Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche e soprattutto dell'India segnalata già nel 1490 nella regione del delta del Gange da Vasco de Gama. Nel corso dell'Ottocento, a causa di movimenti militari e commerciali dell'Inghilterra nel continente indiano, e delle macchine a vapore che resero sempre più numerosi i viaggi, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il globo. L'Ottocento, infatti, rappresentò per l'Europa il secolo dello sviluppo industriale, che causò anche l'aumento demografico e l'accrescimento delle maggiori città che videro moltiplicare al loro interno rifiuti e germi, condizioni favorevoli per lo sviluppo di tale epidemia. Il colera dilagò in diverse città europee generando sette pandemie nel corso del XIX secolo. Sei di queste giunsero anche in Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. Definito anche “morbo asiatico” a motivo della sua provenienza, il colera era causato da un bacillo (Vibrio cholerae), che si introduceva nell'organismo moltiplicandosi nell'apparato digerente. La rivoluzione batteriologica di fine 800 porterà alla scoperta degli agenti eziologici di quasi tutte le malattie epidemiche ma alla prima comparsa del colera in Europa erano del tutto sconosciute le cause di questa malattia. Le manifestazioni coleriche iniziavano con forte diarrea accompagnata da dolori addominali, le scariche si presentavano poltacee e miste a bile, per poi diventare liquide e incolori. Contemporaneamente si presentava anche il vomito e cessava l’emissione d’urina. Il corpo si disidratava e per il malato cominciava il tormento della sete. Il volto si presentava pallido e molto sudato, gli occhi incavati nelle orbite. Quando il malato provava un'intensa sensazione di freddo, nota come fase algida, la morte sopraggiungeva nel giro di poche ore.
Nel 1817 il colera iniziò a propagarsi dal Bengala, dove scorre il Gange, verso l'Europa, la penisola scandinava, l'Africa e le due Americhe senza distinzioni tra Paesi modernizzati o in via di modernizzazione, mondi agricoli e preindustriali. Il colera è definito malattia della “rivoluzione commerciale”, non a caso la diffusione iniziò proprio a seguito della prima rivoluzione industriale che aveva favorito lo sviluppo della navigazione a vapore, una rete ferroviaria sempre più fitta, un maggior numero di mezzi di trasporto sia marittimi che terrestri favorendo la circolazione di uomini, di idee, di mentalità ma anche di malattie. A seguito della rivoluzione commerciale e industriale non solo le persone e le merci riuscirono a diminuire la durata dei viaggi ma anche i microorganismi viaggiavano a velocità superiore rispetto a qualsiasi epoca del passato. Le cause del contagio vanno attribuite anche alle vicende coloniali dell'India: col Charter Act del 1813 la Gran Bretagna aveva inaugurato i provvedimenti che aprivano la strada alla politica di esautoramento della Compagnia delle Indie, dando il via a un impegno diretto nell'espansione coloniale in India. Gli effetti furono la privatizzazione di terre, lo sconvolgimento delle forme produttive tradizionali, il tracollo dell'economia di villaggio che andavano a sommarsi agli effetti della carestia del 1816-17, che aveva interessato anche l'Europa. Tutti questi cambiamenti contribuirono al peggioramento delle condizioni igieniche e, probabilmente, alla diminuzione delle difese immunitarie delle popolazioni locali che fino a quel momento avevano convissuto con il vibrione colerico e con altri agenti eziologici ma che da quel momento furono infettate. Gli storici della medicina, infatti, concepiscono le grandi epidemie come fenomeni che vengono a innestarsi sullo stato morboso di una popolazione.
Negli anni Trenta dell'Ottocento, quando il colera iniziò ad aggirarsi per l'Europa, le autorità sanitarie e i governi degli Stati italiani cominciarono a tutelarsi. Gli Stati impegnati nei traffici commerciali con altre nazioni, come ad esempio il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie, istituirono cordoni sanitari marittimi e definirono i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette e sospette. Altri governi, come quello toscano, inviarono alcuni medici nei Paesi europei colpiti dall'epidemia per studiare il decorso della malattia e le misure da essi adottate. I provvedimenti presi erano i buona sostanza quelli già sperimentati ai tempi della peste. Quando l'epidemia scoppiò in Francia, il ducato di Parma ordinò di disinfettare tutte le lettere e i pacchi che provenivano da essa. Carlo Alberto ordinò alle truppe di stendere un cordone sanitario terrestre da San Remo a Ventimiglia e da Cuneo a Nizza. Furono adottate leggi che punivano con la morte tutti coloro che violavano i cordoni marittimi e terrestri e che aggiravano le disposizioni sanitarie. Nel luglio del 1835 quando il colera era ormai al confine quasi tutti gli Stati, soprattutto quelli al nord, riorganizzarono il sistema di lazzaretti consapevoli che le misure adottate non sarebbero riuscite a risparmiare l'Italia dal colera. Solo Genova, Livorno e Venezia esitarono a prendere provvedimenti poiché il blocco dei commerci marittimi avrebbe gravato sulla loro economia. Appoggiarono perciò teorie anticontagioniste che accusavano l'aria malsana, la sporcizia e la cattiva alimentazione piuttosto che il contatto.
La frammentazione politico-istituzionale italiana complicò la formazione dei cordoni sanitari, questi, inoltre, misero in difficoltà le esangui casse di qualche Stato e le piccole economie familiari. I cordoni portarono in rovina tutte quelle famiglie che si reggevano su lavori agricoli stagionali che comportavano lunghi spostamenti, o sui commerci di derrate trasportate dalle aree di produzione ai mercati di consumo e alle fiere. Per superare i cordoni marittimi le navi dovevano arrestarsi a distanza di sicurezza dal litorale, il responsabile dell'imbarcazione con una scialuppa si avvicinava alla costa per esibire la patente sanitaria al ministro della sanità e per giurare solennemente che nessuno a bordo fosse infetto. La patente veniva prelevata con una pinza e se ne verificava il contenuto: se il bastimento era ritenuto infetto o sospetto non veniva ammesso l'approdo pena la morte. Le lettere e i documenti venivano affumicate con un “suffumigio”, un fumo contenente zolfo, e poi immersi nell'aceto.
Il 27 luglio del 1835 il cordone fu rotto da qualche contrabbandiere e l'epidemia cominciò a diffondersi da Nizza verso Torino e Cuneo. Il 2 agosto il colera scoppiò a Genova. Da Genova si diffuse lungo il litorale tirrenico toccando Livorno. Alcuni livornesi scapparono a Pisa che fu contagiata e contemporaneamente furono infettate anche Firenze e Lucca. A settembre una barca di un mercante genovese percorse il Po per raggiungere Adria e Chioggia. Il colera invase così anche nel Regno Lombardo-Veneto che non aveva steso alcun cordone, nonostante le proteste popolari. A ottobre arrivò a Venezia, a novembre a Trieste. Da Trieste si estese in Dalmazia e da Venezia verso Padova, Verona e Vicenza. A novembre arrivò a Bergamo e da qui nella primavera del 1836 si diffuse a Como, a Brescia, a Cremona, a Pavia e a Milano. Tra giugno e luglio il contagio raggiunse anche il territorio dell'odierno Trentino-Alto Adige. A luglio raggiunse Parma e di nuovo il litorale ligure compresa Genova. Quell'estate furono invase anche Livorno, le Marche pontificie, Modena, Ancona, Trani e Bari. Il colera arrivò a Napoli e subito lo stato pontificio e la Sicilia si cordonarono. A fine anno sembrava essere archiviato in molte zone di Italia e perciò molti Stati eliminaro i cordoni. Nella primavera del 1837 il contagio scoppiò di nuovo a Napoli, in Calabria, a Malta e in Sicilia. Da Cefalù e Trapani si spinse verso l'interno toccando Catania, Palermo e Siracusa. Anche il litorale ligure, Marsiglia, il ducato di Benevento e lo Stato Pontificio furono nuovamente infettate. I governi furono costretti a emanare disposizioni sanitarie e a imporre nuove misure quarantenarie. Durante l'estate il contagio arrivò a Roma. La prima ondata epidemica di colera terminò verso la fine del 1837 con gli ultimi casi a Catania, Palermo e in qualche paese calabrese. Aveva risparmiato solo l'isola d'Elba e la Sardegna mentre le città colpite riuscirono ad abbattere l'epidemia in 70-100 giorni.
Le esplosioni epidemiche di colera furono molto violente a causa della mancata igiene privata e pubblica, delle debolezze dell'organizzazione sanitaria, della povertà, e dell'arretratezza medica. Nemmeno i cordoni sanitari e le quarantene istituite già per fronteggiare le pestilenze, o le magistrature di sanità che avevano il compito di assicurare la prevenzione sanitaria e l'igiene pubblica riuscirono a contrastarle. Le zone più colpite dalle epidemie subirono un forte calo dei traffici portuali e dei movimenti commerciali a causa delle quarantene a cui erano sottoposti i vagoni e le navi mercantili che trasportavano merci provenienti dalle città infette, il conseguente rincaro delle poche merci a disposizione aggravò ancora di più la situazione. Gli interventi medici erano impotenti se non addirittura controproducenti, si passava dalla prescrizione dell'oppio e dell'ossido di zinco al sottoporre i malati al salasso con le sanguisughe. Questa grande sfiducia nei medici e nella medicina ufficiale non fece altro che alimentare le sommosse popolari, le superstizioni, la paura di essere avvelenati, la caccia agli untori e il prevalere delle forme di religiosità popolare con processioni e voti. Il colera era una malattia che colpiva indistintamente tutte le classi sociali ma quelle più agiate godevano di uno stato di salute e di nutrimento migliore rispetto a quelle meno abbienti che oltre ad essere meno curate e nutrite vivevano anche in quartieri angusti e malsani.
L'inchiesta parlamentare fatta in Italia sulle condizioni igienico-sanitarie dei comuni del Regno tra 1885-86 rivelò che su un totale di 8.258 comuni più di 6.400 erano privi di rete fognaria, solo 3.335 erano forniti di latrine e in 797 gli escrementi venivano depositati negli spazi pubblici, nelle strade e nei cortili. Molti comuni non disponevano di acqua potabile e in molti casi questa giungeva agli abitanti attraverso condotti a cielo aperto. Negli anni precedenti all'inchiesta la situazione era sicuramente peggiore.
La situazione italiana rappresenta solo un esempio per capire come si viveva in tutta Europa. Non solo l'acqua di superficie era inquinata ma anche quella di falda era soggetta a infiltrazioni, i condotti non venivano costruiti con materiali impermeabili, si crepavano e venivano contaminati da rifiuti di ogni genere. Molte grandi città possedevano una rete fognaria a canalizzazione mista, cioè destinata alla raccolta sia di acque bianche che di acque nere.
Legato al problema dell'acqua c'era quello dello smaltimento dei rifiuti. Alcune grandi città davano in appalto il servizio di nettezza urbana ma nei paesi e nelle periferie si agglomerava tutto per strada. Le città ottocentesche si presentavano invase da rifiuti di ogni genere: dagli scarti di lavorazioni della concia delle pelli a quelli della macellazione, da quelli dei mercati giornalieri al letame degli animali. Le case dei poveri erano sovraffollate, prive di latrine e lavatoi e al loro interno venivano allevati anche gli animali. Vi era, inoltre, la consuetudine di seppellire i morti nelle chiese e nei conventi che erano abitualmente frequentati dai fedeli.
Circa dopo 10 anni dalla prima ondata epidemica una nuova incursione interessò l'Europa. I primi Paesi a essere colpiti dal colera furono la Russia e la Polonia, poi si diffuse lungo tutto il Danubio. I vettori dell'epidemia furono i soldati degli eserciti austriaci e russi impegnati nei moti del 1848 che vivevano ammassati in alloggiamenti scadenti e in condizioni igienico-sanitarie precarie. All'inizio del 1848 il contagio arrivò in tutto l'Impero austriaco compresa Vienna. Nell'autunno di quell'anno una nave infetta partì da Amburgo per giungere in Inghilterra, con essa il contagio si diffuse in buona parte del Regno. Nel marzo del 1849 il contagio arrivò a Parigi e poi nel resto della Francia. Nell'estate di quell'anno arrivò in Italia. Tutte le nazioni colpite riuscirono ad aggirare l'epidemia nel giro di pochi mesi.
Indubbiamente il contagio seguiva lo stesso itinerario delle truppe, fattore che avvalorò le tesi contagioniste. In Italia le prime ad essere colpite furono la Lombardia austriaca, il Veneto, l'Istria e qualche località dell'Emilia ovvero quei territori dove si stava svolgendo la prima guerra di indipendenza. Presto furono invase Treviso, Padova, Vicenza, Verona, Udine, Rovigo, Venezia e Trieste.
Le misure adottate in Europa, come in Italia, furono le stesse messe in pratica durante la prima incursione di colera. Lo stesso sistema di cordoni e quarantene, le stesse disposizioni medico-sanitarie con la riorganizzazione di lazzaretti e la rimozione di rifiuti dalle strade. Il clima insurrezionale, lo sviluppo dell'economia, l'intensificarsi dei traffici influenzati dalla rivoluzione dei trasporti resero, però, molto difficile l'imposizione delle misure adottate.
A vent'anni dalla prima epidemia di colera le condizioni igienico-sanitarie delle città non erano migliorate, alcune città, soprattutto quelle portuali e industriali, erano ancora più a rischio. I traffici commerciali erano in netto aumento e il progresso industriale autorizzò la crescita demografica delle grandi città. Negli anni Quaranta in Inghilterra sir Edwin Chadwick aveva capitanato un movimento sanitario che portò alla compilazione del “Report on the Sanitary Conditions of the Labouring Population” il quale avviò un vasto programma di igiene pubblica. Gli Stati europei furono convocati alla prima conferenza sanitaria internazionale che si tenne a Parigi nel 1851. Erano presenti l'Inghilterra, la Francia, l'Austria, il Portogallo, la Spagna, la Russia, la Grecia, la Turchia, il Regno di Sardegna, il Regno delle Due Sicilie, il granducato di Toscana e lo Stato pontificio. Furono esposti i provvedimenti a cui dovevano attenersi tutti gli Stati: l'approvvigionamento idrico e lo smaltimento delle acque nere, un sistema di fognature in ceramica che doveva trasportare i rifiuti di scarico lontano dalle abitazioni e la realizzazione di pompe che portassero l'acqua nelle case. Per i riformatori francesi e inglesi questi provvedimenti erano necessari per evitare le quarantene che violavano la libertà dei commerci.
Nel 1854 una nave salpata dall'India condusse il colera in Inghilterra, stava scoppiando la terza epidemia. Da Londra il contagio arrivò a Parigi e a Marsiglia. La leggerezza delle autorità sanitarie locali permise lo sbarco anche di navi che avevano a bordo uomini infetti. L'epidemia arrivò al sud della Francia e perciò in Italia. Le autorità genovesi non si preoccuparono di avvisare tempestivamente la presenza del colera agli altri Stati italiani e il contagio si estese in tutta la costa ligure e tirrenica fino a Napoli e Palermo. Anche la Sardegna fu invasa: Sassari, sede di importanti uffici amministrativi e giudiziari e dotata di un'antica università vide morire 5000 dei suoi 23.000 abitanti. Nel 1855 l'epidemia arrivò in tutto il Paese, dal Piemonte sabaudo al granducato di Toscana, al ducato di Modena, allo Stato pontificio, alla Lombardia austriaca, all'isola d'Elba e all'isola del Giglio. La strada seguita dal morbo fu la stessa delle altre pandemie. A dicembre del 1854 l'epidemia sembrava finire quando un'alluvione fece straripare l'Arno contribuendo ad una nuova diffusione del colera. Firenze, e buona parte dell'Italia centro-settentrionale furono di nuovo colpite. Nel 1856 il terzo focolaio epidemico si spense completamente dopo essersi diffuso in 4.468 comuni italiani contro i 2.998 della prima epidemia e i 364 della seconda. I morti furono 284.514, 146.383 nel primo contagio e 13.359 nel secondo.
Annunciato dai consolati dei vari Paesi il colera nel 1865 era ad Alessandria d'Egitto probabilmente portato dai pellegrini provenienti dalla Mecca. Attraversò la Persia e i porti del Mar Caspio, passò per il canale di Suez ed arrivò nel Mediterraneo. Nell'estate del 1865 la Francia, l'Italia del Sud, Genova, Marsiglia e Tolone furono invase dalla quarta epidemia di colera. In questo biennio l'epidemia rilevò delle caratteristiche importanti, si era diffusa in molte meno zone rispetto le epidemie precedenti, soprattutto in Italia fu circoscritta alle zone portuali e nell'Italia meridionale. Alcune grandi città, infatti, si erano impegnate a mettere in atto le clausole fissate nella conferenza sanitaria dimostrando un risanamento delle città in fatto di igiene pubblica e privata che fece diminuire i casi affetti. Ciò che rimase immutata era la mancanza di presidi terapeutici, ciò è confermato dal fatto che su i casi affetti più del 60 per cento diventavano letali. Le cure erano sempre le stesse, anche se la pratica del salasso fu bandita restava l'uso dell'oppio, dei fiori di zinco, di astringenti, di clisteri, di bagni caldi, l'uso di bibite alcoliche come rhum e vin brulè soprattutto nello stadio algido.
Le scoperte in ambito scientifico avevano fornito una maggiore consapevolezza del rapporto causa-effetto tra condizioni abitative e malattia ma i provvedimenti presi dai territori europei erano ancora pochi per debellare del tutto il contagio. Soprattutto l'Italia post-unitaria impegnata a risolvere problemi come la realizzazione della rete ferroviaria, la lotta all'analfabetismo e il riordino amministrativo sottovalutò la prevenzione sanitaria che avrebbe potuto bandire il colera dalla Nazione. Le due epidemie di fine secolo furono circoscritte a poche zone d'Europa e contarono molti meno morti. Importata nel 1884 da alcuni operai a Marsiglia e Tolone arrivò presto in Italia dove le zone più colpite furono la Sicilia e Napoli. Quest'ultima aveva registrato un'impennata demografica che aveva aggravato le condizioni di vita del popolo. Il censimento fatto in quel decennio contò 454.084 abitanti mentre i vani registrati erano 242.285 dislocati nei quartieri storici di piazza Mercato, Pendino, Vicario e Stella. Il 91 per cento della popolazione si addensava quindi nel centro di Napoli. Le condizioni igieniche dei cosiddetti “bassi” erano molto precarie. Durante l'epidemia del 1884-87 le provincie italiane che furono colpite erano 44, solo in tre di queste si trattò di un'epidemia: Cuneo con 1.655 morti, Genova con 1.438 morti e Napoli che invece ne contò 7.994.
Il 15 gennaio del 1885 fu emanata la cosiddetta “legge per Napoli” che segnava un punto di svolta nella politica governativa dell'Italia unita. Essa infatti con la destinazione di cospicui finanziamenti imponeva norme igienico-sanitari pubbliche e private che le municipalità dovevano far osservare a tutti i cittadini. Prioritario era un sistema fognario, l'edificazione di nuovi quartieri, la costruzione di nuove strade e piazze e risanare i luridi “bassi” e i tuguri. Il caso di Napoli fu un riferimento per molti altri centri che, all'indomani della pubblicazione della legge, ebbero la possibilità di avvalersi degli stessi benefici. Le città che ne usufruirono furono Genova, La Spezia, Torino, Caltanissetta, Trapani, Milano, Catania e un'altra sessantina di comuni.
Mentre venivano attuate le norme varate dalla “legge per il risanamento della città di Napoli” un ultimo focolaio epidemico si accese in Italia. Nel 1893 pochissimi centri urbani furono colpiti. Genova, per esempio, registrò 414 morti. A Roma, a Torino e a Milano l'epidemia comparve ma non si diffuse mentre Napoli e Palermo videro un notevole calo di decessi rispetto alle precedenti epidemie.
Il colera è una malattia infettiva, del tratto intestinale, caratterizzata dalla presenza di diarrea profusa, spesso complicata con acidosi, ipokaliemia e vomito. È causata da un batterio Gram-negativo a forma di virgola, il Vibrio cholerae, identificato per la prima volta nel 1854 dall'anatomista italiano Filippo Pacini e studiato dettagliatamente nel 1884 dal medico tedesco Robert Koch. Il nome deriva dal greco choléra (cholé= bile) e indicava la malattia che scaricava con violenza gli umori del corpo e lo stato d'animo conseguente: la collera.
Sebbene il colera sia endemico in molte regioni del mondo, molti aspetti dell'epidemiologia di questa malattia rimangono sconosciuti. Nonostante i numerosi studi su Vibrio cholerae, le modalità di diffusione, le caratteristiche dei cicli stagionali e le dinamiche di passaggio fasi endemiche, episodi epidemici e pandemie, non sono stati ancora del tutto chiariti.
Le aree dove si manifestano casi clinici di colera a ricorrenza stagionale, senza un'apparente "importazione", vengono definite aree endemiche. Sebbene la diffusione del colera possa raggiungere gran parte delle zone temperate, non in tutte si osserva la presenza di V. cholerae nei periodi interepidemici. Esistono due tipi di focolai endemici: aree in cui i casi di colera si manifestano indipendentemente dalla presenza della pandemia (principalmente in India e Bangladesh) e zone dove i casi clinici sono registrati solo durante una pandemia (Africa, Europa e America). Le caratteristiche ambientali comuni ai due tipi di focolai forniscono la chiave per capire come il Vibrio cholerae si mantenga in queste aree durante i periodi interepidemici.
Da una prima analisi epidemiologica, si osserva che le aree vicino a fiumi o alla costa sono strettamente associate con le aree epidemiche, e che frequentemente i primi casi di colera di un'epidemia si verificano in comunità di pescatori. In Bangladesh le epidemie di colera si manifestano due volte l'anno, con un andamento stagionale regolare. Durante tali epidemie, Vibrio cholerae O1 viene isolato sia da pazienti sia dall'acqua, ma scompare nelle stagioni interepidemiche. Ultimi studi hanno confermato l'ipotesi che vedeva il patogeno trasportato, in stato Vbnc, da un invertebrato marino. Le migrazioni di questo animale lo portano infatti nei pressi delle coste asiatiche proprio in concomitanza con le epidemie. Il batterio quindi si risveglia dallo stato letargico per motivi ancora poco noti e diviene patogeno per l'uomo in quanto si nutre di questi invertebrati trasportatori. Diversamente, in Perù i casi di colera hanno un andamento annuale che segue l'aumento delle temperature in primavera.
Nel 2001 presso l'OMS sono stati notificati 184.311 casi di colera con 2.728 decessi. L'Africa ha registrato il 94% dei casi con 173.359 notifiche. In Asia sono stati riportati 10.340 casi e nelle Americhe se ne sono avuti 535. Molto famosa la epidemia di colera a Napoli nel 1973. Secondo alcuni dati e ricerche si è scoperto che con molta probabilità il vibrione proveniva dai mitili(molluschi,cozze),che spesso erano cucinati crudi o poco cotti. L'ospedale Cotugno di Napoli,fu uno dei principali centri sanitari per la lotta alla malattia.
Si conoscono circa 200 sierotipi di vibrione del colera ma di essi solamente il sierotipo O1 e O139 (quest'ultimo scoperto nel 1992 per un'epidemia avvenuta nel Bangladesh) sono responsabili di epidemie. Altri sierotipi di Vibrio cholerae sono stati comunque associati a casi sporadici di colera.
Il sierotipo O1 si differenzia ulteriormente in Classico ed El Tor: quest'ultimo, con il suo ceppo denominato N16961, è responsabile della VII pandemia, iniziata nel 1961 e ancora oggi in corso.
Il batterio si trasmette per via oro-fecale, tramite l'ingestione di acqua o cibi contaminati da esso. I molluschi, a causa della loro azione filtrante, sono in grado di accumulare al loro interno un buon numero di vibrioni, costituendo, così, un buon mezzo d'infezione qualora siano consumati crudi o poco cotti.
Generalmente la dose infettante del batterio è piuttosto elevata (circa un milione di vibrioni) ma può essere più bassa in persone con ipocloridria (per malattie gastriche, uso di antiacidi, pasti con azione tamponante o malnutrizione). La malattia si verifica nel 20% delle persone infette (il 20% di costoro presenta anche vomito).
I vibrioni del colera rimangono all'interno del lume intestinale aderendovi per il tramite di proteine flagellari (necessarie anche per la motilità del batterio) e secernendo una specifica tossina, codificata da un fago, CTXPhi, responsabile della comparsa di diarrea acquosa. Per il distacco della parete dell'intestino viene utilizzata un'emoagglutinina metalloproteasica.
La tossina prodotta dal batterio, detta tossina colerica (CT), è formata da due subunità dette A (divisa in due componenti A1 e A2 legate da un ponte disolfuro) e B. La subunità B è formata da cinque polipeptidi uguali, i quali si legano ai carboidrati del ganglioside GM1, situato sulla superficie delle cellule dell'epitelio. Una volta che la tossina è penetrata nella cellula, il ponte disolfuro della subunità A viene scisso, liberando, così, le due frazioni A1 e A2. La subunità A1 va a legarsi a una proteina G, detta fattore di ADP-ribosilazione, che ne amplifica l'attività catalitica ADP-ribosilante.
Questo complesso, insieme con una molecola di GTP, catalizza l'ADP-ribosilazione di un'altra proteina G (di 49 kd) che, in questo stato, si lega a una molecola di GTP ma non è in grado di staccarsene. Ciò ha come risultato, un continuo stato di attivazione della proteina G che va a stimolare l'attività di una adenilato ciclasi. L'elevata presenza di cAMP risultante attiva una PKA che, attivando il canale per il Cloro CFTR, aumenta l'efflusso verso il lume di cloro e di conseguenza sodio, H2CO3 e acqua.
In alcuni esperimenti in vitro si è visto che cellule di persone eterozigoti per la fibrosi cistica sono più resistenti all'azione della tossina colerica, per cui alcuni hanno avanzato l'ipotesi che tale mutazione potesse comportare un vantaggio verso alcune forme di malattie infettive.
Le manifestazioni del colera sono variabili da uno stato asintomatico a uno di diarrea profusa, in assenza di dolore addominale e tenesmo rettale, che compare dopo 24-48 ore di incubazione. In questo caso si può arrivare fino a una perdita di un litro di feci in un'ora con conseguente stato di disidratazione che può culminare in uno stato di shock ipovolemico. Le scariche sono brevi (50-150 ml eliminati a scarica) e frequenti (dalle 50 alle 100 scariche quotidiane). La persona presenta sete, debolezza, raramente ottundimento dello stato sensorio senza delirio, ipotensione, tachicardia e tachipnea. La cute è viscida e fredda (a causa dell'acidosi e dell'ipokaliemia) e le mucose sono asciutte. La perdita di potassio può determinare lo sviluppo di crampi muscolari. Deplezioni di liquidi superiori al 10% del peso dell'individuo possono portare alla oligo-anuria (vi può essere la possibilità di necrosi tubulare acuta con conseguente insufficienza renale), polso filiforme, ipotensione marcata, tachicardia con polso filiforme, infossamento oculare, raggrinzimento della pelle ("facies da mummia") e sonnolenza fino al coma.
La perdita di bicarbonato con le feci genera uno stato di acidosi metabolica cui si aggiungono alterazioni degli elettroliti e aumento dell'ematocrito (dovuto all'aumento della concentrazione ematica causato dalla perdita di acqua).
In persone aventi diarrea profusa e provenienti da aree di endemia, è bene considerare la diagnosi di colera.
Il batterio si rinviene nelle feci e, dopo arricchimento in brodo peptonato, la sua identificazione può avvenire con microscopio ottico su campo oscuro o con un test di immobilizzazione con l'uso di un antisiero specifico. La conferma definitiva avviene con coltura su di un terreno adatto (agar tiosolfato-citrato-bile-saccarosio) incubato per 18 ore circa a 37 °C.
Di per sé, il colera è una malattia autolimitantesi. Il problema è il grave stato di disidratazione che essa può portare e che determina la morte nel 30-50% delle persone che non vengono trattate.
Il punto chiave del trattamento del colera è la reidratazione e la correzione degli squilibri elettrolitici. Generalmente si comincia con l'uso di una soluzione di ringer lattato, necessario nei casi di disidratazione grave, per via endovenosa cui si deve aggiungere potassio (somministrabile anche oralmente). Successivamente si può passare all'uso di soluzioni reidratanti per via orale.
L'OMS consiglia l'utilizzo di soluzioni reidratanti orali che si sono dimostrate sicure nel trattamento della malattia, tranne nel caso di disidratazione seria per cui si comincia, come detto precedentemente con una soluzione endovenosa. La soluzione da utilizzare, però, deve presentare un elevato quantitativo di sodio (90 mmol/l), viste le alte perdite di questo elettrolita durante la malattia. Generalmente le soluzioni reidratanti standard non presentano livelli di sodio così elevati, per cui diventa importante avere diagnosi rapida di colera. L'OMS consiglia una soluzione orale così composta:
Sodio: 90 mmol/l
Potassio: 20 mmol/l
Cloro: 80 mmol/l
Citrato: 10 mmol/l
Glucosio: 110 mmol/l
Il problema è solo nei paesi più poveri, dove non viene fatta diagnosi e non ci sono terapie. Attualmente è allo studio l'uso di soluzioni reidratanti a base di cereali che, avendo una osmolarità minore del glucosio, potrebbero ridurre la quota di feci emesse (ad esempio aggiungere a un litro d'acqua 30 g di polvere di riso).
L'uso degli antibiotici ha dimostrato di ridurre la durata della malattia e la necessità di reidratazione. Gli antibiotici più usati sono la tetraciclina o la doxiciclina anche in una somministrazione singola. Tali antibiotici, però, sono controindicati nei bambini in quanto possono formare depositi nei denti e nelle ossa; per questo si preferisce usare l'eritromicina.
Nelle aree dove il Vibrio cholerae mostra resistenza a questi antibiotici si possono usare il cotrimossazolo, il cloramfenicolo o l'eritromicina e come ultima scelta fluorochinoloni come ciprofloxacina o norfloxacina, ai quali tuttavia spesso il vibrione è resistente.
I casi non trattati portano alla morte nel 30~60% dei casi, ma se la terapia è tempestiva e comprensiva di una grandissima quantità di acqua ed elettroliti, uniti ad antibiotici specifici, la letalità non supera l'1%, con un leggero aumento nei bambini.
Il cardine della prevenzione del colera risiede nella potabilizzazione delle acque e nel miglioramento dei servizi igienici e sanitari presso le zone di endemia.
All'inizio esistevano dei vaccini usati per via parenterale ma si è visto che conferivano una protezione transitoria e talvolta scarsa e davano effetti collaterali tipo febbre, dolore nella sede dell'iniezione e malessere generale. Attualmente esistono dei vaccini orali che si sono dimostrati efficaci al punto che organizzazioni come Medici Senza Frontiere e alcune nazioni stanno portando avanti programmi di vaccinazione di massa presso le aree più colpite.
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