Onorevoli colleghi! Chiamato dal Vostro suffragio a questo altissimo Ufficio, io, nella commozione in me destata da così solenne dimostrazione di benevolenza e di fiducia, sento innanzi tutto il bisogno di porgervi l'omaggio sincero del mio più fervido ringraziamento, assicurandovi essere la gratitudine il sentimento che vibra più gagliardo nell'animo mio.
Se volessi pensare alle difficoltà dell'Ufficio medesimo, il quale esige le doti più diverse e che quasi si escludono fra loro; se dovessi, perciò, consultare soltanto le povere mie forze, dovrei pregarvi di volermi dispensare da un onere sì grave. Ma, d'altra parte, sarebbe sconoscenza il venir meno al vostro appello indulgente e generoso; ed io, ammaestrato dall'esempio dei miei insigni predecessori che mi studierò di imitare, obbedisco ai voleri della Camera, accettando l'arduo incarico di dirigere le sue deliberazioni. Io conosco l'estensione de' miei doveri, e porrò tutti i miei sforzi ad adempierli. Primissimo fra essi reputo quello della più assoluta imparzialità.
Ebbi altra volta l'onore di questo seggio, ed ho sicura coscienza che l'imparzialità, la neutralità fra i partiti non ho dimenticato giammai. Mi considerai e mi considero Presidente non della maggioranza ma della Camera, custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà. Di questa libertà della tribuna io sento in cuore tutto il rispetto, sento l'imperiosa necessità; ché le istituzioni libere vivono di luce, di pubblicità, di discussione, di contraddizione. Io con tutte le mie forze invoco che la nostra tribuna sia alta, libera, non infrenata che dal rispetto ch'essa deve a sé stessa, dal disdoro che è serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale di chi presiede all'Assemblea.
Affinché adunque mi sia reso meno difficile il mandato conferitomi, io ho bisogno di tutta la vostra cooperazione. Nulla mi gioverebbero la vostra benevolenza, la vostra amicizia di cui sono felice e orgoglioso; nulla il voto lusinghiero con cui mi avete qui chiamato, se non avessi l'aiuto vostro costante, quotidiano, efficace: nulla io potrei colle meschine mie forze senza una continua vostra adesione la quale sorregga, avvalori il potere di cui la Camera volle affidarmi l'esercizio.
Ed ora dedichiamoci ai lavori parlamentari con quella operosità cui, inaugurando la ventesima Legislatura, ha fatto appello l'amatissimo Re, di cui la prima parola ieri rivoltaci fu parola di affetto per le libere istituzioni: magnanimo affetto mercè cui la Monarchia nazionale, rivendicatrice dell'indipendenza e presidio dell'unità della patria, può a buon diritto gloriarsi che le gioie della Reggia siano le gioie della Nazione.
In pari tempo il discorso inaugurale, accennando ai disegni di legge a favore delle classi lavoratrici, ha richiamato il vostro pensiero verso l'opera di riparazione attesa dai miseri, la quale deve compiere nella Legislazione un grande dovere di giustizia e di solidarietà. L'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico; in altri termini, una società giusta, ed un Governo libero, ecco una degna mèta segnata dalla parola reale alle Vostre deliberazioni.
Questo Governo libero mediante gli atti Vostri soltanto può dare benefici frutti; ché negli ordini costituzionali non havvi vita che dove il Parlamento la porta; e questa vita di continua discussione e sindacato, come rialza e fortifica lo spirito pubblico, così nelle sue forme tutelari è suprema guarentigia di provvide e mature risoluzioni.
Con simili guarentigie si riesce a creare quello spirito di legalità il quale è del pari necessario nei privati cittadini e nei pubblici poteri; mentre il rigido rispetto, la religiosa osservanza della legge deve tutto dominare presso un popolo geloso de' suoi diritti e della sua dignità.
I destini della patria, carissimi colleghi, sono affidati ai vostri onori ed ai vostri intelletti. Non havvi nazione che non abbia provato crudeli sventure; non havvi nazione la cui grandezza non abbia immensamente costato di pianto, di sangue, di rude lavoro, e non abbia avuto mestieri del corso di secoli per trionfare. E tale trionfo dev'essere pure serbato all'Italia: dove il popolo è invidiato modello di temperanza e di abnegazione: e dove è modello di valore quell'esercito che anche nelle condizioni più infelici scrisse recenti pagine d'eroismo di cui potrebbe aver vanto la storia militare di qualsiasi popolo guerriero. Ora se noi, attinta l'ispirazione ai solenni verdetti de' comizi elettorali; se noi in questo recinto, a nessun'altra gara intenti che a quella della devozione al pubblico bene, coll'unione delle forze, coll'armonia dei poteri costituzionali, faremo opera di saggezza, di patriottico ardore, di disinteresse o sacrificio individuale, daremo a noi stessi il prezioso sentimento di un alto dovere nobilmente adempiuto, e alla patria dilettissima la promessa di universale onoranza e rispetto, di liete e splendide fortune.
Invito gli onorevoli segretari e questori ad occupare i loro posti al banco della Presidenza.
(I segretari ed i questori occupano i loro seggi)
Seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897
Nacque il 29 ottobre 1826 , primo di quindici figli, da Giovanni Zanardelli e Margherita Caminada. Frequentò il Liceo classico Arnaldo di Brescia e si laureò in giurisprudenza all'Università di Pavia, come alunno del Collegio Ghislieri.
Combattente nei Corpi Volontari Lombardi durante la guerra del 1848 prese parte alla campagna del Trentino come milite nella colonna cremonese comandata da Gaetano Tibaldi, distinguendosi nella battaglia di Sclemo presso Stenico. Tornò a Brescia dopo la sconfitta di Novara e, per un certo periodo, si mantenne insegnando diritto. Collaborò al giornale Il Crepuscolo, con saggi di economia politica.
Nel 1849 partecipò all'insurrezione delle dieci giornate di Brescia contro il governo austriaco.
Il 29 febbraio del 1860 fu affiliato alla Massoneria nella prestigiosa Loggia romana "Propaganda Massonica" del Grande Oriente d'Italia. Eletto deputato nello stesso anno, ricevette vari incarichi amministrativi, ma si dedicò attivamente alla carriera politica solo a partire dal marzo 1876 quando la Sinistra, di cui era stato esponente di spicco, andò al potere.
Ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876, si dimise per alcune divergenze sulla gestione delle convenzioni ferroviarie. Ministro dell'Interno nel governo Cairoli del 1878, si occupò del progetto di riforma del diritto di voto.
Nominato ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881, riuscì a portare a termine la stesura del nuovo Codice di Commercio e a far approvare la normativa sul lavoro femminile e minorile. Congedato da Depretis nel 1883, rimase all'opposizione e diede vita alla "pentarchia"; nel 1887 entrò nuovamente nel governo dello stesso Depretis, sempre come ministro della Giustizia, rimanendo allo stesso dicastero anche nel successivo governo Crispi, fino al 6 febbraio 1891.
Durante questo periodo avviò una riforma del sistema giudiziario e fece approvare il primo codice penale dell'Italia unita, considerato tra i più liberali e progrediti tra quelli vigenti all'epoca: il codice Zanardelli venne presentato alla Camera nel novembre 1887, pubblicato il 22 novembre 1888, promulgato il 30 giugno 1889 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1890. Tra l'altro, per sua iniziativa personale, si giunse all'abolizione della pena di morte.
Nella Relazione al Re Zanardelli si diceva convinto che «le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d'interpreti, ciò che dal codice è vietato». Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse mai dimenticare i diritti dell'uomo e del cittadino e che non dovesse guardare il delinquente come un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.
Alla caduta del governo Giolitti nel 1893 Zanardelli tentò strenuamente, ma senza successo, di formare un nuovo Gabinetto. Eletto presidente della Camera nel 1892 e nel 1897, ricoprì quest'incarico fino al dicembre 1897, quando accettò il portafoglio della Giustizia nel governo Rudinì, ma fu presto costretto a dimettersi a causa dei dissensi con il collega di governo Visconti Venosta sulle misure da prendere per impedire il ripetersi delle agitazioni popolari del maggio 1898.
Nella seduta inaugurale della XX legislatura, il 6 aprile 1897, l'Assemblea elegge per la seconda volta alla Presidenza della Camera Giuseppe Zanardelli, con 303 voti su 431 votanti. Nel discorso di insediamento, che pronuncia nella seduta del 7 aprile, esordisce ringraziando nuovamente coloro che hanno voluto dimostrargli tanta fiducia. Ribadisce quindi di essere il Presidente non della maggioranza bensì dell'Assemblea, «custode inflessibile del suo regolamento a favore di tutti e contro tutti, in ciò che mira a mantenere l'ordine e la calma delle discussioni, come in ciò che mira a proteggerne la libertà». Per essere all'altezza del suo compito deve però necessariamente poter contare sulla cooperazione dei colleghi. Solo un'Assemblea operosa, prosegue, potrà dar seguito al desiderio espresso dal Re nel discorso della Corona di offrire sollievo alle classi lavoratrici attraverso leggi giuste. Nelle indicazioni del sovrano l'obiettivo delle deliberazioni deve essere «l'equità nell'ordine sociale, la libertà nell'ordine politico», vale a dire una società giusta ed un Governo libero. Ne consegue che ai cuori e agli intelletti di tutti i deputati sono affidati i veri destini della patria.
Dopo essere tornato alla presidenza della Camera, abbandonò nuovamente il posto per poter prendere parte attiva alla campagna ostruzionistica del 1899-1900 contro il progetto di legge sulla pubblica sicurezza. Questa presa di posizione gli valse l'appoggio dell'estrema Sinistra nella formazione (dopo la caduta del governo Saracco) di un nuovo governo, che rimase in carica 991 giorni, dal 15 febbraio 1901 al 3 novembre 1903.
Nella seduta del 17 novembre 1898 l'Assemblea elegge per la terza ed ultima volta Giuseppe Zanardelli alla Presidenza della Camera, con 190 voti su 339 votanti. Nel discorso per il suo insediamento alla Presidenza si coglie l'eco delle vicende politiche dei mesi precedenti. Zanardelli ricorda, infatti, di aver lottato contro le proposte di modifica del Regolamento e riafferma di voler osservare con scrupolo la più assoluta imparzialità. Ripete poi ciò che aveva affermato al momento della seconda elezione, e cioè che la tribuna parlamentare può essere frenata soltanto «dal rispetto che essa deve a sé stessa, dal disdoro serbato a chi ne abusa, dall'autorità morale della Presidenza». Proprio per questo, ora che la minaccia delle sanzioni disciplinari è finalmente caduta, la libertà di parola, la più ampia che lo Statuto consenta, deve tuttavia riconoscere nella legge fondamentale il suo limite. Si augura infine che la Camera scriva una pagina durevole nella storia legislativa della Nazione, promuovendo una politica riformatrice, assecondando cioè nella libertà e nel rispetto della tranquillità pubblica «quelle correnti popolari in cui si manifestano tante legittime aspirazioni».
Le sue precarie condizioni di salute non gli consentirono tuttavia di portare a termine grandi opere. La proposta di legge sul divorzio, sebbene già approvata dalla Camera, dovette essere ritirata per la forte opposizione popolare.
Negli ultimi anni di carriera Zanardelli focalizzò l'attenzione sulla questione del Mezzogiorno: nel settembre 1902 intraprese un viaggio attraverso la Basilicata - una delle regioni allora più povere d'Italia - per constatare personalmente i problemi legati al Sud della penisola. Il suo resoconto di viaggio sarà fondamentale per l'approvazione della legge speciale per la Basilicata (il 23 febbraio 1904), uno dei primi esempi di intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno.
Si congedò definitivamente dalla scena politica, a causa di una malattia terminale, dando le dimissioni da Primo ministro il 3 novembre 1903. Morì poco più di un mese dopo.
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