sabato 20 giugno 2015

LA CHIESA DELLA DISCIPLINA A VEROLANUOVA



Di fronte a Castel Merlino, sopra una balza che costituiva il castello comunale di Verolanuova - più antico e a volte contrapposto a quello feudale - sorge la chiesa della Disciplina, già chiesa parrocchiale di S. Lorenzo, affiancata da una armoniosa torre campanaria tardo gotica (in un mattone ai piedi del campanile è graffiata la data 1473). L'interno, in origine ad una navata intervallata da archi a sesto acuto che sostengono un soffitto a due spioventi con travetti a vista e tavelle dipinte, venne dotato sulla metà del Seicento di una finta volta con arelle in legno intonacate e di un matroneo sopra l'ingresso, destinato alle riunioni della Disciplina.La chiesa della Disciplina, abbandonata per lungo tempo e riaperta solo da pochi anni, conserva nel suo interno copiose tracce della decorazione quattro-cinquecentesca ad affresco (di particolare interesse, nel sottotetto, sono i motivi del liocorno sormontato da un airone che si scorgono nelle fasce di coronamento degli arconi e le rose e le stelle dipinte sulle tavelle) ed il monumento funebre del Conte Nicolò II Gambara (+1592), vero e proprio capolavoro della scultura bresciana del Manierismo, opera di Pietro Maria Bagnatore, decorato nella cimasa da un dipinto ad olio su ardesia dello stesso artista, raffigurante la Cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva. Sull'ultimo altare a nord, verso il presbiterio, si trova il miracoloso affresco cinquecentesco della Madonna del Campanile, qui trasferito nel 1765, come ricorda un'epigrafe a destra dell'ingresso, proprio sotto il campanile.

A destra dell'abside troviamo il monumento barocco di Nicolò Gambara, sul quale si leggono due iscrizioni; la prima così recita: "Al conte Nicolò Gambara, uomo chiarissimo e per la nobiltà della famiglia e per le sue virtù e imprese, poiché nella guerra subalpina sotto gli auspici di Ferrante Francesco, marchese di Pescara, comandante generale dell'esercito di Carlo V, condusse con somma sua lode mille fanti; milite volontario in Ungheria, prestò egregiamente la sua opera al duca di Ferrara, Alfonso II, nella guerra navale della Repubblica Veneta contro i Turchi, dimostrò una singolare fedeltà e forza, risplendette in casa come nella milizia per la grande pietà e prudenza. Francesco Gambara, nipote, eresse questo monumento al benemerito zio che morì l'anno della Redenzione 1592, il 27 gennaio, qua avendo vissuto 54 anni, mesi 4 e 16 giorni".
Da alcuni documenti si apprende che Nicolò Gambara nacque probabilmente a Verolanuova nel Castel Merlino l'11 settembre 1537. Egli seguì, come il padre e il nonno, il mestiere delle armi, attività propria delle antiche famiglie feudali. Non avendo figli, designò suoi eredi i nipoti, uno dei quali gli eresse questo monumento.
La seconda iscrizione, forse più interessante della prima, è dedicata ad una giovinetta, data in sposa per procura ad un Gambara e morta prima che il marito la vedesse.
"A Maddalena Speciano Gambara, giovinetta insigne e per nobiltà e per prudenza molto superiore dell'età, che sposata ad un assente mentre affretta col desiderio le nozze terrene, da Cristo, sposo delle vergini, chiamata al talamo celeste, vergine felicemente vi salì nell'anno 14 di età, Lucrezio Gambara mestissimo sposo (questo ricordo) alla desiderata consorte nel mese di marzo dell'anno 1597".
Lucrezio Gambara, a cui fa riferimento l'iscrizione, era nipote di Nicolò Gambara in quanto figlio del fratello minore, e morì giovanissimo, all'età di 23 anni, il 28 giugno 1602, colpito dal mal sottile, ereditario nella sua famiglia. La promessa sposa, Maddalena Speciano, morì a soli 14 anni, mentre Lucrezio si trovava in Ungheria, come condottiero di armati nella guerra contro i Turchi.
Sul lato sinistro del presbiterio un paramento ligneo nasconde una muratura ad arcata realizzata per l'inserimento dell'organo, costruito dal celebre Battista Facchetti e donato alla chiesa nel 1540 dalla famiglia Gambara. La recente tamponatura è stata fatta per occultare l'ingiustificato smantellamento dell'antico strumento. La cantoria venne sistemata definitivamente nel 1625 dal noto scultore Feliciano Galluzzi.

Sempre a sinistra dell'abside, nella zona delle sagrestie, all'interno della cella del campaniletto, è evidente l'esistenza di una volta impostata su un primitivo vano quadrangolare di dimensioni più ampie e ridotto allo stato attuale per l'inserimento della scala di accesso al piano superiore. L'interno della chiesa era abbellito da una teoria di affreschi votivi e decorativi del Cinquecento, dei quali si vede ancora qua e là qualche pregevole avanzo. Durante le indagini sulla seconda campata è stato aperto un piccolo pertugio, perché, tastando la parete, si intuiva l'esistenza di uno spazio vuoto. Questo intervento ha portato alla luce un affresco attribuito ad un certo Gatti, pittore verolese, e datato 1521. Esso rappresenta S. Lucia, S. Agnese e S. Caterina. Dello stesso ciclo fa parte anche la Madonna del Campanile, di autore ignoto, che inizialmente si trovava in fondo alla chiesa, da dove fu poi tolto a causa dell'umidità e ubicato sopra un altare. Al suo posto fu collocata un'elegantissima iscrizione latina che ricorda il trasporto dell'immagine venerata; di essa si riporta la versione italiana: "Qui stava la miracolosa immagine dell'alma Vergine che vien chiamata da tutti col titolo del campanile ma fu trasportata e splende sul nitido altare il 19 aprile 1765".

Sulla seconda campata a sinistra c'è un quadro del Mainardi, che rappresenta la Madonna con in braccio il Cristo, affiancata da S. Giovanni Battista e da un altro santo; tale dipinto era probabilmente la pala dell'Altare Maggiore della Disciplina.
Il quadro dell'altare della Madonna è attribuito al Trotti e raffigura la Madonna assunta in cielo.
Dopo l'inaugurazione della Basilica di S. Lorenzo, quadri e suppellettili della Disciplina sono stati trasferiti nella nuova parrocchiale, dove sono tuttora custoditi.

La struttura muraria esterna presenta aspetti interessanti. Il fianco sud della chiesa è costituito da un fronte di sei campiture, sottolineate dalle lesene poste in corrispondenza degli interni archi diaframma della navata.
All'altezza di circa sei metri è evidente una linea di ripresa nella muratura, almeno per le prime tre campate; ciò presuppone una preesistenza diversa da quella attuale.
L'abside, databile alla fine del secolo XIV, presenta una finestratura tamponata e un disegno di cornice diversi da quelli della chiesa, testimonianza di altri tempi di esecuzione e di altre manomissioni.
La facciata, più recente di circa due secoli, è da riferirsi ad un prolungamento della chiesa stessa, sì che il torrione, un tempo isolato, risulta incorporato con un lato. I portali marmorei risalgono al Seicento. Sulla facciata, a sinistra della porta, in una piccola lapide murata, sotto un grande stemma Gambara portante il tradizionale gambero rosso, si legge:

"ADI 3 AUGUSTO FO EDIFICATA QUESTA MDIX".

La data "3 agosto 1509", da alcuni erroneamente ritenuta l'anno di fondazione, è in realtà riferibile a qualche intervento straordinario, forse il prolungamento o l'ampliamento verso mezzogiorno della chiesa stessa. Inoltre, è in netto contrasto con la data 1534, anno in cui il conte Brunoro Gambara offrì 400 ducati per il restauro: questo presupponeva condizioni di vetustà e di degrado che in 25 anni la chiesa non poteva presentare.
La torre campanaria doveva originariamente essere più bassa dell'attuale, con tre ordini di palchi in muratura a volta a crociera. Trovavasi quindi formata da quattro vani sovrapposti: il primo al piano terra, adibito a presidio e custodia, il secondo con accesso a quota alta per la manovra delle campane, il terzo per l'alloggio degli ingranaggi dell'orologio con l'unico quadrante prospettante in lato ovest, ed il superiore quarto vano come vera e propria cella campanaria.
La data (1667), riportata su uno dei vecchi mattoni dell'attuale cella campanaria superiore, indica forse il momento del sopralzo del campanile.
Col sopralzo si aggiungeva alla torre un nuovo palco in legno e la stessa veniva sopraelevata di circa cinque metri e provvista di superiore guglia.
La nuova cella serviva così ad un alloggiamento più alto delle campane, mentre la sottostante e precedente cella campanaria accoglieva gli ingranaggi di un secondo quadrante prospettante in lato nord, rivolto verso il centro del paese.
Durante il restauro del campanile, è emersa un'altra indicazione: vicino alla data "1473 DIES PASCHAE" è stata ritrovata una nicchia, protetta da un mattoncino, contenente un uovo di gallina e un dischetto di legno punteggiato a fuoco con la croce e D.P. Tale indizio potrebbe fare riferimento alla costruzione del campanile, ma di ciò non si ha certezza.
L'ultimo intervento alla torre campanaria, effettuato nel 1981-82, ha messo in luce la preesistenza della guglia, della quale rimangono soltanto alcune tracce: l'innesto della sezione quadrata con la sezione circolare mediante quattro pennacchi laterali.
Fotografie degli inizi del Novecento testimoniano l'esistenza di questa guglia.
Il campanile era dotato di cinque campane in "do", che nel 1911 vennero rifuse per la costruzione delle campane in "la" del nuovo campanile.
La chiesa era tutta circondata dal cimitero, la cui presenza è testimoniata dalla seguente iscrizione funeraria, posta sul fianco esterno della porta laterale, a settentrione; si legge: "Monumento eretto a Marco Romanelli, di mente elettissima, morto il 6 novembre 1791 non ancora compiuto il 23 anno di età, e a Carlo Romanelli suo amatissimo zio, involato ai vivi fra il dolore dei poveri il 1 gennaio 1792, nell'anno 55 di età, ambedue deposti in questo tempio, nel sepolcro dei Sandri" (il testo originale è in latino). Nell'interno sono presenti diverse tombe, alcune anonime, altre segnate con brevi iscrizioni che ricordano essere state le tombe gentilizie delle principali famiglie del paese, come i Girelli, Sandri, Spalenza, Venturi.
Anche alcune associazioni religiose, come la confraternita di S. Rocco e del Crocifisso, vi ebbero tombe particolari, segnate con brevi iscrizioni.
Sulla parete interna della porta meridionale appare la seguente iscrizione: "Stefano Martinelli / trafficante e possidente onestissimo / concorse largamente alla erezione / della cupola del tempio di Calcio sua patria / beneficiò in Brescia diversi luoghi pii / in Verolanuova fondò l'orfanotrofio / e contribuì di molto all'aumento dell'asse / dell'ospedale dove visse i suoi ultimi anni / assistito dalle benemerite suore di carità / morì il 3 luglio 1878 pieno di fede / e ricco di opere di pietà e di misericordia / la sua salma riposa nel patrio cimitero".

Sul lato di mattina e su quello di monte correva la Fossa Castello, che si congiungeva con il castello preesistente. Il lato di mattina fu ceduto dal Comune ai confinanti con una delibera del 31-5-1874 per metri quadrati 1104, divisi fra quattro frontisti, come attesta la relazione dell'ing. G. Tadini. Questo fa pensare che il complesso della Disciplina occupasse una area più vasta di quella attuale. Dalle mappe antiche emerge, infatti, che la zona del castello aveva un andamento a scacchiera, quindi è probabile che la fossa delimitasse anche altri edifici. Si potrebbe quasi pensare ad una cittadella racchiusa nella cerchia delle proprie mura, circondate dalla relativa fossa. Sul lato di tramontana esisteva la chiesetta del Suffragio, che grosso modo partiva all'altezza della torre e si estendeva per 12,85 metri con una larghezza di 7,60 metri, come risulta dalla relazione dell'ing. C. Gazetti. La chiesetta è stata abbattuta nel 1907 per lasciar posto al nuovo campanile.

La lettura di un affresco datato 1522, dipinto nella Chiesa della Disciplina, a Verolanuova, in provincia di Brescia – edificio che ai tempi quell’intervento pittorico era il principale luogo di culto della zona – rivela, indirettamente, attraverso l’impaginazione, quali fossero le maggiori e più temute cause di sofferenza o di infermità nella pianura padana, ai tempi del Rinascimento. L’opera, di una certa, rude eleganza, rinvia a moduli arcaici, ancora quattrocenteschi, sia nella delineazione delle figure che per l’impaginazione a scomparti. Arcaicità della lingua pittorica che risulta evidente nel momento in cui si considera che l’affresco di Verolanuova fu realizzato tre anni dopo la morte di Leonardo da Vinci e a due anni dalla scomparsa di Raffaello.
Ripartito come un polittico, con aree delimitate da false cornici, il dipinto non è  lontano dall’ingresso della chiesa e dovette costituire, in ambito parrocchiale, un nucleo interno specializzato, con funzioni di santuario, legato cioè al culto dei santi e alla richiesta di grazie. L’affresco presenta nella parte superiore san Girolamo, il traduttore della Bibbia dal greco al latino – che ha la funzione di orientare alla Bibbia il culto dei Santi, prevenendo atteggiamenti idolatrici dei fedeli – mentre nell’ordine inferiore, offre la vista di quattro santi, in uno spazio quadripartito irregolarmente, santi ai quali, anche attraverso iscrizioni in lingua e caratteri latini, si impetra l’intercessione divina. La differenza di spazio assegnata a Santa Caterina d’Alessandria – a fronte della mancanza di carte che provino la dedicazione del tempio a questa santa – le drammatiche immagini di operai-contadini lacerati dalle lame delle ruote, ai suoi piedi, lascerebbero intendere la necessità di aumentare l’evidenza della scelta cultuale per creare un canale più ampio di contatto.
Il dipinto di Santa Caterina d’Alessandria – impostato strutturalmente come un ex voto collettivo – rievoca parzialmente il primo tentativo di martirio. Secondo le fonti antiche, Caterina rifiutò l’apostasia della religione cristiana e venne pertanto condannata al supplizio della ruota, che si spezzò miracolosamente, come per volontà divina, sicchè i persecutori eseguirono la sentenza con la spada. Ma qui, Caterina sta sull’asse di una sorta di biga, le cui ruote sono dotate di spaventose lame di tortura. Una biga che ferisce anche due uomini, sfigurandoli, con un realismo che caratterizza la pittura bresciana e bergamasca dell’epoca, molto attenta alle fonti del vero, per quanto crudele esso sia. Caterina, leva lo sguardo a Dio, mentre il carro attraversa la campagna ormai raggelata: candido è il paesaggio lontano, con alberi brulli dalle cortecce imbrunite, solcato da un fiume azzurro, evidentemente lo Strone, il corso d’acqua di Verolanuova, che si getta più a Sud nell’Oglio.
Il pittore suggerisce anche, nell’area in cui dipinge gli alberi, uno scoscendimento che caratterizza il paesaggio locale. Nonostante Verolanuova sia in pianura, il nucleo originario sorse nei pressi del vallone, una depressione del terreno che dovette favorire non solo la difesa di Castel Merlino, lì abbarbicato, con la creazione di una profonda fossa difensiva, ma l’istallazione di laboratori artigianali e di mulini che usufruivano del moto vivido delle acque. L’altimetria di Verolanuova passa da 73 metri sul livello del mare a 53 metri, segnando pertanto un salto teorico di venti metri, ottimo da sfruttare soprattutto per la presenza naturale di una fonte d’energia primaria come l’acqua.
Santa Caterina d’Alessandria, secondo la tradizione più antica. proteggeva mugnai, tornitori, arrotini, barbieri, sarte, carradori e comunque veniva impetrata la sua intercessione da coloro i quali lavoravano utilizzando meccanismi a ruote, lame, chiodi o aghi. Ma nell’affresco di Verolanuova, il pittore sembra indicare un’estensione dell’intervento di protezione ai contadini durante i lavori di aratura e di erpicatura del terreno. Non è casuale la scelta dell’ambientazione stagionale della scena – coincidente con la festa della santa, il 25 novembre, e con le operazioni di aratura – e il fatto che i due uomini gravemente feriti dalle lame delle ruote appaiano sulla terra viva, marrone e caratterizzata dall’emersione di numerosi sassi, e non sulla zolla del prato. L’area sottoposta ad aratura occupa sia la fascia inferiore dell’affresco,  quale poggiano i due feriti, che due nastri, posti come due lati di completamento di un triangolo.



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