Piazzatorre è un comune della provincia di Bergamo, in Lombardia.
Si è sempre ritenuto comunemente che il toponimo Piazzatorre derivi dall'unione dei vocaboli piazza e torre, a significare la piazza della torre, forse perché in quel luogo sorgeva una torre contornata da uno spiazzo. Se per la parola piazza, platea, l'etimologia è plausibile, non così è invece per torre. Infatti, se fosse valida tale ipotesi, nei documenti latini più antichi dovrebbe essere utilizzato, a seconda della declinazione, il vocabolo turris, turrim, turri.
Risulta quindi chiaro che la torre non è pertinente con l'etimologia del toponimo Piazzatorre il quale invece va riferito al vocabolo torus o taurus, (inteso come altura o terreno rialzato) che unito a platea (piazza, spiazzo) indica spiazzo rialzato, area pianeggiante situata in altura, che è poi la caratteristica geografica di Piazzatorre.
Piazzatorre, oggi, è un'affermata stazione turistica invernale ed estiva, frequentata soprattutto come centro di villeggiatura e come sede per i ritiri precampionato delle squadre sportive che trovano nel locale e ben attrezzato Centro Sportivo Comunale, le infrastrutture e la tranquillità necessaria per svolgere il lavoro preparatorio all'attività agonistica. Piazzatorre da decenni è nota agli amanti degli sports invernali per le piste di sci e gli impianti di risalita del comprensorio sciistico Piazzatorre Ski Area e per il famoso palaghiaccio di proprietà dell'hotel Pinete che ha ospitato la coppia di pattinatori campioni del mondo nel 2001 Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio.
Da numerosi documenti si può dedurre che a Piazzatorre già dal ‘500 esistevano proprietari privati, anche se non nativi del luogo: i Dominoni, i Renovi, i Maisis e soprattutto i Mascheroni da Olmo al Brembo, che fin dal ‘200 possedevano gran parte delle proprietà fondiarie di Piazzatorre. Nel ‘300 alcune famiglie del paese acquistarono ed ottennero in affitto perpetuo una piccola parte di questi estesi possedimenti. Una di queste transazioni è registrata in un atto del 28 luglio 1330 con il quale Martino detto Donzello fu Giacomo dei Mascheroni concesse in enfiteusi perpetua (l’enfiteusi è quel rapporto in forza del quale il proprietario concede il diritto, perpetuo o di lunga durata, di utilizzazione di un fondo agricolo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare un canone periodico) ai fratelli Giovanni e Pietro Renovi di Piazzatorre due pezze di terra con stalla sul Pegherolo e la trentesima parte del bosco del Cavallo per la somma di 20 soldi imperiali, da pagarsi alla successiva festa di San Martino, oltre a un soldo grande all’anno in perpetuo a titolo di fitto. Altre due pezze di terra furono vendute il 9 dicembre 1340 dallo stesso Martino a Vitale Dominoni di Piazzatorre. La parte più cospicua dei terreni fu concessa dai Mascheroni in enfiteusi collettiva al comune di Piazzatorre e ai componenti delle tre famiglie originarie del luogo: gli Arioli, gli Arizzi e i Maisis; ma nel Quattrocento i rapporti tra la proprietà e gli affittuari si guastarono, sia perché i boschi e i terreni non erano coltivati e mantenuti a dovere e probabilmente anche perché si verificavano troppo frequenti ritardi e dilazioni nel pagamento dei canoni d'affitto. In questo contesto s’inserisce l’atto rogato il 28 gennaio 1465 dal notaio Luchino fu Martino Bottagisi di Averara con il quale l'insieme dei vari discendenti dei fratelli Bono e Simone Mascheroni, comproprietari dei fondi in questione, si costituirono a vicenda sindaci, procuratori e difensori, affinché ciascuno potesse operare a tutela degli interessi degli altri, sia per le questioni in corso che per quelle a venire. L’atto accenna, senza tuttavia indicarne le cause, ad una lite in corso con gli uomini di Piazzatorre in merito alle loro proprietà e ad una causa imminente sempre sulla stessa questione.
La controversia fu risolta il 22 gennaio 1473 con un atto del notaio Simone fu Bonetto Donati di Piazza, che determinò una transazione amichevole tra i Mascheroni da una parte e il Comune e gli uomini di Piazzatorre dall'altra: questi ultimi ottennero di poter godere in perpetuo dei boschi che avevano in affitto per ricavarne legname da utilizzare per la costruzione di case e stalle, o legna da ardere e da utilizzare per produrre calce e carbone, a proprio vantaggio o per i residenti sul territorio di Piazzatorre. Per parte loro i Mascheroni si riservavano il diritto di recidere e tagliare a loro discrezione detti boschi e vendere il legname fuori paese e di disporre a piacimento di eventuali giacimenti minerari che si fossero rinvenuti sulle loro proprietà. Tale accordo resistette per novant'anni, ma alla fine dovette essere rivisto perché i beneficiari avevano iniziato ad accampare diritti di proprietà sui fondi suddetti. E così il 17 gennaio 1562, a Bergamo, le parti giunsero a un accordo definitivo con il quale i Mascheroni cedettero ai sindaci e agli uomini di Piazzatorre tutti i diritti sui boschi (di faggio, peghera e qualsiasi altro genere) situati entro i confini di del comune.
In cambio dei diritti il Comune e gli Originari di Piazzatorre (in tutto 72 capofamiglia, oltre ai tre sindaci del comune) versarono ai Mascheroni la somma di 11.340 lire imperiali. Quest’atto sancì la nascita della Società degli Antichi Originari di Piazzatorre, che assieme al Comune è ancora oggi proprietaria di gran parte dei boschi della zona (citazioni tratte dal testo “Olmo al Brembo nella Storia”). Essi non solo avrebbero goduto, tutti insieme, il prodotto dei pascoli e dei boschi, ma sarebbero entrati in possesso anche della Chiesa parrocchiale e con i redditi della proprietà collettiva avrebbero provveduto alle spese principali della comunità.
Questa situazione amministrativa durò quasi tre secoli, fino al 1806.
Il 5 dicembre 1822, con un atto di transazione stipulato tra gli Antichi Originari e il Comune, “…gli Originari retrocedevano al Comune i beni controversi (boschi e pascoli) sotto la espressa condizione, dal Comune accettata, che le rendite dei beni medesimi dovessero servire a provvedere a tutte le spese inerenti all’amministrazione del Comune di qualsivoglia natura, e gli avanzi, che dedotte queste spese si verificassero, dovessero distribuirsi con giusto riparto sopra ciascun individuo in tutte le famiglie, le quali all’evenienza del caso si trovassero ad avere lo stabile incolato nel Comune (nel diritto romano, chi aveva domicilio presso una comunità diversa da quella di origine, dal latino incolore, abitare, risiedere); se le rendite non fossero state sufficienti a far fronte alle spese, si avrebbe dovuto supplire all’eccesso coi mezzi che la legge prescrive nel proposito…” (Deliberazione Consigliare 11 Agosto 1894).
Il 1592 fu l’anno di costruzione della strada Priula di fondo valle, dal nome del provveditore veneto Alvise Priuli che la fece costruire e “tagliare nel sasso vivo”. Verso la fine del 1500 Venezia, duramente impegnata nella guerra del pepe, decise di costruire una strada carrabile che le permettesse di raggiungere i liberi Cantoni Svizzeri e di lì la valle del Reno, senza pagare dazi e dogane agli Spagnoli. Cercava così una valida alternativa alle strade di Trento, del Gottardo e del Tirolo per fare giungere in tutte le contrade d’Europa le ricche e pregiate mercanzie veneziane ed orientali. Tra le merci trasportate c’erano il cuoio lavorato alle cere, il sapone, le sete, l’uva passa, ai quali nel ‘700 si aggiunsero liquori e caffè. Su tutto dominavano, non per volume ma per valore, pepe e spezie d’ogni tipo che giungevano a Venezia sui convogli di navi provenienti dall’Oriente e poi venivano distribuite per tutta l’Europa con carri e carovane di muli. La richiesta di spezie era elevatissima, non solo per conservare i cibi e renderli più gradevoli, ma anche per preparare bevande e in particolare per usi medicinali. Ma per la Cà San Marco passavano anche grossi quantitativi di salnitro, la materia prima usata per fabbricare polvere da sparo.
La Priula risaliva il fondo valle forzando le due strette, fino allora invalicabili, della Botta e di Sedrina. I grossi centri disposti sul tracciato della via “Alta” decaddero mentre i paesi dell’Alta Valle divennero il centro di traffici e commerci.
Quando la strada fu ultimata nel 1600 scoppiò la guerra in Valtellina e la stessa fu occupata dagli Spagnoli; il progetto di Venezia fallì e la strada rimase a beneficio dei valligiani. Prima di allora le carovane di muli che raggiungevano il grande mercato di Serina, o i minori di Olmo e Averara, impiegavano ore ed ore per coprire il tracciato incerto e spesso impervio delle mulattiere. Il grande trasporto di merci pesanti era negato dalla natura della strada, così come quello della posta e delle notizie. Con l’apertura di una strada carrabile le comunicazioni divennero più veloci e i contatti col mondo “al di sotto della Goggia” meno rarefatti. Pur non interessando direttamente il nostro paese il grande impulso che essa diede agli scambi portò giovamento anche agli abitanti di Piazzatorre: si aprì il mercato al carbone e soprattutto al legname che altrimenti doveva essere trasportato via fiume nei periodi di piena. Inoltre da quel momento fu reso possibile il funzionamento del servizio postale.
Nel 1593 la comunità di Piazzatorre venne collegata con la strada Priula attraverso un grazioso ponte in località Jai sotto Piazzolo. Abbracciava con un arco perfetto, a tutto sesto, le sponde rocciose del Brembo sotto la strada per Mezzoldo, in prossimità del bivio di Piazzatorre. La costruzione iniziò nel 1593 per opera della squadra dell’Olmo con un preventivo di lire 450 imperiali (con l’alluvione del 1987 è scomparso anche quest’altro importante frammento del tracciato della strada Priula).
Di lì a poco, dagli inizi del 1600, si ebbe il primo boom edilizio con vere costruzioni abitative di un certo rilievo socio - familistico: Cà di Berere, Cà Santa, Cà Maisis, Cà Gottaroli, Cà di Sörine, Cà di Boi. Erano nuclei residenziali che testimoniavano un certo agio economico e una vera autonomia di organizzazione sociale.
Nel 1630 ci fu la grande pestilenza che dimezzò la popolazione.
La nascita di officine, magli, opifici, filande nei centri come Zogno e San Pellegrino, che sfruttavano l’acqua del fiume come forza motrice, ha sfiorato solo da lontano l’economia delle comunità rurali. Il primo balzo nella storia umana verso l’industrializzazione non interessò, quindi, l’Alta Valle. Qui si viveva ancora come 500 anni prima, come nota il Maironi da Ponte a proposito di Piazzatorre: “…i suoi 270 abitanti sono nella maggior parte mandriani, che vanno a passar l’invernata co’ loro numerosi bestiami nelle province di Milano e Lodi. Vi sono anche alcuni che si occupano nel far il guidone, ossia il condottiere di legnami, che dall’alte montagne mercé l’acque del Brembo si traducono alla pianura, e qualch’ altro che fa il montanista o il carbonaio.
Oltre a queste attività principali, trovavano posto vari mestieri, localizzati soprattutto nei paesi: al ciabattino spettava il compito di “rigenerare” le scarpe che spesso dovevano durare tutta una vita; col procaccia giungevano nei posti più sperduti le notizie, le lettere più attese e insieme il pane per gli ammalati e il sale per tentare di porre rimedio alla calamità del gozzo.
Ma il mestiere più diffuso era quello del carbonaio.
Anche la storia di Piazzatorre di questi anni non presenta evoluzioni di rilievo. Solo conviene ricordare che nel 1806 (pochi anni dopo il crollo del dominio veneziano – 1797) cessò lo sfruttamento comunitario delle risorse e riapparve così la proprietà privata. Un ritorno alla proprietà collettiva si ebbe nel 1920 con la nascita della Cooperativa alimentare alla quale la gente del paese partecipò con proprie quote azionarie.
Nel 1836 scoppiò in Valle il colera. La popolazione di Piazzatorre, guidata dal suo parroco, fece un voto propiziatorio: se il paese fosse stato risparmiato, ogni anno si sarebbe celebrata una festa solenne in onore della Madonna del Rosario a spese totali del Comune. La memoria della Beata Vergine del Rosario nel calendario liturgico è fissata il 7 di ottobre, ma da noi è stata spostata alla terza domenica di agosto per permettere ai compaesani emigranti di parteciparvi prima di partire per la nuova stagione lavorativa.
Tale festa si celebra ancora oggi con devota solennità.
Dagli inizi del ‘900 considerevoli cambiamenti (tra i quali l’elettricità e la ferrovia) hanno reso possibile il passaggio da una società puramente agricola ad una società sempre più industrializzata. Fu un passaggio rapido dal semplice e immobile mondo contadino al ritmo convulso di una società complessa. Il grande fenomeno di spopolamento tocca l’Alta Valle Brembana in modo particolare dal 1890; oltre le tradizionali direttrici della Francia, della Svizzera e dell’America del Sud, sono individuabili flussi migratori verso la Valle Padana.
Lo sviluppo turistico di Piazzatorre è molto recente; sebbene sin dagli inizi del secolo fosse frequentato da alcune famiglie che venivano a trascorrervi l’estate, è solo nel dopoguerra che il nostro paese ha conosciuto la popolarità. La felice posizione del paese, il paesaggio naturale incontaminato, le imponenti foreste di conifere, l’aria salubre e la possibilità di praticare lo sci in pista hanno richiamato un numero sempre maggiore di villeggianti.
Nel 1950 furono costruiti i primi impianti di risalita sul monte Torcola, che hanno dato inizio allo sviluppo turistico invernale ed al successivo sviluppo edilizio (sopratutto edifici adibiti a residenza secondaria), che ebbe il suo apice negli anni ’70-’76.
Il boom turistico si è verificato negli anni 1985-86, nei quali sono state calcolate circa 12-13.000 presenze. La speranza è che tali cifre non rimangano solo un ricordo, ma possano essere in qualche modo ripetute anche in seguito alla costruzione dei nuovi impianti di risalita per Torcola Vaga, in funzione da dicembre del 2002.
Agli inizi dell'autunno del 1918, oltre le difficoltà di reinserimento dei reduci ed i problemi quotidiani dovuti alla mancanza di generi alimentari, si abbatté sul nostro paese “la spagnola”, un’epidemia che fece ben 375.000 vittime in Italia (oltre venti milioni in tutto il mondo). Si trattava di una forma influenzale dovuta ad un virus che aggrediva i polmoni in forma molto spesso mortale. I sintomi consistevano in febbre alta, dolori muscolari, tosse ed insufficienza cardiaca.
Così scriveva il parroco di Piazzatorre don Clemente Manzoni: “La malattia si presentava con dolori al capo e si sviluppava in polmonite. Era molto infettiva e colpiva maggiormente quelli dai 15 ai 40 anni d’età. Ogni casa aveva il proprio ammalato e non uno solo, ma due o tre, e parecchie erano le famiglie totalmente colpite. Ogni odio era deposto e i guariti si facevano premura di portar soccorso ai più bisognosi. Se la morte non capitava entro i primi dieci o dodici giorni si poteva sperare in una guarigione, ma mesi e mesi durava la convalescenza. Non lasciava più nessuna forza muscolare, niente appetito, e i vecchi, per i quali era più benigna, uscivano dalla spagnola così abbattuti che ad ogni minimo raffreddore soccombevano per deficienza cardiaca o per bronchite”.
Non esistendo una cura specifica, l’unico consiglio era di tenere gli ammalati isolati per evitare il contagio e di disinfettare gli ambienti.
E misteriosamente com’era apparsa, la malattia verso la fine dell'anno si dileguò senza lasciare tracce e senza che gli scienziati che ancora oggi la studiano siano riusciti a scoprirne le cause.
L’ubicazione di Piazzatorre e le sue arie salubri la fecero prescegliere dall’Opera Bergamasca per la salute dei fanciulli onde erigervi un fabbricato che servisse a raccogliervi nella stagione estiva un centinaio di ragazze e ragazzi per i quali la gracile costituzione e lo stato di anemia richiedesse la cura climatica.
L’Opera Bergamasca diede del proprio £ 6500, la Cassa di Risparmio di Milano elargì £ 10.000 e la società degli Antichi Originari di Piazzatorre concesse gratis la presa della buonissima acqua potabile. Scriveva il Dottor Bonandrini nel giugno del 1903 sull’Alta Valle Brembana: “Il fabbricato, eretto dalla ditta Testa e Passera su progetto degli ing. Fusier Oberto e Gaetano Carminati di Bergamo, sorge nel centro del paese, vicino alla frazione Cà Montani e consta di un corpo centrale con due ali della lunghezza complessiva di 69 m. Il corno ha l’altezza di m. 13 per 15 di profondità, e contiene la cucina e le stanze per la Direzione ed Amministrazione, più una grande sala che in caso di bisogno potrà adibirsi a dormitorio. È tutto in muratura e per mezzo di due terrazze è congiunto alle ali, ognuna delle quali è alta 8 m. e lunga 23, e sono costruite parte in muratura, parte in legname. Al piano inferiore vi è il refettorio ed al superiore i dormitori, uno per ala, ciascuno dei quali potrà comodamente contenere 25 letti.
L’impianto per la distribuzione dell’acqua fatto dalla ditta Busconi di Bergamo fornisce l’acqua in ogni locale, e vi sono 12 docce e bagni. L’illuminazione ad acetilene impiantata dalla ditta Sibella nulla lascia a desiderare. A lato dello stabilimento sorgono la lavanderia e l’infermeria”.
L’inaugurazione venne fatta nel giugno del 1903 da una comitiva di ragazze che prime vennero a godervi i benefici di tanta oculata provvidenza e generosità.
Durante l’epoca fascista, sull’onda della politica di organizzazione di massa del regime, si moltiplicarono le colonie montane. A Piazzatorre, a quella già esistente se ne aggiunse un’altra intitolata a Mussolini.
Il nucleo “storico” di Piazzatorre si presenta come un complesso di abitati che si articolano addossandosi gli uni agli altri, non per ragioni difensive, ma economiche e funzionali. Sono semplici strutture a muro secco o modellato con sobria calce, appena ingentilite da finestrelle e da un portale ad arco tondo che esprime certamente dignità e grandezza. Il più antico e rinomato è “Sembiör” che si adagia disegnato sulle pendici del monte Pegherolo, quasi una piccola perla grigiastra nel mezzo dei prati. Più sotto, allacciato ai tornanti della strada principale che risale verso il paese attuale e protetto dall’insenatura valliva a densa forestazione, c’é l’abitato delle Piazzole: quasi un avamposto rispetto alle contrade più alte e, ai tempi, una sicura e ravvicinata base di partenza verso i pascoli e le stalle di Pegherolo. L’insieme delle case è di recente edificazione, ma all’interno, collocata in leggero pianoro a sbalzo sul costone, si trova un’antica e tipica costruzione patriarcale, cubata nella forma, povera nella struttura, eppure segno d’abbondante progenie.
Restando in paese, all’estremità superiore vi è “Cà Gottaroli”, una specie di dogana di confine per chi risaliva ai pascoli del Torcola e del Secco; più sotto è posta “Cà de Maes” (De Maisis) accostabile attraverso il passaggio di un piccolo tunnel. La piazzetta dev’esser stata molto bella un tempo se si osservano i due portali bassi, graziosi e signorili, della casa attigua alla breve galleria.
Casa Bianchi mostra evidenti i segni della sua storia: nella facciata sono presenti grandi motivi floreali e architettonici, festoni e un grande affresco centrale che raffigura la Vergine e il Bambino nella parte superiore, in basso il patriarca Mosè e l’arcangelo Gabriele.
L’edificio più antico è la Cà Santa, un enorme palazzo seicentesco che risale alla fine del 1500. La facciata è stata intonacata di recente; su di essa però sono ben visibili i segni del passato: le quattro finestre con spalline in pietra e inferiate in ferro battuto e il portone con volta in pietra. Fuori dalla casa c’è una cappella votiva fatta erigere nel 1620 circa da Giovanni Battista Maisis, come si legge nell’iscrizione un po’ rovinata.
Tutto l’esterno di Casa Arioli è cosparso di fregi, affreschi e festoni attorno a ciascuna finestra. In ogni festone è dipinta una massima illustrata da una piccola scena.
Il grande portone al piano terra è ornato da un gran festone e sormontato da una loggia in pietra, con ringhiera in ferro battuto legata con chiodi. Qui primeggia lo stemma di famiglia sotto il quale il motto latino “Non manet aeternum Dominus sine semine vivens ipsius at longum stemmate nomen habet”. Saggio e severo monito della caducità terrena (vita breve hanno anche i padroni di casa, se non ci sono eredi vivrà almeno lo stemma).
Dice l’Angelini (1974 in “Arte minore bergamasca”): “Lo scomparto è così diviso: un pianterreno con le finestre quadre e inferiate, la porta centrale a motivi dipinti ornati, un piano superiore di maggiore altezza con finestre rettangolari a riquadrature sagomate sobrie e un soprastante ornamento a colori che racchiude emblemi contornati da nastri con motivi simbolici italiani o latini, e infine un secondo piano, basso di sottotetto, illuminato pure da quadrotti di luce con riquadrature lineari. In centro sopra le porte un balcone e lo stemma della famiglia...”.
In un’ala della casa trova attualmente sede l’asilo infantile.
Al 1500 risale l’edificazione della chiesa di San Giacomo, consacrata il 29 luglio 1514. Non è la stessa chiesa che oggi vediamo sul poggio che domina l’imboccatura del paese: quella odierna è infatti il risultato di notevoli rimaneggiamenti e ristrutturazioni.
L’edificio originario, di certo molto più piccolo, già decretato dal vescovo Pietro Lippomani il 26 ottobre del 1518, fu distinto e reso pienamente autonomo dalla chiesa di San Martino Oltre la Goggia nel 1532. Sorta su un oratorio che pare risalisse al 1200, ricostruita ex novo nel 1675 (in seguito a danneggiamenti subiti per intemperie) e consacrata il 16 luglio del 1682 dal vescovo Daniele Giustiniani, dopo l’ampliamento operato nel 1913-14 su progetto dell’architetto Elia Fornoni, venne riconsacrata il 7 agosto del 1919 dal vescovo Luigi Maria Marelli, che sigillò nell’altare maggiore le reliquie dei santi Alessandro e Ippolito.
La sua storia è semplice e complicata ad un tempo. Le baite del Pegherolo, abitate da tanti pastori, volevano vedere la loro Chiesa per avere la presenza, quasi fisica, della Divinità, e anche quando il Vescovo consigliò di costruire la Chiesa in una posizione più comoda, gli abitanti opposero un’affettuosa resistenza, e la vollero lì, dov’è ancora ora, vicino ai loro morti, dove gli avi, per secoli, si erano alternati nella preghiera, in un luogo carico di memorie.
Scriveva l’Ing. Beretta (1968): “Posta in posizione molto bella, la Chiesa Parrocchiale presenta il tradizionale orientamento con l’altare rivolto a est ed è circondata da tutti i lati da un discreto sacrato. La facciata verso ovest è stata eseguita durante l’ultimo ampliamento (1913) ed è molto semplice, conclusa di gronda in cemento a spiovente. La decora l’ampio portale in pietra artificiale con tre archetti in opera su colonne in graniglia sassuola. Sopra tale ingresso una lapide di marmo nero, sagomata ed ornata di grande timpano curvo sorretto da mensoloni.
Esternamente sul lato sud la chiesa presenta l’ingresso secondario preceduto da ampio porticato sormontata di stemma con aquila bicipite e con scritta, fa da ornamento e da documento.
Il bellissimo blocco di pietra, istoriato possentemente da mano ignota quasi per fissare nella memoria storica del Paese i tre ceppi famigliari di Piazzatorre ora sormonta la porta d’ingresso della Chiesa, quella rivolta a mezzogiorno, la più usata e senz’altro resa più solenne dal portico e da altri elementi quali la lapide istoriata, lo stemma vescovile, la lapide dei caduti. Quest’antica scultura del secolo XVII raffigura i tre stemmi delle famiglie originarie di Piazzatorre. E precisamente: al centro quello della famiglia “Arici”, a sinistra quello della famiglia “De Maisis” e a destra quello della famiglia “Arioli”.
I nomi di queste tre famiglie si trovano tra l’altro ripresi nella lapide che era posta immediatamente sopra la porta d’ingresso, e che ora è stata collocata a fianco, abbassata. Il testo della lapide, scritto in latino, ricorda che l’edificio della Chiesa, dedicata a S. Giacomo, è stato riordinato nel 1675, per interessamento di “Vincenzo Arici De Montanis, Pietro Giacomo De Maisis e Giovanni Battista Arioli De Rivoris” (attualmente, scomparsi i De Maisis e gli Arici de Rivoris, restano a consolidare le generazioni sei ceppi familiari: gli Arioli, i Bianchi, i Berera, i Calvetti, i Fognini e i Piatti. Al di sopra di tutti dominano gli Arioli: il "fuoco" più celebre, più noto e più significativo della Gens Plateaturrensis).
La decorazione degli interni è sobria e presenta affreschi nelle volte e nella cupola; più in particolare nella volta della navata gli affreschi che rappresentano la chiamata dell’Apostolo S. Giacomo e il suo martirio (Servalli - Cavalleri), nelle pareti della cupola la glorificazione di S. Giacomo e santi patroni, nei pennacchi gli Evangelisti (Morgari, 1915) e nel catino la glorificazione della croce (Cavalleri). Sui pilastri della tazza centrale troviamo due ottime tele attribuite con riserva a Francesco Zucco, raffiguranti S. Bonaventura cardinale e S. Lodovico di Tolosa; sotto di esse, due belle icone di recente fattura (1991), realizzate da Emiliano Tironi di Bergamo che raffigurano la Madre di Dio e la Trinità. Di riscontro S. Filippo Neri e S. Romualdo dipinti da G. Armani nel 1943. Di Beppe Facchinetti le tele di S. Anna e dell’Immacolata (1932).
La cappella di sinistra è dedicata alla Madonna del Rosario, con il bell’altare in marmo grigio intarsiato con fregi e uccelli. L’ancona pure in marmo è decorata da due colonne rosse a tutto tondo che reggono il fastigio. A destra la porta che immette al campanile e sopra di essa la nicchia di S. Giuseppe. La cappella di destra è dedicata a S. Giacomo ed è dotata di altare in legno scolpito, dipinto e dorato; ai lati del santo due statue in legno raffiguranti la fede e la speranza (Giosuè Marchesi, 1915). A destra si trova la bussola dell’ingresso laterale ed a sinistra la porta d’accesso alla Sacrestia.
Il presbiterio, così come lo vediamo adesso, è molto differente dalla sua forma originaria: in principio era sopraelevato di tre gradini in marmo rosso Verona e delimitato da una balaustra sagomata in marmo rosso di Camerata e nero (modificati nel 1984). Al centro domina tuttora l’altare maggiore in legno scolpito e completamente dorato, con in mezzo il tabernacolo sormontato di cupoletta ed alle estremità dei candelabri due angeli adoranti. Ai lati del presbiterio due banchi per paratie per arredi in noce decorati di belle lesene scolpite; sopra i banchi, le cantorie (quella di destra è dotata d’organo); dietro l’altare segue il coro, pure in noce, costituito da tredici stalli separati da lesene decorate da cariatidi d’angeli.
Sorprendente per qualità e copia la dotazione degli arredi sacri, con paramenti in ganzo, raso e seta del 1600-1700, un calice in rame del 1500, un ostensorio d’argento del 1700, tre lampade pure d’argento sbalzato e graffito, di cui la maggiore reca gli stemmi araldici delle famiglie Arioli, De Maisis e Simoni, e altri arredi in rame sbalzato e argentato.
Dietro l’altare maggiore spicca il polittico firmato Agostino Caversegno (Facheris da Presezzo - 1537), a nove scomparti che raffigurano a partire dall’alto: l’Eterno Padre al centro con ai lati l’Angelo Custode e S.Anna, madre della B.V.Maria sposa di Gioacchino; sotto Dio Padre la Vergine con Bambino e al lato sinistro S.Sebastiano, martire sotto Diocleziano, e S.Rocco di Montpellier, santo pellegrino protettore contro il flagello della peste. A destra S.Antonio Abate monaco illustre della Chiesa antica (250-356). In basso, nello scomparto di centro, S. Giacomo Apostolo Maggiore, primo evangelizzatore della Spagna, S.Pietro e S. Giovanni Battista. La nuova grande ancona in legno intagliato e dorato che lo incornicia fu eseguita da Giosuè Marchesi nel 1915 su disegno del Fornoni.
Ai suoi lati sono poste due tele raffiguranti: a sinistra S. Antonio da Padova al quale appare sulle nubi il Bambin Gesù fra gli angeli, dipinto nel 1677 (in basso si notano i ritratti dei donatori con lo stemma della famiglia Arioli); a destra S. Giovanni della Croce in estasi davanti alla croce sorretta da un angelo, di autore ignoto.
L’organo fu costruito da Adeodato Bossi nel 1836, restaurato da Francesco Roberti nel 1914 e rinnovato dai Piccinelli nel 1938.
La bella torre campanaria, tutta in blocchi di salso - serizzo rosso locale, fu innalzata dal 1709 al 1712 da tal Gervasoni di Bordogna. Il concerto a cinque campane, già fuso da Giovanni Crespi di Crema e consacrato nel 1846 da mons. Sanguettola vescovo di quella città, dopo la spoliazione dell’ultima guerra fu sostituito con l’attuale concerto in “Do maggiore” fuso da Angelo Ottolina nel 1947 ed inaugurato nel mese di settembre dello stesso anno.
Nel 1932 un rovinoso incendio distrusse quasi tutto l’archivio parrocchiale, ricco di rari documenti e di preziose testimonianze.
Esistono altre due chiesine nel centro abitato: S. Antonio, un delizioso oratorio del ‘700 annesso alla casa Arioli (restaurato di recente) e S. Lucia, altro oratorio situato più a monte, nella contrada dei De Maisis. Fu edificata nel tardo ‘600 per ragioni di boom demografico e per esigenze devozionali. Avere una chiesa vicina a casa piaceva a tutti, perché in essa si trovavano quel tanto d’accoglienza e di sicurezza che la miseria della vita non dava.
Annessa all’asilo infantile la chiesetta di Sant'Antonio è un fabbricato di gusto settecentesco con architettura dipinta a fresco. La facciata rivolta a nord è liscia con motivi decorativi dipinti nella parte alta a modo di timpano sorretto da due mensole con la scritta su cartiglio: ANNO DOMINI MDCCIIL.
La cappella è ad una sola navata, suddivisa in due campate da lesena. Il presbiterio è ampio in larghezza come la navata ed è a pianta ottagonale, coperto da volta a spicchi. Entro una cornice di stucco la bella tela centrale sagomata rappresentante la Vergine con Bambino, e S. Antonio e Tommaso da Villanova. Ai lati due nicchiette con statue dell’Immacolata e s. Teresina.
Verso est si accede alla sacrestia, ove troviamo due tele raffiguranti S.Paolo e S.Luigi.
Posta nella parte alta del paese, discosta dalla strada, la chiesetta di Santa Lucia è preceduta da un piccolo sacrato in cemento a gradoni e presenta la facciata verso nord semplice e liscia, coperta di tetto a gronda in legno a due falde. Notevole la porta in contorno di vivo con ai lati due finestre pure di vivo con ferriata e vetri, ma l’elemento più notevole della facciata è una rozza finestra sopra la porta in contorno di muratura con soli vetri che dà più luce alla piccola navata cui si perviene attraverso detto ingresso.
Il presbiterio ha pianta rettangolare coperto di volta a botte con due strombiature di raccordo alle due finestrelle che si trovano ai lati.
L’altare è in muratura. Le due alzate per candelabri sono in legno traforato e dipinto. L’apertura di porta verso ovest immette alla piccola sacrestia.
Appesi alla parete della navata vi sono due tele con Apostoli. Tra i dipinti ricordiamo la Madonna con Bambino e Santi Rocco, Sebastiano e Lucia di autore ignoto del ‘700, la Vergine Addolorata di ignoto su tela sagomata e S. Andrea e Giuda di ignoto del ‘700.
Per quanto riguarda il tempo libero le opportunità di svago sono rappresentate dai vari percorsi per il trekking che conducono alla scoperta degli alpeggi estivi, della fauna e della flora alpina; non è raro avvistare durante un'escursione in quota splendidi esemplari di camosci e caprioli, oppure ammirare il gallo forcello durante le sue tipiche parate nuziali. In estate Piazzatorre gode di clima fresco e salubre grazie alle immense abetaie che la circondano, qualità che la rendono altamente appetibile per soggiorni di cura climatica e rigenerativa. Gli amanti dello sport possono usufruire di strutture all'avanguardia, che da anni ospitano ritiri di numerose squadre e gruppi sportivi (tra cui l'Atalanta e i pattinatori olimpici Fusar Poli e Margaglio), quali il Centro sportivo polivalente con annessa palestra, il palazzo del ghiaccio di misure olimpioniche aperto tutto l'anno e vari percorsi per le mountain bike.
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