La riserva naturale Torbiere del Sebino è una delle riserve naturali regionali istituite dalla regione Lombardia.
Area naturale che ha avuto origine dall'attività di estrazione della torba, è ubicata a sud della sponda meridionale del lago d'Iseo a 185 m s.l.m e costituisce la zona umida più importante per estensione e significato ecologico della provincia di Brescia.
Appartiene istituzionalmente alla regione Lombardia che l'ha affidata in gestione ad un consorzio tra la provincia di Brescia, la comunità montana del Sebino e i comuni sul cui territorio essa si trova: il comune di Iseo, quello di Provaglio d'Iseo e quello di Corte Franca.
È stata dichiarata "zona umida di importanza internazionale" secondo la convenzione di Ramsar. Importante il monastero di San Pietro in Lamosa, di ordine cluniacense nel comune di Provaglio d'Iseo.
A seguito della comparsa del lago d'Iseo, avvenuta sul finire dell'ultima era geologica, il Quaternario, compresa fra settantamila e diecimila anni fa e del progressivo ritiro delle acque, nella zona a sud del Sebino rimase una depressione paludosa intermorenica caratterizzata da distese acquitrinose, che più avanti vennero chiamate Torbiere. Con il trascorrere dei millenni l'abbondante vegetazione cresciuta permise la crescita di uno spesso strato di torba, il quale andò via via sostituendosi all'acqua trasformando la zona in un'estensione di prati umidi.
Alla fine del Settecento, con la scoperta che la torba, una volta essiccata, aveva una resa calorica superiore alla legna, anche se inferiore al carbone, e con l’avvento delle prime attività industriali legate alla seta, iniziò l’estrazione massiccia della torba da utilizzarsi come combustibile nelle filande di Iseo e come combustibile per uso domestico. Fu però dalla metà dell'ottocento che iniziò lo sfruttamento del giacimento in modo massiccio quando, più precisamente nel 1862 , il consorzio torinese "Società Italiana Torbe" acquistò la maggior parte delle Torbiere.
La torba divenne col passare degli anni un materiale prezioso per l'economia della zona dato che era in grado di sostituire quasi completamente l'utilizzo del carbone, per il quale l'importazione era fra l'altro molto costosa. Prima dell'avvento del petrolio e dell'energia elettrica veniva infatti utilizzata per molteplici scopi: nelle filande, nelle fornaci, come uso domestico per riscaldare le abitazioni e in alcuni casi veniva utilizzata anche per alimentare i treni della Ferrovia Brescia-Iseo-Edolo fino alla prima guerra mondiale.
La riduzione dell’interesse verso questo combustibile e la completa trasformazione di flora e fauna della zona, portarono verso il 1950 all’abbandono delle attività estrattive della torba ed iniziarono invece le operazioni di scavo per l’argilla, per la fabbricazione di mattoni. Queste operazioni terminarono negli anni settanta, a seguito dell'introduzione dei primi vincoli di salvaguardia ambientali.
La formazione di torba è progredita senza ostacoli fino all’intervento dell’uomo. La parte centrale è costituita da una distesa pianeggiante ricoperta da erbe dure e taglienti, prevalentemente carici, che hanno uno scarsissimo valore nutritivo e quindi non possono essere utilizzate per il pascolo. Gli alberi ad alto fusto sono scarsi; alcune zone sono ancora allagate mentre in altre, dove il terreno è cedevole ed intriso di acqua, la palude tende a riprendere il sopravvento specie nei periodi piovosi.
Nelle zone periferiche si trova una cintura di canna palustre e, dove il suolo è maggiormente consolidato, ci sono dei piccoli appezzamenti di terra nei quali il costante sfalcio delle dure erbe palustri ha privilegiato le foraggere. Alcuni terreni di modesta estensione, sono stati messi a coltura in seguito ad intervento di drenaggio e canalizzazione delle acque. Questo paesaggio è destinato a cambiare quando si scopre che la torba, una volta essiccata, ha una resa calorica superiore alla legna, anche se inferiore al carbone, ed alcune famiglie cominciano ad utilizzarla per il riscaldamento domestico. Già alla fine del ‘700 si sperimenta l’uso della torba come combustibile nelle filande di Iseo. È dalla metà dell’800 però, che inizia lo sfruttamento del giacimento in modo massiccio, il lavoro sistematico di scavo iniziò nel 1862, quando il consorzio torinese “Società Italiana Torbe” , acquistò la maggior parte delle Torbiere superiori.
Subito dopo seguì lo sfruttamento dei proprietari del lato meridionale. Il lavoro era svolto manualmente, con il metodo dell’escavazione ad umido, infatti tolto il primo strato di erba e terra, con uno spessore variabile da pochi cm fino a circa mezzo metro, compariva subito l’acqua . Era quindi necessario procedere all’escavazione con uno strumento affilato, a forma di gabbia, lungo circa 90 cm. e montato su un manico di quattro-cinque metri, detto Luccio, simile a una vanga.
Lavorava in Torbiera prevalentemente manodopera locale che era organizzata in piccole squadre composte da quattro o cinque operai: uno scavatore ed un aiutante, che estraevano dei grossi parallelepipedi andando sempre più in profondità, fino a raggiungere il fondo del giacimento; da un caricatore-tagliatore, il quale aveva il compito di ridurre la torba in pezzi più piccoli, utilizzando un coltellaccio, facilitandone così il trasporto; da un paio di trasportatori (detti “cavalli”) che avevano il compito di spostare, con una carriola, il materiale estratto in zone apposite, dove veniva disposto in muretti per una iniziale essiccazione. In seguito i pani di torba venivano ricoverati in magazzini vicini alla zona dello scavo. Quando, tra gli anni ’30 e ’40, la Torbiera era ormai stata in larga parte trasformata in Lame allagate, venivano utilizzate due grosse barche per trasportare i pani dai muretti ai magazzini. Il vecchio edificio per lo stoccaggio della torba esiste ancora e si trova nel comune di Iseo, non lontano dal luogo dove sorgerà il nuovo centro visite. I braccianti lavoravano dall’alba al tramonto dato che venivano pagati “a cottimo”, cioè in base al quantitativo di torba estratta. Gli scavatori lavoravano a piedi nudi per avere una maggiore presa sul terreno sdrucciolevole e spingevano il luccio nel fango con la sola forza delle braccia e della schiena. Si trattava, come si può immaginare, di un lavoro stagionale molto duro e faticoso ma spesso era l’unica alternativa per sfuggire alla miseria.
I lavori di eliminazione del terriccio iniziavano in Febbraio e, da Marzo ad Agosto, si procedeva all’estrazione della torba che era di diversa qualità ed età e variava a seconda del sito dello scavo. Quella che giaceva sotto la cotica erbosa, ad una profondità di circa 40 cm. sotto terra, era considerata di buona qualità ma presentava un elevato residuo di cenere perchè intrisa di limo.
Nella zona sotto il Monastero lo strato torboso era più superficiale e, per effetto della compressone, si era trasformato in “lignite torbosa”, con una maggiore resa calorica. L’area delle Lamette non fu completamente sfruttata: la sua torba di più recente formazione era più leggera ed aveva una resa troppo scarsa; venne comunque estratta tra gli anni ’60 e ’70, per rifornire i florovivaisti.
La torba era un materiale prezioso per l’economia della zona dato che poteva sostituire l’utilizzo del carbone, la cui importazione era molto costosa. Prima dell’era del petrolio e dell’energia elettrica venne usata per molteplici scopi: nelle fornaci, nelle filande, negli opifici, per riscaldare le abitazioni e perfino per alimentare i treni della ferrovia Brescia-Iseo-Edolo fino alla prima guerra mondiale. Venne molto richiesta anche durante l’ultima guerra. Il suo utilizzo cessò completamente intorno agli anni ’50, periodo in cui il paesaggio della zona era completamente trasformato e con esso anche la flora e la fauna in esso esistente. All’interno della Riserva vi sono alcune vasche profonde fino a 10-15 mt. e dall’aspetto più limpido, in alcune delle quali è tuttora permesso pescare: da queste vasche è stata estratta, in epoca più recente, l’argilla per la fabbricazione dei mattoni.
Il quadro vegetazionale della Riserva attualmente è molto diversificato rispetto a quello che si presentava un secolo fa’, quando Lame e Lamette rappresentavano un ambiente uniforme formato da una prateria umida, le Lame, e da un folto canneto con specchi residui occupati dal lamineto e magnocariceto, le Lamette.
L’escavazione della torba ha radicalmente alterato il paesaggio vegetale originario, mettendo in crisi, in conseguenza della riduzione del loro habitat, numerose specie che lo caratterizzavano. Essa ha avuto tuttavia il merito di aver contribuito alla realizzazione di un insieme di piccoli ambienti differenti che si intersecano fra loro dando luogo ad un “mosaico ecologico” complesso e di grande valore biologico.
Il fattore che influisce maggiormente sugli ambienti presenti nella Riserva e di conseguenza sulle specie che ci vivono, è la profondità dell’acqua. In relazione, quindi, a questo fattore, nella Riserva si riscontrano varie tipologie vegetazionali. Si trovano, inoltre, a seconda del diverso tipo di substrato e del quantitativo di nutrienti disponibili situazioni particolari a volte piuttosto circoscritte.
Nelle acque abbastanza profonde, si rinviengono delle vegetazioni sommerse improntate da specie radicanti sul fondo quali: la vallisneria (Vallisneria spiralis), la peste d’acqua comune (Elodea canadensis), il ceratofillo comune (Ceratophyllum demersum), il millefoglio d’acqua comune e ascellare (Myriophyllum spicatum e M. verticillatum), la brasca increspata, l’erba tinca e la brasca comune (Potamogeton crispus, P. lucens e P.natans).
In acque di media profondità si rinviene una vegetazione, il lamineto, formata da specie flottanti e tappezzanti, come la lenticchia d’acqua (Lemna spp.), e/o da specie vistose a foglie galleggianti ma con radici ancorate al suolo, come la ninfea bianca (Nymphaea alba) e quella gialla (Nuphar lutea). In questo ambiente, in alcune zone, si rinviene una curiosità, l’erba vescica delle risaie (Utricularia australis), specie acquatica e carnivora dai fiori giallo oro e foglie provviste di vescicole di cui la pianta si serve per catturare microrganismi.
Nelle acque basse e presso le rive (se sono digradanti), la formazione tipica e più diffusa è quella dominata dalla cannuccia di palude (Phragmites australis), talvolta preceduta da cortine con tife (Typha latifolia e T. angustifolia) e giunchi di palude (Schoenoplectus lacustris).
Nelle aree periodicamente inondate, frequenti nelle Lamette, a ridosso del canneto, è presente una vegetazione a grandi carici (Carex spp.), molto caratteristica, a dominanza di Carex elata. Qui si rinvengono anche la salcerella (Lythrum salicaria), il caglio delle paludi (Galium palustre), il falasco (Cladium mariscus) e la felce di palude (Thelypteris palustris), quest’ultima indicatrice delle potenzialità della vegetazione verso il bosco igrofilo ad ontano nero (Alnus glutinosa).
Ai margini del canneto oltre ai carici si possono osservare anche le splendide fioriture del giaggiolo acquatico o iris giallo (Iris pseudacorus), del giunco fiorito (Butomus umbellatus), dell’erba scopina (Hottonia palustris) e del coltellaccio maggiore (Sparganium erectum).
Nella Riserva sopravvivono, inoltre, alcuni lembi di praterie igrofile a zigolo comune (Cyperus longus), che rappresentavano l’aspetto originario delle Lame; ed è anche presente, accompagnato ai cariceti, il prato inondato (molinieto), che spesso ospita specie come l’aglio palustre (Allium angulosum) e, in condizioni più asciutte e con marcato intervento antopico, il prato pingue (l’arrenatereto).
Sono, infine, diffuse accenni di formazioni di bosco igrofilo, con salici, pioppi e ontani.
Nel territorio non mancano le specie esotiche invasive degli argini e briglie, come l’indaco bastardo (Amorfa fruticosa) e la pioggia d’oro maggiore (Solidago gigantea), il cui controllo è necessario per la conservazione della fitodiversità della Riserva Naturale.
L’area è particolarmente importante per gli uccelli acquatici nidificanti, svernanti e migratori. Tra le specie protette e di interesse comunitario che nidificano nel sito citiamo: l’airone rosso (Ardea purpurea), il falco di palude (Circus aeruginosus), il tarabusino (Ixobrychus minutus), il nibbio bruno (Milvus migrans), la nitticora (Nycticorax nycticorax), il voltolino (Porzana porzana), la schiribilla (Ponzana parva), la salciaiola (Locustella luscinioides).
Tra le specie svernanti e migratrici sono di particolare interesse il tarabuso (Botaurus stellaris), l’albanella reale (Circus cyaneus) e la moretta tabaccata (Aythya nyroca). Le Torbiere del Sebino sono inoltre uno dei pochi siti riproduttivi in Lombardia del basettino (Panurus biarmicus).
Le specie, invece, che più comunemente si possono osservare nella Torbiera, sono: il cigno reale (Cygnus olor), il cormorano (Phalacrocorax carbo), la gallinella d’acqua (Gallinula chloropus), la folaga (Fulica atra), lo svasso maggiore (Podiceps cristatus), il germano reale (Anas platyrhynchos), l’airone cenerino (Ardea cinerea), il cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) e il pendolino (Remiz pendulinus).
La Riserva Naturale ospita 31 specie di uccelli (su un totale di 164 specie osservate) di interesse comunitario e quindi tutelati dalla Direttiva “Uccelli” 79/409/CEE, concernente la conservazione dell’avifauna selvatica; per questo è stata dichiarata “Zona di Protezione Speciale (ZPS)” dall’Unione Europea.
La presenza dei mammiferi nella Riserva è fortemente condizionata dalla ristrettezza dell’area protetta, dalla massiccia presenza di strade e centri abitati e, non meno importante, dalla mancanza di un vero e proprio bosco. Questi fattori condizionano pesantemente la possibilità di vita per tutti i mammiferi di medie e grandi dimensioni. Restano i cosiddetti “micromammiferi”, termine col quale si indica genericamente piccoli mammiferi appartenenti agli ordini degli Insettivori (es. toporagni), Roditori (topolino delle risaie) e Chirotteri (pipistrelli). La loro presenza è stata indagata dalle guardie ecologiche della Provincia di Brescia, con la supervisione degli esperti del Centro Studi Naturalistici Bresciani. La presenza di questi piccoli animali in Torbiera si è rivelata modesta tranne che per il surmolotto o ratto delle chiaviche (Rattus norvegicus). Questo dato è piuttosto preoccupante perchè la specie in questione è molto invadente ed aggressiva nei confronti di tutte le altre specie di micromammiferi.
Dalla ricerca è emerso che la maggior parte dei piccoli mammiferi è concentrata nelle piccolissime zone a bosco e nelle aree agricole nelle zone B e C della Riserva, oltre che nei fossi e nei campi della campagna limitrofa. In totale sono state trovate 3 specie di Insettivori: il toporagno comune (Sorex araneus), la crocidura minore (Crocidura suaveolens) e la crocidura ventre bianco (Crocidura leucodon); 5 Roditori: il topo selvatico (Apodemus sylvaticus), l’arvicola di Savi (Microtus savii), il moscardino (Moscardinus avellanarius), il topolino delle risaie (Micromys minutus) e l’arvicola terrestre (Arvicola terrestris). La presenza di queste ultime due specie è particolarmente significativa, dato che si tratta di animali strettamente legati alle zone umide. Il topolino delle risaie è una specie tipica del canneto, che poi si è adattata a vivere anche nelle colture cerealicole. È il più piccolo roditore europeo e misura circa 5 cm per il corpo, mentre altri 5 cm sono costituiti dalla coda, prensile, con la quale è in grado di arrampicarsi agilmente sui fili d’erba. Il Topolino delle risaie costruisce il suo nido proprio fra i ciuffi di erbe palustri, a poche decine di centimetri da terra, dove alleva da 4 a 6 piccoli per volta.
La popolazione ittica presente nella Riserva comprende sia specie autoctone di interesse comunitario (Direttiva “Habitat”) o protette dalle leggi regionali, come la tinca (Tinca tinca), il vairone (Telestes muticellus), il luccio (Esox cisalpinus), l’anguilla (Anguilla anguilla), il persico reale (Perca fluviatilis), il persico sole (Lepomis gibbosus), la scardola (Scardinius hesperidicus) e l’alborella (Alburnus arborella), sia specie introdotte in tempi più o meno recenti come la carpa (Cyprinus carpio), introdotta molti secoli fa dagli antichi Romani, il persico trota (Micropterus salmoides), introdotto più di 35 anni fa’, il pesce gatto (Ictalurus melas), introdotto più di 15 anni fa’, e il carassio (Carassius carassius).
Dopo l’introduzione del pesce gatto, pesce molto vorace e prolifico che una volta adulto ha ben pochi rivali, la struttura dell’ittiofauna si è profondamente modificata: ora essa è composta per metà da tale pesce, mentre le altre specie sono diminuite e presentano processi di senescenza.
Recentemente però è e stata rilevata la presenza in Torbiera di un altro superpredatore, ancora più invadente del pesce gatto: il siluro (Silurus glanis). Questa specie, introdotta nelle acque della Riserva in modo del tutto illegale, è originaria dei grandi fiumi dell’est europeo, può raggiungere dimensioni enormi ed è decisamente dannosa per l’equilibrio di qualsiasi ecosistema italiano, a maggior ragione se si tratta di un ambiente così ristretto come quello della Riserva, pertanto si spera di poterne limitare al massimo la diffusione.
Un altro dato emerso dalle ultime indagini è l’aumento del carassio, di cui si trovano anche esemplari di grosse dimensioni (fino a 2 Kg), e l’incremento del numero delle carpe legato al notevole aumento delle specie vegetali che vivono immerse nelle acque delle Lame.
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