domenica 7 giugno 2015

IL CASTELLO DI PESCHIERA BORROMEO



Il castello di Peschiera Borromeo è il più antico possedimento dei Borromeo in Lombardia.
Si tratta in realtà di un edificio a vocazione agricola che all’inizio del ’400 venne ristrutturato e fortificato.
Nei secoli si sono succeduti i proprietari ed i cambiamenti e le trasformazioni.
L’aspetto attuale è tuttavia sostanzialmente quello voluto, nella seconda metà del cinquecento, dal proprietario di allora Renato Borromeo.
Oggi, alle porte di Milano e a pochi minuti dall’aeroporto di Linate, il castello è ancora circondato dal verde e, fatto ormai rarissimo, il fossato che circonda il castello è tuttora pieno d’acqua.
Le piante secolari del giardino cintato, il cortile, le sale affrescate contribuiscono a creare una atmosfera unica per coloro che sanno apprezzare anche la riservatezza garantita dalle particolarità del luogo.

Nel 1432, Vitaliano Borromeo ottiene dal duca Filippo Maria Visconti che lo teneva in grande stima, il diritto di fortificare Peschiera che, nata come costruzione rurale (cascina), assume così l' aspetto di castello.
San Carlo Borromeo (1538 - 1584) fu proprietario di Peschiera dal 1562 al 1567, anno in cui vi rinunziò a favore di suo zio Giulio Cesare.
Nell'ultimo ventennio del XVI secolo, il castello di Peschiera fu interamente restaurato da Renato, figlio di Giulio Cesare e fratello di quel Federico che, divenuto cardinale, è ricordato dal Manzoni ne "I promessi sposi". Fu Renato ad imprimere all' edificio il suo presente carattere residenziale a discapito di ogni precedente aspetto militaresco. Il castello Borromeo è uno dei pochi tuttora circondato da un fossato pieno d' acqua così come era stato scavato più di cinque secoli fa.

Vi si accede attraverso la porta della torre centrale e ci si immette nell'ampio quadrato cortile, verde per l'edera che ravvolge. Un lato del cortile è a portico, con nove arcate sorrette da 10 colonne mentre su un altro lato vi è la cappella gentilizia, fatta costruire da Renato Borromeo nell'insieme dei lavori di ristrutturazione. Essa è un piccolo mirabile edificio chiesastico, ricco d'affreschi cinquecenteschi d'ottima fattura, messi in risalto dai restauri voluti dal conte Giancarlo Borromeo nel 1927.

L'interno del castello è tutto da ammirare: l'originale scalone che conduce al piano superiore, ancora intatto dopo cinque secoli dalla sua costruzione; il magnifico salone d'onore con il camino in pietra e le otto figure simboliche contenute in una cornice ottagonale. Poi una sequenza di stanze e sale, dipinte con festoni, stemmi e motti araldici, paesaggi e case e castelli di proprietà dei Borromeo, tra cui il dipinto di Arona e l’isola Bella sul Lago Maggiore.

La maestosità della costruzione, la sua posizione, isolata ed immersa nel verde agricolo, fanno del castello di Peschiera un edificio di particolare e rara bellezza.

Del castello colpisce innanzitutto l’alta torre centrale, alla quale fanno corona quattro torrioni angolari, emergenti dall’acqua. Quest’ultima conferisce un fascino particolare al fabbricato; caso quasi unico in Lombardia, il fossato non è all’asciutto; nella Peschiera antichissima, da cui ha preso il nome l’intero complesso, ancor oggi nuotano pesci di varie specie; e di tanto in tanto vedi scivolare sull’acqua candidi cigni, maestosi e regali. 
Dalla torre centrale e dalla facciata venne rimosso l’intonaco che malamente le ricopriva; tornò il mattone a vista, com’era all’inizio, e l’edificio su questo lato assunse un aspetto più solenne e austero.
In seguito allo scrostamento emersero fra l’altro motivi araldici come l’Humilitas e il morso, nonché finestre a sesto acuto.
Sopravvive l’intonaco sui lati ovest e nord, con resti di pitture seicentesche di scarso pregio artistico, ad archi contigui su pallidi sfondi alternati rossi e gialli.
Il lato orientale, che al contrario degli altri tre, dotati di spalti, scende a scarpa direttamente nell’acqua del fossato, non è mai stato affrescato.
Qui esisteva un ingresso secondario al castello, di cui si riscontrano tracce evidenti, e in asse forse una torre, poi decapitata e trasformata in cappella.
L’ingresso principale era ed è rimasto quello alla base della quadrata torre centrale, ove troviamo un locale a volta ingentilito da motivi araldici e ornamenti floreali, con aperture sugli spalti.
Ancora nel corso del secolo XVIII la torre era preceduta da un rivellino, bassa costruzione difensiva, del quale resta testimonianza in una pittura all’interno del castello.A quest’ultimo si accedeva sorpassato un ponte levatoio (sulla torre sono ancora presenti le incavature per i bolzoni, le due travi per alzare il ponte).
Un altro ponticello movibile c’era e resiste tuttora sul lato occidentale dell’edificio; metteva ad un magnifico giardino all’italiana, con siepi, alberi, fiori, vasche e fontane zampillanti acqua.
Varcato il portone, ci si presenta un cortile pressoché quadrato: a sinistra, ambiente porticato con nove archi su pilastri di mattoni, non esistente in antico, ma risultato delle trasformazioni promosse da Renato Borromeo.
A destra, al centro la Cappella gentilizia, intitolata a San Carlo, congiunta ai lati settentrionale e meridionale del castello da due muri, cavedi o cortiletti.
 
L’entrata del museo del castello sta nell’angolo di nord-ovest del cortile.
La sala delle armature è un vestibolo (ai piedi dello scalone) arredato con armature antiche, lance e spade. Frutto dei restauri operati dal Conte Gian Carlo Borromeo il pavimento a lastroni di pietra, il soffitto a cassettoni, il camino.
Lo scalone è rimasto lo stesso dei tempi di San Carlo. Sulle pareti, nella fascia in alto, pitture della fine del Cinquecento a grottesche si alternano a paesaggi di fantasia; nella zona sottostante motivi floreali e finta balaustra, databili al secolo scorso.
Nella sala delle grottesche il protagonista assoluto è il genere a grottesche, carico di significati simbolici, esoterici, magici, caratterizzato da fantasiosi ghirigori, festoni vegetali, tempietti, fiaccole, bracieri, lucerne, vasi, figure antropomorfe e fitomorfe.Le grottesche hanno assunto tale denominazione, a fine Quattrocento, in seguito alla scoperta nel sottosuolo della Capitale (le grotte) di resti di antiche case romane, le cui pareti erano adornate con decorazioni di questo tipo, subito riprodotte dagli artisti contemporanei nelle abitazioni patrizie e, secondo l’interpretazione di Raffaello, nelle Logge Vaticane. Una moda che durò un secolo e più, un genere pittorico che nel castello di Peschiera domina incontrastato (cauti sondaggi effettuati in alcune sale ricoperte da pitture differenti, hanno consentito di appurare che nello strato sottostante ne esistono altre, più antiche, a grottesche).
Sopra alla porta che introduce nel salone, in quest’ultimo, come già sulla parete di fondo in cima allo scalone, campeggia la scritta ERFB, iniziali incrociate di Ersilia Farnese e Renato Borromeo, convolati a giuste nozze nel 1579: quella sigla assume pertanto il valore di una simbolica firma. Attorno a tale data, furono Ersilia e Renato a commissionare quei dipinti, a loro imperitura memoria.
Nel salone principale trionfa l’armonia, l’arte, senti pulsare la storia, riesci ad immaginare al tuo fianco gli antichi e importanti personaggi che risiedettero in questa nobile dimora.
L’ampio locale, tre finestre a sinistra, altrettante a destra, un capace camino in pietra nel fondo, è completamente affrescato. Nella striscia superiore, delimitata dal soffitto a cassettoni e dalla linea delle finestre, fantasmagorico rincorrersi di grottesche e paesaggi, tra i quali spicca, sopra alla porta d’entrata ed alla sigla ERFB, un mulino ad acqua.
Distribuite sulle pareti, otto bellissime scene allegoriche, ciascuna di esse racchiusa dentro una cornice ottagonale dipinta; tutt’intorno grottesche e fregi multicolori. Queste scene rappresentano concetti morali: ognuna introdotta da una didascalia in lingua latina inscritta su cartiglio volante.
Partendo dall’angolo sinistro del salone, ecco la successione delle raffigurazioni:
La serie delle allegorie si apre mostrando in primo piano un tenero agnellino che, ignaro del pericolo, stava per essere ghermito da un drago malefico. Per sua fortuna è sopraggiunto l’unicorno (fantastico cavallo bianco che compare anche sullo stemma Borromeo), a trafiggere l’assalitore. TUTUM PROPE TUTUM: la salvezza si accompagni alla prudenza!
PAULATIM UT TUTIUS (a poco a poco per essere più sicuro): lo scimmione incatenato precariamente all’albero, medita sul da farsi. Per quanto sciocco, anche un essere simile capisce che occorre procedere con cautela, se non si vuol correre il rischio di peggiorare la situazione.
Le virtù della pazienza e della tenacia vengono auspicate nuovamente nella terza scena: SPES LABOREM IGNORAT (la speranza, l’aspettativa, ignorano la fatica). Un levriero insegue un cerbiatto: il desiderio ardente di raggiungere l’obiettivo annulla ogni sforzo compiuto.
INNOXIA SERPIT - Il ramo d’edera avvolge la colonna di marmo: è come un serpente, ma innocuo.
Sotto la scritta BONI NONTIUS ET MALI FRENUM, una candida cicogna cattura un serpente: l’esortazione è di essere annunciatori, portatori di bene, e freno al male. Sullo sfondo, neri uccelli del malaugurio fuggono via.
PERMANENS VERITAS - Nubi scure e tempestose vengono soffiate lontano da un volto angelico, così che il sole può tornare a risplendere: la verità vince e scaccia la menzogna.
Ulteriore ripetizione di un concetto già espresso: DULCEDINI PRAEVIUS LABOR. Due mani liberano la castagna dal suo insidioso involucro di spine; solo il lavoro assiduo e perseverante conquista come premio la dolcezza.
Questo motto ed il dipinto sarebbero da collegare ad un avvenimento storico, che ebbe come Protagonista Francesco Sforza.
Nel 1449 egli fu ospitato nel castello di Peschiera col suo stato maggiore. Attorno al tavolo del salone il famoso Condottiero progettò la conquista del Ducato milanese, conseguita nel febbraio successivo.
La castagna simboleggerebbe cioè Milano, soave ricompensa per le tante fatiche sofferte e la longanimità dimostrata.
Per ricambiare i Borromeo dell’aiuto prestatogli, Francesco Sforza il 25 maggio 1450 confermò a Filippo, figlio di Vitaliano, feudi, immunità, nonché il titolo di Conte di Arona; undici anni dopo, il 12 maggio 1461, lo insignì pure del titolo di Conte di Peschiera, trasmissibile agli eredi.

In assenza di firme autografe e documentazione, l’autore delle decorazioni del salone e delle grottesche alternate a paesaggi presenti pure in altre sale del castello, potrebbe essere identificato in Cesare Baglione, pittore nato a Cremona intorno alla metà del Cinquecento.
L’attribuzione nasce dal fatto che il Baglione prestò servizio a Parma e Piacenza dal 1574 al 1615, anno della sua morte, presso la corte dei Duchi Farnese, da cui proveniva Ersilia, andata sposa nel 1579 a Renato Borromeo. Ranuccio I gli assegnò un congruo stipendio con l’obbligo "di lavorare continuamente per Sua Altezza di pittura in tutto e per tutto dove gli sarà comandato".
Ebbene, considerando che l’artista affrescò vari castelli dell’Emilia Romagna con motivi a grottesche, verificate somiglianze, coincidenze stilistiche, cronologiche, viene spontaneo concludere che Ersilia Farnese, volendo abbellire gli interni del castello di Peschiera, chiese ed ottenne dal marito di servirsi di un pittore da lei conosciuto e stimato in patria: Cesare Baglione, appunto.
 
Nella sala del mulino dominano i paesaggi, la natura, soprattutto boschi ed acque; centrale è la rappresentazione di un mulino con due ruote idrauliche.  Epoca di esecuzione: il Seicento inoltrato.
La sala di San Carlo, secondo la tradizione, in questo camera ha dormito il Santo; prove certe non ve ne sono, ma nemmeno lo si può escludere. La fascia alta sulle pareti è affrescata in modo pregevole (sempre a grottesche e paesaggi), al contrario delle zone sottostanti.
Nella sala dei laghi troviamo delle mediocri pitture baroccheggianti: sostegni e festoni di frasche, ampi specchi d’acqua, barchette, molto cielo.
Nella sala delle proprità dei Borromeo troviamo dipinte l’Isola Bella sul Lago Maggiore (ancora priva del famoso palazzo realizzato da Carlo Fontana), la Rocca di Arona dove nacque San Carlo, la Villa di Cesano Maderno.   
Nella sala del secondo mulino troviamo una serie di archi affrescati, al cui interno compaiono riposanti immagini paesaggistiche, tra cui un bellissimo mulino dotato di ruota idraulica azionata dall’alto.
Nella sala del mare, tra festoni e lesene, ci sono pitture a tema marinaresco.

Attraverso uno scorcio di colonne, spicca subito a vivaci colori la mole del maniero, dominato dall’alta torre centrale e preceduto dal rivellino, costruzione merlata posta a difesa dell’ingresso, davanti al ponte levatoio.
Una tavoletta dipinta sopra all’unica finestra, reca la data 1763; anni dopo il rivellino veniva abbattuto.

Dalla galleria o corridoio si accede da un lato alle stanze precedentemente visitate, dall’altro alle due tribune della Cappella, intitolata a San Carlo.
In questo modo si poteva assistere alle funzioni religiose evitando di scendere e passare per il cortile.
Gli affreschi che ricoprono la volta, le lunette e le lesene, sono di ottima esecuzione, della stessa mano di quelli visti nel salone principale del castello; attribuibili come abbiamo detto a Cesare Baglione.
Convaliderebbe questa ipotesi l’inserimento, nelle decorazioni della Cappella, di oggetti riproducenti strumenti musicali: il Baglione, appassionato di musica, "talora preso il zufolo che toccava assai bene nella mano monca e nella dritta il pennello, a un tempo stesso sonava e pingeva"; così racconta un critico suo contemporaneo.
Di autore diverso sono le due scene laterali, meno valide dal punto di vista artistico: Battesimo di Cristo, e San Francesco mentre riceve le stigmate.
All’altare, quadro forse della prima metà del secolo XVII (entro una bella cornice coeva), raffigurante la Madonna col Bambino sulle ginocchia, tra i Santi Cristoforo e Giovanni; alla destra della Vergine, guerriero orante inginocchiato.

Altri affreschi di varie epoche sono presenti nel settore adibito ad abitazione privata dei Conti Borromeo; nonché, molto probabilmente, sotto strati di intonaco e calce, nei locali tuttora occupati da inquilini.




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