lunedì 29 giugno 2015

VALTORTA



Valtorta è un comune della provincia di Bergamo, situato in Val Stabina, laterale dell’alta Val Brembana.

Piccolo borgo incastonato tra i monti, che deve l’origine del proprio toponimo alla conformazione tortuosa (valle tortuosa) che questa valletta possiede, non annovera episodi di spessore nella sua storia.

I primi documenti scritti e le prime testimonianze concrete risalgono infatti solo al XII-XIII secolo, quando ormai tutti i principali nuclei abitati erano già formati.
Del periodo precedente si sa ben poco e quanto si racconta è frutto di supposizioni o di voci di seconda o terza mano, che ad un vaglio critico finiscono quasi sempre per sconfinare nella leggenda.
E' comunque presumibile che in epoca romana e nei secoli dell'alto Medio Evo la Valle Brembana fosse percorsa da cacciatori attirati dall'abbondante selvaggina che popolava le sue foreste e da pastori già dediti ai riti della transumanza e che quindi nella stagione estiva salivano con le loro greggi dalla pianura ai pascoli d'alta montagna.
Ma la Val Torta (così era anticamente chiamata) fu sicuramente una delle prime zone della Valle Brembana ad avere insediamenti stabili e non solo stagionali.
Sappiamo infatti per certo che nel 1200 Valtorta era una delle sette parrocchie facenti parte della pieve di Primaluna in Valsassina.
Questa dipendenza è spiegabile, almeno in parte, con la collocazione geografica di Valtorta ed è un fatto del resto che tutta la sua storia antica, religiosa ma anche civile, è strettamente legata a quella della Valsassina, da cui con ogni probabilità provenivano anche i suoi primi abitanti.

Come per molti altri paesi, la prima parte della storia di Valtorta vede coincidere in molti aspetti la sfera religiosa con quella civile. Anche in questo campo infatti essa dipendeva nei suoi primi secoli di vita dalla Valsassina.
Come tale, fin dal 1100, unitamente alla Valle Averara e alla Valle Taleggio, costituiva un feudo dell'arcivescovado di Milano cui era stata probabilmente donata da qualche imperatore, qualcuno racconta dallo stesso Carlo Magno.
Ma sono questi secoli di aspre lotte civili che danno vita a un intreccio tra potere religioso e potere politico, per cui all'autorità del vescovo di Milano si accompagna ben presto quella dei Torriani prima e dei Visconti poi, seguendo in questo Valtorta, come s'è detto, le sorti della Valsassina.
Di Valtorta sappiamo che anch'essa era divisa al suo interno e che le rivalità erano molto accese. Come testimonia l'uccisione da parte dei guelfi nel 1398 di tal "Rainaldo di Valtorta" insieme a un mulattiere della Valsassina.
Le lotte tra guelfi e ghibellini si spegneranno nella provincia solo a partire dal 1428 con l'arrivo di Venezia, cui seguì quasi ovunque la definitiva pacificazione. E quel "quasi" riguarda precisamente le tre valli Taleggio, Averara e Valtorta, dove gli animi si riaccesero invece ben presto proprio per la questione dei nuovi confini tra Venezia e Milano, destinata a dar vita a trent' anni e più di nuovi scontri e polemiche.

Il passaggio sotto Venezia avvenuto nel 1457 non comportò per Valtorta cambiamenti di rilievo.
I pascoli, i boschi costituivano sempre la base della sua economia; le miniere continuavano ad alimentare una discreta attività di fucina che si era specializzata nella produzione di chiodi e piccoli attrezzi da lavoro.
Se si escludono i proventi dell' allevamento, del tutto insufficienti al fabbisogno locale erano le risorse agricole, per cui si doveva ricorrere all'importazione di grano e farina, in cambio dei prodotti di fucina.
Ma come in tutto il resto della Valle Brembana le condizioni di vita dovevano essere assai difficili, e anche a Valtorta si avviò una massiccia ondata migratoria verso le altre città del dominio veneto che ridusse sensibilmente la popolazione del paese.

La prima meta dell' emigrazione fu Bergamo, poi Brescia e quindi Venezia dove, al pari degli altri emigranti bergamaschi, tante famiglie di Valtorta trasferirono le loro attività e ne avviarono di nuove, riuscendo spesso ad eccellere nei vari settori produttivi e nella vita culturale e religiosa.
I legami con la terra d'origine non venivano quasi mai interrotti, ma continuavano in varie forme e si concretizzavano con frequenti donazioni alla parrocchia; ancora per tutto il Cinquecento si hanno esempi di famiglie di emigranti che tornavano periodicamente a Valtorta per esercitarvi il diritto di voto e continuare così a godere, assieme alla cittadinanza, dei privilegi concessi alla valle dalla Serenissima.

Nemmeno Valtorta sfuggì al flagello della peste del 1630.
Arrivato in Lombardia con le milizie mercenarie tedesche che scendevano dalla Valtellina per partecipare alla guerra di successione di Mantova, il morbo scoppiò in primavera raggiungendo il massimo della virulenza nel corso dell'estate. A rendere ancora più drammatica la situazione, la peste era stata preceduta nell'anno 1629 da una spaventosa carestia.
Poi appunto la peste, senza che nessuno potesse trovarvi il minimo rimedio. A nulla servirono i cancelli posti alle porte dei paesi, i salvacondotti necessari per spostarsi da un paese all'altro, né tanto meno gli intrugli di medici e stregoni, completamente sprovvisti di fronte a un nemico invisibile.
Tra il giugno e il settembre del 1630 morirono in Valle Brembana 6.753 persone, quasi un terzo dei 16.932 abitanti.
Per quanto riguarda Valtorta i dati sono purtroppo incompleti per il fatto che nel 1625 era subentrata la divisione in due comuni. Così, mentre nel 1596 la popolazione risultava di 570 abitanti, nel 1630 si ha un dato di 318 e non si ha citazione di quanti fossero gli abitanti del nuovo comune delle "Cinque Contrade".
Da 318 comunque gli abitanti scesero nel 1631 a 240 e nel 1632 a 213. I morti di peste dovettero quindi essere 68, mentre il calo registrato tra il 1631 e il 1632 dovrebbe essere attribuito al fenomeno dell'emigrazione che si registrò in quell'anno in molte zone montane.
Malgrado tutto quindi si può dire che con i suoi 68 morti Valtorta sia stata tra i paesi meno colpiti, sicuramente grazie alla sua lontananza dalle vie principali di traffico dove le possibilità di contagio erano molto maggiori.
A testimoniare la peste del 1630 a Valtorta vi era fino a pochi anni fa la chiesa detta dei morti di San Lorenzo, dove venivano sepolti i cadaveri delle vittime. Pare che ossa e teschi siano rimasti in vista per decine e decine di anni, forse per ammonimento agli scampati (igiene a parte ovviamente).

Nel 1797 ha fine la dominazione veneta. Stremata dalla lunga guerra con i Turchi, dalla perdita dei suoi territori d'oltremare e ormai da tempo in decadenza, la Repubblica di San Marco nulla può contro le grandi potenze e, senza nemmeno combattere, vede tramontare il suo secolare dominio.
Per Valtorta il cambiamento più significativo è l'abolizione del suo secolare statuto. A cui si aggiunge il guaio ancora più grosso del brigantaggio causato nel 1801 dall'introduzione della coscrizione obbligatoria. Anziché presentarsi alla chiamata alle armi e dare il proprio contributo alla sfrenate ambizioni di Napoleone, moltissimi furono i giovani della Valle Brembana tra i 20 e i 25 anni che preferirono darsi alla macchia sulle montagne, diventando in molti casi veri e propri briganti che taglieggiavano chiunque capitasse loro a tiro.
E questa situazione durò fin quasi al 1815 quando dopo il Congresso di Vienna nacque il Regno Lombardo- Veneto, sotto il dominio degli Austriaci. La cui presenza fu accettata a Valtorta come nella grande maggioranza degli altri paesi in maniera completamente passiva.
Francesi o austriaci, le condizioni economiche e sociali del primo Ottocento furono comunque assai tristi.
Nel 1803 il paese contava 740 abitanti, di cui 94 erano a Rava, 97 a Fornonuovo, 140 alla Costa e 91 tra Cantello e il Grasso.
Ormai esaurite ed antieconomiche, le miniere erano state completamente abbandonate.
Allevamento, agricoltura e attività forestali erano spesso insufficienti a garantire anche il minimo per la sussistenza.
Tra il 1810 e il 1816 il paese, al pari del resto dell'alta valle, venne colpito da una serie di gravi carestie che penalizzarono ulteriormente le già precarie condizioni del paese.
La situazione non migliorò negli anni seguenti; nel 1816 si ebbe infatti una nuova grave carestia che fu seguita nel 1817 da una epidemia di tifo petecchiale dovuto naturalmente alla denutrizione e alla miseria e che divampò in tutta l'alta valle. Secondo alcune fonti i morti a Valtorta sarebbero stati ben 109.
Gli ammalati venivano portati nello Spedale creato appositamente a San Gallo.
E tifo, pellagra e vaiolo avrebbero colpito Valtorta anche successivamente e particolarmente negli anni 1842, 1846, 1847, 1852. A tutto questo si aggiungevano poi altre calamità come la caduta di valanghe, le alluvioni e perfino le invasioni di lupi.
Le valanghe non erano certo un fatto nuovo; in passato ne erano cadute a più riprese: nel 1598 la neve precipitata dal prato della Lisca, aveva investito e abbattuto la facciata della chiesa della Torre; un'altra valanga aveva travolto il 23 gennaio 1642 una fucina situata a valle della stessa contrada, seppellendovi tre persone; la chiesa di Sant' Antonio alla Torre era stata danneggiata una seconda volta nel 1702, sempre a causa di una valanga.
Ma davvero rovinosa fu quella del 21 febbraio 1888 che, staccatasi dalla Coma Grande, precipitò sull' abitato, causando 26 vittime.
A dar man forte ai soccorritori arrivarono in giornata anche volontari di Cassiglio e Omica, guidati dai rispettivi sindaci Giovanni Bagini e Pietro Gualteroni, dopo aver liberato la strada per Valtorta, investita da valanghe in più punti. Gli estenuanti lavori di scavo consentirono di estrarre dalla neve e dalle macerie sei persone ancora vive e in buone condizioni, ma per le altre 26 non ci fu nulla da fare. Una lapide posta sull' attuale casa parrocchiale, nei pressi dalla zona colpita dalla valanga, ricorda le vittime del tragico evento.
Ma non era finita: nel marzo dello stesso anno due valanghe staccatesi ancora dalla Corna Grande si abbatterono sulla casa del cappellano, che sorgeva attigua alla chiesa e la danneggiarono seriamente, senza però causare vittime.
Quanto alle alluvioni, la più disastrosa si ebbe il 29 giugno 1890 quando piogge torrenziali causarono allagamenti, frane e smottamenti in tutto il territorio distruggendo anche la carrozzabile in costruzione da Cassiglio a Valtorta.
Diverse stalle e fienili furono travolti dalle frane assieme agli animali, riducendo in miseria i già poveri proprietari; vennero messe fuori uso le ultime fucine e gli ultimi forni dando un colpo definitivo all'economia basata sui chiodi.
La furia aggredì anche la chiesetta dell' Addolorata di Fornonuovo che ne fu completamente distrutta.
Quanto ai lupi, la cui presenza era sui monti di Valtorta particolarmente massiccia come già testimoniano le cronache del '500 e '600, se ne ebbe un'invasione vera e propria intorno al 1810 quando il governo dovette stabilire dei premi in denaro per ogni lupo ammazzato. TI numero dei lupi si diradò notevolmente, anche se la scomparsa definitiva si ebbe solo ai primi del Novecento.

Ma al di là delle difficoltà e delle disgrazie il paese continuava naturalmente ad avere una sua vita.
A parte agricoltura ed allevamento che costituivano sempre un' attività fondamentale, un quadro preciso dell' attività economica è quello che possiamo trarre da un documento con i dati sugli "Edifici e macchine da lavoro in Valle Brembana" nel 1790. Da esso risulta che a Valtorta erano presenti 1 filatoio, 1 telaio da lino, 27 ruote da molino da grano, 2 macine da olio, 26 telai da tela, 6 fucine da ferrarezza, 26 fucine da chioderia, 2 mole, 2 seghe da legname e 2 fornaci da coppi, pietre e calcina.
Quello che si nota è che, malgrado la chiusura delle miniere, la tradizione della lavorazione del ferro, mestiere tramandato di padre in figlio, era ben viva, per non dire fiorente.
Tra il 1806 e il 1808, ad esempio, a Valtorta si produssero annualmente 3100 pesi di chiodi (circa 250 quintali). Nello stesso periodo a Cassiglio se ne produssero ben 5100 pesi all'anno; va però precisato che mentre a Valtorta erano occupati l0 fabbri, 20 carbonai e 49 ciodaroi, a Cassiglio si dedicavano alla produzione di chiodi tutti gli abitanti del paese, comprese le donne, oltre a un certo numero di operai provenienti da Ornica, Santa Brigida e dalla stessa Valtorta.
Oltre ai chiodi, si producevano coltelli, accette, ferri di cavallo, chiavi, utensili da cucina e tutta una gamma di attrezzi per la lavorazione del legno e per le diverse attività artigianali locali.
Il ferro impiegato proveniva dai forni di fusione di Branzi e Lenna che però furono definitivamente chiusi attorno al 1820. Da allora tutto il ferro fuso dovette essere importato dalla VaI di Scalve. Due terzi dei chiodi prodotti erano destinati alla ferratura dei cavalli che venivano poi messi in commercio non solo nel Lombardo-Veneto, ma anche in Piemonte, nel ducato di Parma e Piacenza, in Romagna e nei porti di Ancona e Senigallia.
Agli "artisti" dei chiodi di Valtorta, come li definì il Maironi, dedicò una poesiola Celestino Milesi, a sottolineare in tono scherzoso come il loro lavoro fosse assai più faticoso che redditizio.
E in effetti l'attività di produzione dei chiodi andò via via declinando per diversi motivi: la dimensione poco più che familiare delle chioderie con conseguenti difficoltà a stare al passo con l'innovazione tecnologica, la chiusura di miniere e forni in tutta la provincia e quindi l'impossibilità di disporre della materia prima, ma anche le difficoltà di comunicazione e di trasporto per la mancanza di una strada carrozzabile che arriverà a Valtorta solo ad inizio Novecento.
Sia la ghisa che i chiodi e il materiale finito erano trasportati a dorso di mulo o anche con i gerli e d'inverno con le slitte. A questo trasporto erano adibiti in particolare donne e ragazzi. Piegati dal peso e in equilibrio precario su zoccoli di legno chiodati, essi percorrevano avanti e indietro la mulattiera da Valtorta a Cassiglio o alla Valsassina.
Ciò non toglie che la tradizione mineraria ebbe ancora nel corso del tempo qualche sussulto. Sappiamo ad esempio che nel 1895 sul monte Camisolo fu riattivata una miniera da parte di due operai della Valsassina che la cedettero dopo pochi anni a una società inglese: la "The Camisolo Mines Limited" che ne ricavava piombo e baritina trasportati in Valsassina.
Un certo Annovazzi Bernardo tentò di riaprire una miniera nel 1916 ma senza fortuna e abbandonò l'attività nel 1922, non disponendo di mezzi tecnici adeguati.

Il territorio, immerso nella valle Stabina, presenta notevoli proposte, adatte ad ogni tipo di utenza. Il turismo estivo offre opportunità adatte a tutte le esigenze, dall’esperto escursionista all’utente saltuario. Durante l’inverno numerose sono le piste da sci, che si spingono fino ai Piani di Bobbio, località posta sul confine con la Valsassina e la provincia di Lecco.

Merita una visita anche il museo etnografico, posto in quella che veniva definita come la casa della Pretura. Grazie a questo progetto sono stati ricostruiti ambienti tipici della zona, tra cui un mulino ad acqua, e sono stati raccolti numerosi attrezzi della quotidianità rurale.

Di notevole interesse è la chiesa di Sant’Antonio Abate  della contrada Torre, la cui originale struttura romanica è ancora molto evidente, nonostante diversi rifacimenti, nella semplicità delle linee e del materiale, specie nell'interessante campanile in pietra a pianta quadrata, con la cella campanaria a bifore.L'interno, parzialmente interrato, è a una sola navata, suddivisa in tre campate da due arcate trasversali a sesto acuto; il presbiterio è a pianta quadrata, rialzato al livello dell'esterno e coperto da volta a botte.Su alcune pareti dell'edificio sono dipinti pregevoli affreschi di epoca cinquecentesca, riportati alla luce negli anni scorsi e restaurati nel rispetto delle caratteristiche originali. Ignoti sono gli autori che rimandano, per certe analogie, ai Baschenis della Valle Averara.
I soggetti più interessanti sono quelli raffigurati sulla seconda arcata trasversale, rivolti verso il presbiterio. Alla base del pilastro di sinistra si può ammirare un Cristo nel sepolcro attorniato dagli strumenti della passione. Sotto l'affresco, datato 20 novembre 1529, vi è un'iscrizione in latino, ben leggibile, che riproduce una serie di invocazioni al Cristo, nei vari momenti della sua passione.Sulla parte superiore del pilastro è raffigurata una Madonna col Bambino e San Rocco, eseguita il 18 novembre 1529.Tutto il centro dell'arco è interessato da una Incoronazione della Vergine da parte di Gesù, in un tripudio di angeli, musicanti e beati: la scena, corredata da due cartigli, è di grande respiro e ricca di particolari.Il pilastro di destra reca, nel quadrante superiore, una Crocifissione con i Santi Rocco e Sebastiano e, in quello inferiore, una delicata Natività con il nome del committente: ''D. Joannes de Pecis f.f.''.
Alcune figure presentano spunti artistici notevoli, che si possono individuare nell' espressività dei volti su cui sono chiaramente evidenti, di volta in volta, emozioni di gioia, profonda rassegnazione, umiltà, sofferenza; meno curati sono i particolari, mentre si nota una discreta ricerca prospettica ed un'apprezzabile attenzione alle proporzioni e ai volumi.Sul retro del pilastro e sulla parete di destra sono riapparsi di recente altri affreschi che raffigurano un Sant'Antonio abate, due figure di Santi, una Madonna col Bambino e una bella Trinità, collocata proprio dietro il pilastro della prima arcata.Gli altri dipinti si trovano sulle pareti laterali del presbiterio dove, in una trentina di riquadri, sono rappresentate Scene della vita di Sant'Antonio Abate, ciascuna corredata da didascalie in italiano; i riquadri sono in parte coperti da cornici in stucco o malta, aggiunte nel Seicento.Altri due soggetti si trovano sulla facciata esterna di mezzodì: si tratta di una figura di Santo e di un San Cristoforo che regge sulle spalle un piccolo Gesù; i dipinti, in mediocre stato di conservazione, sono certamente anteriori a tutti gli altri e probabilmente risalgono all'epoca della costruzione della chiesetta.I dipinti della Torre occupano un posto di rilievo nel vario succedersi dei cicli di affreschi che interessano la Valle Brembana. Gli autori, non noti, potrebbero forse essere ricercati nella schiera dei Baschenis della Valle Averara, a cui rimandano i soggetti dell'arcata: la scena della Natività presenta, ad esempio, varie analogie con opere coeve dipinte da Simone II Baschenis nelle valli Giudicarie..

Di notevole interesse è la chiesa parrocchiale dedicata all’Assunzione di Maria. L’edificio, costruito tra il 1898 e il 1904 per iniziativa del parroco don Stefano Gervasoni, inglobò quello precedente, citato già nel 1230. Consacrata dal vescovo di Bergamo Radini Tedeschi in occasione della sua visita pastorale il 21 luglio 1907, la chiesa è a tre navate e presenta linee architettoniche di ispirazione neo rinascimentale.Tra le opere d’arte che vi sono conservate, due pregevoli polittici di epoca rinascimentale, uno dei quali in origine era nella chiesa della Torre; una Madonna e Santa Caterina (donata da Antonio Busi nel 1647), una Madonna del Rosario (dono di Simone Busi nel1648) e una splendida Madonna surame, dello stesso periodo, opera di Pietro Mera, che fu ammirata dal cardinal Cesare Monti, arcivescovo di Milano nella sua visita pastorale del1643. Tra le sculture, di rilievo il vecchio altar maggiore in legno intagliato e dorato del Seicento ed un altro altare, pure in legno dorato della stessa epoca e inoltre una statua di Santa Margheritadel XVII secolo. Pregevole è il pulpito, in legno di noce intarsiato e intagliato, costruito all’inizio del Settecento da Francesco Civaticon interventi di Marc Aurelio Bianchi per gli intagli e Pietro Busi per gli intarsi. Notevole è anche il confessionale per donne, realizzato tra il 1733 e il1735 da Giuseppe Regazzoni “Qua-terlegn” e Giacomo Regazzoni “Cazulo”. Nella sagrestia si può ammirare il bel credenzone in noce, intarsiato e intagliato, realizzato all’inizio del Settecento da Pietro Busi con interventi di Antonio e Ambrogio Rovelli. Dell’antica chiesa, che nel 1566 era stata visitata da visitata da San Carlo Borromeo, rimane oggi solo il vano dell’abside, adibito a sagrestia. La parete esterna di tale abside è decorata da due affreschi, ben conservati e restaurati nel 1985 a spese del comune; nel registro superiore è dipinto il Leone di San Marco, in quello inferiore appare un Sant’Antonio Abate benedicente entro una cornice architettonica. Separano i due registri gli stemmi dei committenti con relativi cartigli: a sinistra quello dei Regazzoni, con l’indicazione che la spesa fu sostenuta dal vicario Lorenzo Regazzoni di Rota nell’anno 1561; a destra quello degli Annovazzi, al cui casato apparteneva quel Giovanni del Grassoche l’iscrizione indica come il committente della figura di Sant’Antonio. Sulla stessa parete è dipinta un’Annunciazione, di cui sono visibili alcuni assaggi effettuati all’epoca del restauro degli altri due soggetti; in origine era un affresco interno, trovandosi sulla parete sopra l’arco che separa la navata dal presbiterio.

Valtorta è un paese particolarmente ricco di tradizioni, alcune ormai scomparse, altre ancora vive.La più nota è forse quella della Giobiana che vede ogni anno, il primo giovedì di marzo, i ragazzi del paese scorazzare per i campi e per le vie con campanacci a tracolla a risvegliare la primavera e a “chiamar l’erba”. Più forte è il fracasso e più feconda sarà la nuova stagione .Alla vigilia dell’Epifania si celebra l’usanza della Pisa ègia, che vede ragazzi e adulti attraversare il paese con gran strepito di barattoli, campanacci e qualsiasi oggetto rumoroso, prendendo di mira un personaggio travestito da “vecchia” che si difende spruzzando chi si avvicina con una bottiglia d’acqua, fingendo si tratti di orina. Altra festa all’insegna delle burle è il Generù che si celebra l’ultimo giorno di gennaio e consiste nel chiamar qualcuno fuori di casa con un pretesto facendolo oggetto di cori canzonatori con cui si festeggia la fine di gennaio, il mese più duro.
E da qualche anno ha ripreso vigore la tradizione del Carnevale con un pittoresco e rumoroso corteo che attraversa tutto il paese. Un carnevale alla vecchia maniera, con maschere di legno scolpite in paese e costumi ricavati unicamente da vecchi abiti. Tra i personaggi spiccano il vecchio e la vecchia contadina, lo zio scapolo e la vecchia zia nubile, ovviamente accidiosi, il diavolo e i «furchetì», strani personaggi che emergono per l’occasione dal boschi. Fatte le debite proporzioni, si è insomma nel filone dei carnevali storici della montagna nazionale. Poi ci sono le solite mascherine, ma un passo indietro, soltanto di rispettoso contorno al genuino Carnevale valtortese. Un Carnevale per divertirsi, ma anche per non perdere un’occasione preziosa di presentare ai turisti un patrimonio di storia e tradizioni che non deve andare disperso. È il Carnevale ambrosiano dell’alta Valle Brembana, con il gran festone che si scatena il sabato grasso, tra maschere «inusuali» e i fuochi d’artificio, tra folclore e assaggi dei prodotti tipici locali. Un successo di lunga data, con la sua storia documentata in alcune fotografie ormai ingiallite dal tempo, comparse nella mostra allestita in piazza. Protagonisti i personaggi del mondo contadino e con loro gli abitanti dei boschi, che vivono secondo i ritmi della natura. La manifestazione si protrae per buona parte del pomeriggio nelle contrade, dove i personaggi della carnevalata danno spettacolo, accompagnati dalla musiche tradizionali. A concludere la giornata, il gran ballo attorno al falò acceso sulla piazza, l’esibizione di gruppi folcloristici corredata da un buffet di dolci tipici del Carnevale e assaggi della produzione casea dell’alta montagna brembana.

L’Agrì è un formaggino di piccole dimensioni, la cui produzione era assai diffusa in passato presso numerose aziende agricole dell’Alta Valle. In particolare, nella zona di Valtorta, era consuetudine produrre un semilavorato denominato“pasta di Agrì”
Ogni settimana le donne della valle trasportavano questo prodotto nella vicina Valsassina, percorrendo a piedi e con le gerle in spalla il tracciato che si snoda attraverso i pascoli di Ceresola e i Piani di Bobbio. La pasta di Agrì veniva quindi venduta agli artigiani di Barzio e Introbio che procedevano alla sua trasformazione nel prodotto finito. Attualmente l’unica azienda che mantiene viva questa importante tradizione è la Latteria Sociale di Valtorta dove si può acquistare e quindi apprezzare il delicato sapore di questo formaggio.

Ricchissima è la flora che in primavera esplode ovunque in mille forme ecolori. In particolare Valtorta è nota per i suoi funghi porcini, una delle squisitezze della gastronomia bergamasca, che ad ogni tarda estate attirano nel fitto delle foreste migliaia di cercatori. E di gran pregio è anche la fauna selvatica, visto che sulle sue montagne non è difficile incontrare stambecchi, camosci, cervi, caprioli, marmotte e scoiattoli, per non parlare dell’aquila reale che nidifica negli anfratti rocciosi delle Orobie. Così come pescosi sono la Stabina e gli altri torrenti che si precipitano a valle. Parliamo di una natura ancora quasi completamente intatta, grazie al presidio che l’uomo per secoli ha esercitato nel culto del rispetto ambientale ed ecologico, fondamentale per la sua sopravvivenza.

Situati in un ampio anfiteatro naturale, immerso nel verde dei boschi e circondato da una corona di montagne, i Piani di Valtorta costituiscono una meta ideale per lo svago all’aria aperta, posto ideale per pic-nic. La conca è solcata da un ruscello dalle acque limpidissime che la divide in due parti: a nord una piana acquitrinosa, a sud l’area del campo e degli impianti sportivi. La prima è un’area umida che si presenta come un singolare biotopo di rare specie di animali e vegetali. Individuata dall’Orto Botanico di Bergamo come un’area di grande interesse naturalistico, essa verrà valorizzata con la formazione di un percorso espositivo naturalistico con cartine, testi ed illustrazioni. Più a sud l’area dove dal 1964 si svolgono ogni anno, all’inizio di giugno, le Olimpiadi Scolastiche alle quali partecipano centinaia di alunni della scuole elementari della provincia e che ripropongono, a misura di ragazzo, alcune delle più significative gare delle Olimpiadi dei grandi, per promuovere, accanto alla pratica sportiva, gli ideali di lealtà e amicizia propri degli obiettivi didattici. I concorrenti, suddivisi in squadre comunali e in due categorie d’età, si cimentano nella corsa campestre, nella velocità, nei salti in alto e in lungo, nelle staffette e in animati tornei di calcio, pallavolo e tiro alla fune. L’accensione della fiamma olimpica, il giuramento di fedeltà agli ideali sportivi, le medaglie e le coppe, consegnate al suono dell’inno nazionale, il consueto arrivo dell’elicottero con la pioggia di caramelle arricchiscono di spettacolarità questa manifestazione, che rappresenta uno degli appuntamenti più festosi e sereni della Valle Brembana. Sempre ai Piani ecco poi il percorso vita che si snoda nei boschi circostanti lungo un anello di oltre due chilometri con 18 punti di esercizio di varia difficoltà illustrati dall’apposita cartellonistica. Ed infine ecco ancora il complesso sportivo sorto accanto all’adiacente villaggio di recente insediatosi con campi da tennis, pallavolo, bocce e giochi per bambini.

La zona di Valtorta è di notevole interesse per gli amanti degli sport all’aria aperta. Nei mesi estivi la pista di fondo di Ceresola diventa un percorso per la scuola di mountain-bike utilizzata negli stage formativi del Centro italiano mountain-bike. Gli appassionati hanno a loro disposizione una foresteria dotata di tutti iservizi e possono poi divertirsi su numerosi percorsi di varia difficoltà, compresi downhill (discesa) e cros-scountry. Innumerevoli poi le possibilità di escursioni.

Gli amanti della montagna hanno a disposizione suggestivi percorsi in quota, raccordati dal sentiero delle Orobie Occidentali, che parte dal passo di Baciamorti, lambisce lo Zuccone Campelli per proseguire verso il rifugio Grassi e il Pizzo dei Tre Signori. I sentieri si inoltrano per boschi e vallette, si inerpicano tra anfiteatri di selvaggia bellezza e si aprono alla visione di vasti orizzonti, fornendo all’escursionista l’opportunità di incontri con i contadini al lavoro nei prati per la fienagione o con i mandriani degli alpeggi di Camisolo o Pigolotta.



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