giovedì 25 giugno 2015

IL MONTE SAN GIORGIO

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La piramide rocciosa del Monte San Giorgio, con i suoi 1097 metri di altezza, sorge a cavallo tra la Lombardia e il Canton Ticino, tra i due rami meridionali del Lago di Lugano, Porto Ceresio (Italia) e Capolago (Svizzera).
Il versante italiano comprende i comuni di Besano, Clivio, Porto Ceresio, Saltrio e Viggiù per una superficie di 2.064,48 ettari.
Il Monte San Giorgio è caratterizzato dalla presenza di almeno sei livelli fossiliferi di eccezionale qualità, risalenti a 230-245 milioni di anni fa, corrispondenti al periodo Triassico medio. Dal XIX secolo ad oggi sono stati rinvenuti 21.000 esemplari fossili di pesci, invertebrati marini, rettili e piante che hanno permesso di studiare la storia e l’evoluzione di numerose specie animali e vegetali, alcune delle quali esclusive del Monte San Giorgio. Una gestione disciplinata della risorsa ha portato alla realizzazione di un corpus di esemplari di straordinario valore, ben documentato e catalogato, che rende il Monte San Giorgio un punto di riferimento per gli studi del Triassico medio. Gli esemplari fossili più significativi sono esposti nei musei di Besano (Italia) e di Meride (Svizzera).

Dal 2 agosto 2010 la parte italiana del Monte San Giorgio è entrata nella Lista del Patrimonio Naturale Mondiale dell’Unesco, completando il riconoscimento che era stato attribuito nel 2003 alla parte in territorio svizzero.
Il Monte San Giorgio rappresenta la migliore testimonianza di una storia geologica risalente a 230-245 milioni di anni fa e, attraverso le migliaia di fossili rinvenuti dal XIX secolo fino ai giorni nostri, ha permesso di studiare l’evoluzione di alcune specie animali e vegetali.
L’area montuosa a forma di piramide del Monte San Giorgio, adiacente al Lago di Lugano, è la migliore sequenza fossilifera per la vita marina del Triassico Medio (245-230 milioni di anni fa).

Durante il periodo geologico Triassico (252–201 milioni di anni fa) le terre emerse erano riunite in un unico grande supercontinente, la Pangea, circondata da un immenso oceano chiamato Panthalassa. A cavallo dell’equatore un braccio di questo oceano si insinuava profondamente al centro della Pangea, dando origine a un antico mare, la Tetide, che separava due grande continenti: la Gondwana a sud e la Laurasia a nord.
Più precisamente la Tetide comprendeva due bacini di età diversa, la Paleotetide a nord e la Neotetide a sud, separati da una striscia di terra formata da molte piccole placche, chiamata continente Cimmerico. All’estremità occidentale della Tetide si sarebbe svolta la storia del Monte San Giorgio e di tutte le Alpi meridionali.
La situazione paleogeografica nel Triassico Medio con il supercontinente Pangea e la Tetide, una parte dell'Oceano Panthalassa.

Durante il Triassico Medio (247-237 milioni di anni fa) il Monte San Giorgio era il fondale di un mare poco profondo situato al margine occidentale della Tetide. L’ambiente era caratterizzato dalla presenza di isolotti e banchi di sabbia fine, che separavano la costa dal mare aperto, formando una sorta di laguna o bacino più o meno isolato. Il paesaggio poteva ricordare quello odierno delle Bahamas o delle Maldive: un arcipelago di isolotti e atolli “corallini”, non lontano da vulcani attivi. Con la differenza che le estese strutture carbonatiche sommerse non erano prodotte da coralli coloniali (che nel Triassico Medio erano ancora rari), bensì da altri organismi come le alghe calcaree del genere Diplopora.

Il Monte San Giorgio si è formato durante la nascita delle Alpi, quando, 95 di milioni di anni fa, l'antica placca “africana” iniziò a spostarsi verso nord, comprimendo progressivamente l’antica placca “eurasiatica”. La poderosa spinta del blocco africano provocò una serie di sollevamenti e corrugamenti nella zona di collisione, sul margine meridionale della quale si trovava l'area del Monte San Giorgio. L’antico fondale marino venne così sospinto verso l’alto, permettendogli di emergere dalle acque e dare origine alla montagna che oggi conosciamo.
Oggi il monte San Giorgio si presenta come una montagna vagamente piramidale di circa 1’000 metri di altezza, formata da strati sovrapposti di rocce di varia natura inclinati verso sud di circa 30°. Queste rocce si sono formate in condizioni ambientali e in epoche geologiche molto diverse. Le rocce più antiche sono costituite da gneiss precedenti al periodo Carbonifero (il cosiddetto “zoccolo cristallino”) ma, sebbene formino il basamento dell’intero edificio montuoso, non sono praticamente visibili in quanto si trovano quasi interamente al di sotto del livello del Lago Ceresio. Sopra di esse poggiano i poderosi strati rocciosi di origine vulcanica del periodo Permiano (andesiti, rioliti), ai quali fa seguito l’altrettanto imponente serie di rocce sedimentarie ricche di fossili dei periodi Triassico e Giurassico (calcari, dolomie, marne, argilliti bituminose ecc.).

Il Monte San Giorgio fa parte geologicamente della più estesa "Serie delle Alpi Meridionali" (o “Sudalpino”), comprendente rocce sedimentarie che si estendono da circa 320 milioni di anni fa all’epoca attuale. Fra le località più note, situate in un'area molto ristretta attorno al Monte San Giorgio o sul monte stesso, si citano per esempio: il Carbonifero di Manno e dell'Alpe Logone; il Permiano di Cuasso al Monte, di Arosio-Mugena nel Luganese e del basamento del Monte San Giorgio; le unità del Triassico della Valcuvia, del Luganese e del Monte San Giorgio stesso; la serie giurassica dell'area di Tremona-Arzo-Saltrio-Viggiù; le formazioni giurassiche del Monte Generoso, delle Gole della Breggia, le formazioni del Paleogene della “Gonfolite lombarda” (Conglomerato di Como) che si spingono fino al piede del Monte San Giorgio-Orsa-Pravello nella zona di Malnate-Gaggiolo; gli sparsi ma significativi affioramenti di Pliocene marino del Varesotto e del Ticino meridionale; la copertura glaciale e fluviale del Quaternario. Questa particolare situazione di complementarietà del Monte San Giorgio costituisce un importante valore aggiunto per il giacimento fossilifero del Triassico Medio sia dal punto di vista scientifico sia da quello didattico.

La litostratigrafia del Monte San Giorgio comprende varie unità rocciose che si suddividono in due gruppi distinti, lo zoccolo o basamento cristallino e il ricoprimento sedimentario. Muovendosi verso la vetta del Monte s'incontrano formazioni rocciose più recenti. Qui di seguito presenteremo velocemente le singole unità rocciose facendo riferimento, dove possibile, alle condizioni paleogeografiche vigenti durante la deposizione delle singole formazioni.

Basamento cristallino: (pre Carbonifero, > 359 Ma; Ma = milioni d'anni) il basamento cristallino insubrico è costituito da una roccia metamorfica. È costituito da gneiss derivanti dal metamorfismo di rocce di origine sedimentaria (paragneiss) e magmatica (ortogneiss). Questa unità non è comunque visibile in quanto affiora unicamente ad un livello assai basso, incontrando la topografia sotto il livello del lago Ceresio.
Rocce magmatiche vulcaniche, andesiti, rioliti e tuffi: (Permiano, 260-299 Ma) salendo da Riva San Vitale in direzione del Serpiano la prima litologia che si incontra è costituita da un'andesite assai degradata chiamata porfirite mentre più in alto affiora una roccia riolitica detta porfido quarzifero. Queste rocce sono d’origine vulcanica; esse si sono formate grazie alla rapida cristallizzazione del magma a livello della superficie terrestre. La presenza di queste rocce indica che il Sottoceneri del remoto Permiano faceva parte di una terra emersa interessata da fenomeni vulcanici. Ad occhio nudo è assai facile distinguere le due rocce vulcaniche. Le porfiriti presentano un colore di degradazione rosso-violaceo e una tessitura microcristallina omogenea. Il porfido quarzifero mostra invece un colore di degradazione marroncino chiaro ed una tessitura leggermente porfirica (vi sono almeno due generazioni di minerali con granulometria diversa). I minerali più grandi sono costituiti da feldspato (bianco) e da biotite (nera) immersi in una matrice assai fine. Mineralogicamente le due rocce si differenziano essenzialmente per un maggiore contenuto in quarzo all’interno dei porfidi.
Servino: (Permiano superiore, 260 Ma) questa litologia di spessore assai inferiore rispetto alle due precedenti risulta sovente nascosta dal ricoprimento quaternario ed è difficilmente osservabile. In quest'area si presenta come breccia arkosica, con clasti di origine riolitica, quindi vulcanica, caratterizzata da una granulometria variabile e componenti spigolose immerse in una matrice sempre d‘origine vulcanica a granulometria assai più fine. Serie sedimentaria triassica (203-251 Ma): questo periodo geologico fu caratterizzato dall’apertura di numerose fratture all’interno del supercontinente Pangea. Tra il continente africano a sud e quello euroasiatico a nord si formò un bacino nel quale si insinuò partendo da Est un braccio di mare chiamato Tetide. Il bacino della Tetide continuò poi ad allargarsi sino a raggiungere la sua estensione massima nel Giurassico inferiore (183-200 Ma). Questo fatto spiega il passaggio nella sequenza litostratigrafica del Monte San Giorgio dalle rocce magmatiche vulcaniche del basamento) a quelle del ricoprimento sedimentario in cui sono visibili le stratificazioni originarie e numerosi fossili.
Formazione di Bellano (Anisico inferiore): depositi silico-clastici conglomeratici e arenacei. Si tratta di depositi alluvionali che indicano un incremento dell'attività tettonica con emersione e fenomeni erosivi.
Dolomia del San Salvatore(Anisico medio-superiore-Ladinico): si tratta di depositi marini di piattaforma carbonatica, che testimoniano l'inizio di un'ulteriore fase di trasgressione marina. La dolomia che troviamo al San Giorgio è ciò che resta di un'antica barriera corallina che separava il bacino del San Giorgio dal mare aperto. Essa è quindi formata dalle componenti calcitiche poi dolomitizzate degli organismi marini che vivevano sulla barriera, tra cui bivalvi (organismi a doppia conchiglia), coralli e alghe rosse. Facendo delle sezioni sottili di questa roccia è possibile osservare al microscopio i resti fossili di questi organismi.
Calcare di Meride (Ladinico): i processi estensionali che all’inizio del Triassico avevano portato alla spaccatura della Pangea continuano ingrandendo ulteriormente il bacino della Tetide che diventa sempre più profondo. La crescita della barriera corallina s’arresta a causa del suo sprofondamento al di sotto della zona fotica del mare. Sopra gli scisti bituminosi della laguna del San Giorgio si deposita un’altra unità sedimentaria carbonatica, il calcare di Meride. Il calcare costituisce un’unità geologica assai omogenea con stratificazioni di spessore variabile interrotte da aulcuni sedimentari ricchi in scisto bituminoso e da altri costituiti da bentonite giallastra. La bentonite è una roccia tufacea di struttura plastica derivante dalla compattazione di ceneri vulcaniche sui fondali del mare triassico. Gli scisti bituminosi comprendono gli strati della Cava inferiore (pesci attinotterigi come Saurichthys, rettili saurotterigi), della Cava superiore (pesci attinotterigi, notosauri) e della Cassina (Saurichthys, il rettile Tanystropheus, notosauri).
Scisti bituminosi (Anisico terminale-Ladinico basale): la Zona limite bituminosa pure chiamata Formazione di Besano è l’unità sedimentaria che ha reso famoso il Monte San Giorgio dal punto di vista geologico e soprattutto paleontologico. Essa costituisce infatti uno fra i migliori esempi al mondo di un particolare giacimento fossilifero chiamato giacimento di conservazione (sottotipo: stagnazione; tipo di biofacies: letalpantostrato). La laguna del San Giorgio era nel lontano triassico un lembo di mare della Tetide protetto dal mare aperto grazie alla barriera corallina del San Salvatore. La profondità massima della laguna si situava tra 50 e 100 metri, le acque erano calde e relativamente calme, tanto da rappresentare un ambiente favorevole per la vita di numerosi anfibi e pesci. Negli scisti bituminosi sono stati ritrovati resti fossili tipici della terraferma come rami di conifere primitive, pollini di conifere ed altre gimnosperme, e resti di rettili tipicamente terrestri. Questo fatto testimonia quindi che la laguna era paleogeograficamente situata nei pressi della terra emersa. Gli scisti bituminosi sono dei sedimenti di colore nero assai ricchi in bitume derivante dall’alto contenuto in sostanze organiche. Normalmente è difficile ottenere dei sedimenti ricchi in sostanze organiche perché queste in presenza d'ossigeno vengono rapidamente degradate. Si pensa quindi che le condizioni sul fondale della laguna fossero anossiche e abiotiche. Quindi gli strati d’acqua vicini al fondale non presentavano alcuna forma di vita e le carcasse di pesci ed anfibi si conservavano a lungo. La zona limite bituminosa ha uno spessore di 16 metri ed è costituita da un’alternanza di strati chiari di dolomia proveniente dalla barriera corallina del San Salvatore (30 cm) e strati scuri più sottili di scisto bituminoso che presentano una stratificazione assai fine detta laminazione. Il processo di deposizione di questi ultimi sedimenti richiede un lasso di tempo assai lungo, tanto che in pochi millimetri sono racchiusi migliaia di anni. Principali ritrovamenti fossili di vertebrati: pesci attinotterigi, sauri della specie Cyamodus hildegardis (Placodontia), pesci ossei simili all'attuale Latimeria, Saurichthys, il retile terrestre Ticinosuchus, squali (Chondrichthyes), Tanystropheus, notosauri e ittiosauri.
Calcare di Meride superiore (Kalkschieferzone degli autori svizzeri) (Ladinico superiore): comprende una serie di stratificazioni calcaree scistose dove sono stati ritrovati resti di pesci attinotterigi e di rettili notosauri.
Marna del Pizzella (Carnico): marne grigie fogliettate, marne bituminose nerastre, talora con resti di pesci e crostacei, con intercalazioni di strati più carbonatici di spessore da centimetrico a decimetrico. L'unità costituisce un orizzonte spesso poche decine di metri, di solito caratterizzato morfologicamente per la maggiore erodibilità rispetto alle unità sotto- e soprastanti, assai più competenti.
Dolomia principale (Norico): la trasgressione marina continuò nel tardo Triassico. In quel periodo si depositò uno spesso pacchetto di roccia carbonatica poi dolomitizzata, la cosiddetta dolomia principale che affiora oggi sul Poncione d'Arzo. Durante la massima estensione della Tetide, nel Giurassico si depositarono rocce sedimentarie prevalentemente pelagiche. Il sistema estensionale a questo punto cambiò orientamento e assunse un trend Est-Ovest portando alla formazione di numerose fessure orientate Nord-Sud. Nel Mendrisiotto è possibile osservare sedimenti di mare profondo vicino a sedimenti tipici di zone d’acqua bassa. La sequenza sedimentaria del Monte Generoso e della Breggia fa parte del primo gruppo mentre la breccia d’Arzo del secondo.
Breccia d’Arzo: si tratta di una breccia sedimentaria a tessitura porfirica con clasti macroscopici dolomitici spigolosi, provenienti dalla Dolomia principale, immersi in una matrice sedimentaria a grana fine e colore rosato. La colorazione della matrice è d'origine secondaria, quindi successiva alla deposizione, e va ricondotta all'ossidazione dei minerali d'ematite presenti nel sedimento. Questa roccia fa parte della cosiddetta Serie di Tremona. Movimenti estensionali portarono alla fessurazione delle rocce carbonatiche già solidificate. Queste fessure sotto la spinta idrostatica dell'acqua vennero rapidamente riempire con i sedimenti più giovani depositatisi sopra la dolomia e con pezzi frantumati della dolomia stessa, si parla in questo caso di fessure d'iniezione. Nella regione d'Arzo, la breccia mostra in alcuni punti ben sei generazioni distinte di fessurazione e conseguente riempimento. I resti fossili comprendono brachiopodi, crinoidi e ammoniti.
Rosso Ammonitico (Toarciano medio-superiore): all’interno del Bacino Lombardo cessarono alla fine del Toarciano i processi tettonici estensionali e una fase regressiva del livello del mare seguì il massimo trasgressivo del Toarciano inferiore. I tassi di sedimentazione si ridussero da alcune centinaia di metri a soli 10 metri per milione d'anni. In aree rialzate all’interno di bacini poco profondi si depositarono i calcari marnosi nodulari e le marne rossastro-verdognole ad alto contenuto fossilifero (ammoniti e bivalvi) della serie condensata Rosso Ammonitico (Concesio). Durante la deposizione si verificarono eventi di non-sedimentazione o di erosione del sedimento molle superficiale (riesumazione) che veniva colonizzato da organismi di infauna e epifauna.

Più di 200 Milioni d'anni or sono sul fondo di una laguna subtropicale profonda sino a 100 m si depositarono le rocce sedimentarie del Monte San Giorgio. Le condizioni climatiche della remota laguna del Monte San Giorgio ricordano le condizioni presenti attualmente ai Caraibi con una temperatura dell'acqua compresa tra i 22 e i 25 °C. Tra zone d'acqua bassa, banchi sabbiosi e isole vi erano alcune lagune isolate dal mare aperto, poco profonde e dai fondali caratterizzati da acque poco ossigenate. Gli animali morti finivano sui fondali della laguna e venivano successivamente ricoperti da fango. Per questo motivo si ritrovano al giorno d'oggi scheletri fossili completi. Se i fondali marini avessero costituito un ambiente favorevole alla vita, le carcasse sarebbero ben presto state divorate e gli scheletri si sarebbero inesorabilmente degradati. All'interno della fanghiglia i batteri distrussero lentamente la pelle e le parti molli delle carcasse. Si conservarono invece gli scheletri pressati degli animali che permisero di ricostruire con precisione l'aspetto dell'animale. Il clima tropicale era contrassegnato da periodi di piogge monsoniche. Col trascorrere del tempo si passò da un ambiente acquatico salino, tipico della Zona limite bituminosa bassa e media, ad un regime d'acqua sempre meno salina nella parte alta della Zona limite bituminosa.

Sino ad oggi sono stati ritrovati oltre 10'000 esemplari fossili tra cui 30 specie distinte di rettili, 80 specie di pesci, 100 specie d'invertebrati e numerosi fossili microscopici. Tra i ritrovamenti più recenti v'è uno tra i primi insetti fossili a livello mondiale d'origine triassica (Tintorina meridensis, una "Zanzara" lunga 17 mm). La maggior parte dei ritrovamenti proviene dalla Zona limite bituminosa. Particolarmente ricca di fossili è la parte centrale di questo pacchetto roccioso che originariamente veniva cavata nelle cave della Val Porina e delle Tre Fontane. Tra i ritrovamenti principali s'annoverano gli ittiosauri (grandi sauri marini), i placodonti e numerosi pesci come i Chondrichthyes. Provenienti dagli stessi strati sedimentari vi sono Paranothosaurus, altri Sauropterygi, vari esemplari di Tanystropheus e l'unico sauro di grandi dimensioni esclusivamente terrestre, il Ticinosuchus. Nelle rocce argillose i fossili vertebrati presentano un grado di conservazione assai buono e scheletri completi. Nei banchi di dolomia è possibile ritrovare resti di invertebrati, alcune alghe calcaree e rare piante come conifere (Volzia). Grazie alla presenza di numerosi fossili guida come Ammoniti e conchiglie del genere Daonella è stato possibile datare con precisione l'età della Zona limite bituminosa che risale al Trias intermedio, tra l'Anisico e il Ladinico. Datazioni assai precise dei minerali di zircone contenuti in uno strato di cenere vulcanica (bentonite) hanno permesso di stabilite un'età di 241-242 Mio d'anni. Negli strati più recenti del Trias intermedio del Monte San Giorgio appaiono fossili di rettili e pesci, comunque il numero ridotto di tali ritrovamenti indica un peggioramento delle condizioni di vita. Negli strati sedimentari della Cassina sono stati ritrovati grandi fossili di Neusticosaurus edwardsii (noto anche con il nome desueto di Pachypleurosaurus), esemplari di Ceresiosaurus, Macrocnemus e Tanystropheus nonché vari pesci ossei del genere Saurichthys. Negli strati più giovani del Calcare di Meride sono stati trovati piccoli pesci, granchi, resti di piante e un Lariosaurus.

Gli strati di scisti bituminosi ricchi in sostanze fossili, sono stati sfruttati in passato per l'estrazione di combustibile (1774-1790) e di gas destinato all'illuminazione della città di Milano (1830). Più tardi a partire dal 1902 su territorio italiano, e dal 1909, data di fondazione della Società anonima "Miniere Scisti Bituminosi di Meride e Besano", su territorio svizzero, venne estratto dalle rocce bituminose un olio dalle grandi proprietà terapeutiche e curative, il Saurolo (Ammonium sulfosaurolicum). In località Serpiano, a Tre Fontane e in Val Porina videro la luce numerose miniere i cui cunicoli nel 1948 raggiunsero 2 km. Dalla roccia era possibile estrarre l'8% di olio, 8-9% di gas impuri e 2-3% di fluidi ricchi in ammoniaca. Durante la seconda guerra mondiale si studiò la possibilità di estrarre carburante da queste rocce. Ulteriori studi dimostrarono però che i costi di produzione avrebbero superato di ben 10 volte il prezzo dei prodotti allora in commercio. La produzione andò comunque avanti e in quegli anni vennero trattate da 36 a 626 tonnellate di scisti, che permisero la produzione di 3-50 tonnellate di olio. Si calcolò che le riserve sicure di materia prima s'aggiravano attorno a 1.6 milioni di tonnellate, corrispondenti a 128'000 tonnellate d'olio. La roccia veniva trasportata nella fabbrica dello Spinirolo a Meride dove, seguendo un brevetto della Società Anonima, veniva in una prima fase "distillata a secco". Successivamente l'olio veniva purificato con acido solforico seguendo un processo detto di solfonazione e assumeva così una maggiore consistenza che lo rendeva simile ad un altro unguento chiamato ittiolo. Il Saurolo aveva grandi poteri asettici, era perlopiù utilizzato per curare malattie della pelle e conobbe una grande diffusione tra le truppe italiane durante le campagne militari d'Africa. Poco dopo la seconda guerra mondiale la concorrenza sempre più agguerrita di prodotti esteri impose la chiusura degli stabilimenti di Meride.
Nel comune di Arzo si estrae tutt'oggi una breccia sedimentaria comunemente chiamata Marmo d'Arzo. L'inizio dell’attività estrattiva presso le cave risale attorno al 1300 mentre da oltre 200 anni, le cave sono gestite dalla famiglia Rossi, la quale si occupa dell’estrazione e della lavorazione del "marmo". A partire dagli anni ’20, grazie a moderni strumenti di lavoro quali il monolama e la fresa, la ditta Rossi di ha reso efficace e produttiva l’attività nelle cave. La Breccia ha origine come detto all'inizio del Giurassico (Lias), dove movimenti estensionali della crosta portarono alla fessurazione subacquea della roccia e al conseguente riempimento delle fessure con brecce sedimentarie (fessure d'iniezione). La roccia si presenta perlopiù in un affascinante mosaico di colori e compare in 6 differenti varietà. La Macchiavecchia è una roccia eterogeneo composta da frammenti di granulometria variabile di rocce del Trias superiori o del Lias inferiore. Presenta un aspetto screziato e vivace e tonalità variabili tra rossa, gialla, e grigia. Il Rosso di Arzo si contraddistingue per il colore rosso intenso e la struttura omogenea, mentre il Broccatello ha una colorazione rossastra sino a grigiastra. Il Venato, infine, è percorso da venature e sfumature (viene per questo chiamato, in dialetto, Vinaa). Il "marmo" di Arzo viene impiegato in ambiti fra i più disparati: per la decorazione di opere importanti quali chiese, cappelle, palazzi pubblici e ville, oppure come materiale per l’arredamento o per la realizzazione di oggetti di varia forma e natura.
Le rocce facenti parte della zona porfirica sono tagliate da numerose intrusioni di tipo filoniano. Nella regione del Serpiano è presente un arricchimento filoniforme ricco in barite, fluorite e ankerite che venne sfruttato tra il 1942 ed il 1944 per l'estrazione di tali minerali. L'estrazione di 746 tonnellate di roccia ricca in barite si concentrò dapprima in superficie e poi in galleria per concludersi poi a soli 10 metri di profondità a causa di una faglia. Questo giacimento non ha più alcun significato commerciale.
Cosparse omogeneamente su tutto il territorio del Monte vi sono varie cave di calcare e di tufi calcarei da tempo cadute in disuso.

I rettili rappresentano la fauna più spettacolare del Monte San Giorgio e contano circa 25 specie, per lo più marine, con diversi gradi di adattamento alla vita acquatica.
Tra queste spiccano per numero gli eosaurotterigi, che presentano caratteristici arti a forma “di pagaia”, come nel caso del Ceresiosaurus che poteva misurare fino a 3 metri di lunghezza, o del più piccolo Neusticosaurus (30–100 cm), di cui il Ceresiosaurus si cibava. Altri celebri rappresentanti di questo gruppo sono Serpianosaurus, Lariosaurus e Nothosaurus, quest’ultimo un predatore dalla possente dentatura, che con quasi 4 metri di lunghezza doveva trovarsi in cima alla catena alimentare.
Un grande esemplare di Ceresiosaurus con sette piccoli scheletri di Neusticosaurus della formazione del Calcare di Meride (lunghezza della lastra 2.5 m).

Tra i rettili meglio adattati alla vita in mare figurano gli ittiosauri. Dotati di un lungo rostro, di una pinna caudale verticale e di arti trasformati in vere e proprie pinne, ricordavano un po’ i delfini di oggi. I fossili ritrovati con maggiore frequenza appartengono al genere Mixosaurus, ittiosauri primitivi mediamente di un metro di lunghezza, che si cibavano principalmente di cefalopodi simili a calamari (Phragmoteuthidae). Più rari sono gli ittiosauri di dimensioni maggiori, come il Cymbospondylus di circa 4 metri di lunghezza e il Besanosaurus di quasi 6 metri, il più grande rettile finora rinvenuto sul Monte San Giorgio, scoperto nel 1992 dal Museo di storia naturale di Milano durante lo scavo paleontologico a Sasso Caldo in Territorio italiano.

Un rettile marino assai singolare era il Tanystropheus, un protorosauro che poteva raggiungere i cinque metri di lunghezza: aveva infatti un collo particolarmente lungo (un po’ come le giraffe) e cacciava soprattutto cefalopodi.

Un gruppo di rettili particolare era pure quello dei placodonti, come Paraplacodus o Cyamodus, che possedevano denti piatti e ovali in grado di schiacciare i gusci e i carapaci degli organismi marini e che si erano dunque specializzati nel nutrirsi di molluschi e crostacei.

Accanto ai famosi rettili, i giacimenti di fossili del Monte San Giorgio sono ricchi soprattutto di pesci: circa 50 sono infatti le specie finora descritte. Numerose sono state rinvenute in stadi di crescita diversi e, talvolta, è stato addirittura possibile accertarne il sesso. I fossili del Monte San Giorgio permettono di seguire l’evoluzione di questo gruppo di organismi sull’arco dei milioni di anni, con l’apparizione di numerosi gruppi che sono all’origine della fauna attuale.

I pesci cartilaginei, come gli squali (Acronemus, Acrodus), hanno fornito soltanto pochi, ma molto interessanti reperti incompleti (soprattutto denti e spine di sostegno delle pinne), in quanto il loro scheletro mal si conserva durante i processi di fossilizzazione.

I pesci ossei hanno invece fornito molte migliaia di reperti. Tra le forme più affascinanti figurano Ticinepomis e Holophagus, due pesci celacantidi del gruppo dei sarcopterigi imparentati a forme ancora oggi viventi come Latimeria, un “fossile vivente” presente nell’Oceano Indiano.

Il gruppo meglio rappresentato è quello degli attinotterigi. Tra i pesci di taglia più modesta (3-10 cm) troviamo per esempio i piccoli Habroichthys, Prohalecites, Peltopleurus, Peripeltopleurus e Pholidopleurus che si nutrivano presumibilmente di plancton e di piccoli organismi costieri. Di dimensioni maggiori (fino a circa 80 cm) e dotati di dentatura robusta figurano invece Archaeosemionotus, Colobodus e Crenilepis. Tra quelli di taglia ancora maggiore troviamo Birgeria (fino a 120 cm), grosso pesce resistente nel nuoto in mare aperto e Saurichthys, un predatore veloce simile nella forma agli odierni lucci e barracuda. Alcuni esemplari di Saurichthys contenenti embrioni, mostrano che i pesci appartenenti a questo genere dovevano partorire piccoli già formati e non deporre uova, come più frequentemente accade.

I conodontofori sono un misterioso gruppo che si è estinto alla fine del Triassico. Fin quasi alla fine del XX secolo di essi si conoscevano soltanto i minuscoli apparati boccali detti conodonti (da 0.1 a 4 mm), giacché il ritrovamento del primo animale completo risale al soltanto 1983. Grazie alle nuove scoperte si ritiene che i conodontofori fossero organismi vertebrati simili ai pesci, lunghi 5-10 cm, imparentati con le odierne lamprede. Sul Monte San Giorgio sono stati rinvenuti diversi tipi di conodonti in cosiddetti clusters (i primi noti per il Triassico), per esempio nelle argilliti bituminose della parte media della Formazione di Besano.

Oltre ai più noti rettili e pesci, i giacimenti fossiliferi del Monte San Giorgio hanno fornito anche numerose specie di invertebrati marini, grazie ai quali è stato possibile meglio comprendere le condizioni ambientali dell’epoca, e datare con precisione diversi livelli a vertebrati. Gli invertebrati, infatti, soprattutto nella Formazione di Besano, sono più frequenti dei vertebrati e sono conservati in molti più livelli fossiliferi di quelli in cui si trovano i vertebrati. In particolare lo studio strato-per-strato della successione cronologica delle faune a bivalvi e ammonoidi della formazione di Besano, realizzato negli anni ’60, consentì di mettere a punto un sistema di datazione relativa che è stato per alcuni decenni un riferimento internazionale per il passaggio Anisico-Ladinico.
Molti molluschi (bivalvi, gasteropodi e cefalopodi) sono conservati per lo più soltanto le impronte, in quanto i loro gusci calcarei si sono dissolti durante i processi di fossilizzazione. Per ricostruirne la forma e poterla studiare, gli scienziati devono riempire con silicone le cavità lasciate nella roccia dalla dissoluzione della loro conchiglia.

Tra i bivalvi figurano per esempio Peribositra, dalla piccola conchiglia tondeggiante, e soprattutto diverse specie di Daonella, un genere più grande molto diffuso nei mari del Triassico Medio. I gasteropodi, pure presenti, non sono invece stati studiati in modo approfondito.
Tra i cefalopodi figurano varie specie e generi di ammonoidi, un gruppo di organismi estinto imparentato con l’attuale Nautilus. I generi più importanti sono Parakellnerites, Stoppaniceras, Ticinites, Serpianites, Repossia, Nevadites, Chieseiceras e Eoprotrachyceras, tutti importanti fossili-guida per la datazione relativa delle rocce nelle quali sono contenute.

I crostacei sono rari nella Formazione di Besano (Antrimpos, Atropicaris) e nel Calcare di Meride, fatta salvo il livello di Scheltricc (Meridecaris) e la Kalkschieferzone, dove sono più frequenti e dove anzi possono comparire in massa, come nel caso del piccolo “gamberetto” Schimperella. Tra le altre specie sono da citare le esterie o branchiopodi (Laxitextella), microscopici crostacei bivalvi di circa 0.5 cm di lunghezza.

Le più recenti indagini, condotte dal Museo cantonale di storia naturale, hanno permesso di studiare anche gli organismi più minuti del plancton marino, in particolare i radiolari (protozoi unicellulari di pochi decimi di millimetro con guscio siliceo). Si tratta di buoni fossili-guida, tali cioè da consentire una datazione precisa dell’età delle rocce.
Le indagini hanno finora interessato 73 specie e hanno portato alla scoperta di 7 nuove specie per la scienza appartenenti ai generi Sepsagon, Novamuria, Eptingium, Parentactinosphaera e Pessagnollum. Le nuove scoperte consentono di comprendere più a fondo l’evoluzione di questi organismi in un periodo che fu determinante per la loro differenziazione, oggi ben documentato sul Monte San Giorgio meglio che in qualunque altro luogo al mondo.

Nei giacimenti marini del Monte San Giorgio sono stati scoperti anche frammenti di piante terrestri (rametti, foglie, coni), ciò che suggerisce la presenza della terraferma o isole non molto lontano. In particolare si tratta di frammenti di equiseti del genere Equisetites, di felci con semi (un gruppo di piante completamente estinto) appartenenti al genere Ptilozamites, di cicadofite del genere Taeniopteris, così come di conifere dei generi Voltzia e Elatocladus. Grazie a queste indicazioni è oggi possibile supporre che, in un clima caldo di tipo monsonico, le foreste sulla costa venissero spazzate da ricorrenti tempeste che trasportavano frammenti di vegetali sul fondale del bacino.

Nel 1998 ricercatori dell'Università di Milano scoprirono per la prima volta un insetto fossile appartenente al gruppo degli Efemerotteri: chiamata Tintorina, è comunemente nota come la “zanzara” del Monte San Giorgio. Il ritrovamento di Tintorina è molto importante perché si tratta del primo ritrovamento di questo gruppo di organismi che si sta rivelando molto differenziato sul Monte San Giorgio.
 
Nel 1999 anche ricercatori dell'Università di Zurigo scoprirono, in altri strati più vecchi, due nuovi insetti (un coleottero e una libellula), mentre nel 2010 il Museo cantonale di storia naturale di Lugano rinvenne i resti fossili di tre insetti senza ali, appartenenti al genere Dasyleptus. Questo genere rientra in un sottogruppo estinto degli insetti Archeognati, i Monura, che fino ad allora si riteneva scomparso molto tempo prima, in occasione dell'estinzione di massa al termine del Permiano (252 milioni di anni fa). Dasyleptus presenta notevoli analogie con il genere attuale Petrobius, un piccolo abitante degli anfratti rocciosi costieri che si nutre prevalentemente di alghe e che è conosciuto per essere un agile corridore e saltatore. Il confronto con le forme attuali porta quindi a ritenere che tali insetti abitassero la terraferma e che fossero diffusi lungo il litorale marino.



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