lunedì 6 aprile 2015

I RETI



I Reti erano una antica popolazione stanziata nelle Alpi centro-orientali, inserita nel contesto culturale di Fritzens-Sanzeno, che aveva come epicentro il Trentino e il Tirolo, sviluppandosi fino all'Engadina, nel Canton Grigioni in Svizzera, e alla Germania meridionale.

Secondo lo storico romano Plinio il vecchio essi erano divisi in vari gruppi, riconducibili però a una unica entità etnico-culturale di origine etrusca; questa molteplicità di comunità pone serie difficoltà agli studiosi nel delineare con precisione l'area da loro occupata.

A seguito della conquista dell'arco alpino effettuata sotto l'imperatore Augusto tra il 15 e il 16 a.C. i popoli retici furono sottomessi a Roma, e successivamente inseriti nella provincia di Rezia.

Cinquecento anni avanti Cristo gli Etruschi si spinsero anche a nord, verso le Alpi e oltre, ove fondarono numerose colonie. Quelle terre presero il nome di Raetia, i suoi abitanti furono i Reti, e nelle Alpi Retiche si trovano Valtellina ed Engadina. Plinio nella sua opera Naturarum Historia (III,133) afferma che i Reti, discendenti degli Etruschi, sotto il loro capo Reto, siano stati cacciati dai Galli.

Il popolo che abitò nel Trentino Alto Adige nella età del ferro, identificato archeologicamente con la cultura di Fritzens-Sanzeno, è il primo di cui si hanno non solo documenti materiali, ma anche fonti scritte. Infatti storici, geografi e poeti romani e greci parlano di questa popolazione definendola "Reti". Anche se questo termine non è esatto dal punto di vista archeologico, perché, come vedremo, indica in realtà un insieme di popoli diversi, lo useremo anche noi per brevità.
Nel I secolo a.C. le informazioni si intrecciano definendo un quadro in parte contraddittorio.
Sul monumento alla vittoria di La Turbie presso Monaco, sul quale sono menzionate le popolazioni sottomesse con la forza dai Romani tra il 25 e il 14/13 a.C. non è nominato il popolo dei Reti. Le popolazioni alpine nominate come vinte sono numerose e tra queste compaiono anche i Venostes e gli Isarci. Da informazioni di altri autori antichi e da iscrizioni, si possono citare altre popolazioni che ci riguardano, ma non è possibile indicare precisamente il luogo in cui abitavano. Tra questi vi sono anche alcuni popoli che potrebbero aver vissuto nella nostra regione come gli Anauni (Val di Non), i Tulliasses e i Sinduni (forse Val di Sole o Val d'Adige tra Merano e Salorno), i Tridentini (forse Val d'Adige tra Merano, Salorno e Rovereto).
Caio Svetonio Tranquillo, nella sua opera "Le vite dei dodici Cesari", descrivendo la vita di Cesare Augusto nel volume I al capitolo 21, dice:
«Domuit autem partim ductu partim auspiciis suis Cantabriam Aquitaniam, Pannoniam, Dalmatiam cum Illyrico omni, item Raetiam et Vindelicos ac Salassos, gentes Inalpinas».
Sottomise o egli stesso o per mezzo di luogotenenti, la Cantabria, l'Aquitania, la Pannonia, la Dalmazia con tutto l'Illirico, inoltre la Rezia, i Vindelici e i Salassi, genti alpine.
Le prime notizie di questo popolo si riferiscono al suo vino. Infatti la più antica notizia indiretta sui Reti si trova in M. Porcius Cato che loda il vino retico coltivato, come si deduce da Plinio il Vecchio, nei dintorni di Verona. Anche Caio Svetonio, descrivendo le abitudini alimentari di Augusto ( op.cit. I,77) dice che:
«Et maxime delectatus est Raetico, neque temere interdiu bibit».
E particolarmente gli piaceva il vino retico, ma raramente ne beveva durante il giorno.
Abbiamo notizie su città che in qualche modo ebbero a che fare con i Reti: Como venne distrutta dai Reti , fra i quali Strabone nomina anche i Lepontii. Plinio il Vecchio menziona, oltre ad altre, anche Trento come città retica (Raetica oppida). Dalle antiche fonti storiche si deduce dunque che i Reti abitavano il territorio alpino tra il Lago Maggiore e il Piave, tra il Lago di Costanza e la Bassa Valle dell'Inn. Plinio afferma che «Raeti in multas civitates divisi» (I Reti erano divisi in molte popolazioni).
Non si può però capire da queste fonti se i Reti fossero una confederazione di popoli di natura culturale e/o politica oppure una comunità con lingua, cultura e/o religione affini. Per rispondere dunque al quesito chi fossero i Reti si possono avere indicazioni solo dagli studi linguistici e dall'archeologia.
Riguardo all'origine dei Reti, nell'antica storiografia si trova più volte l'indicazione che essi siano di stirpe etrusca e che guidati, secondo la leggenda, dal loro capo Reto, si siano spinti nelle Alpi. Tito Livio, nella sua "Storia di Roma", V, cap.33, afferma infatti:
«Tuscorum ante Romanum imperium late terra marique opes patuere... Et in utrumque mare vergentes incoluere, prius cis Appenninum, postea trans Appenninum coloniis missis, quae trans Padum omnia loca - excepto Venetorum angulo - usque ad Alpes tenuere. Alpinis quoque ea gentibus haud dubie origo est, maxime Raetiis, quos loca ipsa efferarunt ne quid ex antiquo praeter sonum linguae nec eum incorruptum retinerent».
«Il potere degli Etruschi, prima della supremazia dei Romani, si stese largamente sulla terra e sul mare….Essi posero le loro sedi sulle regioni che si affacciano sui due mari (Tirreno ed Adriatico.), prima al di qua dell’Appennino, poi, mandando al di là di esso delle colonie, occuparono tutto il territorio al di là del Po fino alle Alpi, eccetto la zona dei Veneti. Senza dubbio questa è l’origine anche delle genti alpine, specialmente dei Reti, resi così selvaggi dalla natura stessa dei luoghi che della loro origine conservarono solamente il suono della lingua e nemmeno questo incorrotto».
Più cauto, a questo proposito, è Plinio che nella sua opera Naturarum Historia (III,133) afferma: «Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto» (Si ritiene che i Reti, discendenti degli Etrusch, sotto il loro capo Reto, siano stati cacciati dai Galli)
In realtà non vi sono indicazioni e prove per stabilire precisamente la loro origine. Tra le ipotesi più accettate c'è quella che li indica come un insieme di popoli autoctoni, in qualche modo simili, soprattutto per cultura e in parte per lingua (scritta). Interessante comunque è riflettere come i Romani li abbiano indicati tutti con un nome generico e li abbiano descritti secondo il loro punto di vista. Già Livio infatti li presenta come gente selvaggia e come abbiamo visto Strabone li indica come dediti al brigantaggio. Anche in Orazio troviamo delle indicazioni sui popoli delle Alpi.
«.... qaulemve laetis caprea pascuis
intenta......
...... leonem,
dente novo peritura, vidit;
videre Raetis bella sub alpibus
Drusum gerentem Vindelici......
sed diu
lateque victrices catervae,
consiliis iuvenis revictae,
sensere quid mens ....
nutrita ..... sub penetralibus
posse....»(Odi, IV,IV: per le vittorie di Druso)
«...come una cerbiatta intenta a dolci pascoli, vede un leone e già si sente preda delle sue giovani zanne, così i Vindelici videro Druso far guerra sulle Rezie Alpi...; ma quell'orda, vincitrice sempre e dovunque, sconfitta dall'intelligenza di un giovane, conobbe quanto valesse una mente educata in una reggia». Come si vede, in quest'ode Orazio esalta la forza e l'intelligenza di Druso che ha saputo sottomettere i Vindelici, popolo delle Rezie, indicato come orda temibile. In un'altra ode ( IV,XIV: pace romana) il poeta, esaltando la pace di Augusto e le imprese di Druso, dice:
«Augustus.........
.... maxime principum
quem, legis expertes latinae,
Vindelici didicere nuper
quid Marte posses? Milite nam tuo
Drusus Genaunos, implacidus genus,
Breunosque veloces et arces
Alpibus impositas tremendis
deiecit acer, plus vice simplici;
maior Neronum mox grave proelium
commisit immanesque Raetos
auspiciis pepulit secundis,
... quantis fatigaret ruinis
..... impiger hostium
vexare turmas».
«Augusto, il più grande dei principi, che or ora i Vindelici, ignari della legge latina, hanno conosciuto come persona forte in guerra? Con le tue milizie, Druso abbattè con aspra rappresaglia i Genauni, popolo irrequieto, i Breuni veloci e le rocche poste sulle fosche Alpi; il maggiore dei Neroni fece una fierissima battaglia e, con auspici favorevoli, volse in fuga i Reti immani ... (li) incalzava con strage immensa, .... alacre a respingere le torme nemiche».
Anche in questo brano, viene esaltata la forza e la civiltà di Roma, fondata sulle leggi, nei confronti di un popolo selvaggio e certamente non incline a sottomettersi alla volontà dell'imperatore. Leggendo questi versi, però, bisogna tener sempre presente la loro funzione che è quella di esaltare la grandezza di Augusto e del suo figliastro Druso che hanno saputo allargare i confini dell'impero e portare ovunque la civiltà di Roma. Per fare questo Orazio mette in massimo risalto le opere dei Romani, sia descrivendo come feroci gli avversari, e quindi sottometterli è stata una grande impresa, sia sottolineando la loro inciviltà, per esaltare così ancor di più l'importanza dell'opera civilizzatrice dell'impero.
Ma i Reti erano davvero così come venivano descritti? Solo l'archeologia può dare una risposta, perché noi possediamo documenti scritti solo dalla parte dei Romani, avversari di questi popoli, ma non ne abbiamo da parte dei Reti che non ci hanno lasciato nessuna descrizione scritta di sé stessi, ma solo brevi iscrizioni per lo più a carattere sacro.
Ma da che cosa deriva il nome di Reti? Anche se dare una risposta certa è difficile si può supporre che esso derivi forse da quello della dea Reitia, raffigurata tra animali con un velo in testa e una chiave in mano. Nella zona di Este esisteva un santuario dedicato a questa dea, in cui arrivavano popolazioni dal Nord e quindi gli antichi, soprattutto Romani, indicarono tutti gli abitanti a Nord che abitavano sulle Alpi, col nome generico di Reti.

Secondo lo storico latino Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.) i Reti discenderebbero dagli etruschi, ritirati sull'arco alpino a seguito delle invasioni celtiche nel nord Italia.

Lo storico greco Strabone (58 a.C.-25 d.C. circa) descrive i Reti associandoli ai Vindelici, collocandoli tra Elvezi e Boi sopra "Verona e Como"; precisa inoltre che alla "stirpe retica" appartengono sia i Leponzi che i Camuni:

« Ἑξῆς δὲ τὰ πρὸς ἕω μέρη τῶν ὀρῶν καὶ τὰ ἐπιστρέφοντα πρὸς νότον Ῥαιτοὶ καὶ Ὀυινδολικοὶ κατέχουσι, συνάπτοντες Ἐλουηττίοις καὶ Βοίοις· ἐπίκεινται γὰρ τοῖς ἐκείνων πεδίοις. Οἱ μὲν οὖν Ῥαιτοὶ μέχρι τῆς Ἰταλίας καθήκουσι τῆς ὑπὲρ Οὐήρωνος καὶ Κώμου. Καὶ ὅ γε Ῥαιτικὸς οἶνος, τῶν ἐν τοῖς Ἰταλικοῖς ἐπαινουμένων οὐκ ἀπολείπεσθαι δοκῶν, ἐν ταῖς τούτων ὑπωρείαις γίνεται· διατείνουσι δὲ καὶ μέχρι τῶν χωρίων, δι' ὧν ὁ Ῥῆνος φέρεται· τούτου δ' εἰσὶ τοῦ φύλου καὶ Ληπόντιοι καὶ Καμοῦνοι. Οἱ δὲ Ὀυινδολικοὶ καὶ Νωρικοὶ τὴν ἐκτὸς παρώρειαν κατέχουσι τὸ πλέον· μετὰ Βρεύνων καὶ Γεναύνων, ἤδη τούτων Ἰλλυριῶν. Ἅπαντες δ' οὗτοι καὶ τῆς Ἰταλίας τὰ γειτονεύοντα μέρη κατέτρεχον ἀεὶ καὶ τῆς Ἐλουηττίων καὶ Σηκοανῶν καὶ Βοίων καὶ Γερμανῶν. Ἰταμώτατοι δὲ τῶν μὲν Ὀυινδολικῶν ἐξητάζοντο Λικάττιοι καὶ Κλαυτηνάτιοι καὶ Ὀυέννωνες, τῶν δὲ Ῥαιτῶν Ῥουκάντιοι καὶ Κωτουάντιοι. »

« Vi sono poi, di seguito, le parti dei monti rivolte verso oriente e quelle che declinano a sud: le occupano i Reti e i Vindelici, confinanti con gli Elvezi e i Boi: infatti si affacciano sulle loro pianure. Dunque i Reti si estendono sulla parte dell'Italia che sta sopra Verona e Como; e il vino retico, che ha fama di non essere inferiore a quelli rinomati nelle terre italiche, nasce sulle falde dei loro monti. Il loro territorio si estende fino alle terre attraverso le quali scorre il Reno; a questa stirpe appartengono anche i Leponzi e i Camunni. I Vindelici ed i Norici invece occupano la maggior parte dei territori esterni alla regione montuosa, insieme ai Breuni e ai Genauni; essi appartengono però agli Illiri. Tutti questi effettuavano usualmente scorrerie nelle parti confinanti con l'Italia, così come verso gli Elvezi, i Sequani, i Boi e i Germani. Erano considerati più bellicosi dei Vindelici i Licatti, i Clautenati, e i Vennoni; dei Reti i Rucanti e i Cotuanti. »
(Strabone, Geografia, IV, 6.8)
Nel libro VII sempre Strabone descrive il territorio dei Reti, che si trova a cavallo delle Alpi tra il lago di Costanza e le terre degli Insubri in Italia:

« Προσάπτον ται δὲ τῆς λίμνης ἐπ' ὀλίγον μὲν οἱ Ῥαιτοί, τὸ δὲ πλέον Ἑλουήττιοι καὶ Ὀυινδολικοί. + καὶ ἡ Βοίων ἐρημία. Μέχρι Παννονίων πάντες, τὸ πλέον δ' Ἑλουήττιοι καὶ Ὀυινδολικοί, οἰκοῦσιν ὀροπέδια. Ῥαιτοὶ δὲ καὶ Νωρικοὶ μέχρι τῶν Ἀλπείων ὑπερβολῶν ἀνίσχουσι καὶ πρὸς τὴν Ἰταλίαν περινεύουσιν, οἱ μὲν Ἰνσούβροις συνάπτοντες, οἱ δὲ Κάρνοις καὶ τοῖς περὶ τὴν Ἀκυληίαν χωρίοις. »

« I Reti toccano per poca parte col loro territorio il lago (Lago di Costanza), mentre la maggior parte ricade sotto gli Elvezi, i Vindelici e il gruppo dei Boi. Tutti, fino ai Pannoni, ma in special modo Elvezi e Vindelici, abitano gli altipiani. I Reti ed i Norici si estendono dai passi delle Alpi fino verso l'Italia, confinando i primi con gl'Insubri, i secondi con i Carni e le terre d'Aquileia. »
(Strabone, Geografia, VII, 1.5).

Utilizzando sia i documenti materiali rimasti, sia le prime fonti scritte, si può delineare una breve storia dei Reti.
Nel V secolo a.C. abbiamo una forte espansione della cultura Fritzens-Sanzeno, che si estende sia verso Sud sia oltre il Brennero, nella valle dell'Inn, con influssi che giungono fino all'Oglio e all'Adda.
Al V secolo a.C. risalgono anche le prime iscrizioni in alfabeto reto-etrusco, la cui introduzione è dovuta certamente ad influssi etruschi, conseguenza dei rapporti economici e commerciali che vi erano tra queste popolazioni, soprattutto lungo l'asse dell'Adige.
Le invasioni celtiche del V/IV secolo a.C., che modificarono la situazione della pianura Padana, non ebbero grande influenza sui Reti, che imitarono alcuni loro ornamenti in bronzo e alcune armi. Dai documenti archeologici i Reti sembrano essere una zona con cultura aperta agli influssi sia da sud che da nord, che però vengono assunti e rielaborati in forma autonoma.
La scomparsa di molti insediamenti nel II secolo a.C. è da ricollegare forse alle incursioni dei Cimbri, che nel 101-102 con un'irruzione nella val d'Adige, riescono a respingere verso il Po le truppe del console Q.Lutezio Catulo. In seguito sono documentati frequenti contatti tra gli insediamenti dei Reti e i Romani, confermati da oggetti ornamentali e monete sia repubblicane, sia imperiali.
La penetrazione economica e la pressione strategica romana culmina nel 15 a.C. con la conquista del territorio del Trentino Alto Adige da parte di Druso, figlio adottivo di Ottaviano Augusto. Da questo momento la cultura Fritzens-Sanzeno decade fino a scomparire, ad eccezione di alcuni suoi aspetti che continueranno ad essere presenti nelle valli laterali, più isolate.

Lo storico latino Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua Storia naturale ricorda che "Feltre, Trento e Belluno sono centri dei Reti, e Verona è dei Reti e degli Euganei; inoltre:

« His contermini Raeti et Vindolici, omnes in multas civitates divisi. Raetos Tuscorum prolem arbitrantur a Gallis pulsos duce Raeto. »

« Con loro (i Norici) confinano i Reti e i Vindelici, tutti divisi in molte comunità. Si ritiene che i Reti, discendenti degli etruschi, condotti da Reto, furono scacciati dai Galli. »
(Plinio il Vecchio, Naturalis historia, III, 133)
Durante l'età del ferro, soprattutto dal VI secolo a.C., si afferma nell'area tra il Tirolo ed il Trentino la cultura di Fritzens-Sanzeno, che perdurerà fino alla conquista dell'area da parte di Roma, nel I secolo a.C., che segnerà appunto la fine di quest'epoca.

Dal VI secolo a.C. si segnala anche una significativa influenza etrusca nel nord-Italia, ponendosi di fatto come cultura mediatrice tra le popolazioni mediterranee e quelle transalpine. Il territorio della valle dell'Adige si presentava come la via più breve per giungere oltralpe, attraverso i due passi della Resia e del Brennero.

Tra la fine del V e l'inizio del IV secolo le popolazioni celtiche si insediano nella pianura Padana; tra i vari gruppi quello dei Celti Cenomani s'inserisce tra i fiumi Oglio ed Adige, sostituendo gli etruschi nei traffici con i Reti.

L'azione romana di conquista è descritta dallo storico romano di lingua greca Cassio Dione (155-229): a seguito delle incursioni dei Reti nei territori romanizzati d'Italia, e delle loro pratiche cruente ("uccidevano persino tutti i maschi che c'erano tra i loro prigionieri, non solo quelli già nati, ma anche quelli che si trovavano ancora nel ventre delle donne, scoprendone il sesso in base ai responsi oracolari") Augusto inviò Druso e Tiberio alla conquista del loro territorio. Tiberio li assalì dal versante nord, attraversando il Lago di Costanza con delle imbarcazioni. Dopo averli sconfitti in battaglia, i romani si preoccuparono di deportarne in altri luoghi un numero sufficiente, affinché non fossero progettate delle rivolte, lasciandone sul posto un numero esiguo, appena sufficiente per popolarne la terra.

Nelle antiche descrizioni i Reti appaiono come un popolo portato alla guerra e selvaggio, che non perdeva occasione per effettuare scorrerie ed attacchi verso i fondovalle già romanizzati. D'altro lato essi stessi erano visti come un ostacolo al transito tra i versanti nord e sud delle Alpi, in quanto obbligavano al pagamento di pedaggi e assalivano convogli. Si suppone che queste descrizioni siano state volutamente enfatizzate per giustificare la conquista delle Alpi da parte dei romani.

I siti archeologici più importanti sono Sanzeno e Mechel in val di Non, il Doss Castel, il castelliere sul Col de Pigui nei pressi di Mazzin, e Laives: per tali insediamenti è possibile parlare di strutture protourbane. Si definisce Cultura di Fritzens-Sanzeno la cultura materiale retica, che prende il nome da queste due località (l'una nella valle dell'Inn e l'altra in Val di Non), che andò a sovrapporsi alle precedenti Cultura di Luco-Meluno e cultura di Hallstatt.

Come in altre parti della regione, anche nella zona di Merano, gli insediamenti dell'età del ferro e, in particolare quelli retici, si trovano per lo più vicino al fondovalle o a mezza costa.
La zona di Castel Juval e di Naturno ha dato reperti di ceramica, 2 macine e resti di mura di 2 case retiche, che fanno pensare che il sito abbia continuato ad essere abitato fino a tutto il I secolo. Lo stesso vale anche per il Burgsatllknott (Plars) con le sue ciclopiche mura, mentre a Rifiano sono stati trovati i resti di una casa retica con corridoio di accesso probabilmente coperto. Sul Kronsbichl (Lagundo) sono stati trovati i resti di mura di un edificio che comprendeva probabilmente 4 vani. A sud della conca di Merano ricordiamo il Kobaltbühel (Foiana) con resti di ceramica e mura di un'abitazione, S.Ippolito, con resti di ceramica e vari oggetti in bronzo. Anche nei dintorni di Tesimo sono stati trovati resti di abitazioni, fibule e soprattutto un'ascia di bronzo con iscrizioni in alfabeto di "Bolzano". In questo periodo anche la zona di Meltina ha dato reperti interessanti, purtroppo in gran parte perduti, che fanno pensare ad un sepolcreto.
Molto importante è una scoperta abbastanza recente in val d'Ultimo, a S.Valpurga, dove è stata trovata una zona sacra, un rogo votivo di cui parleremo più avanti.
Reperti singoli provengono da Tell, Lagundo, Lana e castel Labers. Macine a tramoggia sono state trovate a Naturno, Scena e Lana. Importanti siti da ricordare sono quelli nella val Venosta: Tartscherbühel (Malles), Ganglegg (Sluderno), Talatsch (Silandro), Castelbello, nella val Passiria: Stuls (Moso) mentre nella val d'Adige rilevanti sono i ritrovamenti di Settequerce.
Ma il fatto più importante per quanto riguarda la storia che stiamo raccontando è che finalmente, in questo periodo, anche nella vera e propria conca di Merano si hanno dei ritrovamenti importanti che indicano come in questo periodo si possa parlare finalmente anche di stabile popolamento di questa zona.
Un ritrovamento molto ricco di oggetti di bronzo è quello dell'Hochbühel (Tirolo), la cui funzione molto probabilmente era quella di sepolcreto, anche se non si possono del tutto escludere altre ipotesi che lo indicano come insediamento o come deposito forse a carattere votivo.
Sul SINICHKOPF, il primo sito archeologico conosciuto in Alto Adige, si sono trovati resti già del periodo del bronzo. Al periodo del ferro risalgono le "mura ciclopiche" con segni di abitazioni (buchi per i pali di sostegno), ceramiche, resti di focolare, una macina.

La scelta della posizione degli insediamenti stabili in area alpina è particolarmente condizionata dalle caratteristiche del territorio. Le valli principali, rese paludose dalle inondazioni dei fiumi, il pericolo di frane, la necessità d'acqua e l'opportunità di rispettare i terreni fertili destinati all'agricoltura, costrinsero l'uomo a scegliere come sedi abitative i terrazzi, le sommità e i conoidi formati dai torrenti laterali.
Sulla estensione e sulla struttura degli abitati sappiamo molto poco. Le superfici per lo più ristrette delle sommità e dei versanti vennero utilizzate nel migliore dei modi. Accanto a fattorie isolate tipo i masi vi sono piccoli villaggi, con 5-15 edifici, e abitati più grandi con 30 e più costruzioni.

Contrariamente ad un'opinione molto diffusa, gli insediamenti fortificati sono in numero modesto. Infatti essi dapprima sorgevano in luoghi poco difesi e solo in seguito, a causa soprattutto dell'avanzare dei Romani, i Reti si spostarono in zone più difese naturalmente, e quindi più difficili da distruggere. All'esterno o nelle vicinanze dell'insediamento si trovavano impianti produttivi, per la lavorazione del metallo e della ceramica.

Nel 1960 Osmund Menghin ha avanzato l'ipotesi che i Reti non fossero una popolazione, quanto invece un "gruppo di culto", a cui si associa, per assonanza, il culto della divinità Reitia.

I luoghi di culto, documentati anche nelle immediate vicinanze degli insediamenti, nella maggior parte dei casi sono santuari dedicati alla natura, in modo particolare i Brandopferplätze, roghi votivi.
Nel territorio del gruppo Fritzens-S. Zeno, a partire dal VI secolo a.C., soprattutto in val d'Adige e in val d'Isarco, è documentato un tipo di abitazione seminterrata a uno o più vani con cantina in muratura (muri per lo più a secco) e ingresso talvolta ad angolo, detta appunto "casa retica". Le stanze si trovavano nel "piano superiore" e le cantine potevano essere utilizzate per varie funzioni: come magazzino o laboratorio o anche stalla. In tal caso avrebbero potuto servire anche per riscaldare le stanze che si trovavano sopra. Accanto alle case interrate scavate in tipi di roccia meno dura, sono documentate costruzioni di legno con basamento in pietra e strutture di supporto. Zone ricoperte con pietre squadrate o piani di argilla servivano da focolari. La copertura del tetto variava a seconda delle zone: paglia, scandole o lastre di profido. L'accesso era di solito formato da un corridoio, che spesse volte formava un angolo retto, forse per impedire al vento di penetrare nella casa. Legati alla costruzione della casa vi erano anche cerimonie di culto.

Elemento fondamentale nella vita della maggior parte della popolazione retica fu l'agricoltura. Nei campi si raccoglievano cereali (farro orzo segale avena miglio) e legumi (fave piselli lenticchie). Si raccoglievano frutti selvatici come funghi, bacche, miele ed erbe. I Reti avevano aratri con ruote e come animali da tiro si utilizzavano bovini e probabilmente anche uomini. Nel V secolo a.C. , nella valle dell'Adige si usavano "macine a leva" che vennero sostituite nel I secolo a.C. dalla macina a tornio. I cereali erano conservati in casse di legno o cesti. Nel II e I secolo a.C. gli storici antichi affermano che il vino retico era molto apprezzato, anche alla corte imperiale. Vasellame in bronzo conferma l'ipotesi che fosse prodotto vino nella zona alpina. Per la presenza tra i reperti del coltello da vite e di alti strumenti tipici si può concludere che probabilmente, a partire dal V sec. a.C. la vite era coltivata in tutto il territorio sud-alpino. Tra gli animali domestici prevalentemente c'erano piccoli ruminanti (pecora, capra) ma anche bovini. Meno importanti erano i suini e rari i cani e cavalli. Tra gli animali da caccia il preferito era il cervo, per le sue corna, usate per costruire impugnature, ma la caccia ormai è poco importante.
Passiamo ora all'artigianato, che era molto vario e sviluppato. Un grande ruolo è assunto dalla lavorazione del legno, usato nella costruzione delle case, delle suppellettili domestiche e dei mezzi da trasporto. Gli oggetti di piccole dimensioni e le impugnature vennero generalmente ricavati dall'osso e dal corno. Nei piccoli paesi dovevano esserci stati artigiani che lavoravano il cuoio, cordai, cestai ed impagliatori. I numerosi telai rinvenuti nelle case sono testimoni di un avanzato artigianato tessile. Scalpellini produssero macine in pietra e coti per affilare. Tornitori e vasai garantirono in officine piccole o sovraregionali la produzione di ceramica. Lavoratori del metallo furono in grado di imitare perfino le situle in bronzo e le brocche d'origine mediterranea. L'alta qualità della lavorazione dei metalli si può vedere sia nei gioielli e nelle armi che negli attrezzi e negli strumenti in ferro. Influenze provenienti dall'area mediterranea e dall'ambito celtico venivano accolte ed adattate al gusto locale.
La necessità di materie prime per la produzione locale, fece sviluppare i contatti esterni sia a nord che a sud dell'arco alpino: in primo luogo con Celti, Etruschi, Greci e Veneti. Nacquero anche i primi centri con diritto di tenere mercato per il sale a Halstatt. Il "commercio" doveva essere ancora attuato con lo scambio diretto dei beni, anche se, nel II e I secolo a. C., monete celtiche e romane appaiono nelle Alpi. Bestie da soma, soprattutto buoi e pochi cavalli, diventarono oggetto di questo " commercio".
I prodotti che venivano quindi "esportati" erano: resina, pece, fiaccole, cera, formaggio e miele, ma anche schiavi, come dimostrano i reperti di catene da collo, vino, lana, pelli, carne e bestiame. Tra i beni di lusso che invece arrivavano nel territorio dei Reti vi erano: dal Mediterraneo spezie, olio, vino, profumi, vetro, coralli, avorio, preziosi elementi d'abbigliamento, strumenti da toiletta, candelabri e ricercati vasi potori. Una gran parte dei beni di lusso dovette arrivare come regalo o tributo. Oltre a tali modalità si può pensare al servizio militare o ad altre mansioni prestate dagli abitanti delle Alpi nell'ambiente mediterraneo, come pure a rapporti matrimoniali.

Nell'età del ferro gli uomini portavano una veste con cintura che si interrompeva sopra le ginocchia. Anelli e bracciali sono rari. Spade, coltelli a pugnale e cinture con ganci, talvolta lavorate artisticamente, potrebbero aver acquisito anche un significato di distinzioni sociale. Gli spilloni e più tardi le fibule, i ganci di cintura degli uomini furono fabbricate fino al VI secolo a.C. a livello regionale esclusivamente in ferro, il metallo più prezioso.
Le donne portavano un abito lungo fino sotto le ginocchia stretto alla vita da una cintura. Inizialmente era fissato da due spilloni, a partire dal XII secolo a.C. più frequentemente da fibule, la cui forma viene assunta sia dagli Italici, sia dai Celti. Le donne portavano anche anelli, collane, bracciali e placchette di cinturone in bronzo. Dal III secolo a.C. grazie all'influenza dei Celti vi sono testimonianze anche di bracciali in vetro. Forse usavano anche un fazzoletto per la testa o una mantellina. Scarse sono le documentazioni di "scarpe", forse le donne indossavano stivali di pelle.

Intorno al 600 a.C. la fibula sostituisce definitivamente lo spillone decorato e diventa, come fermaglio per gli abiti, l'accessorio di abbigliamento più importante di tutta la seconda età del Ferro. Essa veniva portata da sola in coppie o in serie più numerose (dalla donna). Le fibule servivano come oggetti ornamentali, secondo la moda dell'epoca. Esse hanno precise caratteristiche e quindi danno informazioni sui contatti culturali.
E' del V-IV secolo a.C. la moda delle cinture: larghe piastre di metallo rettangolari, spesso lavorate a sbalzo, mentre ganci di cintura traforati ornavano larghe cinture in cuoio, che più tardi si fecero più strette e più semplici. Importanti ornamenti sono gli anelli e i bracciali, talvolta con estremità a testa di serpente, e anche gli uomini portavano anelli. Qualche monile aveva anche carattere di amuleto, ad esempio le perle in pasta vitrea, le spirali in bronzo e pendagli di vario tipo.

Come durante l'antica età del bronzo, così anche nell'età del Ferro l'armatura completa in metallo era costituita da elmo, corazza, schinieri e scudo, ovale e ricoperto di pelle, in combinazione con spada e lancia. Altre armi erano il coltello a pugnale l'arco e le frecce. Tipico era l'elmo di tipo detto Negau, utilizzato anche degli Etruschi, e l'ascia ad alabarda. La differenza sta nel fatto che in questo periodo le armi sono costruite in ferro. In alcune incisioni appaiono anche carri da combattimento a 2 ruote. Con l'estensione del dominio dei Celti, che intorno al 400 a.C. avevano occupato certe zone dell'Italia settentrionale, i Reti ne adottarono elmo e spada di ferro.
Dopo che i Romani nel II secolo a.C. ebbero sconfitto i Celti insediati a nord del Po, nelle officine locali si incominciarono a riprodurre anche armi romane, come la punta di lancia detta pilum. Comunque come tipica arma dei Reti, descritta anche dal poeta Orazio nel I secolo a.C., rimase l'ascia ad alabarda.

La scrittura retica, la cui comparsa è collocata attorno al 500 a.C., presenta un forte influsso etrusco (se non una vera e propria derivazione).

Analizzando numerose iscrizioni rinvenute nel territorio retico, sono state distinte quattro varianti grafiche: gli alfabeti di Lugano, Sondrio-Valcamonica, Bolzano-Sanzeno e Magrè.

Nel caso dell'alfabeto di Lugano è stata notata una parentela con il celtico. Per l'alfabeto di Bolzano-Sanzeno e Magrè è importante notare, come nell'Etrusco, l'assenza della lettera O. I Reti, sebbene con modalità diverse e più articolate, condivisero con i Venetici l'adozione dell'alfabeto etrusco. Un'ipotesi è che le lingue dei popoli retici avessero una base comune non indoeuropea, sulla quale si è innestato un ceppo di derivazione etrusca.

La diffusione della scrittura intorno al 500 a.C. è una delle conquiste più importanti della storia culturale dei Reti. Essa si diffuse presso i Veneti e nelle Alpi con la mediazione degli Etruschi. Venne utilizzata soprattutto per il culto, per iscrizioni votive nei santuari e su steli funerarie. L'uso della scrittura era ristretto prevalentemente all'ambito della magia e del culto : secondo le credenze del tempo la menzione del nome dell'offerente o della divinità conferiva ai doni votivi particolare forza. La maggior parte delle iscrizioni conservate consiste in pochi segni di alfabeto. Viene così confermato che solo la minima parte della popolazione, soprattutto i sacerdoti, conoscesse la scrittura e la lettura.
Sulla base di 300 iscrizioni scritte in alfabeto sinistrorso "nordetrusco" rinvenute in territorio retico, si distinguono quattro varianti grafiche: l'alfabeto di Lugano, di Sondrio-Valcamonica, di Bolzano (o di Sanzeno) e di Magrè. Altri alfabeti possono essere inseriti in uno di questi quattro tipi principali, anche se la presenza di questi diversi alfabeti rivela l'esistenza di varie lingue e dialetti.
Nell'alfabeto di Bolzano e di Magrè, di origine non indoeuropea, manca la O, ma vi sono altri due segni nuovi, forse simili alla T. L'assenza di segni di punteggiatura rende ancora più difficile la lettura e la classificazione linguistica di questa scrittura. Per questa ragione anche la più estesa iscrizione retica a più righe, non può essere interpretata in modo soddisfacente.
Dal Tartscherbühel, presso Malles, proviene un pezzo di corno di cervo con un'iscrizione in alfabeto di Sanzeno.

Nel V secolo a. C. una rappresentazione naturalistica e narrativa sostituisce, sotto l'influsso mediterraneo le raffigurazioni schematiche e simboliche procedenti. Viene rappresentato però per lo più un mondo maschile con scene di aratura, di lavoro, in particolare del fabbro. Inoltre ci sono scene di caccia al cervo, mentre le rappresentazioni degli uccelli sono di tradizione locale. Altri temi rappresentati sono gare sportive o musicali, marce di guerrieri, banchetti.
Questo tipo di raffigurazione si avvicina a quella detta "arte delle situle", cioè una rappresentazione figurata ( presente soprattutto dal VI al V secolo a. C. ) su diversi tipi di gioielli, attrezzi e armi e in particolare su recipienti in lamina bronzea, detti appunto situle. Le decorazioni realizzate a sbalzo permettono anche di ricavare informazioni sulla vita di quell'epoca.
Il significato di queste raffigurazioni è ancora incerto: forse sono la rappresentazione di miti o di cerimonie legate al culto dei morti e alla fertilità

Presso i Reti era utilizzato il rito ad incinerazione, cioè il cadavere veniva bruciato su un rogo. Le ceneri del defunto venivano poi poste in contenitori in ceramica, detti urne, che erano ricoperti da ciotole o scodelle, ma anche da recipienti e coperchi di legno o lastre di pietra. Insieme alle ceneri del corpo veniva posto anche un corredo ed elementi dell'abbigliamento in metallo. Gli oggetti più grandi venivano piegati. Le tombe erano marcate sulla superficie da piccoli tumuli o segni fatti con del legno, che erano ordinati in singoli gruppi e che potrebbero corrispondere ai nuclei familiari. La cremazione avveniva in base ai gruppi a cui si apparteneva, su piani d'argilla nelle vicinanze della necropoli. Inoltre le urne dei maschi si differenziano da quelle delle femmine e dei bambini sia per il corredo, sia per le dimensioni.
Come corredo di solito si trova:
per i maschi: spilloni, bracciali e rasoi; elmi, spade, pugnali, lance e schinieri compaiono ripetutamente in diverse combinazioni, ma mai tutti assieme; per le donne:  fusarole, rocchetti e a volte anche gioielli per quelle più ricche; anelli, ganci per cintura, bracciali, coltelli.
Talvolta, ma molto raramente, ai defunti, oltre agli accessori e ai vestiti bruciati nel rogo, venivano aggiunti degli altri intatti. In seguito ai mutamenti avvenuti nella Pianura Padana, aumenta in tutto il territorio alpino il numero delle tombe con corredi relativamente ricchi, anche per tombe femminili.
Tra le popolazioni chiamate Reti, però, i Leponzi passarono dal rito di incenerazione a quello di inumazione.

A partire dal 600 a.C. circa per influenza anche delle culture mediterranee, anche nella zona alpina si incominciano a venerare divinità di forma umana.
Presso i Reti possiamo supporre l'esistenza di santuari dedicati alla natura. A questo riguardo da sempre hanno assunto un ruolo particolare le acque (fonti, paludi,laghi) e i monti (vette,cime, boschi). Come in altre zone le offerte potevano essere "distrutte" meccanicamente o dal fuoco, continuando cioè l'uso dei roghi votivi. In tali località venne praticato soprattutto il culto della fertilità. Veniva offerto del grano, in boccali e in tazze, che dal V secolo a.C. avevano anche iscrizioni votive, e anche giovani animali. In particolari occasioni erano sacrificati perfino uomini e donne di ogni età. Probabilmente degli animali venivano bruciate le parti povere della carne( testa e piedi) e il pellame, mentre il resto veniva forse mangiato in banchetti di culto, di cui potrebbero essere testimonianza le stoviglie di vario genere ritrovate presso questi luoghi sacrificali. Le offerte erano bruciate su cumuli di pietre con pozzo centrale, su piattaforme o su piani argillosi. Spilloni e altri oggetti di bronzo venivano deposti come offerte votive e consacrati per lo più singolarmente o in gruppi in luoghi sacri, soprattutto in montagna o nei pressi di corsi d' acqua(i cosiddetti ripostigli). Solo dal IV a.C. si portarono come offerte nei santuari gioielli, amuleti, utensili, armi… Le offerte votive, prima di essere bruciate, venivano talvolta fatte a pezzi o piegate, potevano però essere deposte anche non bruciate. Nel territorio altoatesino, ricco di luoghi di culto, si ha l'impressione che ogni paese disponesse di particolare aree di culto che, in punti particolari, come sulle cime di monti, dovevano essere considerati, anche come santuari cui affluivano persone di altre zone. Addirittura in una casa a Montesei di Serso alcune placchette con iscrizioni in un angolo sembrano testimoniare l'esistenza di una zona dedicata alle divinità, ma forse tutto quell'edificio era una specie di tempio o casa sacra.
Roghi votivi erano legati anche a luoghi particolari come le sorgenti. A S. Maurizio presso Bolzano si trovava un tale santuario collegato probabilmente ad una fonte di acqua solforosa, in cui sono stati trovati ben 3000 anelli di bronzo oltre ad alcuni altri oggetti, interpretabili come offerte votive.
Un santuario è stato scoperto anche in Val d'Ultimo, presso S. Valpurga, utilizzato dal VI al II secolo a.C. Esso era formato da una serie di 3 altari in pietra e da 10 piattaforme sacrificali in argilla. Gli altari sono allineati tra loro e con il grande circolo di pietre di 8 metri di diametro. Forse in cima al tumulo c'era l'immagine della divinità.
Parlando delle divinità dei Reti è immediato il riferimento innanzitutto alla dea Reitia che veniva venerata nel santuario di Baratela a Este verso Padova, un centro della cultura venetica. Nato alla fine del VII secolo a.C., sotto l'influsso religioso etrusco, fu frequentato fino al II-III secolo d.C.
Si presume che Reitia non fosse il nome proprio della divinità, ma un attributo caratteristico di una dea, che presenta molti tratti in comune con la dea greca Artemide – Diana e che sarebbe concepibile come dea madre della fertilità, della guarigione e dell'al di là. Difficile dire se le figure femminili stilizzate, le cui braccia terminano con una testina di cavallo o di uccello, rappresentino la dea Reitia.
Altrettanto problematico è appurare se le popolazioni alpine siano state denominate Reti proprio in base alla loro venerazione per la dea Reitia. In ogni caso nell'età Romana è epigraficamente documentata in Valpolicella la presenza di un sacerdote che presiedeva ai "riti Reitiae" (riti della dea Rezia).
A Sesto alcune iscrizioni menzionano la divinità Ierisna, simile ad Era o ad una dea delle stagioni e dei prodotti della terra.
Un documento di una diffusa religiosità, forse di tipo individuale, sono le numerose figurine votive antropomorfe che dal VI secolo a.C. appaiono nei santuari retici come oggetti votivi, offerti alle divinità, ispirati a modelli mediterranei .
Si esprime così un nuovo tipo di rapporto con il divino: il desiderio di essere in contatto con la divinità in modo personale e permanente. La stessa concezione s'intravede anche nelle offerte votive con iscrizioni, che riportano il nome dell'offerente. Le figurine votive, per lo più prodotte in loco, a tutto e a mezzotondo o ritagliate da una lamina di bronzo, rappresentano l'uomo come orante, pugile, guerriero e cavaliere.


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