giovedì 9 aprile 2015

GIOVANNI BEATRICE

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Giovanni Beatrice, soprannominato dai locali "Zanzanù" o "Zuan Zanone" (Giovanni Zanone), nacque a Gargnano in contrada San Francesco nel 1576, dall'oste Giovanni Maria Beatrice della famiglia dei "Zanon" e dalla prima delle sue tre mogli, Anastasia. La parentela dei Beatrice, altrimenti soprannominata "degli Zannoni", occupava di certo un ruolo non secondario nel contesto politico e sociale di Gargnano se, sul finire del Cinquecento, Giovan Maria, padre di Giovanni, veniva ripetutamente eletto membro del consiglio cittadino.

La sua registrazione di battesimo ci fornisce i primi dati biografici: “Alli 23 aprile 1576. Giovane figliolo de Giovane Maria fi. de Zuan Beatris et Anastasia sua consorte; fu batezato per me predetto Rocco et tenne procuratorio nomine Andrea de Biglieli di Summacampagna, diocesi veronese, in luogo di Veroneso de Veronesi de Massegno”.

Dalla moglie Caterina ebbe numerosi figli: Anastasia nata nel 1598, Margherita nel 1599, Pietro Antonio nel 1601, Anastasia nel 1602, Elisabetta Antonia nel 1604, Giovan Maria nel 1608.

Se si pensa che nel 1610 la moglie Caterina venne bandita mentre era incinta, si può ragionevolmente supporre che, nonostante i numerosi bandi che l’avrebbero colpito nel corso di questi anni, egli non perse mai il contatto con il territorio, godendo pure di una certa protezione da parte di alcuni settori della popolazione.

Agì con una banda di complici, detta "degli Zannoni", ed una fitta rete di connivenze anche alto locate, nella Riviera di Salò, territorio della Repubblica di Venezia, e nell'Alto Garda del principato vescovile di Trento uccidendo, rubando e taglieggiando chiunque. Divenne in breve con le sue imprese criminali il terrore della popolazione e la preoccupazione dei provveditori veneti.

Le prime notizie del Beatrice risalgono al 24 marzo 1602, quando a Bogliaco nel corso di una parata militare della "cernite", la milizia popolare veneta, della quale faceva parte, ferì a pugnalate, con la complicità dello zio Giovanni Francesco Beatrice detto "Lima", Francesco Sette di Maderno, figlio di Riccobono acerrimo rivale della propria famiglia e uccisero un amico del Sette che era intervenuto a difesa.

I due assassini fuggiaschi furono successivamente banditi da tutti i territori della Serenissima, ma nonostante tutto godevano di alte protezioni se nel 1605 gli "Zannoni" erano ospiti di Giovanni Gaudenzio Madruzzo, capitano della Rocca di Riva del Garda e imparentato con il principe vescovo di Trento, Carlo Gaudenzio Madruzzo.

Questo primo e convulso periodo venne segnato dall’uccisione del padre Giovan Maria, avvenuta nel 1605 ad opera di alcuni suoi nemici. Un periodo che avrebbe ricordato in una sua memoria stesa quasi sul finire della sua vita:

“Il padre di me Giovanni Zannoni della Riviera di Salò, qual faceva ostaria in quella terra, passo ordinario di Alemagna per quelli che discendono per il lago, e dalla quale traeva il vitto di tutta la sua povera famiglia, mentre egli viveva quieto, fondato una solenne pace con giuramento firmata, sopra il sacramento dell’altare, fu empiamente trucidato da alcun della Riviera. Per questa sì inhumana e barbara attione, dubitando io Giovanni sudetto di non esser sicuro dalla fellonia d’huomini sì crudeli, indotto dalla disperatione, risolsi di vendicare sì grave offesa e d’assicurare la propria vita, presa la via dell’armi, vendicai con morti d’inimici la perdita del padre et la privatione del modo di sostener la famiglia mia; per le quali operationi restai bandito e continuandosi da nostri inimici le persecutioni, anch’io rispondendo con nuove vendette, tirando uno dietro all’altro, hebbi gran numero di bandi”

Tutta la vicenda, che ebbe come protagonista deciso e spietato il giovane Zanzanù, è infatti comprensibile solo alla luce di una dura contrapposizione che si accese negli anni 1602-1605 tra le famiglie Beatrice di Gargnano e quella Sette di Monte Maderno. Una contrapposizione che, molto probabilmente, traeva origine da una rivalità, per motivi d’onore, tra i figli di Giovan Maria Beatrice e quelli di Riccobon Sette, un agiato possidente di Vigole a Monte Maderno. Il ferimento di Francesco Sette da parte di Giovanni Beatrice non si costituì comunque come l’elemento scatenante della lotta senza quartiere che negli anni successivi avrebbe visto le due famiglie fronteggiarsi l’una contro l’altra.

Tra la primavera e l’estate del 1603 sia Riccobon che Francesco Sette subivano i contraccolpi dell’azione repressiva condotta dal provveditore di Salò e dalle magistrature veneziane contro il rispettivo figlio e fratello Giacomo, colpito da diverse sentenze di bando per l’accusa di omicidio compiuto nei confronti di alcuni suoi avversari. Per la protezione ed aiuto accordati a Giacomo, Riccobon Sette finiva in carcere a Salò, mentre il fratello Francesco veniva a sua volta colpito da un bando che in teoria lo costringeva ad allontanarsi da tutto lo Stato.

La situazione precipitò agli inizi della primavera del 1603, quando Giacomo Sette venne ucciso il 14 aprile a Armo da un suo complice, Eliseo Baruffaldo di Val Vestino, che ne portò la testa a Salò per il rituale riconoscimento. Furono forse questi gli avvenimenti che spinsero Riccobon Sette a ristabilire la pace con i Beatrice di Gargnano. L’atto di pace venne stipulato nell’agosto 1603 nel monastero di San Francesco di Gargnano, ad opera di fra Tiziano Degli Antoni, comune amico di entrambe le parti. A rappresentare i Beatrice c’era lo stesso Giovan Maria, mentre per la fazione avversaria s’impegnava l’arciprete di Gargnano Bernardino Bardelli, cognato di Riccobon Sette. Riccobon Sette, difatti, era ancora in carcere, mentre il figlio Francesco era bandito. A far precipitare la situazione fu comunque l’uccisione di quest’ultimo ad opera di alcuni cacciatori di taglie.

Il 16 giugno 1604 Riccobon Sette, ancora in carcere a Salò, si rivolgeva ai rappresentanti della Magnifica Patria, lamentando la perdita dei due figli e la difficile situazione in cui si ritrovava. All’uscita dal carcere di Riccobon Sette (nel giugno del 1604) la contrapposizione tra le due famiglie si riaccese. L’omicido di Giovan Maria Beatrice ad opera di sicari inviati dall’arciprete di Gargnano spinse il conflitto ad esiti estremi.

Negli anni 1605-1607 il Beatrice compì infatti diversi colpi di mano contro i suoi avversari e nemici, riuscendo sempre a sfuggire ai numerosi agguati tesigli dai cacciatori di taglie che erano sulle sue tracce. Non fu così per due suoi compagni, Eliseo Baruffaldo e Giovan Pietro Sette detto Pellizzaro che nel novembre del 1606 vennero uccisi da alcuni cacciatori di taglie e da alcuni nemici del Beatrice che il Provveditore generale in Terraferma, in tutta segretezza, aveva inviato sulle loro tracce. I due vennero uccisi l’11 novembre 1606 in un agguato notturno teso sopra i monti di Gargnano e le loro teste mozzate vennero esposte nella piazza di Salò per il loro riconoscimento.

La spirale di violenza venutasi a creare di seguito alla faida tra le due famiglie contribuì a definire l’immagine di Zanzanù, soprattutto a partire dagli anni 1608-09, quando era ormai impossibilitato a difendersi ricorrendo alle vie ordinarie della giustizia. Gli vennero così attribuiti molti delitti di cui di certo non era responsabile (come le rapine e i furti). L’avrebbe ricordato lui stesso, nel 1616 in una sua supplica diretta al Consiglio dei dieci: "Confesso esser reo di molti bandi, tutti però per delitti privati et niuno per minima attinentia di cose publiche e di stato, né con conditione escluso dalla presente parte, né meno con carico di risarcire alcuno, ma siami ben anco lecito il dire che, essendo stati commessi molti eccessi da altri sotto il nome mio, di quelli essendo fuori di speranza di potermi liberare, già mai non ho curato di scolparmi."

Il 13 febbraio 1609 a Tremosine aggredì e ferì a scopo di rapina il medico Oliviero, uccise Gabriele Leonesio e rubò un archibugio in una casa. Fuggito a Limone sul Garda, nella notte fra il 13 e il 14 cadde in un agguato al porto di Riva del Garda, ove la banda capitanata dallo zio Giovanni Francesco "Lima" fu bersagliata dal bandito Alessandro Remer di Malcesine che intendeva impossessarsi delle taglie. Giovanni Beatrice si salvò gettandosi nel lago e fuggendo a nuoto, mentre il fratello Michele Zanon, Bernardo e Giovanni Battista Pace detto "Parolotto" di Salò furono uccisi.

Giovanni Francesco "Lima", benché ferito ad una coscia, riuscì a rifugiarsi a Limone sul Garda, ove raggiunto dal Remer il giorno dopo, fu ucciso a schioppettate e poi barbaramente decapitato. L’agguato del Remer poté essere condotto a buon successo grazie all’azione congiunta del Provveditore Benedetti e del mercante Alberghino Alberghini di Salò che, dietro promessa dell’impunità, riuscirono a convincere uno degli uomini del Beatrice a tradire i compagni e a rivelare la presenza della banda a Riva del Garda.


La Vallata del Droanello in Val Vestino vista dal ponte di Legnago. A destra corre il confine con il Comune di Gargnano e nel XVII secolo era confine di stato tra il Principato vescovile di Trento e la Repubblica di Venezia.Qui, nel novembre del 1606 furono uccisi da cacciatori di taglie Eliseo Baruffaldo di Val Vestino e Giovan Pietro Sette detto Pellizzaro, complici del Zanzanù.
L’azione più eclatante di Giovanni Beatrice avvenne il 29 maggio 1610, quando fu coinvolto, secondo le accuse della magistratura veneta, nell'uccisione nel duomo di Salò del magistrato bresciano Bernardino Ganassoni, podestà del luogo, che assisteva alla messa solenne in onore a sant'Ercolano, l'assassinio fu attuato materialmente da Antonio Bonfadino che sparò a bruciapelo, e nonostante la presenza dei soldati di scorta riuscì a fuggire. Nei giorni successivi Beatrice tentò di avvicinare i rappresentanti bresciani giunti a Salò nel corso dell’istruzione del processo. Ad essi il bandito riferiva che, in cambio della grazia, avrebbe rivelato i principali responsabili dell’uccisione del Ganassoni.

Il coinvolgimento di Giovanni Beatrice nell’omicidio del podestà Bernardino Ganassoni fu in realtà opera di una convergenza di interessi che vide come protagonisti il provveditore Giovan Battista Loredan, il mercante Alberghino Alberghini e, successivamente, lo stesso provveditore e inquisitore Oltre Mincio Leonardo Mocenigo. Il Loredan era infatti preoccupato che non emergessero i gravi retroscena che avevano condotto all’omicidio del podestà: il coinvolgimento del temuto bandito avrebbe infatti reso definitivamente irrecuperabile la posizione processuale di Martin Previdale e degli altri imputati, che in precedenza erano entrati in un aspro conflitto con lui e con lo stesso podestà. Il mercante Alberghino Alberghini, presente a Salò ai primi di giugno del 1610, insieme alla banda di cacciatori di taglie guidata da Alessandro Remer, perseguiva il medesimo obbiettivo, mirando a sua volta a coinvolgere i due fratelli Bonifacio ed Ambrogio Ceruti. Giunto in Riviera nei primi giorni di ottobre del 1610, Leonardo Mocenigo, avallò prontamente l’operato del Loredan condannando al patibolo uno dei falsi testimoni coinvolti nel processo.

Tra i suoi rifugi montani si ricorda la grotta detta "Cùel Zanzanù" in località Martelletto nei pressi di Droane in Val Vestino, luogo in cui uccisero e depredarono, secondo quanto scritto in una relazione del provveditore Lunardo Valier del 15 aprile 1606 ed inviata al Senato di Venezia. Il 29 settembre 1611 sequestrò con dieci complici il facoltoso Stefano Protasio di Toscolano nascondendolo in attesa del riscatto in una grotta dell'entroterra gardesano.

Nonostante la dura repressione messa in atto da Antonio Mocenigo, capitano di Brescia, contro il banditismo imperante nella Riviera di Salò mediante l'esecuzione di alcune condanne a morte, la confisca dei beni e la messa al bando dai territori della Serenissima dei favoreggiatori del Beatrice (tra questi figura anche la moglie del Zanzanù, Caterina in attesa di un figlio), costui continuava imperterrito nelle sue imprese criminali. Tra il 1602 e il 1609 la banda "Zanoni" derubò i "cavallari", i viandanti sulla pubblica strada, assaltò le barche sul lago di Garda cariche di merci, taglieggiò e tiranneggiò la popolazione rurale, svaligiò i "monti di pietà" di Manerba del Garda e Portese portando via 6.000 scudi e uccise, secondo le stime del bandito Alessandro Remer di Malcesine, circa 200 persone.

Braccato dal provveditore Giovanni Barbaro, Zanzanù riparò dapprima nel ducato di Parma, offrendosi come mercenario per Ranuccio I Farnese con il grado di luogotenente di fanteria, poi si spostò nel Cremonese fino al 1614.

Ritornato nella Riviera nel 1615 riprese le sue attività criminali. Il 24 giugno 1615 il provveditore e Capitano di Salò, Marco Barbarigo, informava il Senato che lo Zanzanù era riparato in Val Vestino, giurisdizione dei signori conti di Lodrone, e "habbia fatti prigioni due preti di quella valle et messagli grossa taglia conducendoli seco". Il 27 giugno, nel comune di Capovalle, la banda Beatrice si scontrò con un reparto di cappelletti in servizio di ordine pubblico, dopo un furioso conflitto a fuoco fu ferito gravemente il luogotenente del governatore Vucocrutt.

L’attività repressiva condotta contro il Beatrice in tale periodo è attestata dalle sentenze pronunciate dal Provveditore e Capitano della Riviera Marco Barbarigo tra il giugno e il luglio del 1615. L’azione del provveditore si rivolse soprattutto nei confronti dei numerosi sostenitori del bandito, che non disdegnavano di aiutarlo e di ospitarlo nonostante le severe pene da lui minacciate a più riprese. In particolare furono condannate due donne di Gargnano che, incuranti delle gravi conseguenze, furono bandite perché, come recitava la sentenza, furono “così ardite et temerarie di partirsi dalle proprie case et andar a rallegrarsi con detto Zanone della sua venuta dentro li confini, nel luoco di san Martin territorio di Gargnan, toccandoli la mano et facendogli diverse accoglienze”.

L'anno successivo, nel 1616, Beatrice propose ai comuni di Tremosine e Maderno in cambio del suo arruolamento al servizio della Repubblica di Venezia impegnata nella guerra di Gradisca contro l'Austria, il pagamento di una consistente somma di ducati.

Fu proprio la comunità di Gargnano a presentare nel giugno del 1616 una supplica del Beatrice perché fosse inoltrata ai Capi del Consiglio dei dieci. In essa il famoso bandito, cogliendo l’opportunità della guerra in corso con gli Arciducali, si offriva insieme ad alcuni suoi compagni “di venir a servire dove piacerà alla Serenità Vostra destinarmi e ne’ più importanti pericoli con sei huomini di stato alieno a proprie spese per sei mesi e con la persona mia poi per qualche altro tempo condecente". Anche se la proposta non venne accolta essa comunque rivela il desiderio del temuto bandito di ritornare nei luoghi in cui aveva vissuto serenamente la sua giovinezza.

Il 17 agosto 1617 in seguito ad un tentativo di sequestro del facoltoso Giovanni Cavalieri di Tignale, fu inseguito da giovani armati del paese fino alla Valle del Gianech e dopo una furioso scontro a fuoco che causò quattro morti fra i banditi e sei fra i Tignalesi, Beatrice cadde per ultimo. Il suo corpo fu portato a Salò il giorno 19. Appeso alla forca fu esposto al pubblico fino alla consumazione, mentre la testa fu consegnata a Brescia alle autorità.

Allo scontro partecipò gran parte della popolazione adulta dei sei villaggi che componevano la comunità di Tignale. Tra i cinque caduti nel corso della sanguinosa battaglia ci furono pure alcuni dei più anziani ed agiati uomini della comunità, che, evidentemente, erano maggiormente motivati a chiudere i conti con il famoso fuorilegge. Zanzanù fu ucciso quasi certamente da Antonio Bertolaso di Aer, il quale insieme al cugino Girolamo Gasperini di Maderno e al gruppo di soldati che li accompagnavano, raggiunse i banditi che stavano tentando la loro ultima via di fuga. Zanzanù e i suoi due compagni, sopravvissuti agli scontri precedenti, di fronte al sopraggiungere degli uomini di Gargnano, erano infatti stati costretti ad arretrare e a trovare un ultimo ed improvvisato rifugio nella valletta delle Monible.

In realtà il proveditore di Salò non si accontentò di istruire la pratica consueta per la concessione delle taglie e dei benefici. Insospettito dal numero dei morti tra i sei villaggi che componevano la comunità di Tignale ordinò un’inchiesta per verificare se ci fossero state delle complicità o degli aiuti da parte di alcuni settori della popolazione locale nei confronti del bandito ucciso.

Anche se tale sospetto non fu accertato, l’inchiesta rivela la connaturata diffidenza delle autorità nei confronti degli evidenti appoggi ed aiuti che una parte non esigua della gente più umile della Riviera del Garda da tempo offriva al Beatrice.

La controversa e leggendaria figura di Giovanni Beatrice è ricordata ancor oggi dalla popolazione della zona dell'Alto Garda e di Val Vestino, qui, difatti, i figli nati fuori dal matrimonio sono ancora detti “fiöi del Zanzanù”, figli di Zanzanù.

Se alcuni non hanno esitazione ad additarlo come il terribile bandito autore di numerosissimi omicidi e di efferate azioni, altri ritengono che la sua figura godette di una certa simpatia e di consenso tra la gente. E, nonostante la presenza dell’ex voto che sembra dimostrare il contrario, questi ultimi ritengono “che a dar la caccia al brigante furono sì dei popolani, ma istigati o prezzolati proprio da quei signorotti (nobili, possidenti, ricchi mercanti) contro i quali Zanzanù si accaniva”.

Anche a Salò la sua figura venne ricordata per esprimere il valore del provveditore Giustiniano Badoer. In una delle due iscrizioni che ancora alla fine del Seicento erano affisse sotto la loggia pubblica si menzionava tale “prodigiosa e immanitatis belluam” che aveva imperversato per ben tre lustri nella Riviera del Garda.


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