dei due arrestati, in un edificio rustico presso Poggio San Lorenzo di Rieti: nella perquisizione vennero rinvenuti alcuni chili di eroina e un apparato ricetrasmittente, delle batterie, alcuni apparecchi radio, antenne, cavi, armi ed esplosivi. Le perizie condotte prima a Roma e poi a Firenze dimostrarono come quel tipo di materiale fosse compatibile con quello usato nell'attentato al treno: anche l'esplosivo era del medesimo tipo, con la stessa composizione chimica.
Il 9 gennaio 1986 il Pubblico Ministero Pierluigi Vigna imputa formalmente la strage a Calò e a Cercola, che l'avrebbero compiuta:
« ...con lo scopo pratico di distogliere l'attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l'immagine del terrorismo come l'unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato »
Emersero dei rapporti tra Cercola e un tedesco, Friedrich Schaudinn, che sarebbe stato incaricato di produrre alcuni dispositivi elettronici da usarsi per attentati. Questi vennero trovati in casa di Pippo Calò.
Vennero a galla diverse linee di collegamento tra Calò, mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo eversivo neofascista, la Loggia P2 e persino con la Banda della Magliana: questi rapporti vennero chiariti da diversi personaggi vicini a questi ambienti, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegavano i legami tra questi tre ambienti della criminalità emersero al maxiprocesso dell'8 novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone.
La Corte di Assise di Firenze, il 25 febbraio 1989, condannò alla pena dell'ergastolo Pippo Calò, Cercola e altri imputati legati ai due (Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, boss della Camorra detto Il Boss del Rione Sanità), con l'accusa di strage. Inoltre, condannò a 28 anni di detenzione Franco Di Agostino e a 25 anni Schaudinn; condannò inoltre altri imputati nel processo per il reato di banda armata.
Il secondo grado venne celebrato dalla Corte di Assise di Appello di Firenze, presieduta dal giudice Giulio Catelani, con sentenza emessa il 15 marzo 1990. Le condanne all'ergastolo per Calò e Cercola furono confermate, e anche la pena di Di Agostino fu riformata in ergastolo. Misso, Pirozzi e Galeota vennero invece assolti per il reato di strage, ma condannati per detenzione illecita di esplosivo. Il tedesco Schaudinn venne invece assolto dal reato di banda armata, ma fu confermata la sua condanna per strage; la sua pena fu ridotta a 22 anni.
Il 5 marzo 1991 la 1ª sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, annullò la sentenza di appello. Il sostituto Procuratore generale Antonino Scopelliti era contrario e mise in guardia i giudici dal far prevalere l'impunità del crimine. La Suprema Corte di Cassazione annullò con rinvio la sentenza d'appello, disponendo quindi un nuovo giudizio dinnanzi ad altra sezione della Corte d'Assise d'Appello di Firenze. Quest'ultima il 14 marzo 1992 confermò gli ergastoli per Calò e Cercola, condannò Di Agostino a 24 anni e Schaudinn a 22. Misso si vide la condanna ridotta a tre soli anni per detenzione di esplosivo, mentre le condanne di Galeota e Pirozzi furono ridotte a un anno e sei mesi; tutti e tre furono assolti dai reati di strage.
Quello stesso giorno Galeota e Pirozzi, insieme alla moglie Rita Casolaro ed alla moglie di Giuseppe Misso, Assunta Sarno, stavano ritornando a Napoli quando, durante il viaggio, incorsero in un agguato: la loro auto (una Ford Fiesta XR2) fu speronata e mandata fuori strada da alcuni killer della camorra che li seguivano sull'autostrada A1, all'altezza del casello di Afragola/Acerra, alle porte di Napoli. Le armi da fuoco dei killer lasciarono sul terreno i corpi di Galeota e della Sarno, quest'ultima addirittura con un colpo di pistola in bocca. Soltanto Giulio Pirozzi e sua moglie riuscirono miracolosamente a uscire vivi da quella che fu una vera e propria mattanza di camorra, anche grazie al sopraggiungere di un’auto della polizia stradale dal senso inverso di marcia, che impedì ai killer di completare il lavoro. Pirozzi, benché ferito gravemente, si salvò anche perché si finse morto nel corso della sparatoria. L'auto usata dagli assassini, una Lancia Delta HF, fu poi abbandonata nei pressi dell'aeroporto di Capodichino e data alle fiamme.
La 5ª sezione penale della Cassazione il 24 novembre 1992 confermò la sentenza, riconoscendo la "matrice terroristico-mafiosa" dell'attentato.
Il 18 febbraio 1994 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell'MSI Massimo Abbatangelo, la cui posizione era stata stralciata dal processo principale. Abbatangelo fu assolto dal reato di strage, ma venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell'esplosivo a Giuseppe Misso, nella primavera del 1984. Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest'ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere le spese processuali.
Guido Cercola si suicidò in carcere a Sulmona il 3 gennaio 2005, soffocandosi con dei lacci di scarpe. Rinvenuto agonizzante in cella, morì durante il trasporto in ospedale.
Il 27 aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emise un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss mafioso Totò Riina per la strage, precisando che Riina è considerato il mandante della strage. Il 25 novembre 2014, si apre a Firenze il processo a Totò Riina. Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia napoletana l'attentato si inserì in un disegno strategico di Riina per far apparire l'attentato come un fatto politico e come risposta al maxi processo a Cosa Nostra.
Il 14 aprile 2015 Totò Riina fu assolto per mancanza di prove.
Le vittime della strage del treno 904 non avranno alcun risarcimento. La decisione del Viminale viene contestata dall'Associazione dei familiari delle vittime del 904 perché "si pone in grave contraddizione con le sentenze di merito a carico degli imputati".
Con una direttiva del 22 aprile 2014, tutti i fascicoli relativi a questa strage non sono più coperti da classifiche si segretezza e sono perciò liberamente consultabili da tutti.
Nel 2006, grazie a un progetto di ricerca promosso dall'Associazione tra i familiari delle vittime della strage sul treno rapido 904 col patrocinio della Regione Campania, è stato pubblicato un primo volume sulla strage, il successivo iter giudiziario e la memoria dell'evento nella città di Napoli: si tratta del libro di Alexander Höbel e Gianpaolo Iannicelli La strage del treno 904. Un contributo delle scienze sociali (Ipermedium, 2006). Il musicologo, giornalista e scrittore Leoncarlo Settimelli ha composto una canzone, Il sogno spezzato di Federica, dedicata a Federica Taglialatela, vittima dodicenne perita nella strage. Il narratore Daniele Biacchessi, racconta la strage sul rapido 904 nello spettacolo di teatro civile La storia e la memoria.
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