Palazzo Te, edificato e decorato tra il 1525 e il 1535, è il capolavoro di Giulio Romano (Roma 1499 – Mantova 1546), artefice unico e geniale che lo concepì come luogo destinato all'ozio del principe, Federico II Gonzaga, e ai fastosi ricevimenti degli ospiti più illustri. L'"onesto ozio", esaltato in una scritta dedicatoria della Camera di Psiche, aveva il significato latino di attività piacevole e raffinata, da coltivare nei momenti liberi dalle gravi occupazioni del governo.
Il sostantivo TE è toponimo, attestato sin dall'epoca medioevale, nella forma latinizzata Teietum o in quella troncata attualmente in uso. Teieto o Te era una località di rustiche abitazioni posta a meridione della città, poco lontano dalle mura.
Anticamente situato su un'isola collegata alla città di Mantova dal ponte di Pusterla, Palazzo Te è uno dei più straordinari esempi di villa rinascimentale suburbana.
La struttura dell'edificio, che ingloba una presistente scuderia dei Gonzaga, venne conclusa in poco più di un anno, mentre la decorazione del complesso, avvenuta nello spazio di circa 10 anni (1525-1535), si avvalse della presenza di qualificati collaboratori di Giulio Romano.
Le prime testimonianze in merito alla presenza della fabbrica del Te si hanno nel 1526, quando viene citato un edificio in costruzione che sorge vicino alla città, tra i laghi, sulla direttrice della Chiesa e del Palazzo di San Sebastiano.
La zona risultava paludosa e lacustre, ma i Gonzaga la fecero bonificare e Francesco II la scelse come luogo di addestramento dei suoi pregiatissimi e amatissimi cavalli. Morto il padre e divenuto signore di Mantova, Federico II, suo figlio, decise di trasformare l'isoletta nel luogo dello svago e del riposo e dei fastosi ricevimenti con gli ospiti più illustri, dove poter “sottrarsi” ai doveri istituzionali assieme alla sua amante Isabella Boschetti.
Abituato com'era stato sin da bambino all'agio e alla raffinatezza delle ville romane, trovò ottimo realizzatore della sua idea di “isola felice” l’architetto pittore Giulio Romano e alcuni suoi collaboratori. Alternando gli elementi architettonici a quelli naturali che la zona offriva, decorando sublimemente stanze e facciate, l’architetto espresse tutta la sua fantasia e bravura nella costruzione di palazzo Te.
A inaugurare ufficialmente Palazzo Te nel 1530 fu l'Imperatore Carlo V che vi trascorse un'intera giornata; con l'occasione conferì a Federico II Gonzaga il titolo di duca perché fino ad allora i Gonzaga erano stati dei marchesi.
I simboli e gli stemmi riempiono di significati più o meno celati e spesso politici, le pareti del palazzo e del suo voluttuoso proprietario. Il Monte Olimpo, ad esempio, circondato da un labirinto e che sorge dalle acque è un simbolo che spesso si ritrova, viene ripreso in elementi architettonici costitutivi del palazzo come le due ampie peschiere che attraverso un ponte portano al giardino, o come il labirinto in bosso (ormai scomparso) del giardino stesso.
Altro simbolo interessante è la salamandra, che Federico elegge come personale, assieme al quale spesso viene utilizzato il motto: quod huic deest me torquet (ciò che manca a costui mi tormenta); il ramarro infatti era ritenuto l’unico animale insensibile agli stimoli dell’amore, ed era impiegato come contrapposizione concettuale al duca e alla sua natura sensuale e galante, che invece dai vizi dell’amore era tormentato.
Il palazzo è un edificio a pianta quadrata con al centro un grande cortile quadrato anch'esso, un tempo decorato con un labirinto, con quattro entrate sui quattro lati (L.B.Alberti si ispira nell'impianto alla descrizione vitruviana della casa di abitazione: la domus romana con quattro entrate, ciascuna su uno dei quattro lati).
Il palazzo ha proporzioni insolite: si presenta come un largo e basso blocco, a un piano solo, la cui altezza è circa un quarto della larghezza.
Il complesso è simmetrico secondo un asse longitudinale.
Sul lato principale dell'asse (a nord-ovest) l'apertura di ingresso è un vestibolo quadrato, con quattro colonne che lo dividono in tre navate. La volta della navata centrale è a botte e le due laterali mostrano un soffitto piano (alla maniera dell'atrium descritto da Vitruvio e che tanto ebbe successo nei palazzi italiani del Cinquecento), in questo modo assume una conformazione a serliana estrusa.
L'entrata principale (a sud - est) verso la città e il giardino è una loggia, la cosiddetta Loggia Grande, all'esterno composta da tre grandi arcate su colonne binate a comporre una successione di serliane. che si specchiano nelle piccole peschiere antistanti. La balconata continua al secondo registro, sulla parte alta della facciata era in origine una loggia; questo lato del palazzo fu infatti ampiamente rimaneggiato alla fine del '700, quando fu aggiunto anche il frontone triangolare che sormonta le grandi serliane centrali.
La decorazione dell’esterno e la scansione architettonica delle facciate sono tratte dal repertorio antico. Giulio Romano crea un ordine unico ritmato dalla presenza di lesene che reggono una trabeazione composta da architrave e fregio dorico con metope decorate. Le metope del lato nord sono ornate con una serie di imprese gonzaghesche, mentre questi emblemi non compaiono nelle altre facciate.
Una cornice marcapiano fascia le facciate nord e ovest, che sono concepite in modo unitario, anche se sono riscontrabili alcune differenze, come l’apertura a fornice unico sul lato ovest e a tre arcate su quello nord. Tuttavia l’apparente rigore classico nasconde numerose licenze e forzature, probabilmente legate a problemi costruttivi risolti genialmente dall’estro di Giulio. Nelle superfici prevalgono i conci lisci; bugne rustiche fasciano il basamento, al di sopra del podio levigato, e incorniciano le aperture.
La facciata meridionale, che prospetta su un cortile escluso dal percorso di visita, è incompleta e mostra un paramento a intonaco che reca tracce di architettura dipinta nel Settecento.
Sulla facciata orientale, anch’essa rimaneggiata nel XVIII secolo, si veda alla scheda specifica.
L’ingresso sul lato ovest del palazzo si apre in asse con il portale della loggia di Davide oltre il cortile d’onore ed è ispirato architettonicamente all’atrium della domus romana descritta da Vitruvio, secondo i trattatisti del XVI secolo.
L’ambiente, di forma rettangolare, è tripartito: al centro uno spazio voltato a botte con lacunari ottagonali e delimitato da quattro colonne (due per lato) che reggono la volta; i vani laterali presentano una copertura piana. Le colonne di pietra, con base e capitello rifiniti, hanno il fusto sbozzato a imitazione delle lavorazioni provvisorie della pietra nella cava. Questa conformazione irregolare della superficie è richiamata dal bugnato rustico, ottenuto con intonaco e stucco, presente in tutto il palazzo. Nell’atrio stesso tale tecnica viene utilizzata per le lesene che scandiscono le pareti. Interessante è il gioco che Giulio Romano crea tra vera e finta pietra, gioco che fa da specchio al rimando tra natura e artificio costantemente presente nella decorazione del palazzo.
Le lesene rustiche scandiscono quindi le pareti dell’atrio e sono alternate a nicchie. Nella parte inferiore corre un gradino rivestito di lastre di pietra che lo trasformano in sedile.
Alla destra dell’atrio si aprono due ambienti che nel Cinquecento venivano chiamati “tinello pubblico” e “tinello privato per gli ufficiali”, locali adibiti a sale da pranzo per il personale al servizio del principe e oggi utilizzate per esposizioni.
Il grande cortile centrale si apre allo sguardo degli ospiti provenienti dall’atrio d’ingresso.
Lo spazio è solenne, inquadrato dalle quattro pareti del palazzo “modernamente” decorate alla maniera antica. Giulio Romano progetta le architetture traendo ispirazione dall’ordine dorico dei templi greci: semicolonne di ordine gigante reggono una trabeazione classicamente composta di architrave, ornato di gocce, e fregio in cui si alternano triglifi e metope.
La modernità di Giulio sta nel mantenere la sobrietà di insieme dell’ordine dorico e forzarla per creare qualcosa di nuovo e sorprendente, così come quando seguendo con l’occhio il fregio ci si accorge che ogni tanto un triglifo scivola verso il basso rompendo la compostezza della decorazione. Altrettanto affascinanti i rilievi delle metope dove si alternano armi, vasi e altri oggetti a mascheroni con la bocca aperta, originariamente utilizzati come doccioni per lo scarico dell’acqua piovana. Queste ultime decorazioni vennero eseguite da Benedetto di Bertoldo detto il Pretino e da Andrea de Conti nel 1533.
Il paramento murario delle superfici è realizzato con un bugnato liscio che contrasta con i conci rustici utilizzati per incorniciare le aperture del piano inferiore e a sottolineare la chiave di volta inserita, quasi a forza, nei timpani classici che sovrastano le finestre.
La loggia delle Muse è un vero e proprio vestibolo che introduce a Palazzo Te e alle motivazioni profonde che muovono il committente nell’impresa.
L’ospite è accolto da una decorazione che evoca i modelli più alti della cultura antica. Le Muse protettrici delle arti, da cui lo spazio prende il nome, sono raffigurate in bassorilievo nella volta, circondate da geroglifici. Questa scrittura, ritenuta di origine divina e adottata come riferimento ideale per la creazione delle imprese, viene riprodotta da Giulio Romano che, senza comprenderne il senso, trascrive fedelmente le frasi geroglifiche di due sfingi oggi conservate al Louvre.
Riccamente decorate sono anche le pareti del porticato, che si apre con tre maestose arcate sul cortile d’onore.
I lati brevi della loggia presentano identica impostazione, con lesene agli angoli che inquadrano la parete e la mostra della porta a finti marmi, sovrastata dallo stemma gonzaghesco affiancato da aquile cavalcate da putti. In entrambe le pareti, sopra il cornicione si apre una lunetta affrescata.
Nella lunetta della parete ovest sono rappresentati Pegaso che fa scaturire sul monte Elicona, abitato dalle Muse, una fonte che stimola l’invenzione poetica, mentre Apollo tiene tra le mani una penna e una maschera teatrale, simboleggianti l’invenzione letteraria.
Sulla parete orientale è dipinta una ninfa, personificazione di Mantova, sdraiata accanto ad una fonte dalla quale spunta una testa coronata d’alloro, rappresentazione emblematica del poeta mantovano Virgilio. La lunetta allude quindi ai fondamenti della cultura locale, protetti da Apollo, raffigurato sullo sfondo su modello della celebre scultura del Belvedere in Vaticano.
La parete nord riproduce la ripartizione delle tre arcate della loggia. Nella parte centrale si apre una porta, mentre in quelle laterali sono raffigurate due scene mitologiche, molto danneggiate. Alla sinistra della porta è dipinta Euridice, che il giorno delle nozze con Orfeo, nel fuggire dall’aggressione del pastore Aristeo, calpesta un serpente e viene fatalmente morsa al piede. Alla destra della porta Orfeo seduto tra gli alberi che suona una lira, con dolorosi accenti, mentre affascinati dalla musica si avvicinano numerosi animali selvatici.
L’impostazione bucolica delle due scene è la medesima: un paesaggio montano, con un corso d’acqua e una città lontana. Le due favole mitologiche tratte la prima dalle Georgiche di Virgilio e la seconda dalle Metamorfosi di Ovidio, sono collegate al tema trattato nella loggia: Orfeo infatti, figlio di Calliope, frequenta le Muse, mentre Aristeo viene educato dalle Muse, divinità che in questa circostanza alludono alla vittoria delle arti sulla morte.
La loggia meridionale di ampie dimensioni trae il nome dalla destinazione originaria nel progetto di Giulio Romano.
L’ambiente viene infatti concepito come loggia, speculare a quella delle Muse che si trova, verso nord, dalla parte opposta del cortile.
Alla fine del Cinquecento tuttavia l’ambiente risultava ancora incompiuto e la sistemazione attuale è il risultato di interventi di restauro messi in campo dagli accademici mantovani su progetto di Paolo Pozzo nel 1790.
In fregio alla facciata orientale del palazzo si trovano due grandi vasche destinate ad ospitare i pesci e denominate peschiere. Le si attraversa percorrendo un ponte che divide i due specchi d’acqua comunicanti e congiunge la loggia di Davida al giardino dell’Esedra. Sui lati delle vasche si aprono nicchie che, come documentato da Jacopo Strada, avevano anche lo scopo di offrire ombra ai pesci durante la calura estiva.
La facciata orientale presenta numerose dissonanze, nel susseguirsi senza logica apparente di colonne e pilastri, ricondotte a unità e armonia grazie alla specularità rispetto all’asse centrale e allo riflettersi dell’architettura nell’acqua delle peschiere. La relazione tra architettura e acqua conferisce grande fascino a questa parte del palazzo.
La balconata continua che corre nella parte alta della facciata era in origine una loggia; questo lato del palazzo fu infatti ampiamente rimaneggiato alla fine del Settecento, quando venne aggiunto il frontone triangolare al corpo centrale.
Nella parte orientale del palazzo, la loggia di Davide si affaccia su un ampio spiazzo erboso che un tempo era il giardino più grande e importante della villa, del quale purtroppo non si conservano memorie grafiche o descrizioni significative. Volgendo lo sguardo a sinistra, l’edificio che chiude le peschiere verso nord conteneva una cappella e l’alloggiamento delle macchine idrauliche adibite al funzionamento delle fontane, ancora in parte visibili su questo lato. Il corpo di fabbrica ospita oggi il bookshop e il bar.
Sempre sul lato settentrionale si trova l’appartamento del giardino segreto a cui si contrappone sul lato opposto un altro edificio già adibito ad abitazione per il giardiniere. Nel 1651 questi due corpi di fabbrica vengono uniti da una scenografica quinta a modo di esedra, progettata probabilmente dall’architetto Nicolò Sebregondi.
Il lato meridionale del giardino è chiuso da un lungo corpo di fabbrica coevo all’esedra, denominato Fruttiere, un tempo atto a ricoverare gli agrumi e altre piante durante il periodo invernale, oggi utilizzato come spazio espositivo.
Delimita le peschiere a meridione un edificio costruito anch’esso nel Seicento come scuderia e di recente trasformato in sala conferenze.
L’appartamento del giardino segreto di Palazzo Te è un luogo intimo e riservato, progettato specificamente come rifugio spirituale di Federico II, sull’esempio del giardino segreto della madre, Isabella d’Este, in Palazzo Ducale.
Si accede da un vestibolo a pianta ottagonale allungata con volta a spicchi affrescata, probabilmente per mano di Luca da Fenza, con motivi a grottesche; nella decorazione è presente anche l’impresa del monte Olimpo. Il pavimento è realizzato con ciotoli di fiume multicolori; tra i ciotoli affiorano bocchette di piombo, che facevano parte dei giochi d’acqua e degli scherzi che accoglievano i visitatori.
La porta di fronte all’ingresso immette nella camera detta di Attilio Regolo. Il nome è tratto da una delle scene rappresentate nella volta che ha come protagonista il condottiero romano. Il tema genarale che viene proposto è di carattere morale, come dimostra l’ottagono centrale dove è raffigurata l’Allegoria delle virtù del principe.
Nelle vele angolari a foggia di pentagono sono dipinti episodi tratti dalla storia antica (Il supplizio di Attilio Regolo, Il giudizio di Zaleuco, La clemenza di Alessandro, Orazio Coclite), mentre nei rettangoli che ad essi si alternano compaiono personificazioni delle virtù riferite agli episodi narrati.
Appartengono alla decorazione originale sia gli stucchi che gli affreschi della volta (entro il terzo decennio del 1500), mentre sono di fine Settecento le decorazioni geometriche alle pareti, il camino e il pavimento.
La loggia occupa quasi interamente una testata del giardino segreto e si affaccia su quest’ultimo con tre aperture architravate rette da due colonne di marmo lumachella.
La decorazione, tripartita, occupa le pareti e la volta a botte. Nella volta e nelle lunette è rappresentata una storia, di cui non si conosce la fonte letteraria, che narra vicende legate al corso della vita umana (dalla nascita alla morte). Ciascun episodio è contornato da cornici a motivi floreali, contenenti piccole figurazioni a stucco entro tondi, quadrati o losanghe.
La lunga parete meridionale è tripartita: nei comparti laterali si trovano scenette dipinte entro cornici di stucco (Sileno sulla biga, ispirato a un marmo antico custodito a Palazzo Ducale, e Bacco e Arianna); nella parte centrale domina una lunga scena, molto logora, con corteo di divinità marine. Sopra e sotto questo riquadro le imprese del monte Olimpo e del boschetto.
Il pavimento, analogo a quello del vestibolo, è un mosaico di ciottoli di fiume, diviso in scomparti fregiati da emblemi gonzagheschi. La presenza dell’impresa della quercia legata a Vincenzo Gonzaga (1587-1612) sposta la datazione del manufatto alla fine del Cinquecento o all’inizio del Seicento.
La decorazione delle pareti che circondano il giardino appare notevoltente consunta specialmente per quanto riguarda le pitture; migliore è la conservazione degli stucchi.
In origine la parete a destra della loggia e quella di fronte erano dipinte con finte prospettive di cui restano solo labili tracce.
Il fregio delle pareti più alte, scandito da erme e nicchie, è invece conservato: le nicchie alternano decorazioni a stucco e dipinte che narrano soggetti tratti dalle fiabe di Esopo. Anche qui la maggior parte degli affreschi è lacunosa o scomparsa, mentre gli stucchi sono discretamente conservati. Il bassorilievo con la tomba di un piccolo cane dal pelo lungo, al centro della parete sovrastante la loggia, si collega al desiderio di Federico II di avere un monumento disegnato da Giulio in memoria della cagnolina prediletta, e giustifica la scelta del tema iconografico dedicato agli animali.
Negli angoli inferiori delle nicchie compaiono imprese gonzaghesche. La decorazione del giardino è ascrivibile al 1531 circa e il gusto espresso nella lavorazione a stucco rimanda allo stile di Giovanni Battista Mantovano.
La Grotta venne creata per volontà di Vincenzo Gonzaga a partire dal 1595 e terminata poi all’epoca del figlio (il duca Ferdinando) tra il 1612 e il 1626. La creazione di una grotta che ospita giochi d’acqua e fontane risponde a una moda diffusa al tempo, specie in ambito mediceo, e alla volontà di proporre una rivisitazione del tema del ninfeo classico. La grotta oggi rappresenta, molto parzialmente, il vivo effetto che doveva essere creato dal rumore dell’acqua e dalla commistione di presenze vegetali, come felci, muschi, capelvenere, a elementi architettonici.
Dalla parete di fronte alla loggia, attraversato il giardino segreto, si accede alla grotta passando per un portale di rocce naturali e scendendo tre gradini, a simboleggiare la discesa in un ricetto scavato nelle profondità della terra.
La decorazione interna è varia sia nelle forme che nei materiali; dominante è il tema delle concrezioni rocciose al quale si accostano con grande estro conchiglie, pietre colorate, stucchi, madreperla…
L’ambiente è composto di due aule: la prima che si incontra, la maggiore, ha un perimetro rettangolare con angoli smussati e nicchie semicircolari dove trovano posto imprese gonzaghesche; la seconda termina in un abside dal catino di madreperla e marmi e presenta sulla volta tre episodi della storia di Alcina, tratta dal VI libro dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto. Le nicchie sottostanti sono dipinte con simboli dei quattro elementi (terra, fuoco, aria, acqua); la presenza di queste decorazioni e degli episodi ariosteschi alludono al tema alchemico della trasformazione della materia attraverso la magia.
I terremoti dell'Emilia del 2012 hanno provocato danni ad alcune sale del palazzo gonzaghesco.
La Sala dei Giganti è stata realizzata fra il 1532 e il 1535. È la sala maggiore dell'edificio. La caratteristica più rilevante della sala è che la pittura copre completamente ed ininterrottamente tutte la superfici disponibili: un unico affresco che pone lo spettatore al centro dell'evento narrato nel dipinto. La sala si presenta a base quadrata sovrastata da un soffitto a cupola. Nella cupola è rappresentato Zeus che, con un fascio di fulmini, sconfigge i Giganti, ritratti a partire dal pavimento mentre stanno cercando di ascendere all'Olimpo.
L'episodio riprende il mito della Gigantomachia, la lotta dei Giganti contro Giove, come narrato da Ovidio. Rispetto al testo di Ovidio, dove i Giganti sono descritti come una sorta di mostri dalle mille braccia, qui vengono rappresentati come uomini. Accanto ai giganti sono rappresentate delle scimmie, assenti nel testo di Ovidio. Secondo Guthmüller queste differenze vanno attribuite al testo usato da Giulio Romano, che non era la versione originale ma una traduzione di Niccolò degli Agostini, che aveva riportato un errore di interpretazione del testo già presente in precedenza.
Nella pittura di Giulio Romano troviamo lo stile del maestro Raffaello Sanzio però più maestosa ed imponente e meno raffinata.
Secondo alcuni questo affresco potrebbe rimandare alla vittoria di Carlo V sui francesi, a memoria della visita che l'imperatore aveva effettuato a Mantova poco tempo prima.
La loggia di Davide è uno spazio di passaggio tra gli appartamenti signorili, il cortile d’onore e il giardino. È uno degli ambienti più ampi dell’intero palazzo, dove si poteva soggiornare ammirando il giardino, un tempo ricco di fiori e piante, e le peschiere: per questo motivo ben rappresneta l’idea rinascimentale della vita in villa, fatta di ozio e riposo dalla responsabilità di governo.
La struttura architettonica colpisce per l’ariosità dello spazio, che si apre verso il giardino con tre ampie arcate, poggianti su gruppi di quattro colonne, e con un fornice su pilastri quadrati, affiancato da due arcate cieche, verso il cortile d’onore. Notevole la ricchezza degli ornati plastici, tratti dal repertorio classico.
La decorazione della loggia segue vicende complesse che si protraggono sino al XIX secolo. La ricca documentazione in proposito permette di sapere che inizialmente essa doveva ospitare busti di condottieri, tanto da essere citata anche come “loggia dei Capitani”.
Il nome attuale deriva invece dalla decorazione, fatta di stucchi e affreschi, che si svolge nelle due lunette di testa, nelle lunette del lato ovest e nei lacunari della volta a botte.
La realizzazione delle scene dedicate alla storia di Davide si protrae tra il 1531 e il 1534.
Il protagonista di questo spazio del palazzo è dunque un eroe biblico esaltato per le sue virtù di condottiero e guerriero (Davide e Golia, Davide lotta contro un orso, Davide lotta contro un leone, L’incoronazione di Davide) ma anche per le attitudini poetiche (Davide suona la cetra). I tre ottagoni della volta narrano la storia di Davide e Betsabea: il re vedendo Betsabea al bagno se ne innamora e, non potendo sopportare di dividerla con il marito, manda quest’ultimo a morire in battaglia.
Come già nella camera di Amore e Psiche, sono forti i riferimenti alla vicenda personale del committente. Federico II Gonzaga infatti, innamorato di Isabella Boschetti, già sposata, come Betsabea, accusa di complotto il marito di lei Francesco di Calvisano. Questi fugge, ma viene pugnalato di lì a pochi giorni, su probabile mandato di Federico.
L’intero ciclo dunque può essere interpretato come una sorta di legittimazione, visto il precedente biblico, dell’adulterio e dell’omicidio commessi dal principe.
La loggia rimane a lungo incompiuta, come testimoniano disegni con specchiature e nicchie vuote, e nei secoli successivi numerosi sono gli interventi volti a completarla.
Nel XVII secolo viene realizzata la maggior parte delle statue di virtù poste nelle nicchie, opera poi completata nel 1805 con l’aggiunta di altre cinque statue la cui iconografia è tratta, come in precedenza, dall’Iconografia del Ripa.
Tra il 1808 e il 1809 vengono realizzate, ad opera di Giovanni Bellavite, le specchiature sopra le nicchie e le porte. È qui arricchito, con bassorilievi a imitazione del bronzo, il tema principe delle Storie di Davide.
La Sala dei Cavalli è considerata l’unica sala della villa sia per le dimensioni che per la funzione di spazio pubblico per eccellenza. E’ qui che si svolgevano feste e balli, come quello che vide protagonista l’imperatore Carlo V nella sua visita a Mantova nel 1530.
La sala prende il nome dai protagonisti della decorazione pittorica: gli amati cavalli delle scuderie gonzaghesche. Sono raffigurati a grandezza naturale, su un fondo di paesaggi lontani. Le dimensioni, le posture, gli sguardi li rendono vivi e partecipi dell’ambiente, a testimonianza dell’amore che i Gonzaga nutrivano per questi animali. Le effigi sono veri ritratti, di quattro dei quali è persino tramandato il nome: Morel Favorito, Glorioso, Battaglia, Dario. Il primo e l’ultimo recano ancora traccia della scritta che li identifica
Federico, così come il padre e i suoi avi, li allevava nelle celebri scuderie di famiglia. Essi erano il dono più pregiato che si potesse fare ad un amico, come Giulio Romano, o a un sovrano, come l’imperatore Carlo V. Non è un caso dunque che i cavalli siano protagonisti della stanza di rappresentanza della villa.
L’ambiente è illuminato da cinque finestre e lo spazio è scandito da un’architettura classica dipinta, di ordine corinzio, impreziosita da coloratissimi finti marmi. Al centro della parete meridionale spicca l’imponente camino, pensato come una commistione tra elementi perfettamente rifiniti e conci di pietra rustica. La raffigurazione dei cavalli, ad esaltarne l’eleganza e la solennità, è intervallata da nicchie che fingono statue di divinità e busti di personaggi antichi. Al di sopra di queste sono dipinte, a mo’ di bassorilievi di bronzo, sei Fatiche di Ercole.
La decorazione si conclude fastosamente nel fregio a variopinti girali di acanto, popolato di putti e puttine che giocano sul capo di beffardi mascheroni, elementi briosi che spezzano la cadenzata solennità della finta architettura.
La committenza è celebrata nelle aquile gonzaghesche dipinte agli angoli e nel pregevole soffitto ligneo, dove in oro su fondale blu sono intagliate le imprese del Monte Olimpo e della salamandra.
La sala viene decorata tra il 1525 e il 1527.
La stanza, detta “camarino” nelle fonti per le sue modeste dimensioni, deve il suo nome alle rappresentazioni mitologiche raffigurate nei fregi e tratte dalle Metamorfosi di Ovidio.
L’atmosfera è privata, come evidenziano la luce smorzata data dall’unica finestra e i temi trattati nelle scene figurate della decorazione parietale: la musica apollinea, l’ebbrezza, l’erotismo.
I temi mitologici si alternano a paesaggi. Questa disposizione delle scene e lo stile con cui sono rappresentate, evocano la pittura antica, che gli artisti del ‘500 andavano scoprendo nelle rovine sepolte della Domus Aurea.
Tra le scene tratte da Ovidio: il sensuale abbraccio tra Bacco e Arianna, il cruento Apollo e Marsia ma anche Orfeo agli inferi, Il giudizio di Paride, Danza di satiri e menadi, La sfida tra Apollo e Pan, Dioniso ebbro, Menadi che tormentano un satiro.
Gli artisti ricordati per aver lavorato alla sua decorazione sono Anselmo Guazzi e Agostino da Mozzanica.
La decorazione pittorica risulta essere realizzata intorno al 1527, tra le prime dell’intero palazzo.
Di ridotte dimensioni la stanza prende il nome dal soggetto principale del fregio: le imprese della famiglia Gonzaga.
L’impresa è un emblema formato da una immagine (detta corpo) e da un motto (detto anima). Essa costituisce un elemento di cui fregiarsi per esprimere dei valori cari, per raccontare vicende importanti legate alla propria vita o segreti amorosi. Il significato spesso criptico e la lingua del motto (latino o lingua straniera) rendono l’impresa accessibile solo a una cerchia di amici o a visitatori di elevata cultura.
Adottare un’impresa, trasmetterla di padre in figlio o regalarla ad amici cari e fedeli, diventa, tra Medioevo e Rinascimento, una vera e propria moda presso le corti e gli ambienti umanistici.
A Palazzo Te, così come in tutte le residenze della famiglia Gonzaga, le imprese vengono rappresentate molto di frequente. Nella camera delle Imprese esse sono tenute da putti, che come telamoni in miniatura le reggono con le braccia spalancate tra girali d’acanto: alcune imprese sono connesse al committente, il marchese Federico II (monte olimpo, ramarro, boschetto); altre fanno parte del repertorio della casata (ali, tortora, guanto, cane, sole); almeno due sono legate al padre di Federico, Francesco II (crogiolo, museruola) mentre sono completamente assenti in questa sala le imprese della madre Isabella.
La decorazione pittorica, databile al 1530, è limitata alla parte alta della sala mentre nella parte inferiore sono dipinte finte incrostazioni marmoree.
Invenzione originale è quella di sostituire i tradizionali telamoni con putti, in una sorta di parodia del tema antico, presente in tutto il palazzo, che fa di Giulio Romano un maestro celebrato e imitato.
La Camera del Sole e della Luna, citata come “salotto” nei documenti, aveva la funzione di introdurre gli ospiti alle camere riservate delle Imprese e di Ovidio.
La Sala prende il nome dall’affresco centrale che raffigura il carro del sole e quello della luna.
Qui si concentra la decorazione originaria della volta: la campitura azzurra di fondo è ritmicamente scandita da compartimenti a losanga in stucco bianco che racchiudono figurine, anch’esse in stucco, tratte prevalentemente da monete e gemme antiche, di cui Giulio Romano era collezionista, ma anche dal repertorio dei più alti maestri del ‘500 italiano, Raffaello e Michelangelo.
Negli scomparti triangolari, all’imposta della volta e ai bordi del riquadro centrale, compaiono anche emblemi e imprese dei Gonzaga.
Al centro di questo omaggio all’antichità classica domina un lungo riquadro dedicato alla rappresentazione allegorica del Sole e della Luna.
Con un sorprendente scorcio da sott’in su, viene rappresentata l’ora del crepuscolo con Apollo, il sole dai riflessi rossastri, sul carro che esce di scena mentre alle sue spalle giunge Diana, la luna dalle tonalità pallide, tirata da due cavalli: uno bianco che rappresenta il giorno e uno nero che rappresenta la notte, visto che la luna si muove sia di giorno che di notte.
La tradizione vuole che l’affresco sia stato eseguito, su disegno di Giulio Romano, dal suo più brillante allievo, Francesco Primaticcio. Pur non essendoci riscontri certi nei documenti, la qualità dell’affresco sembra confermare questa ipotesi mentre la differenza di stile tra i diversi stucchi testimonia la compresenza di più mani: probabilmente Nicolò da Milano, Giovan Battista Mantovano e lo stesso Primaticcio.
La decorazione della sala, analogamente alle altre decorazioni di quest’ala del palazzo, è ascrivibile al 1527-28.
L’ardito scorcio adottato per l’affresco del Sole e della Luna suscita l’interesse di molti pittori del Cinquecento: ne sono prova il diffondersi di disegni e stampe e la testimonianza di artisti di grande levatura, come Paolo Veronese, che accolgono l’invenzione giuliesca reinterpretandola in modo nuovo e originale.
La decorazione presente nella parte inferiore della sala è invece più tarda. Nel 1790 i maestri dell’Accademia di Belle Art, che curano il restauro del palazzo, deliberano di ornarne le pareti, giudicate spoglie, con riproduzioni di stucchi cinquecenteschi che si trovano in altre parti del palazzo e due calchi da sarcofagi antichi conservati a Palazzo Ducale
La Camera di Amore e Psiche prende il nome dalla storia di Amore e Psiche, dipinta sulla volta e nelle lunette.
I ventidue passi illustrati da Giulio Romano a Palazzo Te sono tratti dalle Metamorfosi di Apuleio, scrittore latino del II secolo d. C.
Il tema centrale dell’intera decorazione è Amore: divinità “mostruosa”, il più potente tra tutti gli dei, temuto dallo stesso Giove, al quale nessuno può sottrarsi.
Sulle pareti sono dipinte altre favole mitologiche, che narrano di amori contrastati, clandestini, tragici, non corrisposti. Numerose le relazioni tra gli dei e gli uomini (Venere e Adone, Bacco e Arianna, Giove e Olimpiade), ma si narrano anche le passioni fra divinità (Marte e Venere, Aci e Galatea) come anche quelle tra uomini e animali (Pasifae e il toro).
Le pareti sud e ovest coinvolgono il visitatore nei preparativi di un sontuoso banchetto al quale partecipano gli dei. Protagonisti dell’evento Amore e Psiche, sdraiati sul klìne e tra loro la figlia, Voluttà. Si tratterebbe del banchetto che si svolge sull’isola di Venere, così come descritto nel testo umanistico dell’ Hypnerotomachia Poliphili, idealmente paragonata paragonata all’isola del Te.
Pur non essendoci una stretta connessione logica tra tutti gli episodi, pare degna di rilievo l’interpretazione che vede una relazione tra i temi trattati nella decorazione pittorica e la vicenda personale del committente. Sembra esserci un parallelo tra la passione di Amore per Psiche, contrastata dalla madre del dio, e quella nutrita da Federico per Isabella Boschetti, avversato dalla madre del Gonzaga, Isabella D’Este. Così anche nell’amore di Giove per Olimpiade che, come la Boschetti, era sposata.
La sontuosità della decorazione non si manifesta solamente nella varietà dei temi trattati, ma anche nelle tecniche adottate. Le pareti, dipinte ad affresco, presentano rifiniture a tempera e incorniciature a stucco; la volta è realizzata con una struttura in legno, rivestita da un sottile strato di intonaco e decorata con pittura a olio di grande lucentezza e intensità cromatica. Sulla volta sono stucchi dorati più elaborati incorniciano le diverse scene.
Nella sala è possibile leggere la maturità artistica di Giulio Romano, il suo controllo assiduo sulla realizzazione dell’opera, gli interventi diretti e l’indipendenza stilistica rispetto alla scuola romana di Raffaello.
Giulio manifesta un linguaggio innovatore nelle pose artificiose, nelle inquadratre vertiginose, nello sconcertante realismo di alcuni dettagli e nella rappresentazione della sensualità, così come anche nel gioco delle luci sulla volta, dove si associano colori crepuscolari ed effetti di controluce.
Il percorso cerimoniale prevedeva, come accade oggi nel percorso di visita, l’ingresso dalla Sala dei Cavalli. Sulla fascia dorata posta sotto le lunette corre un’iscrizione in caratteri romani che spiega la funzione del palazzo: “FEDERICVS GONZAGA II MAR<chio> V S<anctae> R<omanae> E<cclesiae> et REIP<ublicae> FLOR<entinae> CAPITANEVS GENERALIS HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRT<utem> QVIETI CONSTRVI MANDAVIT” ovvero “Federico II Gonzaga quinto marchese di Mantova capitano generale della Santa Romana Chiesa e della Repubblica Fiorentina ordinò di costruire per l’onesto ozio dopo le fatiche per ritemprare le forze nella quiete”.
La decorazione della camera è realizzata tra il 1526 e il 1528; le fonti registrano interventi diretti di Giulio Romano, coadiuvato da Gianfrancesco Penni, Girolamo da Treviso, Rinaldo Mantovano, Benedetto Pagni, Fermo Ghisoni.
La Camera dei Venti prende il nome dagli stucchi presenti nelle unghie della volta, decorate da grottesche su fondo rosso scuro e da un tondo, al centro, raffigurante la personificazione di un vento che soffia. Ogni maschera ha una particolare caratterizzazione e l’insieme si configura come una sorta di antologia di caricature. Il ruolo dei venti è quello di separare la volta celeste, con le divinità e i segni zodiacali, dal mondo terreno dove, influenzate dalle stelle, si svolgono le vicende umane.
L'ambiente veniva denominato anche camera de’ Pianeti, delle Medaglie, dello Zodiaco.
Motivo centrale della decorazione della sala è quello astrologico, ovvero l’influsso che le stelle esercitano sull’uomo, come spiega l’epigrafe sopra la porta meridionale “DISTAT ENIM QVAE SYDERA TE EXCIPIANT” (Giovenale), che si traduce: “dipende infatti da quali stelle ti accolgano (alla nascita)”.
L’articolazione della volta in pannelli tiene conto del tema: lo schema geometrico vede la raffigurazione, al centro, dell’impresa del Monte Olimpo attorno al quale si dispongono le dodici divinità olimpiche (affrescate o modellate a stucco) preposte alla tutela dei segni zodiacali. Questi ultimi sono presentati nella fascia perimetrale della volta come bassorilievi e si alternano a dipinti con le personificazioni dei mesi.
L’influsso delle diverse costellazioni, associate ai segni zodiacali, è invece raffigurato nella fascia alta delle pareti. Le storie sono racchiuse in una cornice circolare a finto marmo, dipinta in prospettiva.
Giulio Romano illustra le attitudini e le attività indotte negli uomini non tanto dal segno zodiacale, quanto dalle costellazioni “extrazodiacali” presenti alla nascita, i così detti “paranatellonta”. L’intero ciclo è ispirato alle teorie astrologiche presenti nei testi antichi di Firmico Materno e Manilio.
Interessante anche il tema decorativo dei peducci della volta, sorretti da satiri e satiresse con le braccia alzate che svolgono il compito di telamoni.
La camera si qualifica come ambiente riservato; qui si intrattenne, nel corso della sua visita nel 1530, l’imperatore Carlo V, dopo aver pranzato nella camera di Amore e Psiche.
La decorazione viene realizzata tra il 1527 e il 1528. Vi partecipano lo scultore Nicolò da Milano (stucchi di figura e festoni), lo stuccatore Andrea di Pezi (foglie d’acanto sui peducci e incorniciature a stampo) e i pittori Anselmo Guazzi, Agostino da Mozzanica, Benedetto Pagni e Girolamo da Treviso.
In marmo di Brentonico le mostre delle porte e il camino, che presenta sull’architrave una scritta dedicatoria relativa al committente.
La Camera delle Aquile, chiamata anche Camera di Fetonte, dal tema dell’affresco nell’ottagono centrale, era stanza privata di Federico Gonzaga.
Ciò che caratterizza questo ambiente è la ricchezza della decorazione in uno spazio tanto limitato, nonché la varietà materica: affreschi, stucchi (molti dei quali un tempo ricoperti da foglia d’oro zecchino) e marmi.
Lo schema della volta è complesso, al centro l’ottagono con la Caduta di Fetonte, figlio di Apollo che, conducendo il carro del Sole senza esserne in grado, provocò gravi danni alla terra, tanto che Giove dovette farlo precipitare con un fulmine. Giulio Romano propone la scena dell’apparizione di Giove e della caduta di Fetonte scorciata dal basso, con forti effetti di controluce.
Attorno all’ottagono centrale la volta viene suddivisa in otto lunette da tralci di vite in stucco abitati da putti giocosi, eseguiti da Primaticcio. Le quattro agli angoli sono conchiglie dorate che fungono da sfondo alle aquile araldiche di colore nero, rese con tratti naturalistici ricavati da modelli antichi; le quattro corrispondenti al centro delle pareti sono al loro interno compartite da rilievi in stucco in sei riquadri affrescati con scene mitologiche, secondo uno schema già presente a Palazzo Madama.
Le lunette sono impostate su peducci dorati che sorreggono arpie.
Nello spazio di risulta tra le lunette minori e l’ottagono trovano posto in riquadri mistilinei quattro bassorilievi di stucco, attribuibili a Primaticcio, raffiguranti: Nettuno che rapisce Anfitrite; Giove che rapisce Europa; Mercurio dinanzi a Giove, Giunone e Nettuno; Plutone che rapisce Proserpina.
Di notevole qualità anche le quattro fasce dipinte alla base delle lunette maggiori con battaglie mitologiche.
Al di sotto di questa già ricca decorazione corre un fregio dove si alternano trofei a stucco con un ampio repertorio di armi, corazze, scudi, elmi, rostri e strumenti musicali, cammei (posti negli angoli sotto le grandi aquile) e busti femminili in marmo entro clipei.
Anche gli elementi architettonici si distinguono per la qualità dei materiali utilizzati. Il camino è di una bella varietà di marmo lumachella delle prealpi trentine, mentre le mostre delle porte sono di un marmo greco chiamato “portasanta” perché utilizzato per intagliare, nella ricorrenza giubilare del 1525, la porta Santa della Basilica di San Pietro a Roma. I documenti attestano che i portali di Palazzo Te furono realizzati nello stesso anno e dallo stesso maestro di marmi che realizzò quello di San Pietro.
Le scritte sul camino e sugli architravi delle porte commemorano il committente.
La Camera degli stucchi è ornata interamente di stucchi senza alcuna pittura; si tratta di un ambiente raffinato e di forte gusto antiquario. I rilievi a stucco imitano il marmo sia nella levigatezza plastica del modellato che nel colore candido.
Lungo le pareti corrono due fregi sovrapposti: l’idea è innovativa, ma lo sviluppo del motivo decorativo trae ispirazione dalle colonne coclidi di Traiano e di Marco Aurelio.
Viene qui raffigurato e minutamente descritto un esercito romano in marcia, astratta rievocazione storica, svincolata da precisi riferimenti, nella quale Giulio Romano dà prova della perfetta conoscenza archeologica dell’iconografia militare antica. I riferimenti alla contemporaneità sono limitati a due stemmi, quello degli Asburgo e quello dei Gonzaga. Così i valori esemplari degli antichi nell’arte bellica sono trasposti nella tradizione militare dei Gonzaga e negli eserciti dell’Impero.
Le figure occupano quasi completamente il fregio, lungo oltre sessanta metri. Le azioni e le pose degli innumerevoli personaggi sono tanto varie da rendere la parata multiforme e avvincente; l’ambientazione è invece ridotta a pochi elementi architettonici o naturalistici.
La maniera antica è ripresa in modo originale nella volta a botte cassettonata, dove venticinque riquadri sono decorati a bassorilievo in stucco bianco su fondo nero quasi ad imitare, nella finezza delle figure, cammei di pietre dure. Gli stessi soggetti effigiati sono tratti dalla storia classica e dal mito, fatta eccezione per una scena, inspiegata, di battesimo.
Le lunette, anch’esse decorate in stucco su fondale di finto marmo, riprendono il tema bellico del doppio fregio con Ercole, l’eroe guerriero seduto sulla pelle di leone e appoggiato alla clava in quella orientale, e Marte, modellato quasi a tutto tondo, nella nicchia occidentale.
La decorazione è realizzata da Francesco Primaticcio, con la collaborazione di Giovan Battista Mantovano, prima della partenza del Primaticcio per la corte di Francia nel 1531.
La camera degli imperatori è detta anche di Cesare per il soggetto della scena al centro del soffitto. La decorazione originale si concentra sulla volta ed è organizzata con un pannello piano centrale, due grandi pannelli rettangolari sui lati lunghi separati da un tondo e un pannello rettangolare sui lati brevi. Qui trovano spazio le scene figurate che danno il nome alla camera e che rappresentano attraverso esempi antichi le virtù proprie di un principe rinascimentale.
La scena principale è dedicata all’episodio di Cesare che ordina di bruciare le lettere di Pompeo, narrato da Plinio come esempio di assoluta correttezza militare.
I sei pannelli rettangolari sono interamente occupati da grandi figure di imperatori e guerrieri. Sono stati individuati: Alessandro Magno, Giulio Cesare, Augusto, Filippo di Macedonia.
I tondi sui lati lunghi della volta presentano episodi storici legati alla magnanimità dei sovrani antichi: Alessandro Magno che ripone l’Illiade e l’Odissea in uno scrigno da un lato e La continenza di Scipione dall’altro.
Gli angoli della volta sono invece ornati a ottagoni intrecciati su fondo azzurro, bordati di bianco e con palmette dorate al centro e ospitano, nella parte inferiore, medaglioni ovali con le imprese gonzaghesche del boschetto, della salamandra, dell’Olimpo e dello Zodiaco, sostenute da putti e vittorie alate.
Al di sotto della volta corre un fregio dipinto con putti e medaglioni realizzato nel 1788-1789 dal pittore accademico Felice Campi in sostituzione di un rifacimento di inizio secolo e con l’intenzione di restituire quello che doveva essere il motivo cinquecentesco originale.
Il Camerino a Crociera separa l’ala monumentale del palazzo da quella delle stanze private, meno riccamente decorate.
La volta a crociera, da cui prende il nome, è decorata tra il 1533 e il 1534.
Gli stucchi a stampo sono eseguiti da Biagio de Conti e Benedetto di Bertoldo, mentre le finiture a mano delle foglie d’acanto dei peducci sono realizzate da Andrea de Conti.
La volta è dipinta a grottesche da Gerolamo da Pontremoli, in tonalità cangianti sul rosa, rosso, giallo dorato e verde argentato; la composizione propone erme di Diana Efesina inquadrate da sfingi su due vele opposte, e sulle altre da coppie di amorini che reggono un medaglione.
La parte inferiore della stanza è decorata nel 1813, a finto marmo e rilievi a stucco, dal ticinese Gerolamo Staffieri.
Il Camerino delle Grottesche è rivolto a meridione ed è coperto da una volta a padiglione ottagonale, decorato nel 1533.
Le incorniciature a stucco sono opera di Andrea di Conti, mentre Luca da Faenza si occupa della decorazione a grottesche che si sviluppa sulla volta e dalla quale la stanza prende il nome.
In ogni vela le grottesche si compongono attorno a un riquadro con aggraziati giochi di putti in bassorilievo su fondo nero o rosso, come piccoli cammei sorretti da putti più grandi. Tutt’attorno un repertorio di mascheroni, fiori, insetti, uccelli, animali fantastici, figurine mitologiche, nei toni del bianco e del giallo dorato.
Nel sottarco della finestra rimane una fascia dipinta a grottesche che reca al centro un tondo con l’immagine di Amore, assegnabile a Gerolamo da Pontremoli.
Il camerino di Venere è un ambiente di piccolissime dimensioni che immetteva attraverso una scala alla stufetta, bagno privato di Federico II, nel mezzanino.
Il nome deriva dal tondo affrescato al centro della volta, raffigurante la Toeletta di Venere. La dea , tiene in mano uno specchio ed è in compagnia di Amore.
Il tema iconografico è completato da amorini che porgono in volo alla dea oggetti da toeletta: piumino e pennello, fiala di profumo, salvietta, specchio, pettini, turbante.
Le figure si inseriscono in modo grazioso in una più ampia decorazione a grottesca con rettangoli dai fondali ocra e rosso dalle vivaci cromie. Nelle fasce perimetrali dal fondo bianco la decorazione presenta spade, scudi, faretre che alludono alle virtù marziali del signore.
La scomparsa della decorazione a stucco alla base della volta limita fortemente la lettura dell’affascinante ambiente, dipinto nel 1534 da Gerolamo da Pontremoli.
La Camera dei Candelabri presenta nel suo complesso un’impostazione neoclassica dovuta alle decorazioni parietali e del soffitto dello Staffieri, datate 1813.
Originale, e dovuto al disegno di Giulio Romano, è invece il fregio scandito da candelabri in stucco, da cui la camera prende il nome. Agli angoli trionfi di armi e barbari prigionieri di grande risalto palastico.
Il contrasto dei bianchi rilievi sui fondi scuri verdi e rosso dona grande intensità cromatica al fregio, che vede il succedersi di stucchi e scene dipinte raffiguranti personaggi della mitologia classica, biblici (David e Giuditta) e della storia romana (Tarquinio e Lucrezia). Vi si trova un’alternanza di esempi virtuosi e viziosi, sintetizzati dalla scena con Ercole al bivio.
Come attestano gli atti di pagamento, gli stucchi vengono realizzati, nel 1527, da Giovan Battista Scultori e Nicolò da Milano; le decorazioni pittoriche sono invece attribuibili ad Agostino da Mozzanica.
La Camera delle Cariatidi ha subito le trasformazioni più radicali. La decorazione della sala è frutto di una mescolanza di apparati originali, di ornati neoclassici e di stucchi cinquecenteschi provenienti da Palazzo Ducale e qui reimpiegati.
Pertinenti alla decorazione originale sono gli stucchi racchiusi entro tondi della fascia più alta del fregio, probabilmente opera di Nicolò da Milano, mentre le cariatidi (da cui la camera prende il nome), i telamoni e i pannelli raffiguranti le tre parti del giorno della fascia sottostante vennero realizzati su disegno di Giulio Romano per l’appartamento vedovile di Isabella d’Este e per l’appartamento di Troia, nel palazzo Ducale.
La decorazione neoclassica e l’inserimento dei rilievi provenienti da Palazzo Ducale sono il frutto di un intervento dello Staffieri del 1813.
La camera delle Vittorie prende il nome dalle due Vittorie alate che, insieme a due figure allegoriche della Fama reggenti lunghe trombe, stanno agli angoli dell’ambiente.
Il fregio si compone di una raffinata decorazione pittorica a grottesche, su campo colorato a imitazione di pietre dure, come annotava un documento coevo. Le partizioni di forma ovale contengono croci di stucco che inquadrano busti clipeati, anch’essi a rilievo.
Gli stucchi sono attribuiti a Nicolò da Milano mentre la decorazione pittorica ad Agostino da Mozzanica. L’intera decorazione della sala è ascrivibile al 1528.
Degna di particolare nota è la decorazione del soffitto dove, fatto unico in tutto il palazzo, i lacunari in legno sono decorati con scene di vita quotidiana scorciate da sott’in su, con evidenti citazioni della mantegnesca Camera picta di Palazzo Ducale.
Vi si ritrovano una donna che spulcia un bambino, un’altra donna che stende una camicia, una giovane che si pettina e una fanciulla che posa un vaso di garofani sulla balaustra, mutuato direttamente dal precedente mantegnesco.
Le occupazioni spagnole, francesi e austriache e le varie guerre fecero sì che nel corso degli anni il palazzo venisse utilizzato come caserma e i giardini come accampamenti per le truppe depauperando le sale e distruggendo alcune sculture (sulle pareti della sala dei Giganti rimangono tutt’oggi visibili i graffiti e le incisioni con nomi e date di un passato poco glorioso per il monumento). La proprietà della villa dalla famiglia Gonzaga passa, tranne il breve periodo della dominazione napoleonica, al governo austriaco sino al 1866 quando viene acquisita dallo Stato Italiano. Nel 1876 l’edificio diviene proprietà del Comune di Mantova. Dopo parecchi restauri il palazzo restituisce oggi, con le sue sale e i giardini, un’incantevole tuffo nella creatività di Giulio Romano e nell’importanza della corte dei Gonzaga. Grazie al riassestamento dell'orangerie, dove venivano coltivati arance e limoni, è stato creato un vasto ambiente adibito a luogo di esposizioni temporanee. Ma ulteriore scopo dell'impegno delle istituzioni cittadine era di ricavare in Palazzo Te un museo affinché fossero ospitate almeno una parte delle collezioni civiche. Lo spazio espositivo permanente fu ricavato nelle sale al piano superiore. Quattro sono le collezioni esposte:
La Sezione Gonzaghesca è costituita da materiali legati prevalentemente alla storia mantovana di età gonzaghesca (1328-1707): una Collezione Numismatica costituita da 595 monete prodotte dalla Zecca di Mantova, una collezione di coni e punzoni, l'antica serie di pesi e misure dello Stato di Mantova e una raccolta di 62 medaglie dei Gonzaga e di illustri personaggi mantovani.
La sezione Mondadori è costituita da diciannove dipinti di Federico Zandomeneghi (1841-1917) e da tredici di Armando Spadini (1883-1925), raccolti da Arnoldo Mondadori e donati nel 1974 dagli eredi dell'editore di origine mantovana.
La raccolta egizia di Giuseppe Acerbi (1773-1846), console Generale d'Austria in Egitto, partecipò nel 1829 ad alcune fasi della celebre spedizione archeologica condotta da Jean François Champollion. Costituì un'importante raccolta di materiali archeologici, 500 pezzi che nel 1840 donò alla città di Mantova. Ora la sua collezione è interamente esposta in Palazzo Te.
La collezione mesopotamica costituita da Ugo Sissa, architetto e pittore mantovano (1913-1980), capo architetto a Bagdad tra il 1953 e il 1958, consta di circa 250 pezzi d'arte mesopotamica databili tra la fine del VI millennio a.C. e la fine del I millennio d.C.
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